giovedì 12 novembre 2020

Riflessi in uno Specchio Scuro

 The Offence

di Sidney Lumet.

con: Sean Connery, Trevor Howard, Vivien Merchant, Ian Bannen, Peter Bowels, Derek Newark, Ronald Radd, John Hallam.

Drammatico

Inghilterra, Usa 1973
















---CONTIENE SPOILER---

Sidney Lumet è uno di quei cineasti che, non si sa per quale motivo, non vengono mai valorizzati a dovere, né citati tra i migliori. Eppure la sua filmografia, con titoli quali "La Parola ai Giurati", "Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani" e soprattutto "Quinto Potere" parla da sé. Lumet era un filmmaker in grado di coniugare impegno civile e politico con l'esigenza di raccontare storie complesse e mai banali, riuscendo a far riflettere nel profondo e, al contempo, utilizzando uno stile semplice eppure riconoscibile, benché in vita in pochi abbiano sottolineato quest'ultimo aspetto.
"Riflessi in uno specchio scuro" arriva poco prima del successo di "Quel Pomeriggio", in un periodo in cuiil suo nome era già relativamente famoso. In una trasferta inglese tutto sommato insolita per lui, abituato a dissezionare tematiche saldamente ancorate alla società statunitense benché al contempo universali, Lumet porta su schermo un dramma di John Hopkins, adattato su schermo dallo stesso autore, appoggiandosi sulle spalle di Sean Connery per portare in scena una storia torbida e affascinante. E riesce a creare una pellicola fosca e brutale, nella quale il divo scozzese offre quella che resterà la sua performance migliore.



Il detective Johnson (Connery) ha 20 anni di carriera sul groppone, durante i quali ne ha viste di tutti i colori. Indagando su di un caso di pedofilia, si ritrova faccia a faccia con il sospettato Baxter (Ian Bannen), con il quale va giù pesante. Il senso di colpa per averne probabilmente causato la morte è l'innesco perfetto per far venire a galla tutto il malessere che ha accumulato, il quale inizia a divorarlo.



Sarebbe facile etichettare "The Offence" come una semplice variazione sull'adagio nietszcheano "chi combatte i mostri deve guardarsi dal non diventare egli stesso un mostro"; in realtà, il discorso sul male intessuto da Lumet e Hopkins è un'ideale continuazione di quello del filosofo tedesco. Johnson non è un mostro, non nel senso convenzionale del termine. Se lo è stato, non lo è più, è andato oltre quella fase in cui la sua anima viene semplicemente intaccata dal male. Gli orrori che ha visto si sono accumulati al punto di non essere più sostenibili. La ragione, il distacco proprio del professionista, viene infranto dall'ultimo infausto episodio e tutto il malessere accumulato finisce per travolgerlo.


La struttura drammaturgica dello script non viene celata, ma inscritta in un contesto narrativo (soprattutto di stampo visivo) tipicamente filmico. Il male di Johnson emerge dal confronto con tre figure cardine della sua vita, in tre dialoghi susseguenti e progressivi.
La prima è la moglie (Vivien Merchant), la prima ad incontrarlo dopo l' "incidente" con Baxter. Nel tragitto verso casa, il detective ha una serie di visioni nelle quale rivive gli episodi più sconcertanti ai quali ha assistito; arrivato a casa, è già una persona diversa, sebbene il cambiamento si sia innescato già durante l'interrogatorio. 
Alla moglie, Johnson rimprovera la mancanza più ovvia, ossia quella del supporto amorevole e caritatevole in teoria proprio della figura femminile; traveste tale rimprovero come un insulto verso la bellezza della moglie, ma già dall'inizio è chiaro come voglia unicamente sfogarsi, tirare fuori quel marcio che lo sta corrompendo poco alla volta e il cui trionfo sembra ineluttabile.


Il confronto con il superiore incaricato di condurre l'interrogatorio sulla morte di Baxter, l'inflessibile Cartwright interpretato da uno strepitoso Trevor Howard, che fa a gara di bravura con Connery, porta il protagonista a scontrarsi con un suo primo doppio.
Anche Cartwright è un veterano, ma la sua posizione di ufficiale gli ha permesso di allontanarsi dalle strade, riuscendo ad isolarlo dagli orrori che i detective e i bobbies devono invece assimilare, cosa che gli viene subito rimproverata. Eppure, forse proprio per questo, lui è riuscito nell'impresa di scindere la sua personalità, dividendosi in un poliziotto durante gli orari di lavoro ed un uomo nel resto della giornata. Il male non lo corrode perché non riesce a toccarlo, essendo le sue due personalità distinte. Anche questo scontro diviene confessione, ammissione del fallimento di Johnson nel non essere riuscito a farsi inghiottire dalla negatività del mondo.



Il confronto essenziale avviene però con Baxter, al contempo punto di inizio e di arrivo della narrazione, così come della crisi umana e spirituale del protagonista.
Baxter è lo specchio scuro del bel titolo italiano, un uomo che ha accettato il male, ha lasciato che lo conquistasse ma non si è fatto consumare e, anzi, ha tratto nuova forza da esso. Baxter non ha sensi di colpa perché ha abbandonato ogni paradigma morale, superando la distinzione tra bene e male. Non ha importanza se sia davvero colpevole, lui è comunque malvagio. Confrontandosi con lui, Johnson comprende l'inescapibilità del male, l'impossibilità di assimilarlo senza cambiare, mutare in un essere immorale o quanto meno a-morale, che non prova rimorsi per le sue azioni, quasi un animale vestito da uomo. Da qui lo scandalo, la rabbia e la prevaricazione che lo portano al limite.


Lumet cinge tutto il film in una fotografia lugubre, dove il nero divora volti e corpi di tutti i personaggi, creando uno spazio negativo pronto a conquistare l'intero schermo. I suoi soliti inserti onirici contrapposti alla verosomiglianza di storia e del resto della messa in scena, qui sono più marcati; largo spazio è dato alla manipolazione dell'immagine tramite la sovrapposizione e, soprattutto, al ralenty. L'effetto conseguente sembra un riflesso, appunto, dell'anima del protagonista, un evento reale filtrato dallo stato d'animo e restituito su schermo in modo deformato.
L'impostazione teatrale della scrittura viene rispettata e al contempo manipolata grazie all'uso dei movimenti di macchina e ai primi piani, sapientemente alternati ai campi lunghi che trasformato i set in un proscenio vero e proprio.


Laddove Connery dona la sua interpretazione più vivida, viscerale ma perfettamente controllata, altrettanto memorabile è il resto del cast, che ingaggia con lui una vera e propria gara di bravura.
"The Offence" è quindi un dramma crudo e durissimo, diretto magistralmente e interpretato in modo divino, uno dei capolavori di Lumet e un gioiello della Settima Arte che merita di essere riscoperto anche dal pubblico generalista, prova di come il kammerspiel sia un registro sempre verde quando ben scritto e diretto.

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