venerdì 27 novembre 2020

Dreamland

 
di Miles Joris-Peyrafitte.

con: Margot Robbie, Finn Cole, Travis Fimmel, Kerry Condon, Garret Hedlund, Darby Camp, Stephen Dinh.

Drammatico

Usa 2019


















La carriera come produttrice di Margot Robbie le ha permesso di partecipare a pellicole di sicuro interesse anche non solo commerciale come "Tonya" e "Birds of Prey" (il cui flop è davvero immeritato), ma anche ad altre decisamente dimenticabili come "Terminal" e, purtroppo, quest'ultimo "Dreamland", malriuscita variazione della classica storia di Bonnie e Clyde mischiata al coming of age che non riesce mai a trattare con solidità nessuno dei temi che richiama.


1935, Texas; il 17nne Eugene Evans (Finn Cole) sogna di fuggire dalle aride pianure e vivere avventure eccitanti come gli eroi delle riviste pulp che consuma avidamente. Sogno che sembra avverarsi quando la bella rapinatrice Allison Welles (Margot Robbie), ferita ad una gamba, si rifugia nel granaio della sua fattoria, aprendo uno spiraglio nella monotonia della sua esistenza.


Una trama talmente archetipica da divenire subito prevedibile; lo script non fa nulla per ravvivare gli eventi e il loro susseguirsi, perdendosi nella contemplazione degli stessi. Ne consegue una storia che non decolla mai, con una narrazione che si focalizza per lo più sulla fase iniziale, senza mai sviluppare davvero nulla, né la psicologia del protagonista, né il suo rapporto con la figura genitoriale surrogata, tantomeno quello con la bella fuggitiva.


Quando la storia si risolleva, è ormai troppo tardi e neanche allora si cercano strade o risvolti inediti. Tuto scorre sul binario della prevedibilità e la regia, che pur cerca di dare un tono spettacolare con immagini e movimenti di macchina ricercati, non riesce a tenere alta l'attenzione.
Il che è un peccato, perché il cast è affiatato, con un Finn Cole perfettamente calato nei panni del giovane illuso e una Margot Robbie che ricorda una giovane Marilyn Monroe dal muso duro, uniche note interessanti in un marasma di piattume. 

giovedì 26 novembre 2020

R.I.P. Daria Nicolodi


1950 - 2020

Vera e propria "dark lady" del cinema italiano, Daria Nicolodi ha saputo lasciare un segno indelebile sia come attrice che come creatrice. Suoi sono gli script del capolavoro "Suspiria", oltre che di "Inferno". Un volto non comune, il suo, che ha saputo prestare a ruoli inediti per il cinema italiano, spesso quello della donna emancipata in un mondo che invece la voleva sottomessa.

lunedì 23 novembre 2020

Riflessi sulla Pelle

The Reflecting Skin

di Philip Ridley.

con. Jeremy Cooper, Lindsay Duncan, Viggo Mortensen, Duncan Fraser, Sheila Moore, David Longworth, Robert Koons, David Bloom.

Drammatico

Inghilterra, Canada 1990












Essere dimenticati è forse il destino peggiore che possa accadere ad un'opera d'arte. Innumerevoli sono le pellicole che, per un motivo o nell'altro, finiscono nel dimenticatoio, obliate dalla coscienza collettiva anche da parte dei cinefili più accaniti, prima ancora di quei film che vanno perduti "fisicamente", divenendo lost media. La dimenticanza è quanto successo, purtroppo, a "Riflessi sulla Pelle", dramma onirico sull'infanzia esordio alla regia dello scrittore Philip Ridley che, nel 1990, reduce dallo script di "The Krays" per Peter Medak, ottiene un ottimo riscontro di critica anche nei circuiti dei festival e una buona visibilità, per poi essere dimenticato. Complice anche la carriera del suo autore, il quale, purtroppo, dirigerà solo altri due lungometraggi, almeno sino ad oggi, di cui l'ultimo, "Heartless", è invece dimenticabile per i peggiori motivi.
"Riflessi sulla Pelle", al contrario, è un'opera potente e della violenza trabordante, che getta una luce sinistra sull'infanzia, descritta come il periodo peggiore della vita.


