venerdì 31 dicembre 2021

Spider-Man: No Way Home

di Jon Watts.

con: Tom Holland, Zendaya, Benedict Cumberbatch, Jacob Batalon, Marisa Tomei, Jon Favreau, Willem Dafoe, Alfred Molina, Jamie Foxx, Rhys Ifans, Thomas Haden Church, Andrew Garfield, Tobey Maguire, J.K.Simmons, Tony Revolari, Benedict Wong.

Fantastico/Azione

Usa 2021












---CONTIENE SPOILER---

Sono passati quasi vent'anni da quando lo "Spider-Man" di Sam Raimi ha creato il comic-movie moderno. Venti anni durante i quali un'intera generazione ha conosciuto un Uomo Ragno con il volto di Tobey Maguire e che combatte nemici classici quali il Green Goblin e il Dottor Octopus. E per la Disney questo significa una cosa sola: nostalgia, una delle emozioni più potenti con le quali ricattare il pubblico.
Il piano è chiaro e semplice: riportare in sala quegli spettatori che magari si sono allontanati dal filone grazie alla maturità, con la promessa di far rivivere loro quelle emozioni di infanzia così genuine e così lontane. Rivendendo, al contempo, i vecchi film al pubblico più giovane, per il quale Tom Holland è stato il primo Spider-Man filmico. La scusa è anche trita, con quel multiverso che veniva introdotto per la prima volta al cinema con quel "Un Nuovo Universo" che è ancora ora la migliore incarnazione dell'Arrampicamuri al cinema.
Mischiando i postumi della saga di "Civil War" con un finale alla "One More Day", "No Way Home" si pone così come continuazione di tutti gli Spider-Man filmici (tranne, paradossalmente, proprio quel "Un Nuovo Universo" che è stato principale fonte di ispirazione) per ridare al pubblico ciò che vuole. E nonostante uno script claudicante, l'operazione alla fin fine riesce.


La premessa della storia, già da sé, è abbastanza lacunosa: rivelata l'identità dell'Uomo Ragno da Mysterio, con J. Jonah Jameson a capo di una crociata mediatica contro l'eroe, la vita di Peter Parker è un macello, visto che è accusato della morte del villain. Perché Peter non abbia neanche cercato di spiegare al pubblico le vere intenzioni di Mysterio è... un mistero. Perché la gente dovrebbe indignarsi per un eroe in maschera che uccide in un mondo dove Iron Man ha ucciso tutte le sue nemesi, Capitan America ha ucciso (in effetti due volte) Brock Rumlow e, in generale, tutti gli Avengers non si fanno scrupoli a sporcarsi le mani con il sangue dei nemici è anch'esso un mistero. Perché poi l'FBI accusi Spider-Man, che, ricordiamolo, ha contribuito a salvare miliardi di vite, di "vigilantismo illegale" sempre in un mondo dove esistono Iron Man e Thor è il mistero supremo. Forse perché, a differenza di Tony Stark, è povero, chissà.
La trama di per sé stessa, poi, continua a zoppicare quando Peter si rivolge al Dottor Strange per rimediare al casino: perché un incantesimo di mesmerizzazione apra le porte del multiverso è, di nuovo, un mistero, forse perché per gli sceneggiatori pensano che la magia non debba operare neanche secondo le regole della sospensione dell'incredulità. Perché poi lo Stregone Supremo sbagli un incantesimo a causa di un ragazzino petulante... beh, più che l'ennesimo mistero è semplicemente la prova di come Steven Strange sia in realtà il pirla supremo.
Tolta la premessa, pura scusa per avviare gli eventi, ecco tornare tutti i volti familiari alla serie: il Green goblin di Dafoe, l'Octavius di Molina, Jamie Foxx, ora di nuovo avvenente, come Electro, senza dimenticare Flint Marko e Lizard e, a metà film, anche Andrew Garfield e Tobey Maguire. 
Paradossalmente, è proprio qui che il film funziona.


Kevin Feige e Amy Pascal hanno concepito il tutto come un prodotto da vendere, ma fortunatamente gli sceneggiatori sono riusciti a donare un minimo di calore ai personaggi. Tom Holland ora può mostrare di avere più di un'espressione e quando è chiamato a recitare sul serio riesce a stupire, sfoggiando un'intensità inedita. Tobey Maguire è più espressivo qui che in tutti e tre i film di Raimi messi assieme, usando uno stile sobrio con il quale fa trasparire le emozione grazie ai soli sguardi. Mentre Garfield continua a divertirsi come un matto. E, spaccata la maschera, Willem Dafoe presta finalmente anche il volto al Goblin creando un villain inquietante, che buca lo schermo ogni volta che appare e il cui look, molto anni '90, funziona a dovere, per una volta.


Anche nella seconda parte lo script inciampa a tratti, con Lizard e l'Uomo Sabbia che diventano cattivi di punto in bianco e con una macchina di Tony Stark che esce dal nulla per risolvere tutto. Ma riesce a riservare la più grande delle sorprese: finalmente anche lo Spider-Man di Tom Holland viene umanizzato. Se nel primo film il suo era il personaggio di un ragazzino che vuol fare colpo su di un'improbabile figura paterna, nel secondo un tizio spaesato dalle responsabilità che gli sono piovute addosso nel più incredibile dei motivi, qui si allinea alla bontà dei suoi alter ego del passato e, anzi, ne supplisce persino le carenze, tentando di salvare quei villain che, nei film d'origine, venivano lasciati morire, spesso in modo gratuito, come, amaramente, con il Doc Ock di "Spider-Man 2". La chiamata alla responsabilità avviene nel modo più ovvio possibile, ma è lo stesso ben accetta. E quando i tre uomini ragno interagiscono, confrontando i propri punti di forza e debolezze, il film funziona alla meglio, riuscendo a far trasparire il meglio del personaggio.


"No Way Home", inutile dirlo di nuovo, è una mera operazione commerciale con la peggiore delle intenzioni, ma finisce con l'essere il miglior Spider-Man del MCU. Un'attenzione maggiore ai dettagli avrebbe giovato, ma anche così persino lo spettatore più esigente troverà qualcosa di buono in un film fatto di emozioni più che di scontri.

martedì 28 dicembre 2021

Don't Look Up

di Adam McKay.

con: Leonardo DiCaprio, Jennifer Lawrence, Rob Morgan, Meryl Streep, Jonah Hill, Cate Blanchett, Melanie Lynskey, Kid Cudi, Tyler Perry, Mark Rylance, Timothée Chalamet, Ron Perlman, Ariana Grande, Michael Chiklis, Himesh Patel.

