giovedì 28 gennaio 2021

Psycho Goreman

 
di Steven Kostanski.

con: Nita-Josee Hanna, Owen Myre, Matthew Ninaber, Kristen MacCulloch, Rick Amsbury, Adam Brooks, Scout Flinn.

Fantastico/Parodia

Canada 2020


















La nostalgia per gli anni '80 ha raggiunto il punto di saturazione? L'esistenza di un film come "Psycho Goreman" sembrerebbe provare così. Dopotutto, nell'era post "Summer of '84" si è forse avuto sin troppa considerazione per un decennio a dir poco controverso, che trova una caratterizzazione elegiaca solo grazie alla nostalgia dei 30-40enni. E se già Patty Jenkins ha provato ad aggiustare il tiro sull'argomento con "Wonder Woman 1984", "Psycho Goreman" fa di più e rilegge il filone dei film fantastici per ragazzini in modo grottesco e splatter, in una parodia che resta sempre ai limiti del demenziale senza mai sconfinarci per meglio farci intendere quanti difetti quel tipo di cinema avesse.


La storia è, in parole povere, una sorta di "E.T." in acido: in una minuscola cittadina di provincia, la piccola Mimi (Nita-Josee Hanna) e suo fratello Luke (Owen Myre) trovano, nel giardino di casa, un artefatto che libera un gigantesco alieno, che ribattezzano Psycho Goreman (Matthew Ninaber); ma, lungi dall'essere l'innocuo cucciolo che Mimi crede che sia, PG altro non è che un sanguinario signore della guerra intergalattico dotato di poteri immensi, il quale ha già scatenato l'apocalisse in passato e che ora si ritrova a giocare all'animaletto a causa del medaglione a cui è legato, gelosamente custodito dalla bambina.



Laddove nel precedente "The Void" e, prima ancora, nel pur divertente "Manborg", Steven Kostanski si limitava a riprendere i topoi del cinema passato e a riproporli in modo reverente, qui opta per un processo quasi opposto, ossia la totale sovversione dei luoghi comuni, avvertbile già ad una lettura superficiale della trama. L'alieno non è un tenero animaletto bisognoso d'affetto, ma un demone intergalattico assetato di sangue, la cui amicizia con i giovani terrestri non lo porta alla redenzione, bensì all'acuimento della sua smodata e cartoonesca sete di sangue. I cattivi di turno, questa volta, sono solo il minore tra i mali, benché caratterizzati anch'essi come dittatori sanguinari. Viene così sgretolato il luogo comune dell'alieno buono, tale perché infante o perché intrinsecamente portatore di pace, che quarant'anni fa era sicuramente una rivoluzione, ma che oggi appare, appunto, come un cliché.


Soprattutto è il personaggio della piccola protagonista a stupire. Mimi non è una dolce bambina indifesa, ma una peste dall'egoismo ed egocentrismo smodati, che si diverte a manipolare e sottomettere chiunque le capiti a tiro (in primis suo fratello) per il solo gusto di affermare la sua superiorità sul prossimo. E' un mostro ben più perverso e ben più spaventoso del demone spaziale che soggioga, nonché, volendo, vero villain del film. In fondo, altro non è che la versione esasperata di un qualunque protagonista di una favola fantastica anni '80, il quale, venuto a contatto con una forza sovrannaturale che irrompe nel quotidiano, è convinto che questa sia sua proprietà o che sia egli stesso l'unico a comprenderla, ad esserne, in parole povere, il padrone, il proprietario di un essere che, per quanto ci venga presentato come simpatico, resta pur sempre alieno.
Allo stesso modo, il nido familiare vede il proprio ruolo sovvertito e diviene un matrimonio in crisi nel quale i due genitori sono due idioti smidollati, forieri di rancori e pessimi consigli, piuttosto che i saggi e amorevoli punti di riferimento per i propri figli.


Se la carica distruttiva e divertita fa a pezzi i cliché, l'amore per l'autore per il cinema di genere "artigianale" d'epoca è tangibile. Sarebbe facile lodare i robot animati in stop-motion, ma meritano molti più complimenti i vari design degli alieni, ognuno dotato di una propria gimmick, tanto da farli sembrare come usciti da un catalogo Mattel del 1985, tra cervelli alieni cyborg, streghe spaziali, tritacarne viventi e androidi plasticosi, genuinamente fasulli e per questo incantevoli.