In un periodo imprecisato della metà nel XX secolo, forse la fine degli anni '50, in una remota zona rurale degli States, il piccolo Seth Dove (Cooper) vive una vita agra, passando le sue giornate a compiere scherzi crudeli assieme agli amici. Il suo mondo viene idealmente distrutto, un po' alla volta, a causa di una serie di omicidi di bambini che cominciano a consumarsi nella zona e che presto porteranno alla catastrofe.


L'infanzia è davvero innocente? No, almeno per Ridley, che apre il film con una scena fortemente disturbante: Seth e i suoi due amici si divertono a gonfiare un rospo e lo fanno esplodere in faccia alla vedova Dolphin Blue (Lindsay Duncan). Già dal primo istante è chiaro come la de-formazione che attende il piccolo protagonista è già in atto, parte intrinseca della sua persona, non dovuta a traumi fisici o psichici ma del tutto connaturata alla sua età. La visione del mondo che si ha durante la prima fase della vita è, per forza di cose, parziale, afflitta dalla mancata esperienza del mondo e dalla superficialità fantastica con cui si affronta la vita. La fantasia per sé, a differenza di quanto accade in molto cinema sul e per l'infanzia, non è entità salvifica, ma una visione deformata del reale che crea in forma embrionale quei pregiudizi che, idealmente, accompagnano la persona anche nell'età adulta. Il percorso di Seth è quindi segnato dall'inizio e già nelle prime scene è la morte a farla da padrone.


Una morte che si manifesta sotto la forma delle mosche che infestano la casa, ma soprattutto nella mancanza: la morte del padre, che arriva all'improvviso, e soprattutto il lutto vedovile che affligge Dolphin e che la rende una vera e propria "morta vivente", un cadavere che si trascina nella vita oramai svuotata di ogni forza. E che viene percepita dal bambino come una minaccia, una "vampira" che si ciba della vita altrui.
La morte è poi entità fisica, che porta via con sé, un po' alla volta, gli amici, stroncati da un assassino invisibile, il quale rivolta le vite della piccola comunità risvegliando sopiti rancori. Un'accusa di omosessualità porta il padre di Seth al suicidio, causando il ritorno a casa del fratello maggiore Cameron (un giovane Viggo Mortensen, le cui doti di attore sono già qui evidenti).


La seconda parte è un'allucinazione perenne nella quale il giovane protagonista si confronta con la mancanza di affetto, ricercata nel fratello, vera figura paterna, piuttosto che nella madre, mai davvero vista come ancora familiare. L'invidia per la relazione con Dolphin lo porta ad esacerbare il suo odio verso la donna, mentre la scoperta di un feto calcificato ne esaspera la fantasia.
La morte è qui forza distruttrice che corrode la mente di Seth così come il corpo di Cameron. La "pelle che riflette la luce" è quella dei morti, del cadavere semi-mummificato del feto così come del bambino esposto alle radiazioni nella foto di Cameron, oltre che quella dello stesso Cameron, vittima dei test nucleari nel Pacifico.
Un disfacimento lento e inesorabile al quale l'unico rimedio è l'amore. E se per Cameron e Dolphin l'amore reciproco è il balsamo che permetterebbe loro di fuggire dallo stato delle cose, non può esserci salvezza per Seth, la cui giovane età preclude ogni forma di redenzione.
Redenzione che non avviene mai. Il finale, disperato, è il trionfo dell'inferno personale sui personaggi, tutti condannati ad una dannazione ineluttabile. L'urlo disperato è la sola reazione possibile ad una condanna inevitabile.


Di concerto con il direttore della fotografia Dick Pope, Ridley ritrae un inferno in Terra dai colori caldi, naturali, i colori dell'entroterra nordamericano solitamente associati a visioni positive. Il suo stile è pittorico e perfettamente calibrato e crea immagini potenti e ammalianti, splendidamente contrapposte ad una storia macabra e disperata. Una bellezza che riporta alla mente, per forza di cose, quanto fatto da Malick ne "I Giorni del Cielo", ma che trova una propria, perfetta, connotazione estetica che le concede una forma di identità.


Bisogna quindi riscoprire questo dramma incredibilmente forte e intenso, una pellicola non facile e sicuramente destabilizzante, ma la cui terribile bellezza è innegabile.

giovedì 19 novembre 2020

Lupin III: The First

di Takashi Yamazaki.