Usa 2021












Qual'è l'aspetto peggiore della pandemia? Sarebbe facile puntare il dito sui morti, ma, per quanto cinico sia da dire, la morte è l'aspetto più scontato. No, se c'è una cosa davvero mostruosa che la pandemia ha evidenziato è la frammentazione ideologica e sociale del XXI secolo. Non c'è coesione sociale, nazionale o anche solo familiare che tenga, ognuno pensa, in un modo o nell'altro, a sé stesso, prigioniero di una serie di idee che spesso sono bacate, puri pregiudizi supportati dal nulla.
Adam McKay, con "Don't Look Up" fa il punto della situazione con una metafora che in realtà metafora non è, urlando il suo punto di vista e esacerbando come al suo solito i toni; ma, è il caso di dirlo, riesce perfettamente nel ritrarre una società allo sbando.


Sostituiamo il Covid con una cometa in rotta di collisione con la Terra, il risultato non cambia. Gli scienziati, interpretati da DiCaprio e dalla Lawrence, cercano di avvertire prima le autorità, poi il pubblico, con risultati inconsistenti.
McKay punta il dito praticamente contro tutti. Dapprima la classe politica, incarnata da quel Presidente con il volto di Meryl Streep, un po' Trump, un po' la Clinton, preoccupata solo delle elezioni e di come il suo look influenzi i voti. Poi contro la classe dirigente, quei supermiliardari reminiscenti di Steve Jobs la cui eccentricità non è sinonimo di genio, ma di pura rapacità. I mass media, pronti a trasformare in pura narrativa un evento reale. Ed ovviamente noi, il popolo, inteso come persone, preoccupati solo di scrivere fesserie su Internet, incapaci di somatizzare una notizia senza andare nel panico e pronti a negare l'evidenza per il gusto di farlo.


I social media, ma anche i mass media in genere, in questo caos hanno la responsabilità maggiore. La televisione travisa le notizie per renderle innocue, facilmente digeribili da un pubblico oramai anestetizzato a tutto; mentre i social si fermano alla superficie delle cose, al modo in cui le persone vestono piuttosto a ciò che dicono, alla loro avvenenza piuttosto che al pericolo contro cui ci avvertono. Noi, in quanto utenti e persone, non siamo maturi, non siamo capaci neanche di quello spirito di autoconservazione proprio di ogni specie vivente, sostituito dalla curiosità verso le fesserie, verso le vita amorosa di Ariana Grande e Kid Cudi, doppi di tutte le pop star deficienti e ignoranti perfetti idoli di persone vuote.


Il dito è ovviamente puntato specialmente contro i negazionisti, i no-vax e tutti quei gruppi di persone che, spesso dall'alto di una conoscenza quasi nulla dell'argomento, si permettono di criticare chi ne sa più di loro sulla base del nulla, di concetti trovati per caso su Google e sui forum di complottisti e privi di ogni fondamento scientifico o talvolta anche solo logico, che arrivano a negare l'esistenza della catastrofe solo per darsi un tono.
Da qui la divisione, il caos cavalcato dalla classe dirigente per i propri scopi, l'ignoranza usata come arma per affermare il proprio status-quo, con il trionfo di chi ha già il potere e la sconfitta dell'umanità tutta.


In mezzo al marasma, i due scienziati sono gli unici a salvarsi, anche se in modo relativo. Certo, anche loro hanno i propri difetti e idiosincrasie, ma sono, alla fine della fiera, gli unici ad avere ragione. E McKay, per una volta, depone il cinismo per un finale più sentito, dove ritrova un vero sentimento di empatia verso questi due profeti della sventura e il loro destino avverso, facendo filtrare quella simpatia che molto spesso alla satira manca e lasciando il freddo in parte fuori dalla porta.


Il punto di riferimento sembra in questo caso l' "Idiocracy" di Mike Judge, oramai divenuto un cult, spiace dirlo, per la sua attualità. Ma lo stile di McKay è più asciutto, conduce la catastrofe come un vero dramma e la immerge in un contesto dato da personaggi che potrebbero essere tranquillamente definiti caricaturali se non fossero maschere realistiche di controparti drammaticamente reali.
La satira, di conseguenza, funziona a dovere e la narrazione non è mai davvero fredda. "Dont' Look Up" finisce così per essere un perfetto specchio del nostro tempo. Verrebbe quasi da dire "deformato", se non fosse che l'esagerazione grottesca e quantomai credibile. Purtroppo.

venerdì 24 dicembre 2021

Tokyo Godfathers

Tokyo Goddofazzazu

di Satoshi Kon.

Animazione/Drammatico/Commedia

Giappone 2003

















E' sempre doloroso ricordarlo, ma Satoshi Kon ci ha davvero lasciati troppo presto, con poco più di un pugno di regie: quattro film, una magnifica serie televisiva ("Paranoia Agent") e il mai realizzato "Yume Miro Kikai" che, nonostante gli sforzi dei colleghi e amici, forse non vedrà mai il buio della sala; ma la sua eredità è immane, con praticamente ogni sua opera che ha lasciato un segno nel panorama dell'animazione nipponica e non solo.
Tutte opere che sono bene o male accomunate dalla tematica dell'inconscio, con la dissociazione identitaria causata dallo stress ("Perfect Blu"), la paranoia acuita anch'essa dallo stress che porta a questionare la realtà oggettiva ("Paranoia Agent"), il ricordo come viatico per rivivere una vita emozionante e oramai agli sgoccioli ("Millennuim Actress") o il sogno come manifestazione del subcosciente che diviene mondo da esplorare ("Paprika").
E poi c'è "Tokyo Godfathers" che spicca come una vistosa eccezione, proprio lì, nel perfetto centro della sua carriera. Un'opera anomala nel suo essere totalmente classica, una storia che si allontana dal registro ossessivo abituale per abbracciare i canoni della "dramedy" o, più precisamente, della favola natalizia.


