venerdì 31 luglio 2020

Fellini Satyricon

di Federico Fellini.

con: Martin Potter, Max Born, Hiram Keller, Salvo Randone, Capucine, Lucia Bosè, Mario Romagnoli, Magali Noél, Alain Cuny, Fanfulla, George Eastman.

Italia, Francia 1969


















Il "Satyricon" di Petronio è sicuramente un'opera sui generis, uno dei pochissimi esempi di romanzo che ci arriva dall'età classica, in questo caso romana; il quale, purtroppo, non è sopravvissuto al passare del tempo: di tutto il racconto, ci sono giunti solo frammenti sconnessi, impossibili da organizzare, così come sono, in una narrazione fluida e completa. Il che, tuttavia, non ha limitato e, anzi, ha infiammato l'immaginazione di Fellini.
Stando al racconto canonico, il grande artista ritrova il romanzo di Petronio durante una convalescenza, riscoprendolo dopo averlo studiato a scuola, decenni prima; a colpirlo sono appunto quei vuoti che sospendono in modo traumatico le avventure di Encolpio, Ascilto e Gitone nella Roma pre-cristiana. Come macerie sulla spiaggia (l'ultima immagine del film, appunto), sopravvissute alle intemperie del tempo, gli episodi trovano una connessione solo nella mente di Fellini. E da qui nasce l'idea per un film, un'interpretazione personale dell'opera di Petronio, un "Fellini Satyricon" appunto, che descrive in modo indefesso e opulento gli eccessi del passato come metafora sgargiante del presente.


Pur tuttavia, vedere l'opera di Fellini come una semplice metafora non le rende giustizia (un lavoro del genere, semmai, è attribuibile a Pasolini, che proprio in quegli anni finiva il Ciclo del Mito e preparava la Trilogia sulla Vita). Il suo "Satyricon" è, per prima cosa, una rielaborazione della matrice letteraria talmente visionaria da rasentare la fantascienza. Ogni elemento narrativo viene pompato ed elevato sino all'iperbole, per poi essere incastonato in una messa in scena barocca, talvolta para-teatrale per meglio incapsulare personaggi e scenografie in inquadrature talmente pittoriche e ricercate da divenire essere stesse piccole opere d'arte.



 
"Fellini Satyricon" è la definizione stessa di barocco applicato al cinema, una colata lavica di pura arte visiva di 139 minuti di durata dove la magnificenza dell'immagine fagocita tutto, in modo a dir poco magistrale.
Inutile lamentarsi di una storia sconnessa ed episodica; Fellini non fa altro che rispettare la forma frammentaria del romanzo, ispirandosi agli episodi in esso contenuti per crearne di nuovi, visionari e splendidamente coerenti con la filosofia e la decadenza della Roma pagana.



Veri protagonisti delle singole trame sono le pulsioni del corpo, la bramosia e la lussuria in primis. Non per nulla, il peregrinare dei protagonisti comincia quando Encolpio decide di riprendersi l'imberbe Gitone dall'amico Ascilto. E vero e proprio centro nevralgico per tematica e ricercatezza visiva è l'episodio del convivio di Trimalcione, lungo banchetto nel quale gli invitati si abbuffano senza sosta e durante il quale viene persino raccontata una storiella sulla lussuria di un soldato e di una vedova, unicum in cui amore e morte si abbracciano.



Morte che in questa Roma pagana post-moderna coincide spesso con l'eclissarsi dei sensi. L'impotenza di Encolpio, che lo colpisce dopo il visionario episodio del Minotauro, uomo-bestia che minaccia di ucciderlo con un simbolo fallico, viene descritta come una veglia funebre, come la ricerca quasi mitologica dell'uomo verso la nuova vita. La quale arriva grazie ad un ricongiungimento con un feticcio femminile totale, una donna che, nella pura tradizione felliniana, è amante ma anche genitrice nel senso di generatrice di vita.




E nella rinuncia al dialogo come forza trainante del racconto, Fellini trova nelle immagini trabordanti e kitsch perfetta forma narrativa, creando sequenze spettacolari e indimenticabili, nel quale l'occhio diviene l'unico senso da appagare. In un capolavoro troppo spesso sottovalutato.

lunedì 27 luglio 2020

Favolacce

di Damiano e Fabio D'Innocenzo.

con: Elio Germano, Tommaso di Cola, Giulietta Rebeggiani, Gabriel Montesi, Lino Musella, Max Malatesta.