Animazione/Azione/Commedia

Giappone 2019




















Così come per "Capitan Harlock", anche per "Lupin III" occorre confrontarsi, quando se ne parla, con un pilastro della cultura popolare, almeno qui Italia, dove le sue avventure sono state amate dal grande pubblico fin dalla prima messa in onda del relativo anime a partire dl 1979.
Il manga da cui questa è stata tratta è invece relegato al solo ruolo di "cult", rientrando tra le prime pubblicazioni del genere nel nostro paese. Inutile ricordare come, in assenza di questo, le avventure del ladro dalla giacca sgargiante non sarebbero mai approdate in televisione o al cinema.
Creato dal compianto Monkey Punch, al secolo Kazuhiko Kato, e originariamente pubblicato a partire dal 1967, "Rupàn Sansei" (come noto in Giappone) era per l'epoca un qualcosa di curioso e quasi inedito, un manga che traeva ispirazione dall'avanguardia cinematografica dell'epoca per impostare il ritmo delle storie. Il punto di riferimento più evidente era dato dai noir e yakuza-eiga di Kinji Fukasako, dal quale Monkey Punch riprendeva il gusto per il ritmo fluido e veloce nel quale immergeva il suo protagonista, successore nipponico del famoso ladro gentiluomo creato da Maurice Leblanc nel 1905. 



Nelle sue avventure, Lupin è affiancato da un gustoso cast di personaggi creati appositamente dall'autore: lo scalcinato ma irrefrenabile ispettore dell'Interpol Zenigata, ossessionato dalla sua cattura, l'infallibile tiratore Daisuke Jigen, controparte "seria" al carattere strambo e sopra le righe del protagonista, la femme fatale Fujiko Mine, rapace doppiogiochista che si prende sovente gioco di Lupin grazie alla sua avvenenza, nonché il ronin Goemon Ishikawa XII, anch'egli discendente da una famosa dinastia di ladri.



La prima serie televisiva, "quella con la giacca verde" per gli appassionati, approda sugli schermi del Sol Levante nel lontano 1971 e vede tra gli autori molti di coloro che confluiranno qualche anno dopo nel leggendario Studio Ghibli, tra i quali lo stesso Hayao Miyazaki; proprio quest'ultimo donerà al ladro gentiluomo uno dei suoi tratti distintivi, ossia la 500 bianca come automobile principale, che all'epoca egli stesso usava.
Successo della prima ora anche in Italia, la serie televisiva di "Lupin III" incolla allo schermo i telespettatori grazie al suo mix di azione e commedia: in ogni episodio il ladro gentiluomo organizza un colpo che puntualmente cercherà di essere sventato dal tenace Zenigata, solo per essere spesso privato del mcguffin di turno da un colpo di sfortuna o dalla maestria della seducente Fujiko, la quale è divenuta icona sexy vera e propria, al punto che, in molti passaggi televisivi, le scene più piccanti che la vedono protagonista sono state censurate. Evidentemente per Mediaset le avventure di ladro accompagnato da un pistolero, uno spadaccino e una sensuale truffatrice sono roba destinata ad un pubblico di infanti...



La formula, ad ogni modo, è semplice e immediatamente riconoscibile. Laddove nelle prime avventure, il Lupin televisivo e filmico deve molto alla saga di 007, in periodi più recenti molte delle sue avventure sono ricalcate sulla falsariga della saga di Indiana Jones. Tratti essenziali sono il giro per il mondo alla ricerca di indizi e la scoperta finale del tesoro di turno, che spesso si rivela pericoloso. L'originalità viene data dalla dose di azione sopra le righe, da un tono ai limiti del demenziale (nel quale però non si scade mai del tutto) e dalla simpatia dei personaggi. In proposito, è impossibile non menzionare l'adattamento italiano, dove il ladro gentiluomo ha dapprima la voce del compianto Roberto Del Giudice, il quale resterà per sempre associato al ruolo, concedendogli un tocco di simpatia in più rispetto alla controparte originale.