Il tono è sempre beffardo, carico di una voglia di distruzione irrestibile, che intrattiene dall'inizio alla fine. L'unico limite è dato da un finale "spielberghiano", con una riunione del gruppo familiare che comunque cozza con il luogo comune del cinema per famiglie, non essendo per davvero un lieto fine, ma che lo stesso toglie spazio ad un finale che sarebbe potuto essere più cattivo, più in linea con il resto del racconto, il quale resta però lo stesso altamente riuscito e divertente, una dissacrazione del passato ai limiti del doveroso.

giovedì 21 gennaio 2021

Il Casanova di Federico Fellini

di Federico Fellini.

con: Donald Sutherland, Tina Aumont, Cicely Browne, Carmen Scarpitta, Clara Algranti, Chesty Morgan, Daniela Gatti.

Italia 1976

















Non è semplice per un autore relazionarsi con un progetto non proprio e per Fellini ciò avvenne all'alba della produzione de "Il Casanova"; chiamato da Alberto Grimaldi a portare in scena l'autobiografia del famoso "amatore" veneziano, il grande artista si ritrovò ad odiare quel personaggio, da lui definito come "meschino" perché incapace di amare. E' paradossale, quindi, scoprire come alla fine della produzione, lo stesso Fellini ammise di aver diretto il suo film migliore: quella relazione burrascosa con il suo protagonista portò ad un atto d'amore nel raccontare la storia di un uomo innamorato proprio dell'amore. E "Il Casanova", alla fin fine, se non è proprio definibile come il capolavoro definitivo del suo autore, resta, purtroppo, il suo ultimo capolavoro, un punto esclamativo in una carriera che già dal successivo "La Città delle Donne" avrebbe intrapreso la fase discendente. E forse, per Fellini, non ci sarebbe stato modo migliore per concludere la fase migliore della propria carriera.


Al netto dell'odio, il ritratto che Fellini fa di Casanova è quantomai verosimile: filosofo e letterato, oltre che esperto in economia, politica e alchimia, Casanova è un uomo divorato dalla sua stessa notorietà, i cui pregi vengono eclissati dalla sua nomea di amante. Nessuno è interessato all'uomo dietro le dicerie, tutti vengono affascinati dal solo "stallone". Situazione chiara sin dalle prime battute: chiamato da una monaca ad una alcova di piacere, la soddisfa per il sollazzo di un nobile vouyeurista il quale, concluso l'atto, non ha più interesse alcuno verso di lui. Il Casanova di Fellini è, in prima istanza, un uomo frainteso e sottovalutato, vittima della sua stessa celebrità, che trova nella duplice interpretazione di Donald Sutherland nel corpo e di Gigi Proietti nella voce una perfetta e carismatica rappresentazione fisica.


Ma anche l'amatore, per Fellini, è una creatura difettosa e infelice. L'amore e il sesso sono, per lui, un'attività meccanica, dove il piacere fisico, pur presente, è dato e preso in modo automatico, senza la piena realizzazione, quantomeno non al di là del piano meramente corporale. Le scene degli amplessi vengono coreografate come dei balletti nei quali l'unione, data dal movimento dei corpi, è ritratta come un esercizio ginnico, una serie di ripetizioni di movimenti automatici privi di vera catarsi. Non per nulla, Fellini usa il simbolo di un grufo meccanico per dar far forma alla libido del suo protagonista, un giocattolino che ripete in modo automatico una serie di movimenti sempre uguali. E, per concludere la carriera di Casanova, lo fa accoppiare con un automa, una bambola anch'essa preda di movimenti scattosi e privi di vera volontà.


L'unica eccezione in questa parata di amori puramente materiali viene data dalla bella Enrichetta (Tina Aumont), la misteriosa dama che rubò il cuore di Casanova vestita da ufficiale ungherese. Da un lato, Fellini lancia il seme della bisessualità del suo protagonista, resa esplicita in una celebre scena tagliata, dall'altro si diverte a castigarne la libidine sottolineandone il mal d'amore che lo coglie già durante la breve relazione, il quale esplode quando questa finisce all'improvviso.


E se Giacomo Casanova è un animale lussurioso schiavo delle proprie pulsioni, non da meno è il resto dei personaggi, una parata di nobili incastrati nei vizi del corpo. Il rimando alla Roma pagana del "Satyricon" è esplicito e il grande artista si diverte a descrivere le corti dell'Età della Ragione come dei porcili nei quali sozzi individui si rotolano gaudenti. La corte romana, con un papa fugace e beffardo, è un marasma nel quale il protagonista è costretto ad intraprendere una gara di virilità, trovando per la prima volta una passione non corrisposta, mentre la corte di Gutenberg, dove vi è l'incontro con l'automa, è il luogo dell'umiliazione finale, dove l'erudizione del protagonista si perde tra grida sguaiate e canti goliardici.