Italia, Svizzera 2020


















Al loro secondo lungometraggio, i fratelli D'Innocenzo, reduci dai successi di "La Terra dell'Abbastanza" e di "Dogman", tornano a parlare della periferia romana e delle sue anime perse, volgendo lo sguardo, stavolta, ai piccoli borghesi dei villini a schiera. Tra una ricercatezza formale che sconfina presto nel barocco e tanta superficialità, "Favolacce" si caratterizza sin dai primi minuti come un'opera piatta e compiaciuta.




Al centro di tutto, la famiglia, croce e delizia del cinema italiano. Questa volta troviamo un pugno di adulti che sembrano inconsciamente regrediti all'età infantile, immaturi e schiavi dei bassi istinti; affianco a loro, i figli, giovani pre-adolescenti alle prese con le scoperte della vita, del sesso e della morte.




Ed è proprio la tematica della morte a risultare indigesta, con un finale campato in aria che vorrebbe spiazzare ma riesce solo a infastidire.
Anche al di là di questo, "Favolacce" vuole essere una semplice collezione di storie nere, dove a regnare sovrana è l'ottusità dei personaggi. In tal senso, risulta perfettamente riuscito: al bando la narrazione progressiva, assistiamo ad una semplice sfilata di fatti drammatici, talvolta sconnessi, sempre e comunque compiaciuti nella loro cattiveria.




Non esiste volontà alcuna di scandagliare gli animi e le menti dei personaggi, solo quella di incuriosire con scenette morbose quasi sempre gratuite. Sul perché il professore si diverta a insegnare ai giovani allievi come costruire una bomba, su cosa abbia spinto una giovane ragazza madre al suicidio o sul destino del giovane autistico Geremia, nulla viene lasciato neanche intuire.
A fare il paio con la sceneggiatura piatta, una messa in scena talmente ricercata da divenire farraginosa, persa nella contemplazione di nature morte e geometrie sghembe, alla costante ricerca di un tono che, paradossalmente, si fa presto anch'esso compiaciuto.




In "Favolacce", in sintesi, ritroviamo tutto il peggio del cinema italiano "d'autore": tanto, troppo compiacimento infarcito di una superficialità che vorrebbe essere delicata ma che serve solo a evitare di pensare a fatti e personaggi in modo tridimensionale. Chi vuole può apprezzare, chi non apprezza forse dimostra di essere smaliziato e intelligente.

sabato 18 luglio 2020

The Day After- Il Giorno Dopo

The Day After

di Nicholas Meyer.

con: Jason Robards, JoBeth Williams, Steve Gutenberg, John Lithgow, John Cullum, Amy Madigan, Calvin Jung, William Allen Young.

Usa 1983
















Con lo scoppio dell'emergenza per il COVID-19, a fine febbraio, l'opinione pubblica ha presto obliato quello che sembrava dovesse essere l'incubo principale di questo 2020, ossia il riaffacciarsi della possibilità di un conflitto nucleare, una III Guerra Mondiale in grado di annichilire l'intera civiltà.
Inutile dire che uno scenario del genere non è nuovo e che nel corso dei quasi 50 anni della Guerra Fredda, il cinema ci ha abituato a visioni catastrofiche causate dall'umana idiozia.
Eppure esiste un filone, nato in tv e presto diffusosi anche nelle sale, che oggi sembra essere stato dimenticato o, quanto meno, sostituito nell'immaginario collettivo da quello più strettamente fantastico; un filone che immagina in modo verosimile e vivido le possibilità di un conflitto nucleare, sviluppatosi a partire dai primi anni '80 in Usa e Inghilterra.



Il contesto in cui il filone "catastrofico-verista" è nato è essenziale; nel 1979 l'Unione Sovietica invade l'Afghanistan e gli Stati Uniti appoggiano direttamente la resistenza locale contro le truppe nemiche. Se per un decennio sembrava che la Distensione avesse fatto buoni frutti, ora l'ipotesi di uno scontro diretto tra le due superpotenze sembra sempre più probabile.
In televisione si moltiplicano le produzioni volte a dare una visione credibile al conflitto. L'esito più famoso e rappresentativo resterà "The Day After" di Nicholas Meyer, ma ancora oggi sono apprezzabilissimi altri esponenti come l'inglese "Threads- Ipotesi di Sopravvivenza" (1984), "Testament" (1983) e il canadese "Countdown to Looking Glass" (1984).
Proprio "The Day After", si diceva, rappresenta un primo esempio di fantascienza immaginifica applicata ad uno scenario reale in chiave verosimile; esempio talmente fulgido e riuscito da mettere i brividi ancora oggi.