Ad oggi sono state prodotte ben 6 serie televisive con protagonista Lupin, oltre che 10 film d'animazione (contando anche l'ultimo "The First"), 34 tra OAV e film televisivi (dei quali va recuperato almeno lo sperimentale "Green vs. Red" del 2008) e due pellicole live-action, ossia "La Strana Strategia Psicocinetica" che, prodotto nel 1974, rappresenta l'esordio assoluto al cinema per Lupin III, senza contare l'exploit del 2014 semplicemente intitolato "Lupin III" e diretto dal mitico Ryuhei Kitamura.
In tutta questa mole di adattamenti, "The First" rappresenta, come il titolo suggerisce, un record: è il primo film totalmente in CGI di Lupin e arriva al cinema nel 40° anniversario dell'esordio italiano del personaggio, oltre che, purtroppo, nell'anno della morte di Monkey Punch, al quale è dedicato. Sfortunatamente, l'uscita al cinema prevista per il febbraio 2020 è stata annullata causa Covid e il film è E purtroppo, l'uso della computer graphic è anche l'unico motivo di interesse dell'intera operazione.




La trama è quanto di più basilare si possa chiedere: il buon Lupin è come sempre alle prese con un mcguffin, questa volta incarnato dal diario dell'archeologo francese Bresson, che pare fosse amico di suo nonno Arsene Lupin I. Contro di lui, una spietata organizzazione guidata da ex nazisti che vogliono rifondare il Reich e al suo fianco, oltre al solito gruppo di amici, la bella Laetitia, giovane ragazza aspirante archeologa.




Nulla di originale sotto il sole, dunque; il che è anche peggio quando ci si accorge che tutti gli snodi di trama e i colpi di scena sono prevedibili. Nell'ultimo atto, il debito di ispirazione verso "Indiana Jones e l'Ultima Crociata" è così evidente da divenire imbarazzante e l'unica nota di originalità viene data dall'ambientazione temporale, i primi anni '60, il che rende "The First" una delle prime avventure di Lupin, almeno sul piano cronologico. Peccato però che il time period non venga per nulla sfruttato.
Stoccata finale: la regia di Yamazaki è convenzionale e non riesce mai ad imprimere il giusto ritmo agli eventi, il quale risulta fin troppo blando per una pellicola d'avventura.




L'uso della CGI è invece riuscito. Ottima l'idea di contrappore il fotorealismo degli ambienti al carattere stilizzato dei personaggi classici, che ritrovano anche nelle tre dimensioni le forme filiformi e espressive dell'anime. Un lavoro più ordinario è invece fatto per i personaggi creati appositamente per la storia, i quali. benché ben disegnati e animati, non hanno lo stesso charme di Lupin e soci, ma riescono lo stesso a convincere.




Simpatico, ma fin troppo privo di pretese, "The First" è una visione leggera e francamente dimenticabile, che non fa nulla per stupire o coinvolgere. Persino i fan più irriducibili del ladro gentiluomo potrebbero restare freddi dinanzi alle sue immagini. E si spera che per le prossime incarnazioni si riesca davvero a fare di meglio.

lunedì 16 novembre 2020

Amarcord

di Federico Fellini.

con: Bruno Zanin, Alvaro Vitali, Ciccio Ingrassia, Magali Noel, Pupella Maggio, Armando Brancia, Nando Orfei, Josiane Tanzilli, Maria Antonietta Beluzzi.

Italia, Francia 1973
















Il percorso, umano e artistico, che ha portato Fellini ad "Amarcord" è lungo e già fecondo nei primi stadi della sua evoluzione. Tutto parte da "I Vitelloni" e trova una prima perfetta forma in "Roma". Dal 1953 al 1972, il lavoro sul ricordo si plasma un po' alla volta, sostanziandosi in rievocazione, re-immaginazione e immaginazione vera e propria applicati al passato. "Amarcord" è il punto di arrivo definitivo e definitivamente maturo di questo metodo, tant'è che i successivi film in cui l'autore lo applica (su tutti "La Città delle Donne" e "L'Intervista") non aggiungeranno nulla allo stesso.
"Amarcord" diviene così passato, vero e immaginario, che si riverbera sulla sostanza filmica, dove il regista plasma e riplasma i fatti filtrandoli attraverso la fantasia più che la memoria, trasformandoli in una fantasmagoria nostalgica e sottilmente idealizzante.


Laddove "I Vitelloni" portava in scena la tarda adolescenza, "Amarcord" porta invece su schermo la piena adolescenza, incarnata dal personaggio di Titta e dei suoi compagni. Questi "giovani Vitelloni" attraversano il ricordo della Rimini ciondolando a destra e a manca, sognando l'amore (Aldina) e il sesso (Gradisca, la Volpina, la Tabaccaia), mentre intorno il mondo lentamente muta.


