lunedì 27 aprile 2020

La Dolce Vita

di Federico Fellini.

con: Marcello Mastroianni, Anouk Aimée, Anita Ekberg, Alain Cuny, Riccardo Garrone, Annibale Ninchi, Yvonne Ferneaux, Walter Santesso.

Italia, Francia 1960


















Laddove nei suoi primi film Fellini descriveva gli strati più bassi dell'Italia del Secondo Dopoguerra, con "La Dolce Vita" cambia soggetto e stile. Sotto i riflettori sono ora gli "agiati", vip e personalità dell'alta borghesia romana, coloro i quali si sono affermati grazie al boom economico. E, inaugurando una florida collaborazione con Marcello Mastroianni, ne usa lo sguardo e il corpo per creare una parabola ai limiti del religioso sulla perdizione.




La struttura dello script è, come da tradizione, episodica, ma mai come ora è presente un senso di progressione all'interno dei singoli episodi; trait d'union è ovviamente il "cammino" di Marcello, il suo incedere verso uno stato mentale alterato. Non per nulla, il film si apre con lui in uno stato di grazia e introducendo la componente religiosa.
La religione ne "La Dolce Vita" è fenomeno popolare, esternazione fatta di rituali e icone. La prima immagine di tutto il film è anche una delle più potenti: il trasporto aereo di una statua del Cristo, che sorvola la città con Marcello letteralmente al suo fianco, simbolo del suo stato "sacrale" o immacolato. Marcello è sin da ora doppio di Fellini, un Fellini in realtà giovane, appena sceso dal treno de "I Vitelloni", ancora non corrotto da quanto troverà ad attenderlo in città.



Il tema religioso scorre sottopelle anche nell'episodio della diva: Anita Ekberg, la donna che incarna tutte le donne, è visione angelica, che si affaccia su Piazza del Vaticano e arriva persino a battezzare Marcello nella celebre scena della Fontana di Trevi, solo per poi sparire improvvisamente; la grazia, idealmente, si allontana dal protagonista, il quale sarà testimone di uno strano caso di apparizione testimoniata di due bambini, che diverrà una baraonda mondana piuttosto che esperienza intima.




Il cammino distruttivo di Marcello attraversa varie "stazioni" e in ognuna delle quali è testimone della decadenza morale, intesa non in senso moralistico-universale, quanto come mancanza di ogni tipo di idea o ideologia in una società che vive di momenti futili e piaceri effimeri. Tutto ne "La Dolce Vita" è un mero passatempo in una vita dedicata al nulla che porta al nulla, da qui il suicidio di Steiner, unico vero amico di Marcello e unico personaggio che, prima di lui, è cosciente dello stato.




Una vita lieve, o meglio "greve" nella sua vacuità. Il cammino di Marcello, benché progressivo nella sua costante discesa verso uno stato apatico, è casuale, privo di una concatenazione logica effettiva, è un vagare di luogo in luogo per ritornare sempre nella Via Veneto dell'epoca, ossia il centro nevralgico della "dolce vita", quel luogo che per Cabiria era sfavillante, ma che per Marcello è solo il grado zero dell'umanità.




Fino ad arrivare agli ultimi due episodi, idealmente l'uno la continuazione dell'altro, gli unici ad essere logicamente e narrativamente connessi. Troviamo un Marcello visibilmente stanco, esausto della dolce vita e del suo vuoto, che per divertirsi canzona una giovane aspirante attrice, personaggio non molto diverso da quanto fosse lui nei suoi primi giorni nella capitale. Da qui un'immersione nelle macerie della classe aristocratica, ridotta ad una macchietta priva di spessore, sino ad un incontro catartico; il mostro marino, stanco e moribondo, è ideale doppio di Marcello, oramai privato di ogni empatia, prigioniero della depressione apatica, il quale non riesce a sentire le parole di quella ragazzina che per tutto il film è stata simbolo di innocenza: adesso lui si trova su di un piano diverso rispetto a lei, tra i due non può esserci alcuna comprensione.
Del tutto a sé stante è invece l'episodio in cui Marcello accompagna il proprio padre per le vie della Capitale. Costui altri non è che un suo doppio, un uomo venuto in città in cerca di emozioni, ma che realizza la vacuità del piacere giusto quando sta per conquistarlo. La sua è una favole morale della quale il protagonista non riesce, fatalmente, a far tesoro.


Al pari della narrazione, anche la direzione di Fellini si fa più controllata, precisa nei movimenti di macchina così come nella costruzione del fotogramma. Polso fermo prova di come già da adesso il suo stile sia pienamente maturo, pronto per un passo ulteriore verso una personalizzazione del mezzo filmico che lo renderà definitivamente famoso come uno dei massimi fautori della Settima Arte.

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