Trasmesso per la prima volta il 30 Novembre 1983, prima di essere distribuito nei cinema di tutto il mondo, questo tv-movie è in realtà uno dei primi esempi di "cinema televisivo" statunitense. Alla regia troviamo il veterano Nicholas Meyer, che i fan di "Star Trek" ricordano come l'autore di alcune tra le migliori trasposizioni filmiche della serie classica.
L'approccio di Meyer al racconto è quanto mai azzeccato: il punto di vista è quello di persone semplici, il medico Russell Oakes (interpretato con trasporto dal grande Jason Robards), la famiglia Dahlberg, il giovane specializzando in medicina Steven (Steve Guttenberg, al suo primo ruolo importante) il professor Huxley (John Lithgow); persino il soldato McCoy (William Allen Young), a disastro iniziato, perde la sua caratterizzazione di militare per farsi persona comune. L'orrore che testimoniano viene così perfettamente filtrato verso il punto di vista dello spettatore, che si fa vicinissimo agli eventi.



Ancora più azzeccate sono le trovate di lasciare che il conflitto sorga un po' alla volta, restando dapprima sullo sfondo della vita quotidiana per poi farsi prepotentemente protagonista e di velare di ambiguità l'iniziatore del conflitto, che ben potrebbe essere stato l'esercito statunitense. Benchè prodotto negli anni '80, "The Day After" si impone così come perfetto esponente del cinismo e del pacifismo proprio del cinema americano anni '70, riprendendone in pieno l'ideologia.




L'intera narrazione viene spezzata in due parti, il prima e il dopo-bomba. Nella prima parte la tensione monta un po' alla volta, in un climax che si rivelerà annichilente. Nella seconda è l'orrore a dominare: l'orrore della distruzione definitiva e del disfacimento fisico che attende i sopravvissuti, nessuno dei quali arriverà alla fine salvo.




E' proprio la descrizione verosimile dell'inquinamento da radiazioni e della distruzione della civiltà a rendere "The Day After" sconvolgente ancora oggi. Se le immagini del bombardamento non sono invecchiate benissimo anche a causa del budget non esorbitante, quelle del "giorno dopo" non hanno perso un grammo della loro capacità espressiva, rendendo il film di Meyer ancora oggi attuale e sconvolgente.

venerdì 17 luglio 2020

Return to Return to Return to Nuke'Em High, ossia perché nel 2020 Lloyd Kaufman è ancora un genio

Questo post è dedicato alla memoria di Sid Haig, grande caratterista e mito personale.


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Sono passati qualcosa tipo più di 6 anni da quando vi ho fatto conoscere la Troma e da allora quel pazzo genio di Lloyd Kaufman ha fatto un solo film.

Cioè in realtà ha fatto anche Shakespeare Shitstorm, ma siccome non è ancora uscito facciamo finta che non esiste.

E quindi vi parlo del suo ultimo film, che dovrebbe essere uscito tipo nel 2017 ma solo ieri mi è arrivato a casa il blu ray dal New Jersey, quindi per me è nuovo

Ossia


che cazzo di titolo "Return to Return to", che sicuramente l'ha messo perché oramai non ci sperava manco lui.

Perché Vol.2 (chiamiamolo così che facciamo prima) non solo è uscito 4 annazzi dopo il primo, ma ha avuto una post produzione che manco un parto plurigemellare.

Perché il buon Lloyd a sto giro aveva i soldi per girare, ma non per fare il color grading e gli effetti (poco) speciali, quindi ha lanciato una campagna kickstarters che manco l'operazione Barbarossa di zio Adolfo e solo così Vol.2 ha visto la luce laser del lettore blu ray di tutti i tromatosi del mondo.

L'invasione della Russia a confronto pare na scureggia

E quindi oggi ho visto l'ultimo film della Troma e ve ne voglio parlare, perché è una cosa ai limiti del mistico.

Ma per prima cosa, rendiamo omaggio a chi non c'è più. 