Tra le festività di Natale e Capodanno, in una Tokyo innevata, i tre senzatetto Gin, Hana e Miyuki trovano tra i rifiuti una neonata; dapprima riluttanti, i tre, spinti soprattutto dall'entusiasmo di Hana, decidono di ritrovare i genitori della piccola, cominciando una stramba e surreale odissea tra le strade di Shiba-Koen.
Al centro di tutto, c'è la famiglia. Una famiglia anomala, quella composta dai tre protagonisti: Gin è un uomo di mezza d'età che mente riguardo al suo passato, Hana è un omosessuale, ex performer di un locale di okama che ha perso il compagno ed è caduto in disgrazia, Miyuki un'adolescente che si è allontanata drammaticamente dalla famiglia. Un padre burbero ed in fuga dalle responsabilità, una madre che non può generare figli ma che ha tutto dell'istinto materno ed una figlia chiamata suo malgrado a prendersi delle responsabilità e, al contempo, a vivere al centro di un nuovo nucleo famigliare.


Intorno a loro, il caos di una serie di famiglie in sfascio; le loro famiglie, in primis, dalle quali si sono allontanati in un modo o nell'altro. La famiglia del capo clan yakuza, che si sta allargando verso un nuovo membro mal voluto; quella degli immigrati brasiliani, divisa dalla lontananza, quella dei veri genitori della bambina, distrutta dal dramma. E poi c'è la bambina, una "messaggera di Dio" vera e propria.


Ribattezzata Kyoko in onore alla purezza della notte di Natale, è un vero e proprio deus ex machina che ricongiunge le unità divise verso un nuovo insieme, sposta i personaggi verso le destinazioni necessarie e li salva da un fato avverso. Una forza del karma, del destino o di Dio a seconda delle proprie credenze, è per l'autore il vero motore degli eventi, come il dio platonico "motore immobile" che fa muovere i personaggi là dove sono necessari. Attorno ai personaggi, un mondo dove sembra sia il caos a governare gli eventi, che si susseguono spesso a spese dei personaggi, con la bambina a fare da unica forza ordinatrice.


La Sacra Famiglia diviene così un modello che prende forma dal vivo tra le strade di Tokyo. Se i tre protagonisti guardavano la nascita di Cristo nella prima scena in modo annoiato, come per magia si ritrovano a dover vivere una storia simile. Storia che, muovendo dalla base della ricongiunzione tra esseri umani ed il superamento del male del passato, è perfettamente riconducibile allo spirito cristiano, per paradosso puro anche più di tanti film natalizi americani, rei, spesso, di traviarne il messaggio su coordinate laiche, se non addirittura verso valori che con il Natale hanno poco o nulla a che fare. Tanto che, con la sua aura di misticismo, "Tokyo Godfathers" finisce per essere una perfetta favola natalizia, vicina alla tradizione sebbene proveniente da un Paese dove il cristianesimo ha attecchito in modo del tutto originale.



"Tokyo Godafathers" è una commedia agrodolce irresistibile, pregna di umanità, che riesce ad essere coinvolgente senza scadere nel melenso o nel ricattatorio. Un film di buoni sentimenti genuino, puro come la neve candida ed estremamente sincero, un perfetto film natalizio.

lunedì 20 dicembre 2021

Matrix Revolutions

The Matrix Revolutions

di Lana & Lily Wachowski.

con: Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss, Laurence Fishburne, Hugo Weaving, Mary Alice, Tanver K.Atwal, Bruce Spence, Lambert Wilson, Monica Bellucci, Harry Lennix, Helmut Bakaitis, Ian Bliss, Collin Chou, Nona Gaye, Harold Perrinneau, Jada Pinkett Smith, David Roberts, Clayton Watson, Anthony Wong, Nathaniel Lees.

Azione/Fantascienza

Usa 2003








---CONTIENE SPOILER---


Il fandom di "Matrix" (o quello che ne resta) tende a definire "Revolutions" come il peggiore della trilogia; il che è in realtà ingiusto se si pensa che, a differenza di "Reloaded", lo script di "Revolutions" ha almeno una trama che si sviluppa in modo coerente e non è un semplice pretesto per poter inanellare sequenze d'azione. Ovviamente ciò non lo rende comunque un buon film o anche solamente un film riuscito, visto che si porta dietro tutti i difetti del predecessore e ne sfoggia altri inediti.


Come sempre è proprio lo script a riservare le maggiori perplessità (per non chiamarle risate). Neo si è "dissociato" da se stesso ed è finito in una specie di Matrix "altra", simile a quella usata dagli umani per gli addestramenti. Come possa un uomo connettersi alla rete in modo del tutto naturale resta un mistero, evidentemente l'eletto ha il wi-fi incorporato. Nel limbo scopre due programmi che hanno avuto una figlia; al quesito riguardo come possano due programmi sapere cos'è l'amore, si risponde che "amore" è solo una parola, ciò che davvero conta è l'interazione che essa rappresenta... perfetto, ma come fanno due software a provare attrazione? Lungi dalle Wachowski cercare anche solo di riflettere in modo efficace sull'argomento, ma per lo meno possono andare fiere del fatto di aver anticipato un tema che il loro idolo Mamoru Oshii avrebbe trattato solo nel successivo "Innocence: Ghost in the Shell 2".
Il limbo dovrebbe inoltre essere una sorta di "anticamera" attraverso la quale i programmi "loschi" contrabbandano cose e persone in Matrix... perché? Contrabbandare da dove? Un ingresso illegale stile quello degli umani è precluso alle macchine?


Neo, dal canto suo, ha acquisito il potere di controllare le cose anche fuori da Matrix e riesce a distruggere un esercito di seppie con il solo pensiero... ma per qualche motivo è del tutto impotente dinanzi ad un avversario umano armato solo di bisturi... evidentemente in quella scena si era scordato di essere Superman con la telecinesi. Fatto sta che ad un certo punto perde la vista, ma continua a vedere grazie ad una sorta di veggenza, perché Frank Herbert ancora non lo avevano citato. Poi Trinity muore, ma Neo questa volta non la riporta in vita perché c'è bisogno di un minimo di drammaticità per introdurre l'ultimo atto, o almeno così sembra.
Grazie all'Oracolo, la verità sull'eletto viene finalmente rivelata: oltre ad essere un anomalia che sfugge ai calcoli dell'Architetto, è anche uno strumento dell'Oracolo per portare instabilità nell'equazione di Matrix. Ma l'instabilità non era connaturata all'equazione stessa? E, ancora, perché un programma delle macchine dovrebbe complottare contro le macchine stesse? Quando poi si cercano di spiegare i superpoteri di Neo nel mondo reale... semplicemente non si spiegano, l'Oracolo si limita a dire che ciò è possibile perché l'eletto trascende Matrix, qualsiasi cosa significhi.