Va innanzitutto sottolineato come il primo rimprovero che viene spesso mosso a Fellini per "Amarcord" è il modo in cui ha ritratto i fascisti: non c'è una critica diretta al regime, il che, nell'Italia degli anni '70, sembrava assolutorio. In realtà, basta rivedere la luna sequenza che li interessa per accorgersi di come la critica ci sia, in modo neanche troppo sottile.
Da una parte, il grande autore si limita a dipingere l'Italia per ciò che era, ossia una nazione ipnotizzata dall'idea di grandezza propria del P.N.F., con quei riti marziali spavaldi, le uniformi eleganti e il passo militare obbligatorio; un'idea di ordine puramente virtuale, sotto il quale le personalità misere dei cittadini della provincia di Rimini restano immutate; la camicia nera, in fondo, è un puro incarto per persone che nascono mediocri e restano mediocri per tutta la loro vita, esaltandosi solo perché ordinato loro. Il che, paradossalmente, è una lettura valida anche oggi.
Dall'altro Fellini di certo non cela la codardia del regime, con la scena del grammofono, che vede i forti patrioti neri impegnati ad un imbarazzante tiro al bersaglio, solo per poi incolpare il primo che passa, il padre di Titta, condannato all'olio di ricino.


L'idealizzazione, semmai, risiede nella rielaborazione del ricordo in toto, non riferita al solo periodo fascista, il quale, per forza, diviene visione onirica estetizzante del passato.
La descrizione della società passata parte dal nucleo familiare per allargarsi al paese intero. La famiglia di Titta viene ritratta, in primis, nella divertente scena del pranzo, con i battibecchi che divengono ritratto amorevole di un manipolo di personaggi i cui caratteri divengono iperbolici, sino a toccare la caricatura, ma senza mai scadere nello stucchevole. Su tutti, è il nevrotico capo famiglia a rubare la scena, perennemente in conflitto con chiunque capiti a tiro.
Menzione a parte merita la splendida sequenza dello zio Teo, interpretato da uno squisito Ciccio Ingrassia, durante il periodo in cui ruppe il sodalizio con Franchi. Un personaggio pietoso, ma che Fellini tratteggia con amore, rendendolo simpatico più che patetico, nella sua voglia di normalità che purtroppo non troverà mai realizzazione.


Coadiuvato da Tonino Guerra in sede di scrittura, Fellini intesse l'abituale racconto episodico e torna ad usare un punto di vista esterno agli eventi, prendendo per mano lo spettatore per portarlo all'interno della sua mente. Sovente buca la quarta parete, lasciando che i personaggi interagiscano con l'astante, come il personaggio dell'Avvocato, vera e propria "guida turistica della mente".
Nella rielaborazione, anche gli eventi storici perdono i tratti del reali per farsi astratti, vere e proprie visioni che filtrano il reale per il tramite della sensibilità individuale del narratore. Al di là del lavoro fatto con i riti del fascismo, è la scena del transatlantico Rex a divenire, alla fin fine, sequenza madre. Fellini comincia a narrarla facendo ricorso a location reali, ma man mano che le barche dei paesani si addentrano in alto mare, il paesaggio cambia, si fa più rarefatto, ricostruito in studio in modo visibilmente "fasullo", con le onde del mare ricreate con teli di plasitca. L'astrazione è rielaborazione artistica; laddove il cinema è sogno, quello di Fellini è (per quanto suoni ridondante) sogno del sogno che rielabora il ricordo, luogo perfetto in cui memoria e fantasia si confondo fino a divenire un tutt'uno.


Chiodo fisso per Fellini, Titta e tutto il gruppo di amici è la sessualità, descritta come esuberante, mai conturbante. Il sesso è gioia e le figure femminili hanno qui una sensualità inusuale, mai davvero sexy, eppure attraente; la loro femminilità è esagerata, sia sul piano fisico che come ruolo che giocano nelle fantasie dei ragazzi (ad esclusione di Aldina, il cui amore è romantico). Quella che comunicano è l'idea dell'amore e della sensualità, un'iperbole perfetta rappresentazione delle turbe adolescenziali rielaborate in chiave fantastica.