Oltre il nostro Sid Haig, salutiamo anche Lemmy, Joe Fleishaker e Stan Lee.

So long and thank you

E' alla fine com'è questo nuovo sforzo di nonno Kaufman?

eheheheheheheh

Mettiamola così: se Terror Firmer era tipo il Disprezzo di Godard e Citizen Toxie era il suo Citizen Kane, Vol.2 è il 2001 odissea nello spazio di Nonnone Nostro.

E se tenete conto che il suo nome di battesimo è pure Stanley capite come alla fine tutto torna.

Tanto che a un certo punto c'è pure una scena dove è lui che diventa tipo Giove e oltre l'infinito

Kaufman e oltre l'infinito
Ma andiamo con ordine.

Vol.2 è per prima cosa il film Troma con più citazioni.

Comincia come Carrie di De Palma, con gnoccone nude in una doccia e il mio amore Catherine Corcoran che comincia ad avere le sue cose.

E sono verdi.

E partorisce un ibrido bebè anatra che è il risultato del duck rape.

Altro che l'incipit del Cavaliere Oscuro, Nolan non sei nessuno!

Nolan e De Palma muti

Poi c'è il colpo di scena starwarsiano dove si scopre che l'altro mio amore Asta Paredes è la figlia dei protagonisti del primo Nuke'em High e che il personaggio cattivo interpretato da Kaufman è proprio il protagonista del primo Nuke'em High e pure Lucas ce lo siamo tolto dai coglioni.


"Chrissy... io sono tuo padre!"

La descrizione perfetta per Vol.2 è che è un film sperimentale, una roba che l'avrebbe fatta Godard se avesse deciso "Oggi voglio tette e liquido verde". 

Praticamente storia, personaggi, setting e tutte quelle robe lì stavano nel vol.1. Il vol.2 è solo una serie di scene una più sexy e ripugnante dell'altra con tanto, tantissimo, pure troppo metacinema.


"Per il sacro Godard!"

E che cosa in succede in quelle scene.

Oltre Catherine che partorisce un bebè-papero, Kevin il papero che l'aveva stuprata amata diventa una specie di Howard the duck spilungone, Kaufamn diventa il boss finale, un raggio laser comincia a viaggiare per l'America e ammazza i nerd in fila al comicon e pure angry videogame nerd in persona.

"Fuckin' diarrhea shit!"


E sopratutto suddetto raggio laser colpisce Dio in persona.

Nelle palle.

Mentre fuma un bong.

Interpretato da Ron Jeremy!!!!!!


Apoteosi Trasha

Pensate che questo sia l'apice?

Non avete capito nulla.

L'apice Kaufman lo raggiunge quando il suo mutante trova Mark Torgl, ovverosia l'originale Melvin Junko, che fa il bidello che se lo mena con lo spazzolone. 

E viene in faccia al mutante. 

E il mutante gli infila lo spazzolone nel culo. 

Che esce dall'altro lato e si porta via l'uccello. 

Mentre sul black box che censura l'uccello esce il nome di Bruce/Kylie Jenner.

Ma l'apoteosi definitiva non è neanche questa.

E' quando in sala montaggio (!) la moglie di Lloyd che fa la produttrice, alla faccia di Gale Ann Hurd, Emma Thomas e Lauren Shouler-Donner, si incazza con Lloyd perché ha esagerato.

E Lloyd che fa? Cancella la scena del bidello e ne aggiunge una dove un cazzo vivente risale da un cesso e fa un tentacle rape ad una gnoccona che Toshio Maeda ci si sta ancora segando.

Questo è il punto di non-ritono meta-trasho-definitivo.


Direttamente dal trailer- Toshio Maeda approves


E se anche questo non vi basta, aggiungo dicendo che il personaggio di Kaufman inala le scorregge come Dennis Hopper in velluto blu e a un certo punto fa pure Bufalo Bill del silenzio degli innocenti.

Tutto questo per dirvi che quest'uomo è un grande, merita il vostro rispetto e attenzione perché a quasi 70 anni è ancora un arzillo porcellone che sa cosa vi piace.

E come sempre

VIVA LA TROMA!


lunedì 13 luglio 2020

The Old Guard

di Gina Prince-Bythewood.

con: Charlize Theron, Kiki Layne, Matthias Schoenaerts, Luca Marinelli, Chiwetel Ejiofor, Marwan Kenzari, Harry Melling, Van Veronica Ngo.