In tutto questo, l'agente Smith è l'anti-Neo, anch'egli un super-essere che... deve distruggere Matrix? E se è vero che ci sono stati altri eletti e altri conflitti, sono finiti davvero tutti allo stesso modo? Possibile? Non è comunque un rischio troppo grande per l'egemonia delle macchine? Il tutto, ovviamente, è una scusa bella e buona per reiterare una rivalità che aveva senso solo nel primo film e che qui torna a causa della totale mancanza di idee. Tanto che la risoluzione del conflitto è alquanto ambigua: il bene vince sul male facendosi assimilare e distruggendo il male dall'interno? O è la forza dell'amore a salvare la situazione? E in cosa consiste questo "amore"? Nei fatti, giusto un concetto buttato lì per cercare uno scopo in un racconto del tutto risibile. L'importante è creare un combattimento roboante, ma che per tutti i motivi di sopra risulta freddo e stupido.


L'ambizione delle Wachowski questa volta travalica la mera azione e le porta ad inserire una scena di guerra vera e propria. La battaglia di Zion, a metà film, è grande e rumorosa, ma non riserva veri colpi di scena o morti drammatiche, finendo per essere giusto un grosso e sfavillante riempitivo. E anche qui lo script zoppica: possibile che tra le difese di Zion, l'ultimo bastione dell'umanità, non ci fosse un congegno EMP, ossia l'unico strumento efficace contro le seppie? Si, è possibile, altrimenti la battaglia sarebbe durata troppo poco.


Il simbolismo è fuori controllo. Neo, già eletto e profeta cieco che vede tutto, diventa angelo salvatore/figura cristologica ritratta in un modo talmente barocco da far sembra la cristologia che si sarebbe vista ne "L'Uomo d'Acciaio" come sottile. Smith è il diavolo, il male assoluto perché si, fatto delle fiamme dell'Inferno e in grado di concupire chiunque... e quando ride sfacciatamente, le Wachowski creano una delle inquadrature più involontariamente ridicole che si siano mai viste.
In generale, questo terzo capitolo si sforza di essere grande e intelligente, ma alla fine risulta solo ridicolo e a tratti noioso; tant'è che alla fine, a parte il ridicolo imperante, a restare impressa è solo l'immagine di Monica Bellucci strizzata nel completino di pelle.


L'eredità dei sequel è stata immane: "Matrix" è letteralmente scomparso dalla coscienza collettiva. Quello che un tempo era considerato un testo sacro della fantascienza (e non solo) è diventato un vecchio esercizio di pretenziosità estetica, stilistica e narrativa. Almeno fino al prossimo avvento di "Matrix Resurection".

venerdì 17 dicembre 2021

Diabolik

di Antonio & Marco Manetti.

con: Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea, Claudia Gerini, Alessandro Roja, Serena Rossi, Roberto Citran, Luca Di Giovanni.

Noir

Italia 2021
















Aspettando che la Bonelli decida di dare forma filmica concreta (e dignitosa) ad una qualsiasi delle sue proprietà intellettuali, a cercare di tenere vivo il filone dei comic-movie in Italia ci pensa, come al solito, il Re del Terrore, che dopo una travagliatissima gestazione, un vero e proprio development hell durato quasi dieci anni, torna in sala a quasi 60 anni dall'exploit di Mario Bava.
Ad avere l'onore e l'onere di rendere giustizia al ladro in nero delle sorelle Giussani, alla fine l'hanno spuntata i Manetti bros., che con un occhio agli albi originali e uno al loro ormai classico stile, creano una storia divertente che, tutto sommato, rende giustizia al mito a cui si ispira.


Storia che viene divisa in due parti. Nella prima assistiamo all'incontro tra Diabolik e Eva Kant, al loro corteggiamento, soprattutto alla creazione del mito di Diabolik, con la sua fama di "mostro" che lo precede, con una costruzione da thriller dove la regia strizza l'occhio proprio a Bava e alla sua rielaborazione delle influenze hitchcockiane.
Nella seconda, più ritmata, viene ricostruito il primo colpo del Re del Terrore con la sua bionda femme fatale, in un heist movie talmente puntuale nella costruzione da divenire quasi parodistico, anche se diretto con una forma di serena serietà.


E' proprio lo stile dei Manetti a conferire a tutta l'operazione un'aura di originalità. 
La recitazione dei personaggi secondari è volutamente teatrale, caricata sino al caricaturale, trasformandoli in macchiette dalla sicura piattezza, ma dalla grande espressività. Di tutt'altro calibro e direzione sono invece le performance dei tre protagonisti. Marinelli come al solito sorprende con un'interpretazione laconica, trattenutissima: il suo Diabolik parla poco e non lascia trasparire emozioni, è una macchina dedita al furto che, come in un polar, lascia le emozioni sepolte sotto una maschera di inespressività. Eva Kant, nelle mani di Miriam Leone, diventa una donna in cerca di emozioni forti, controaltare espressivo allo stoicismo del partner; e perfino Valerio Mastandrea per una volta perde la sua proverbiale espressione annoiata (forse perché non deve interpretare il fratello malato di Marco Giallini per l'ennesima volta) e crea un Ginko pacato ma implacabile, perfettamente credibile e riuscito.



La storia bene o male funziona, sia per i neofiti che per gli appassionati: i primi riusciranno davvero ad apprezzare in pieno la statura iconica del personaggio, i secondi ritroveranno tutti i suoi punti di forza. E dare quel qualcosa in più, ci pensa lo stile.
I Manetti ricreano la fine degli anni '60 in modo efficace, con una tendenza estetizzante attentissima ai costumi e alle scenografie, tutte rigorosamente d'epoca. Complice anche la scelta di lasciare le ambientazioni originali, "Diabolik" finisce così per vivere in un limbo fuori dal tempo e dallo spazio, come il "Batman" di Burton, trovando una propria cifra stilistico estetica che ha un unico limite nella scelta, azzardata e perdente, di usare la camera a mano per le sequenze dialogiche, persino nei master, che fa scadere in parte l'efficacia stilistico-estetica.
Piuttosto che abbracciare il campo come faceva Bava, i Manetti conducono la storia in modo serio, lascinado che siano le singole situazioni a conferire un'aura ironico al tutto; e la sensazione di esagerazione viene restituita anche dall'ottimo registro musicale, perfettamente d'antan nello score e con canzoni che sembrano davvero uscite da un juke-box dell'epoca. Pur tuttavia, la giustapposizione tra serietà ed estetizzazione crea un effetto che può essere recepito come straniante.


