lunedì 16 novembre 2020

Amarcord

di Federico Fellini.

con: Bruno Zanin, Alvaro Vitali, Ciccio Ingrassia, Magali Noel, Pupella Maggio, Armando Brancia, Nando Orfei, Josiane Tanzilli, Maria Antonietta Beluzzi.

Italia, Francia 1973
















Il percorso, umano e artistico, che ha portato Fellini ad "Amarcord" è lungo e già fecondo nei primi stadi della sua evoluzione. Tutto parte da "I Vitelloni" e trova una prima perfetta forma in "Roma". Dal 1953 al 1972, il lavoro sul ricordo si plasma un po' alla volta, sostanziandosi in rievocazione, re-immaginazione e immaginazione vera e propria applicati al passato. "Amarcord" è il punto di arrivo definitivo e definitivamente maturo di questo metodo, tant'è che i successivi film in cui l'autore lo applica (su tutti "La Città delle Donne" e "L'Intervista") non aggiungeranno nulla allo stesso.
"Amarcord" diviene così passato, vero e immaginario, che si riverbera sulla sostanza filmica, dove il regista plasma e riplasma i fatti filtrandoli attraverso la fantasia più che la memoria, trasformandoli in una fantasmagoria nostalgica e sottilmente idealizzante.


Laddove "I Vitelloni" portava in scena la tarda adolescenza, "Amarcord" porta invece su schermo la piena adolescenza, incarnata dal personaggio di Titta e dei suoi compagni. Questi "giovani Vitelloni" attraversano il ricordo della Rimini ciondolando a destra e a manca, sognando l'amore (Aldina) e il sesso (Gradisca, la Volpina, la Tabaccaia), mentre intorno il mondo lentamente muta.


Va innanzitutto sottolineato come il primo rimprovero che viene spesso mosso a Fellini per "Amarcord" è il modo in cui ha ritratto i fascisti: non c'è una critica diretta al regime, il che, nell'Italia degli anni '70, sembrava assolutorio. In realtà, basta rivedere la luna sequenza che li interessa per accorgersi di come la critica ci sia, in modo neanche troppo sottile.
Da una parte, il grande autore si limita a dipingere l'Italia per ciò che era, ossia una nazione ipnotizzata dall'idea di grandezza propria del P.N.F., con quei riti marziali spavaldi, le uniformi eleganti e il passo militare obbligatorio; un'idea di ordine puramente virtuale, sotto il quale le personalità misere dei cittadini della provincia di Rimini restano immutate; la camicia nera, in fondo, è un puro incarto per persone che nascono mediocri e restano mediocri per tutta la loro vita, esaltandosi solo perché ordinato loro. Il che, paradossalmente, è una lettura valida anche oggi.
Dall'altro Fellini di certo non cela la codardia del regime, con la scena del grammofono, che vede i forti patrioti neri impegnati ad un imbarazzante tiro al bersaglio, solo per poi incolpare il primo che passa, il padre di Titta, condannato all'olio di ricino.


L'idealizzazione, semmai, risiede nella rielaborazione del ricordo in toto, non riferita al solo periodo fascista, il quale, per forza, diviene visione onirica estetizzante del passato.
La descrizione della società passata parte dal nucleo familiare per allargarsi al paese intero. La famiglia di Titta viene ritratta, in primis, nella divertente scena del pranzo, con i battibecchi che divengono ritratto amorevole di un manipolo di personaggi i cui caratteri divengono iperbolici, sino a toccare la caricatura, ma senza mai scadere nello stucchevole. Su tutti, è il nevrotico capo famiglia a rubare la scena, perennemente in conflitto con chiunque capiti a tiro.
Menzione a parte merita la splendida sequenza dello zio Teo, interpretato da uno squisito Ciccio Ingrassia, durante il periodo in cui ruppe il sodalizio con Franchi. Un personaggio pietoso, ma che Fellini tratteggia con amore, rendendolo simpatico più che patetico, nella sua voglia di normalità che purtroppo non troverà mai realizzazione.


Coadiuvato da Tonino Guerra in sede di scrittura, Fellini intesse l'abituale racconto episodico e torna ad usare un punto di vista esterno agli eventi, prendendo per mano lo spettatore per portarlo all'interno della sua mente. Sovente buca la quarta parete, lasciando che i personaggi interagiscano con l'astante, come il personaggio dell'Avvocato, vera e propria "guida turistica della mente".
Nella rielaborazione, anche gli eventi storici perdono i tratti del reali per farsi astratti, vere e proprie visioni che filtrano il reale per il tramite della sensibilità individuale del narratore. Al di là del lavoro fatto con i riti del fascismo, è la scena del transatlantico Rex a divenire, alla fin fine, sequenza madre. Fellini comincia a narrarla facendo ricorso a location reali, ma man mano che le barche dei paesani si addentrano in alto mare, il paesaggio cambia, si fa più rarefatto, ricostruito in studio in modo visibilmente "fasullo", con le onde del mare ricreate con teli di plasitca. L'astrazione è rielaborazione artistica; laddove il cinema è sogno, quello di Fellini è (per quanto suoni ridondante) sogno del sogno che rielabora il ricordo, luogo perfetto in cui memoria e fantasia si confondo fino a divenire un tutt'uno.


Chiodo fisso per Fellini, Titta e tutto il gruppo di amici è la sessualità, descritta come esuberante, mai conturbante. Il sesso è gioia e le figure femminili hanno qui una sensualità inusuale, mai davvero sexy, eppure attraente; la loro femminilità è esagerata, sia sul piano fisico che come ruolo che giocano nelle fantasie dei ragazzi (ad esclusione di Aldina, il cui amore è romantico). Quella che comunicano è l'idea dell'amore e della sensualità, un'iperbole perfetta rappresentazione delle turbe adolescenziali rielaborate in chiave fantastica.


Così come le donne, tutti i personaggi del paese sono coloriti, dai lineamenti e dai gesti esagerati, quasi cartooneschi, come il Biascein o il preside, i cui tratti facciali sembrano quasi esplodere tanto sono marcati. Se il mondo di "Amarcord" è crocevia tra sogno e memoria, i suoi personaggi sono non tanto delle caricature o degli stereotipi, come pure si potrebbe obiettare, bensì degli archetipi, figure-tipo di un'umanità verace e irresisitibile, che trascende il tipico ruolo drammaturgico per farsi icona, maschera immediatamente riconoscibile.
Allo stesso modo, le loro storie sono favole visionarie, voci e gossip amplificate sino a divenire racconto fantastico, come l'episodio delle concubine o dell'incontro tra Gradisca e il principe.


La realtà della vita arriva solo nell'ultimo atto, con la morte della madre di Titta e il matrimonio di Gradisca, riti di passaggio verso un'età adulta che porta ad un superamento dello status quo, dei "luoghi comuni" del paese, che si spengono rimanendo solo ricordo e fantasia, ossia pura sostanza onirica.



In definitiva, la grandezza di Fellini è sita non tanto e non solo nel modo in cui porta in scena questa sarabanda di storie e personaggi, quanto nel tocco, che non diventa mai pedante o compiaciuto. "Amarcord" influenzerà praticamente ogni regista italiano a venire, ma mai nessuno riuscirà a riprodurre il perfetto equilibrio della formula originaria. Basti vedere, su tutti, i molti exploit consimili di Tornatore.

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