Azione/Fantastico

Usa 2020















Dispiace davvero quando una pellicola spreca invano il suo potenziale e "The Old Guard" spreca totalmente ogni suo possibile aspetto positivo. Non che non fosse affetta da un'endemica derivatività: Glen Rucka, sceneggiatore e autore della graphic novel omonima da cui il film è tratto, ha esplicitato più volte il suo debito di ispirazione verso l'ormai mitologico "Highlander" e, di fatto, la storia ben potrebbe essere ambientata in quell'universo narrativo. Ma laddove il prototipo è coinvolgente, veloce, romantico, epico e contraddistinto da una messa in scena ancora oggi modernissima, la copia è un piatto e noioso prodotto di routine che, appunto, spreca tutte le sue potenzialità.



La storia è presto detta: Andy (Theron), Booker (Matthias Schoenaerts), Nicky (Marinelli) e Joe (Kenzari) sono un gruppo di guerrieri immortali e mercenari, che attraversano le ere e i continenti abbracciando le cause che ritengono giuste. Sulle loro tracce si mette una corporazione farmaceutica che vuole sfruttarne i poteri, mentre una nuova immortale, Nile (Layne), fa la sua comparsa.




Una storia che già su carta era piatta: ennesima corporation del male contro eroi duri e puri; lo script non fa nulla per ravvivarla, a parte introdurre i canonici flashback esplicativi, straordinariamente parchi, però, sia nella narrazione che nella messa in scena, e introdurre, tra l'altro nel II atto, un punto di vista "vergine" sui fatti che però non aggiunge né fascino, né stupore.
Le potenzialità date dal concetto di immortalità vengono sprecate: il romanticismo è ridotto all'osso e tutto cucito addosso ai personaggi di Joe e Nicky, amanti dai tempi delle Crociate, quando erano nemici giurati. L'esistenzialismo fa capolino in timidi dialoghi scambiati tra Andy e Nile, più frasi fatte che vere riflessioni. Dell'epica, cosa peggiore, non c'è la minima traccia.




Se lo script è risaputo, la regia non fa nulla per valorizzarlo, adagiandosi su di una direzione piattissima, con scene d'azione girate senza guizzi né inventiva e sessioni dialogiche sfibranti. Su tutto aleggia una fortissima coltre di noia, con un ritmo perennemente sbagliato e troppo lento per un una pellicola che vorrebbe essere di genere, ma che alla prova dei fatti è un ibrido folle tra melodramma freddo e action abborracciato.




Tanto che alla fin fine, l'unico spunto di vero interesse in tutto il film è dato dalla partecipazione di Luca Marinelli, che si dimostra credibile anche nei panni dell'eroe d'azione, motivo in più per tesserne le lodi. Per il resto, "The Old Guard" è solo un dimenticabile sfoggio di finto talento e occasioni sprecate.

giovedì 9 luglio 2020

Antrum: The Deadliest Film Ever Made

di David Amito & Micahel Laicini.

con: Nicole Tompkins, Rowan Smyth, Dan Istrate, Shu Sakimoto, Circus-Szlalewski.

Canada 2018



















Pensare che nel 2020 il mockumentary possa ancora dire qualcosa di fresco ad un pubblico oramai smaliziato e cosciente della falsità su schermo, sembrerebbe improbabile. Eppure, "Antrum" riesce a creare qualcosa se non originale, quantomeno riuscito, prendendo in prestito il registro mockumentaristico e inserendolo come cornice di un simpatico esperimento vintagexploitation.



Centro nevralgico è, appunto, "Antrum", film nel film, anzi leggenda fatta realtà. Una pellicola girata (per finta) negli anni '70 e che ha causato sciagure e drammi ogni volta che è stata proiettata. I punti di riferimento dei registi Amito e Laicini sono citati esplicitamente, ossia "Ringu" e, sopratutto, il "Cigarette Burns" di John Carpenter, anche se l'antecedente più diretto è il misconosciuto "La Rage du Démon" del 2016, vera ricerca su di un film maledetto attribuito a George Meliés. I due autori, però, non si limitano a riproporre un modello collaudato, introducendo una nota di originalità mostrato il film maledetto nella sua interezza.