Ne consegue un film anomalo, un comic-movie che rende giustizia alla fonte, ma che a causa del suo stile particolare potrebbe risultare indigesto al pubblico meno preparato. Il che è un peccato, perché il lavoro svolto dai Manetti è in un certo senso inappuntabile e trasuda amore per la cultura popolare da ogni fotogramma.

giovedì 16 dicembre 2021

E' stata la mano di Dio

di Paolo Sorrentino.

con: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Marlon Joubert, Massimiliano Gallo.

Drammatico

Italia 2021














Arriva anche per Sorrentino il momento della ricerca del tempo perduto, dell'amarcord, della rielaborazione del ricordo del passato in forma filmica. Una nuova maturità artistica? Può darsi, fatto sta che "E' stata la mano di Dio" è un film diverso dagli altri nella sua filmografia, un film dove la polemica lascia spazio all'elegia, un film intimista e dal tono dimesso, sicuramente piccolo, ma solo nel registro.


Napoli, anni '80. La vita dell'autore prende la forma di quella del giovane Fabietto Schisa (Filippo Scotti), ragazzo dalle vaghe aspirazioni, membro di una grande e affiatata famiglia, la cui vita viene sconvolta da un lutto improvviso.
Sorrentino scinde idealmente il racconto in due parti, con la tragedia a fare da spartiacque. La prima parte è disimpegnata, simpatica. Qui ritorna il suo gusto per i personaggi sopra le righe e le situazioni surreali, con Fabietto alle prese con la provocante zia e le riunioni di famiglia quasi grottesche. I personaggi sono al solito caricaturali, ma anche con quelli più negativi, il tratto con cui vengono dipinti questa volta non è del tutto negativo, non si cerca la polemica tramite la raffigurazione ostile di archetipi o stereotipi. Lo sguardo è sempre benevolo, quello di un adulto che ricorda un passato che ha assimilato e superato.


Ed è nella prima parte che si affaccia il fantasma di Fellini. Questa volta, Sorrentino quasi da corpo al suo nume tutelare e si diverte a ricreare una serie di provini con le famigerate "facce" felliniane. Ma il suo amarcord, questa volta, si tiene più ancorato al veritiero, lontano dalla rielaborazione fantastica. Ecco così affacciarsi un altro nume tutelare, quello di Sergio Leone, della sua "ricerca del tempo perduto" proustiana del capolavoro "C'Era una volta in America", questa volta ancorato totalmente ad un racconto reale e quanto più veritiero possibile. L'assurdo, di fatto, è confinato al prologo e all'epilogo e quest'ultimo, più che al grottesco, si rifà al simbolismo classico, con un omaggio questa volta diretto nuovamente a Fellini e al suo "I Vitelloni", ossia l'opera il cui il grande artista dava una forma più terrena e verosimile al ricordo.


Il ricordo è quello della Napoli degli anni '80, ovviamente, dei sussulti per Maradona, del suo culto ai limiti del religioso e della forza salvifica del caso o del destino ad egliassociato. E se nella prima parte Sorrentino gioca ancora con le inquadrature e qualche movimento di macchina (senza però mai oltrepassare il limite del virtuosismo), nella seconda il tono si calma, si fa sommesso, il discorso diventa sussurro, il ricordo si fa amaro, lo stile, di conseguenza, dimesso.
La ricerca del tempo perduto si fa romanzo di formazione, presa di coscienza per protagonista di sé stesso e del suo futuro, oltre che dello stato delle cose. Arriva così la figura di Antonio Capuano, quasi una coscienza del Sorrentino maturo, che sfata ogni mito possibile e immaginabile sul cinema e l'arte e si fa confessione diretta al pubblico, dichiarazione di intenti di un uomo che decide di mettere nero su bianco il suo pensiero, forse il pezzo di cinema più autentico di tutta la filmografia dell'autore.


La Napoli di Sorrentino è, per forza di cose, diversa dalla Roma vista in "La Grande Bellezza"; Roma era la città magica e decadente, il luogo che ha accolto un autore oramai maturo; Napoli è un'entità viva, che ha i propri santi protettori, i propri miti e le proprie usanze. Ma, ancora, Sorrentino non calca la mano nella sua descrizione, non spettacolarizza gli ambienti o le vedute, lasciando che la bellezza filtri da inquadrature misuratissime, colpi d'occhio rapidi e forse per questo incredibilmente incisivi. E' la Napoli del ricordo, ovviamente, e dell'esperienza personale, dove anche i criminali sono brave persone e non si usa mai la parola "Camorra"; ma non per questo, una Napoli altrettanto autentica, dipinta in modo amorevole e a suo modo sincero.


Messa da parte l'ossessione per la forma, il cinema di Sorrentino trova una slancio del tutto personale. "E' stata la mano di Dio" non è, forse, il capolavoro tanto sbandierato, ma con il suo tono pacato e la sua storia intimista, è tra le prove più riuscite dell'autore napoletano.

mercoledì 15 dicembre 2021

La Voce della Luna

di Federico Fellini.

con: Roberto Benigni, Paolo Villaggio, Nadia Ottaviani, Marisa Tomasi, Sim, Angelo Orlando, Nigel Harris, Dario Ghirardi, Vito.

Italia, Francia 1990















Presentato al Festival di Cannes del 1990, "La Voce della Luna" venne ampiamente fischiato (con sommo sconcerto di David Lynch, lì per presentare il futuro vincitore "Cuore Selvaggio"). La critica fu talvolta feroce e quello che, purtroppo, divenne il film testamento di Fellini è ancora oggi ricordato come una delle sue prove più incolori. Il che è anche vero: si tratta di un'opera che vive di alti e bassi, di ottime intuizioni e sequenze irresistibili affiancate ad altre abbozzate o poco riuscite. Proprio per questo è tutto sommato sbagliato bocciare in toto un film a tratti decisamente poetico.