Così come le donne, tutti i personaggi del paese sono coloriti, dai lineamenti e dai gesti esagerati, quasi cartooneschi, come il Biascein o il preside, i cui tratti facciali sembrano quasi esplodere tanto sono marcati. Se il mondo di "Amarcord" è crocevia tra sogno e memoria, i suoi personaggi sono non tanto delle caricature o degli stereotipi, come pure si potrebbe obiettare, bensì degli archetipi, figure-tipo di un'umanità verace e irresisitibile, che trascende il tipico ruolo drammaturgico per farsi icona, maschera immediatamente riconoscibile.
Allo stesso modo, le loro storie sono favole visionarie, voci e gossip amplificate sino a divenire racconto fantastico, come l'episodio delle concubine o dell'incontro tra Gradisca e il principe.


La realtà della vita arriva solo nell'ultimo atto, con la morte della madre di Titta e il matrimonio di Gradisca, riti di passaggio verso un'età adulta che porta ad un superamento dello status quo, dei "luoghi comuni" del paese, che si spengono rimanendo solo ricordo e fantasia, ossia pura sostanza onirica.



In definitiva, la grandezza di Fellini è sita non tanto e non solo nel modo in cui porta in scena questa sarabanda di storie e personaggi, quanto nel tocco, che non diventa mai pedante o compiaciuto. "Amarcord" influenzerà praticamente ogni regista italiano a venire, ma mai nessuno riuscirà a riprodurre il perfetto equilibrio della formula originaria. Basti vedere, su tutti, i molti exploit consimili di Tornatore.

giovedì 12 novembre 2020

Riflessi in uno Specchio Scuro

 The Offence

di Sidney Lumet.

con: Sean Connery, Trevor Howard, Vivien Merchant, Ian Bannen, Peter Bowels, Derek Newark, Ronald Radd, John Hallam.

Drammatico

Inghilterra, Usa 1973
















---CONTIENE SPOILER---

Sidney Lumet è uno di quei cineasti che, non si sa per quale motivo, non vengono mai valorizzati a dovere, né citati tra i migliori. Eppure la sua filmografia, con titoli quali "La Parola ai Giurati", "Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani" e soprattutto "Quinto Potere" parla da sé. Lumet era un filmmaker in grado di coniugare impegno civile e politico con l'esigenza di raccontare storie complesse e mai banali, riuscendo a far riflettere nel profondo e, al contempo, utilizzando uno stile semplice eppure riconoscibile, benché in vita in pochi abbiano sottolineato quest'ultimo aspetto.
"Riflessi in uno specchio scuro" arriva poco prima del successo di "Quel Pomeriggio", in un periodo in cuiil suo nome era già relativamente famoso. In una trasferta inglese tutto sommato insolita per lui, abituato a dissezionare tematiche saldamente ancorate alla società statunitense benché al contempo universali, Lumet porta su schermo un dramma di John Hopkins, adattato su schermo dallo stesso autore, appoggiandosi sulle spalle di Sean Connery per portare in scena una storia torbida e affascinante. E riesce a creare una pellicola fosca e brutale, nella quale il divo scozzese offre quella che resterà la sua performance migliore.



Il detective Johnson (Connery) ha 20 anni di carriera sul groppone, durante i quali ne ha viste di tutti i colori. Indagando su di un caso di pedofilia, si ritrova faccia a faccia con il sospettato Baxter (Ian Bannen), con il quale va giù pesante. Il senso di colpa per averne probabilmente causato la morte è l'innesco perfetto per far venire a galla tutto il malessere che ha accumulato, il quale inizia a divorarlo.



Sarebbe facile etichettare "The Offence" come una semplice variazione sull'adagio nietszcheano "chi combatte i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro"; in realtà, il discorso sul male intessuto da Lumet e Hopkins è un'ideale continuazione di quello del filosofo tedesco. Johnson non è un mostro, non nel senso convenzionale del termine. Se lo è stato, non lo è più, è andato oltre quella fase in cui la sua anima viene semplicemente intaccata dal male. Gli orrori che ha visto si sono accumulati al punto di non essere più sostenibili. La ragione, il distacco proprio del professionista, viene infranto dall'ultimo infausto episodio e tutto il malessere accumulato finisce per travolgerlo.