Qui il gioco metafilmico si fa ancora più gustoso, con messaggi subliminali e simbolismi satanici celati all'interno delle immagini e esplicitati nel finale, dove il registro falso-documentaristico viene ripreso per spiegare parte di ciò che (non) si è visto.
Il pezzo forte resta la costruzione del film nel film, dove la patina vintage dona a tutto un tocco retrò che ben si sposa con l'atmosfera sinistra.




"Antrum" è un vero e proprio omaggio a tanto cinema di genere degli anni '70; si incontra, ovviamente, il filone demoniaco post "Rosemary's Baby", ma anche rimandi espliciti agli horror di Fulci, con il piccolo Nathan truccato a immagine e somiglianza di Giovanni Frezza.
Piuttosto che affidarsi agli spaventi o puntare unicamente sullo straniamento dato dagli inserti invisibili, i due autori decidono di creare un horror campestre tutto basato sull'atmosfera. I boschi canadesi divengono così un'incarnazione terribilmente terrena dell'Inferno e da lussureggianti macchie si fanno, piano piano, lande claustrofobiche bruciate dal sole. L'orrore resta sempre celato, persino quando le incarnazioni demoniache sono visibili. Tutto rimane ancorato ad una forma di terrore astratto, invisibile eppure tangibile, sottolineato dallo score inquietante e da un sonoro (curatissimo) in grado di far accapponare la pelle.




"Antrum" si pone quindi come un gustoso esperimento che sa essere coerente e riuscito pur prendendosi terribilmente sul serio. Un gioco divertente, per una volta non afflitto da ambiziosi troppo grandi in un filone che troppo spesso ha cercato l'intelligenza trovando solo la furbizia.

lunedì 6 luglio 2020

R.I.P. Ennio Morricone


1928 - 2020

Forse è stato davvero lui il miglior compositore della Storia del Cinema. Di sicuro, le note di Morricone sono causa imprescindibile della riuscita dei capolavori di Sergio Leone; e quando collaborava con autori che non costruivano le immagini sulla musica, i suoi temi riuscivano lo stesso a dare un tocco in più a pellicole memorabili. Memorabili proprio come le sue note.


"Per un Pugno di Dollari" (1964) di Sergio Leone


Prima collaborazione con Leone; Morricone crea il celebre tema del fischio, che diviene parte integrante dell'epica dello Spaghetti Western.


"I Pugni in Tasca" (1965) di Marco Bellocchio


Sonorità oniriche, quasi astratte, per la colonna sonora dello spiazzante esordio di Marco Bellocchio.


"Uccellacci e Uccellini" (1966) di Pier Paolo Pasolini


Per la favola beffarda di Pasolini, Morricone compone una colonna sonora sincopata, ritmata su sonorità moderne, quasi rock.


"Il Buono, il Brutto, il Cattivo" (1966) di Sergio Leone


Si potrebbe citare il celeberrimo tema principale o anche l'altrettanto mitica partitura del "triello", ma "L'Estasi dell'Oro" resta il punto più spettacolare di una colonna sonora incredibile.


"Faccia a Faccia" (1967) di Sergio Sollima.


Percussioni e synth per il bel tema dello spaghetti western di Sollima.


"Diabolik" (1968) di Mario Bava.


Scoppiettante partitura pop per il bel cinefumetto di Mario Bava, con sonorità alla moda e di tendenza, tipiche della fine degli anni '60.


"Il Grande Silenzio" (1968) di Sergio Corbucci


Un partitura sottilmente elegiaca per l'anti-spaghetti western di Corbucci, reso prezioso anche grazie alle note di Morricone.



"C'Era una volta il West" (1968) di Sergio Leone.


Sarebbe facile elogiare il tema principale, potente e magnifico; ma il carattere di Morricore è palese anche nella scanzonata partitura per Cheyenne, semplice e simpatica, quasi in antitesi con il resto dello score.


"Il Clan dei Siciliani" (1969) di Henri Verneuil.


Un tema dalla sonorità quasi sfrontata e palesemente ammiccante, che cala un velo di stile sul turpe polar di culto.


"Queimada" (1969) di Gillo Pontecorvo.


Partitura cupa e dalla cadenza funebre per incorniciare i corsi e ricorsi storici portati in scena da Pontecorvo in una pellicola da riscoprire.