Ivo Salvini (Benigni) è un giovane da poco dimesso da un ospedale psichiatrico. Sente le voci, voci che viaggiano nel vento e vengono dai pozzi, dai quali è attratto, alla ricerca, forse, di una verità ulteriore, più profonda, che va al di là del visibile.
Il prefetto Gonnella (Villaggio) è un anziano, ex uomo di potere, ora afflitto da paranoia e da un'innata paura della morte, materializzata come paura degli anziani.
Ivo è un giovane Fellini, che vive in un mondo poetico, del tutto interiore, che proietta in quello esterno per abbellirlo, elevarlo dalla bruttura della modernità (la fabbrica, la chiesa dall'orrenda architettura moderna, gli onnipresenti cartelloni pubblicitari) verso un immaginario salvifico. Allo stesso modo, Gonnella è il vecchio Fellini, perso nella contemplazione di un altro mondo immaginario, questa volta orrendo, pronto ad inghiottirlo e che non gli riconosce mai la dovuta dignità. Entrambi sono innamorati, Gonnella di sua moglie, Ivo della bella Aldina, la luna, l'oggetto del desiderio inarrivabile, modellato come una giovane e bella Giulietta Masina. 
Benigni, per una volta diretto da qualcuno, abbandona gli istrionismi e concede una prova equilibrata, quasi trattenuta (come già fece in "Chiedo Asilo" di Ferreri), oggi ancora più preziosa visto la svolta gigionesca che prenderà la sua persona negli anni. Villaggio, invece, mette il suo istrionismo al servizio del personaggio, creando una maschera tragica di rara bellezza, giustamente premiata con il David.


Nel peregrinare di Ivo per le campagne ed il paesino, Fellini intesse una riflessione che continua i discorsi avviati negli ultimi anni della sua carriera. Il cambiamento culturale dato dalla televisione trova spazio anche nel finale, con la luna, ossia l'oggetto impossibile, che non da risposte e passa alla pubblicità; ma lo spirito dei tempi più forte si ha nella scena della discoteca: mentre una gioventù post-punk e quasi neo-goth balla sulle note di "The Way you make me feel" di Michael Jackson, il giovane Fellini si perde tra di loro, contemplando ed esaltando la bellezza delle donne, mentre il vecchio Fellini dapprima si scontra con il nuovo, per poi abbandonarsi alla fantasia, ad un ultimo ed emozionante walzer con l'amore eterno della sua vita.


Le visioni felliniane ritornano puntuali, ma non tutte sono all'altezza. Di sicuro la più riuscita è quella dell'insaziabile moglie che porta il povero ed indifeso marito a rifugiarsi sul tetto, vero e proprio omaggio alla donna come entità totalizzante. Torna la rielaborazione del passato, con l'episodio sull'infanzia di Ivo, il cui soprannome "Pinocchio" preconizza il doppio futuro di Benigno con il romanzo di Collodi; ma questo "amarcord", per forza di cose, non ha la forza o l'incisività di quelli del passato.
In generale, è proprio l'inconsistenza e l'altalenanza ad impedire a questa fantasmagoria di brillare davvero. Il forte uso dell'improvvisazione, con una sceneggiatura che era puro canovaccio, ha portato ad una forma di messa in scena libera da costringimenti, ma del tutto incapace di restituire la poetica di Fellini, la quale si ritrova ancora, ma che non ha né la forza immaginifica di un "Satyricon", nè quella distruttiva di un "Casanova".
La forza visionaria delle immagini, per lo meno, è intatta. L'occhio dell'artista è sempre vivo, pronto a cogliere la forma migliore di corpi e ambienti in movimento e ritrarli alla perfezione, anche se talvolta mancano immagini davvero potenti e memorabili.


"La Voce della Luna" finisce così per essere il lascito di Fellini, una fantasmogoria ultima e più piccola rispetto al passato, per una carriera che finisce in un sussurro, flebile eppure curioso. Un'opera che riflette su sé stessa così come Fellini riflette su tutto ciò che ha detto e fatto e che giunge ad un'unica e ultima conclusione, vero e proprio epitaffio di incalcolabile valore e struggente attualità: a volte è meglio fare silenzio, per meglio sentire ciò che ci circonda.

venerdì 10 dicembre 2021

Matrix Reloaded

The Matrix Reloaded

di Lana & Lily Wachowski.

con: Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss, Laurence Fishburne, Hugo Weaving, Lambert Wilson, Monica Bellucci, Gloria Foster, Randall Duk Kim, Nathaniel Lees, Collin Chou, Harry Lennix, Jada Pinkett Smith, Harold Perrineau, Clayton Watson, Anthony Brandon Wong, Helmut Bakaitis.

Azione/Fantascienza

Usa 2003










All'indomai della sua uscita in sala, "Matrix" divenne un fenomeno popolare, oltre che un legittimo cult. I fan andarono oltre quello che nel film era effettivamente mostrato e, spronati dagli spunti che avevano effettivamente ispirato il duo di registe, trovarono significati nascosti e simbolismi astratti nelle peripezie di Neo, Morpheus e Trinity. "Matrix" diventa così la cosiddetta "Bibbia del XXI secolo", un pezzo di cinema che si fa testo filosofico a sua insaputa, ispirando masse di complottisti a formulare le più disparate teorie gnoseologiche ed esistenziali. Nulla che, in realtà, 50 anni di fantascienza post-moderna non avessero già fatto, ma in qualche modo il fenomeno si popolarizzò sino all'estremo.
Le Wachowski, dal canto loro, avevano grandi piani per la loro opera. "Matrix" non doveva essere più un semplice film, ma il primo tassello di una trilogia che potesse rivaleggiare con "Star Wars" e la allora recente saga del "Signore degli Anelli". Joel Silver e la Warner accolsero a braccia aperte l'idea di creare ben due sequel ad un film di successo, ma questa continuazione non sarebbe stata una semplice storia filmica, bensì un dittico con un'unica, grande e complessa trama, affiancato da un prequel e degli spin-off prodotti sotto forma di cortometraggi anime, da far dirigere ai migliori autori del medium sulla piazza, oltre che un videogame che narrasse una storia parallela, ad integrazione di quella narrata sul grande schermo.