La struttura drammaturgica dello script non viene celata, ma inscritta in un contesto narrativo (soprattutto di stampo visivo) tipicamente filmico. Il male di Johnson emerge dal confronto con tre figure cardine della sua vita, in tre dialoghi susseguenti e progressivi.
La prima è la moglie (Vivien Merchant), la prima ad incontrarlo dopo l' "incidente" con Baxter. Nel tragitto verso casa, il detective ha una serie di visioni nelle quale rivive gli episodi più sconcertanti ai quali ha assistito; arrivato a casa, è già una persona diversa, sebbene il cambiamento si sia innescato già durante l'interrogatorio. 
Alla moglie, Johnson rimprovera la mancanza più ovvia, ossia quella del supporto amorevole e caritatevole in teoria proprio della figura femminile; traveste tale rimprovero come un insulto verso la bellezza della moglie, ma già dall'inizio è chiaro come voglia unicamente sfogarsi, tirare fuori quel marcio che lo sta corrompendo poco alla volta e il cui trionfo sembra ineluttabile.


Il confronto con il superiore incaricato di condurre l'interrogatorio sulla morte di Baxter, l'inflessibile Cartwright interpretato da uno strepitoso Trevor Howard, che fa a gara di bravura con Connery, porta il protagonista a scontrarsi con un suo primo doppio.
Anche Cartwright è un veterano, ma la sua posizione di ufficiale gli ha permesso di allontanarsi dalle strade, riuscendo ad isolarlo dagli orrori che i detective e i bobbies devono invece assimilare, cosa che gli viene subito rimproverata. Eppure, forse proprio per questo, lui è riuscito nell'impresa di scindere la sua personalità, dividendosi in un poliziotto durante gli orari di lavoro ed un uomo nel resto della giornata. Il male non lo corrode perché non riesce a toccarlo, essendo le sue due personalità distinte. Anche questo scontro diviene confessione, ammissione del fallimento di Johnson nel non essere riuscito a farsi inghiottire dalla negatività del mondo.



Il confronto essenziale avviene però con Baxter, al contempo punto di inizio e di arrivo della narrazione, così come della crisi umana e spirituale del protagonista.
Baxter è lo specchio scuro del bel titolo italiano, un uomo che ha accettato il male, ha lasciato che lo conquistasse ma non si è fatto consumare e, anzi, ha tratto nuova forza da esso. Baxter non ha sensi di colpa perché ha abbandonato ogni paradigma morale, superando la distinzione tra bene e male. Non ha importanza se sia davvero colpevole, lui è comunque malvagio. Confrontandosi con lui, Johnson comprende l'inescapibilità del male, l'impossibilità di assimilarlo senza cambiare, mutare in un essere immorale o quanto meno a-morale, che non prova rimorsi per le sue azioni, quasi un animale vestito da uomo. Da qui lo scandalo, la rabbia e la prevaricazione che lo portano al limite.


Lumet cinge tutto il film in una fotografia lugubre, dove il nero divora volti e corpi di tutti i personaggi, creando uno spazio negativo pronto a conquistare l'intero schermo. I suoi soliti inserti onirici contrapposti alla verosomiglianza di storia e del resto della messa in scena, qui sono più marcati; largo spazio è dato alla manipolazione dell'immagine tramite la sovrapposizione e, soprattutto, al ralenty. L'effetto conseguente sembra un riflesso, appunto, dell'anima del protagonista, un evento reale filtrato dallo stato d'animo e restituito su schermo in modo deformato.
L'impostazione teatrale della scrittura viene rispettata e al contempo manipolata grazie all'uso dei movimenti di macchina e ai primi piani, sapientemente alternati ai campi lunghi che trasformato i set in un proscenio vero e proprio.


Laddove Connery dona la sua interpretazione più vivida, viscerale ma perfettamente controllata, altrettanto memorabile è il resto del cast, che ingaggia con lui una vera e propria gara di bravura.
"The Offence" è quindi un dramma crudo e durissimo, diretto magistralmente e interpretato in modo divino, uno dei capolavori di Lumet e un gioiello della Settima Arte che merita di essere riscoperto anche dal pubblico generalista, prova di come il kammerspiel sia un registro sempre verde quando ben scritto e diretto.

lunedì 9 novembre 2020

Alps

Alpeis

di Yorgos Lanthimos.

con: Stavros Psyllakis,  Ariane Labed, Arsi Servetalis, Johnny Vekris, Angeliki Papoulia, Efthymis Filippou.