"Indagine su di un Cittadino al di sopra di ogni sospetto" (1970) di Elio Petri.


Archi striduli e scacciapensieri siculi per enfatizzare il risvolto grottesco dello spietato racconto di Elio Petri.



"L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970) di Dario Argento.


Canto onirico, sottilmente inquietante, che si sposa alla perfezione con le ipnotiche immagini del primo Argento.


"Gott mit Uns- Dio è con Noi" (1970) di Giuliano Montaldo.


Melanconica e sottilmente drammatica orchestrazione per il dramma di guerra di Montaldo.


"Città Violenta" (1970) di Sergio Sollima.


Vaghe reminiscenze western in una partitura solida e coinvolgente creata per il western metropolitano di Sollima.


"Sacco e Vanzetti" (1971) di Giuliano Montaldo.


Assieme a Joan Baez, Morricone crea una ballata commovente, ma al contempo rabbiosa.


"La Classe Operaia va in Paradiso" (1971) di Elio Petri.


Cadenze marziali per il disilluso atto d'accusa di una generazione.


"Giù la Testa" (1971) di Ennio Morricone.


La rivoluzione secondo Sergio Leone, magnificamente costruita su una partitura al contempo epica e intimista.


"Novecento" (1976) di Bernardo Bertolucci.


Per l'epica "sinistrorsa" di Bertolucci, Morricone compone una colonna sonora dai toni terreni, quasi musica da camera applicata all'incedere della Storia.


"I Giorni del Cielo" (1978)


Per il melodramma di Malick, Morricone compone uno score che sembra essere più vicino all'intimità dei personaggi che alle immagini spettacolari, creando un contrasto quasi estatico. 



"La Cosa" (1982) di John Carpenter.


Adagiandosi perfettamente sulle immagini di Carpenter e ispirandosi, probabilmente, alle sue precedenti partiture, Morricone confeziona uno score minimale e carico di tensione.


"C'Era una volta in America" (1984) di Sergio Leone.


Capolavoro nel capolavoro. Morricone esalta l'epica e il sentimento questa volta assieme, con note elegiache e strazianti.


"Mission" (1986) di Roland Joffé.


Per il gioiello dimenticato di Joffé, Morricone crea uno score lirico che si sposa alla perfezione con l'ambientazione sudamericana e con la tematica della fede.



"The Untouchebles- Gli Intoccabili" (1987) di Brian De Palma.


Perfettamente in linea con lo stile narrativo di De Palma, Morricone firma uno score eccessivo e sopra le righe, perfetta forma estetizzata della sonorità dei vecchi polizieschi americani.

sabato 4 luglio 2020

Sentinel

The Sentinel

di Michael Winner.

con: Cristina Raines, Chris Sarandon, Arthur Kennedy, Burgess Meredith, Deborah Raffin, Eli Wallach, Ava Gardner, José Ferrer, Jerry Orbach, Sylvia Miles, Beverly D'Angelo, John Carradine, Christopher Walken, Jeff Goldblum, Tom Berenger.

Thriller/Horror

Usa 1977












---CONTIENE SPOILER----

Quanto tempo serve davvero ad una pellicola per diventare un cult? Domanda che ha diverse risposte, che variano a seconda del film preso in esame. Se si pensa, ad esempio, a "Dawn of the Dead" e "Halloween", la passione suscitata è praticamente contemporanea all'uscita in sala. Ma uno dei significati di "cult" risiede proprio nell'attività di "riscoperta" che una parte del pubblico fa verso un'opera che magari alla sua uscita è stata ignorata, per poi divenire amatissima.
"The Sentinel" si pone idealmente a metà di questi due estremi: buon esito commerciale alla sua uscita, comincia però a divenire oggetto di culto solo nel decennio appena trascorso, con recensioni entusiastiche che ne sottolineano l'ottima atmosfera e, sopratutto, la capacità di anticipare tematiche e scelte narrative di altri horror immediatamente successivi.
Riscoperta tutto sommato meritata: l'horror para-psicologico di Michael Winner ben riesce ad amalgamare atmosfera e suggestioni gotiche con efficaci concessioni allo splatter, restando perfettamente godibile anche oggi, nonostante l'estrema classicità della messa in scena.