Il gusto per l'opulenza traspare da ogni singola inquadratura, con le scenografie di Danilo Donati che si fanno imponenti e al contempo volutamente fasulle, delle quinte teatrali che rispecchiano la falsità delle passioni carnali di Casanova, incarnate magnificamente nalla cerimonia d'apertura, con l'ascensione strozzata dell'idolo dalle acque di Venezia. I costumi, talmente caleidoscopici da divenire kitsch, danno un gusto quasi punk all'estetica, con un enfasi smodata sulla caricaturalità dei personaggi, in particolare sui loro corpi lussuriosi, incorniciati in orpelli che ne esaltano la sfrenata fisicità. Fellini raggiunge così un nuovo vertice di espressività estetica, magnificamente incapsulata in inquadrature mai come qui libere e perfette nel modo in cui incorniciano volti e corpi.


E forse è proprio "punk" il miglior aggettivo per descrivere il "Casanova" di Fellini: un'opera volutamente sfrontata che trova una forma di estrema veridicità nella descrizione del personaggio e si diverte a mistificare un secolo ed una classe sociale con una pernacchia irreverente, divertita e divertente, in quello che resterà, purtroppo, l'ultimo apice del suo cinema.

sabato 16 gennaio 2021

Druk

di Thoms Vinterberg.

con: Mads Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Magnus Millang, Maria Bonnevie, Lars Ranthe, Susse Wold, Helene Reingaard Neumann.

Drammatico

Danimarca, Svezia, Paesi Bassi 2020














Laddove Lars Von Trier non si è mai distaccato dai dettami del Dogma 95, Thomas Vinterberg è riuscito, in un modo o nell'altro, a superare le barriere estetiche del movimento per (ri)trovare una forma di messa in scena più autentica, benché più convenzionale. E lo stile è forse l'unica cosa di davvero convenzionale in "Druk", inno all'alcool visto, per davvero, come "la causa di e la soluzione a tutti i problemi della vita".


Secondo il filosofo norvegese Finn Skarderud, l'uomo ha un deficit fisiologico di alcool nel sangue pari allo 0.5%; aumentandone il tasso, si è portati a vivere e lavorare meglio. Quattro professori di una scuola danese decidono di provare a seguire questa teoria, con tutti i risultati immaginabili.



Sarebbe facile vedere "Druk" come un atto d'accusa al consumo di alcool, soprattutto quando si tiene conto che la Danimarca soffre di una vera e propria piaga sociale data dall'alcolismo giovanile. L'ispirazione, per Vinterberg, è difatti arrivata grazie alle storie della figlia Ida (che avrebbe dovuto ricoprire una parte nel film, ma che è tragicamente scomparsa pochi giorni dopo l'inizio delle riprese): quasi tutti i quindicenni danesi soffrono di problemi di alcolismo, dovuti sia alla quantità di alcool ingurgitato che alla giovane età in cui si prende il vizio. E non per nulla, il film si apre e si chiude con una vera ricorrenza della gioventù danese, il "giro del lago alcolico" che si celebra solitamente subito dopo il diploma.



Vinterberg, in realtà, fa di più e riflette seriamente non solo sul problema dell'alcolismo in sé, quanto sugli effetti che l'uso e abuso di alcool possono comportare. Non si vergogna ad affermare come, rispettando quel famoso limite del 0.5%, la vita possa cambiare in meglio, come una serie di adulti oramai stanchi anche se appena quarantenni possono davvero riscoprire la gioia di vivere perdendo qualche freno inibitore e come persino il loro ruolo di insegnanti possa trarne giovamento. Non è l'acool in sé ad essere il problema, quanto la schivitù verso lo stesso.


Stupisce, di fatto, la semplicità di come dall'uso si passi all'abuso, come quel bicchierino fatto ad inizio giornata divenga un'ossessione, un comportamento compulsivo che porta alla perdizione e alla conseguente crisi umana. A Vinterberg non interessa tanto puntare il dito contro qualcuno o qualcosa, quanto riflettere sulla facilità della caduta e sulla difficoltà della ripresa. Non per nulla, la sequenza finale, con il ballo di Mikkelsen, è volutamente ambigua, resta sospesa tra un ritrovato amore per la vita ed un gusto immenso per l'autodistruzione.