Grecia, Francia, Canada, Usa 2011















Contrariamente a quanto si possa credere, il termine "persona" non indica direttamente il soggetto al quale si riferisce, ma alla sua personalità, a quell'insieme di identità e tratti caratteriali direttamente e facilmente riconoscibili all'esterno. Il termine stesso deriva dalla maschera usata nel teatro etrusco, ossia un oggetto che identifica "all'esterno" un essere umano di per sé stesso indeterminato, rendendolo conoscibile e riconoscibile dal pubblico.
Su questa dicotomia tra "essere" e "apparire" della persona, già sapientemente sviscerata da Bergman nel suo omonimo capolavoro, Lanthimos e il fido sceneggiatore Efthymis Filippou intessono una riuscita riflessione descrittiva sul rapporto tra l'individuo e i suoi cari e sulla sostituibilità dell'essere umano.



Quattro infermieri, privi di un nome proprio e che si identificano tra loro solo con i nomi dei picchi delle Alpi, offrono un singolare servizio, ossia il rimpiazzo virtuale del parente defunto, il quale viene "interpretato" nella sua quotidianità da uno di loro a scelta, come attori all'interno del palco del reale.
Persino i loro dialoghi ruotano attorno a chi sia l'attore preferito del loro interlocutore; e il loro nome, "Alpi", indica qualcosa di unico, inimitabile ossia non sostituibile, una beffarda allusione al ruolo di doppi che vanno a ricoprire.


La persona, sia intesa in quanto insieme dei tratti caratteriali che come essere umano, può essere ridotto ad una serie di gesti precisi, di attività e di parole. Il suo è, appunto, un ruolo recitato in un palco che non ha quinte o quarta parete; ne consegue la sostituibilità dell'interprete, ossia dell'essere umano ai quali gesti e parole sono attribuiti. Una volta morto un attore, questi viene sostituito da un altro, un soggetto al quale basta imparare il "copione" per svolgere lo stesso ruolo all'interno del nucleo familiare o relazionale. La persona, così intesa, non muore mai, può idealmente continuare a recitare la sua parte in eterno, ogni volta con un corpo e un volto diverso.



I quattro attori vengono così un po' alla volta svuotati della loro identità per essere riempiti da quella del caro estinto. Tuttavia, laddove l'identità è data da un mero insieme di gesti, si può davvero parlare di semplice sostituzione? Fin dove arriva quella interpretata e dove quella di chi la interpreta?
A differenza di Bergman, Lanthimos non cerca risposta a questo quesito, si limita ad osservare questo gruppo di individui collassare su sé stessi a causa di questa loro macabra attività. Non si sofferma neanche sull'elaborazione del lutto da parte dei committenti, lasciando che siano sempre gli attori ad occupare il racconto.



Il quale, sempre saldamente descrittivo, non trova una catarsi nel vero senso della parola, ma una reiterazione del concetto di "falsa identità" e dell'intercambialità della medesima. Se, da un lato, il personaggio di Angeliki Papoulia ha una crisi che la porta a trincerarsi meccanicamente all'interno dei suoi ruoli, quello di Ariane Labed, che pur ha un'identità propria determinata, inizia a vivere la medesima al pari dei ruoli che dovrebbe interpretare, danzando in modo meccanico e recitando battute ripetute sino alla nausea.



L'occhio di Lanthimos è al solito distaccato, alternandosi tra una plasticità nei campi lunghi inedita e in piani stretti claustrofobici, che ricercano una forma di veridicità vouyeuristica come nel precedente "Kynodontas". E la sua riflessione, glaciale e quasi ineluttabile, disturba nel profondo, riuscendo a lasciare positivamente spiazzati.

lunedì 2 novembre 2020

R.I.P. Gigi Proietti


1940 - 2020

E' stato certamente tra gli attori italiani più celebrati di sempre, ma ricordarlo come un grande caratterista è riduttivo. Proietti è stato un uomo di spettacolo a tutto tondo e ci ha regalato performance fantastiche sia su schermo (grande e piccolo) che a teatro. Senza contare le sue grandi prove come doppiatore.