La trama, adattata per lo schermo dallo stesso Winner, è ripresa dal romanzo omonimo di Jeffrey Konvitz; a New York, la modella Alison Parker (Cristina Raines), decide di allentare la relazione con l'avvocato Micahel Lerman (Chris Sarandon) e di andare a vivere per conto proprio. Trova così, per puro caso, l'ideale abitazione in un vecchio palazzo di Brooklyn, abitato da strani individui, tra i quali spunta un prete (John Carradine) non-vedente eppure perennemente affacciato ad una finestra.




Winner riunisce un cast d'eccezione, che alterna grandi glorie di Hollywood a nuove leve che di lì a poco sarebbero esplose come star: Chris Sarandon aveva già ricevuto una nomination agli Oscar per la sua performance in "Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani" di Lumet; Ava Gardner, all'epoca cinquantacinquenne, dimostra ancora di avere fascino; il grande caratterista John Carradine (padre di David, Keith e Robert) è perfetto nei panni del misterioso prelato; Arthur Kennedy, Eli Wallach e José Ferrer risplendono in piccoli ruoli, mentre spuntano i giovanissimi Jeff Goldblum (che lo stesso Winner aveva scoperto qualche anno prima ne "Il Giustiziere della Notte") e Christopher Walken (che giusto un anno dopo avrebbe vinto l'Oscar per "Il Cacciatore"); due ruoli indimenticabili per la conturbante Sylvia Miles e una giovane Beverly D'Angelo, mentre Burgess Meredith appare in un doppio ruolo che ne celebra l'insospettabile duttilità.
Al centro di tutto, come protagonista, Winner porta la bellissima modella Cristina Raines, che sempre nel '77 apparirà ne "I Duellanti" di Scott. E' lei, bella ed espressiva, il punto di vista di una vicenda dove realtà e pure impressioni si mescolano.




Se la messa in scena è talmente classica da apparire talvolta antiquata, sopratutto se messa a confronto con l'horror americano dell'epoca, la storia per se ha una forza visionaria notevole.
L'ispirazione deriva palesemente dal "Rosemary's Baby" di Polanski, ma la creazione di una mitologia satanica terrena anticipa di qualche anno le intuizioni di Argento e Fulci. L'idea di un Inferno situato appena sotto la realtà, materiale e materialistica, di una metropoli moderna appare qui per la prima volta e tutto sommato viene ben sfruttata.
Winner, dal canto suo, non è certo un visionario al pari di coloro che ne riprenderanno l'intuizione: non ci sono vere visioni oltremondane, né vere incursioni nel fantastico a tutto tondo. Tutto viene sapientemente limitato a fugaci visioni e suggestioni che, tuttavia, ben riescono ad ingenerare nello spettatore un senso di disagio, restando sempre sul limite lisergico tra realtà e paranoia. E quando il fantastico esplode, in un trionfo finale di simbolismi macabri, la messa in scena, benché ancorata alla verosomiglianza, non fa rimpiangere incursioni più marcate nel sovrannaturale; Winner adopera con cura la forza espressiva degli attori alla disturbante visione di veri e propri "freaks" adoperati per dare corpo alla dannazione; trovata criticabile quanto si vuole, ma estremamente efficace.




Non meno efficace è il senso di disagio strisciante costruito durante i primi due atti. Con pochi elementi ben enfatizzati, Winner riesce ad ingenerare una perenne sensazione scostante; largo utilizzo è dato alla scenografia, che alterna location eleganti a stanze desolate, senza fare ricorso ad ambienti asettici come invece farà Kubrick in "Shining" ed anzi lasciando che la polvere e il mobilio consunto donino un'aura gotica al tutto.
E quando si decide di calcare la mano, la regia non si tira di certo indietro: conturbante e al contempo disturbante è la scena della masturbazione di Beverly D'Angelo, anch'essa criticabile per il ricorso all'uso dell'omosessualità come devianza, dovuta alla forte indole conservatrice del regista, il quale riesce comunque a spiazzare.



Ottima anche la prova della Raines, che purtroppo non apparirà più in pellicole memorabili: la sua Alison è una donna emancipata e al contempo fragile, non una semplice donzella in pericolo, ma neanche un personaggio forte, alla quale dona un'espressività notevole.
"The Sentinel" merita, tutto sommato, la riscoperta che ha avuto. Dimostra di non essere invecchiato benissimo per alcuni aspetti, mentre per altri riesce perfettamente ad affascinare e spiazzare ancora oggi.