L'analisi è come sempre fredda, quasi robotica nel suo ritrarre in modo impassibile gioie fugaci ed eccessi nichilistici. Vinterberg conferma la sua mano ferma e la voglia di stupire, provocare senza sogghignare, in un'opera semplice e al contempo complessa.

martedì 12 gennaio 2021

Il Processo ai Chicago 7

The Trial of the Chicago 7    

di Aaron Sorkin.

con: Eddie Redmayne, Alex Sharp, Sacha Baron Cohen, Jeremy Strong, Yahya Abdul-Mateen II, John Carroll Lynch, Mark Rylance, Joseph Gordon-Levitt, Frank Langella, Michael Keaton, Danny Flaherty, Noah Robbins.

Drammatico

Usa, Inghilterra, India 2020









Era impossibile preventivarlo, ma a pochi mesi dalla sua uscita su Netflix, "The Trial of the Chicago 7" si è già caricato di un significato ulteriore rispetto a quello voluto in origine da Aaron Sorkin. Se già inizialmente l'autore puntava a creare un parallelo tra il presente e le proteste sessantottine e il conseguente scandalo del processo politico ai sette capi della sinistra extraparlamentare, a pochi giorni dal vergognoso attacco al Congresso americano è possibile gettare una luce diversa sulla realtà ritratta nel film; ed è quantomeno sorprendente realizzare come nel XX secolo i movimenti di protesta erano, a prescindere dalle differenze culturali e motivazionali alla loro base, compatti nella loro natura anti-establishment, finendo persino con il collidere con quel Partito Democratico che, in teoria, ne tutelava gli interessi; mentre nel 2021, i movimenti di destra estrema sono nient'altro che il braccio armato di una frangia impazzita della politica, quel Trump e quel trumpismo sovranista che, come Berlusconi nell'Italia di venti anni prima, ha letteralmente preso in ostaggio la politica, trasformandola in una distorta e grottesca macchina di affermazione individuale.
Al di là di questo nuovo valore, "The Trial" resta un ottimo pamphlet sull'inciviltà della società civile e sull'arroganza del potere.


La storia è nota: durante la convention democratica a Chicago nell'estate del 1968, quella che era partita come una protesta pacifica sfocia in un conflitto sanguinoso tra i manifestanti e la polizia. Nel corso dell'anno successivo, si celebra un lungo e controverso processo contro i sette capi delle varie organizzazioni: i promotori medio-progressisti Tom Hayden e Rennie Davis (Eddie Redmayne e Alex Sharp), i capi del Partito della Gioventù, radicali e hippie Abbie Hoffman e Jerry Rubin (Sacha Baron Cohen e Jeremy Strong), il coordinatore locale David Dellinger (John Carroll Lynch), i due giovani attivisti John Froines e Lee Weiner (Danny Flaherty e Noah Robbins), ai quali si aggiunge il capo delle Pantere Nere Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II).


Lo sguardo di Sorkin è quasi chirurgico, ricostruisce la storia tramite flashback all'interno del classico canone del courtroom drama, riuscendo a tenere le distanze con i personaggi, pur parteggiando per loro. Il dito è comunque sempre rivolto contro la violenza delle istituzioni, simboleggiate dal giudice Hoffman, vecchio arrogante il quale dà per scontato la condanna. Una spada di Damocle inevitabile: non può esserci grazia per chi si ribella al sistema, ieri come oggi, allo slogan "America: Love It or Leave It"; il potere, come al solito, non tollera limitazioni e distrugge chiunque vi si opponga.


Fa spavento, oggi come ieri, vedere come le istituzioni dello Stato di Diritto possono essere piegate al volere del potente di turno; due, in particolare, le scene su cui Sorkin calca la mano. La prima, più ovvia, è la sottomissione di Bobby Seale, dapprima negandogli l'ausilio di un difensore e persino la possibilità pratica dell'autodifesa, in secondo luogo e soprattutto con la costrizione fisica, la riduzione in catene di quel nero che, 200 anni dopo la fine della Guerra Civile, è ancora sottomesso dal padrone di turno.
La seconda, solo apparentemente meno spaventosa, è la testimonianza dell'ex procuratore generale Ramsey Clark, essenziale per l'assoluzione degli imputati, la quale viene rigettata con la scusa del segreto di Stato. La difesa del potere costituito viene piegata a difesa degli interessi governativi e, prima ancora, di una classe dirigente incapace di adeguarsi ai cambiamenti culturali che si agitano nella società. Il risultato è, per Sorkin, non solo l'arbitrio del potere, quanto e soprattutto la prevaricazione di quei singoli che osano mettere in discussione ciò che esso persegue e rappresenta. Il cittadino che promuove e difende valori costituiti e costituzionalmente garantiti, ma invisi ai "piani alti", deve essere etichettato come un cospirazionista, un sovversore dell'ordine costituito, poiché minaccia la tenuta omogenea e sterile del tessuto sociale.