"Matrix Reloaded" e "Matrix Revolutions" arrivarono in sala nel 2003, a distanza di sei mesi l'uno dall'altro ed il risultato fu sconvolgente: laddove il primo film era un perfetto mix di thriller e azione che usava ispirazioni filosofiche per portare avanti una storia prettamente di genere e che per questo funzionava perfettamente, i due sequel sono tanto ambiziosi sul piano narrativo, contenutistico ed estetico quanto goffi nell'esecuzione, sgraziati nello stile, afflitti da dialoghi tanto pretenziosi quanto risibili, due vere e proprie "fesserie" che credono di essere alta filosofia applicata alla Settima Arte.


La storiella elaborata dalle Wachowski e spalmata su due film da due ore e venti è facilmente riassumibile: Neo deve trovare l'Oracolo, questi gli dice che deve incontrare l'Architetto, ma per farlo avrà bisogno del Fabbricante di Chiavi, prigioniero del Merovingio. L'Architetto, a sua volta, dice a Neo di recarsi alla Sorgente, nel cuore dell'impero delle macchine. E questo e quanto, più o meno, ossia un mero pretesto per far muovere i personaggi da un punto A ad un punto B, con combattimento obbligatorio ad ogni sosta. E non sarebbe neanche male come trovata se almeno gli script non fossero pieni di buchi e controsensi.
L'Oracolo è un software delle macchine e alla richiesta del perché aiuti gli umani risponde praticamente con un'alzata di spalle (in "Reloaded"), altrimenti il film non potrebbe proseguire. Il Merovingio è anch'egli un software, ma non si sa per quale motivo è schiavo dei vizi della carne e sa cosa significhi, letteralmente, pulirsi il culo con la seta; come tutto ciò sia possibile non è dato sapere, così come il perché ad un certo punto abbia deciso di prendere in ostaggio il Fabbricante di Chiavi, forse perché restava sempre chiuso nel bagno sbagliato.


Non che con i personaggi umani vada meglio; quei pochi che vengono introdotti sono monodimensionali e dimenticabili: Locke è il semplice antagonista di Morpheus, con il quale è sempre arrabbiato perché una volta era l'uomo di Niobe, ora la sua donna... logica dice che dovrebbe essere il contrario, ma va bene lo stesso. Il consigliere Hamann è la figura paterna di cui nessuno sentiva il bisogno, mentre il Ragazzo (chiamato solo così) è un semplice fanboy di Neo simpatico come un'ernia, ma per lo meno il suo cortometraggio in "Animatrix" era uno dei più riusciti.
Il trattamento peggiore viene però riservato all'eroe e al villain. Per magia, nessuno ricorda più il volo di Neo sulla città alla fine del primo film ed è un vero peccato perché ora questo "eletto" è poco più del classico supereroe imbattibile e per sottolinearne lo status divino il duo di registe decide, saggiamente, di vestirlo come un monsignore. L'agente Smith, dal canto suo, è tornato ad esistere, non si sa come, ed ha anche acquisito l'abilità di duplicarsi (forse era una delle sue skill al level up giusto), come un vero e proprio virus che affligge Matrix... questo perché le macchine, nella loro infinita saggezza e lungimiranza, hanno deciso che gli anti-virus sono fuori moda, così come tutti i programmi di controllo software. Ma tant'è.
Se Neo è Superman, Smith è un arcinemico generico che non sa neanche lui ciò che vuole; in "Reloaded" sembra essere dalla parte delle macchine, ma in "Revolutions" sembra avere un piano tutto suo che concerne... sovrascrivere tutti gli essere umani? Per quale fine, ancora, non è dato sapere.


La parte action è migliorata, ma solo su carta. Le sequenze sono più lunghe e complesse, ma non per questo migliori rispetto al predecessore. Partendo dal presupposto che Neo è un Superman privo di punti deboli, tutta la tensione nei combattimenti che lo riguardano viene azzerata da subito. Ma quel che è peggio, la maggior parte delle sequenze d'azione sono inconsequenziali, non hanno né possono avere ripercussioni effettive sulla storia. Il caso più eclatante è quello del duello con Seraph, personaggio creato per il solo gusto di inserire una scena d'azione in più, che combatte con Neo perché "non conosci un uomo se non ti sei battuto con lui"... certo, come no. A cui segue il famoso scontro con "l'esercito" di Smith, puro onanismo visivo in cui la CGI mostra prepotentemente i suoi limiti, con i personaggi che a tratti diventano vistosamente dei manichini in computer graphic. Per poi arrivare alla lunghissima sequenza dell'autostrada, inutilmente complessa, ma per lo meno coinvolgente visto che vede protagonisti i "mortali" Trinity e Morpheus. Peccato che tra effetti invecchiati male, coreografia inutilmente complesse e i due famosi gemelli albini che finiscono scaraventati nello spazio da un'esplosione come in un cartone animato di Hanna & Barbera, alla fine a prevalere è lo sbadiglio.


La "filosofia" di "Reloaded" è poi sublime nel suo essere del tutto inconsistente. Si cerca di far riflettere lo spettatore sulla necessaria simbiosi tra uomo e macchina, ma il dialogo in merito è talmente privo di mordente da cadere a vuoto. L'agente Smith filosofeggia su come sia "lo scopo" a guidare le azioni di ciascuno... grazie tante, pensavamo che vi scontrasse per passare il tempo. Il Merovingio si lancia in una fantastica dissertazione su causa ed effetto... facendo eccitare una ragazza a caso per poterla concupire, proprio lui, che è puro software, per di più sposato con Monica Bellucci... forse anche i software sono frigidi? Fatto sta che quando invece le Wachowski hanno davvero l'occasione di riflettere sul caso di un software divenuto carne, con il personaggio di Bane, si guardano bene dal farlo, forse per non sembrare troppo nerd. Forse anche per questo hanno deciso di descrivere il futuro post-apocalittico come un gigantesco rave party, ossia per fare la figura delle tipe "in".


Negli ultimi 20 minuti la sceneggiatura da il meglio di se. Neo diventa un vero e proprio Gesù cyberpunk, riuscendo a riportare in vita i morti; quando esce da Matrix, scopre di avere i superpoteri anche nel mondo reale... peccato che poi in "Revolutions" le Wachowski si siano rese conto di aver creato un personaggio sin troppo perfetto e fanno finta che queste nuove abilità non siano mai esistite.
Al di là di una sceneggiatura ridicola e di una regia talmente veloce da non lasciare mai riprendere il fiato, a far specie è la totale mancanza di fantasia del film, che anziché espandere il mondo presentato nel predecessore, si limita a riciclarne concept ed estetica. Tant'è che si resta senza parole quando decide di mostrare l'esercito delle macchine come composto unicamente dalle seppie, uccidendo definitivamente la direzione artistica. Almeno gli umani sfoggiano degli inediti esoscheletri palesemente ripresi da "Aliens"... tanto che in "Avatar" Cameron ricambierà il favore prendendoli in prestito per la sua fantascienza finto-epica.


"Reloaded" riesce così non solo nell'impresa di essere un film brutto (oltre che monco, data la sua natura episodica), ma anche, assieme a "Revolutions", in quella di distruggere l'eredità di "Matrix"; la "saga" è presto diventata sinonimo di cinema idiota e pretenzioso, grazie alla natura cretina dei sequel, quasi delle vere e proprie parodie che si prendono fin troppo sul serio. E forse è proprio questa la definizione adatta, ossia quella di giochino che scimmiotta un altro film. Ma nelle parodie, per lo meno, l'umorismo è volontario.

giovedì 9 dicembre 2021

The Last Duel

di Ridley Scott.

con: Jodie Comer, Adam Driver, Matt Damon, Ben Affleck, Alex Lawther, William Houston, Marton Csokas, Tallulah Haddon.

Usa, Regno Unito 2021
















Dinanzi al flop di "The Last Duel", Ridley Scott ha commentato, stizzito, come sia colpa dei giovani e dei loro smartphone; il che, sommato alla polemica contro i film Marvel d'ordinanza, non ha certo giovato alla reputazione del filmmaker, il quale, per non farsi mancare nulla, ha anche inveito contro un critico reo di averlo stroncato. Un comportamento che di certo è criticabile, ma forse comprensibile, visto come quest'ultima fatica del cineasta inglese è una delle sue più riuscite, elegante, affascinante e caustica.


Nella seconda metà del XIV secolo, il nobile Jean De Garrouges (Matt Damon) prende in sposa la bellissima Marguerite de Thibouville (Jodi Comer), la quale affascina l'amico/nemico Jacques Le Gris (Adam Driver); alle accuse di stupro mosse dalla donna verso quest'ultimo, viene istituito un duello per stabilire la verità, la quale muta in base al punto di vista dei personaggi.


Il punto di ispirazione è il capolavoro di Akira Kurosawa "Rashomon": anche lì al centro di tutto c'erano tre differenti versioni di un'accusa di stupro, solo che qui il punto di vista sui fatti non è narrato dai personaggi, ma ripreso direttamente dalla loro esperienza. Ma a Scott (e all'autore del romanzo di base Eric Jager) non interessa tanto la verità sui fatti per sè stessi. L'atto dello stupro non viene negato neanche nella versione dell'accusato, né addolcito. Ciò che conta è il modo in cui ciascuno vede la donna: Jean come moglie, Jacques come preda, Marguerite, custode della verità, come vittima.


La donna è ancella di supporto per il marito, angelo del focolare, supporto morale che lo aiuta a sopportare i doveri dell'uomo e i suoi doveri di perno su cui la società si basa.
La donna è preda da concupire, da sottomettere, da conquistare con la forza anche quando oggetto degli amorosi sensi. Nell'atto della congiunzione, non c'è differenza tra una dama ed una puttana.
La donna è la vittima per eccellenza, l'ultima ruota del carro in una società governata dagli uomini, ma di fatto gestita dalle donne, le quali attendono i doveri lavorativi in assenza del "padrone" e quelli coniugali, anche quando non ne hanno volontà.


Nei confronti, soprattutto durante il capitolo dedicato a Jacques, Scott si sofferma sulle reazioni di chi circonda i protagonisti, quei testimoni silenziosi chiamati ad assistere allo scontro ideale e fisico tra i personaggi, lasciando alle loro espressioni esterrefatte ogni commento sullo stesso. Se già durante i primi capitoli il messaggio femminista è forte, nel terzo diventa dirompente. Limitandosi a mostrare il ruolo che la società del Basso Medioevo riservava alle moglie, si riflette il ruolo che queste hanno nella società odierna. Qualche metafora risulta forzata, come quella della giumenta, ma in generale si riesce davvero ad empatizzare per una categoria che, all'epoca, viveva in subalternità, priva di una propria voce e di importanza effettiva sul piano politico-sociale.
Una forma di femminismo che riesce a non essere mai petulante o pretenzioso, sicuramente poco originale, ma quantomai efficace.


Nella messa in scena, Scott abbandona gli anacronismo che lo hanno reso famoso ed usa un registro classico e realistico. La ricercatezza dei costumi è incredibile, così come la riproposizione delle usanze e dei modi. L'uso di scenografie naturale, con location al posto dei set con green screen, concede un'aura tangibile alle immagini, splendidamente immortalate dalla fotografia del sempre bravo Dariusz Wolski.
La costruzione delle scene d'azione è meno caotica di quanto fatto dall'autore in passato; il duello, cuore del film, non ha certo la perfezione formale di quelli visti nell'esordio "I Duellanti", ma ha comunque una forza unica, data dalla forte fisicità e dalla coreografia puntuale, ottimamente trasposta grazie ad un montaggio più lineare di quanto era lecito aspettarsi.
Il tocco di classe definitivo lo da il cast: Adam Driver è solido come sempre, Ben Affleck si diverte un mondo a giogioneggiare, mentre Matt Damon si riscopre quanto mai espressivo e ispirato. Ma su tutti domina Jodie Comer, in una performance forte e sentita.


Inutile dire che il flop sia stato immeritato. E' vero che Scott ha diretto un film antispettacolare, del tutto lontano dalla sensibilità del pubblico moderno, ma la capacità espressiva che qui dimostra non si vedeva nel suo cinema da anni. Senza contare come la messa in scena verosimile e quadrata fa dimenticare le orride ricostruzione para-storiche di "Le Crociate" e "Robin Hood".