Sorkin tiene bene il timone della narrazione, adoperando, come al suo solito, i dialoghi in modo eccellente, caricandoli di significato senza mai cadere nella retorica più spicciola. Adopera in modo eccellente la bravura dell'ottimo cast, ma alla fine inciampa, purtroppo, in un finale inutilmente celebrativo e un po' ruffiano, il quale, fortunatamente, non affossa del tutto il valore di un film intelligente e importante nella sua attualità.

mercoledì 6 gennaio 2021

Highlander- L'Ultimo Immortale

 
Highlander

di Russell Mulcahy.

con: Christopher Lambert, Sean Connery, Roxanne Hart, Clancy Brown, Beatie Edney, Sheila Gish, James Cosmo, Alan North, Jon Polito.

Fantastico/Avventura/Azione

Inghilterra 1986

















Definizione vuole che un film, per poter essere definito "cult", debba essere stato un flop alla sua uscita in sala per poi essere riscoperto negli anni, come successo a pellicole amatissime quali "Blade Runner" e "La Cosa". Ironia vuole che alcuni tra i cult più amati di sempre ("1997: Fuga da New York", "Mad Max 2", "Dawn of the Dead", "Profondo Rosso", solo per citarne alcuni) siano invece stati anche degli ottimi successi di cassetta, inificiando tale teorema. In una ideale zona grigia svetterebbe "Highlander", tra le pellicole di culto più riverite di sempre, il quale non è stato tecnicamente un flop: grande successo in Europa e Asia, è stato ignorato unicamente in Nordamerica, causa una pessima campagna promozionale portata avanti dalla Cannon, misteriosamente disinteressatasi al film dopo averne acquistato i diritti di distribuzione.
Definizione calzante o meno, quello di "cult" resta comunque un epiteto perfetto per una pellicola strabiliante e che nel corso degli anni non ha perso un grammo della sua freschezza.


Tutto comincia con lo sceneggiatore Gregory Widen il quale, poco più che ragazzo, compie un viaggio nella natia Scozia, dove resta folgorato da un'esposizione di armature: e se ci fosse stato un uomo che, immortale, le abbia indossate tutte?
Da questo seme nasce l'idea di un immortale destinato a duellare con i propri simili finché "non ne resterà solo uno". Lo script viene venduto ai produttori Peter Davis e William Panzer, all'epoca reduci dall'ultimo Peckinpah di "Osterman Weekend", i quali lo fanno rimaneggiare per alleggerirne i toni, considerati sin troppo cupi per un fantasy d'avventura. Al timone del progetto viene messo quel Russell Mulcahy che, purtroppo, non si ripeterà più ai medesimi livelli, ma che all'epoca aveva già diretto quel piccolo gioiello di "Razorback". Per le musiche vengono ingaggiati i Queen, i quali attraversavano l'unico periodo poco prolifico della loro carriera e che, innamoratisi del film, decidono di scrivere ben sette canzoni anzicché le due per le quali erano stati contattati, creando, alla fine, quell' "A Kind of Magic" che ne ripristinerà i fasti. Concludono l'ensamble di talenti, il caratterista Clancy Brown, semplicemente perfetto nei panni del villain, un Christophe Lambert dalla recitazione al solito acerba, ma il cui fascino trasuda da ogni frame e, ovviamente, il mitico Sean Connery, che divora la scena e ritrova la fama in quello che resterà uno dei suoi ruoli più iconici.


Il fascino di "Highlander" è immane. Una storia epica e romantica raccontata con un gusto strepitoso e che rende il tutto ancora più coinvolgente, a partire dalla mitologia. Poco o nulla viene detto sugli Immortali: non si sa chi siano davvero e la misteriosa "ricompensa" per la quale lottano non è che una forma di coscienza collettiva che permette loro di mettere a frutto la conoscenza accumulata nei secoli e sottratta agli avversari sconfitti. L'aura di mistero che li circonda, magistralmente lasciata tale anche quando, nella narrazione, dovrebbe essere rivelata dal personaggio del mentore Ramirez, rende la storia ancora più curiosa e bizzarra, impossibile da non amare.


Laddove le motivazioni della battaglia restano ignote, del tutto perfettamente caratterizzati restano i personaggi principali, a partire dal protagonista Connor MacLeod. In una duplice narrazione, duplice è anche il protagonista: ragazzo che impara la via spada e prova sulla sua pelle lo stigma del diverso nei flashback, uomo saggio e forte nel racconto contemporaneo. MacLeod non è il classico "eroe" che il cinema fantastico spesso offre, non compie un cammino formativo vero e proprio, se non in modo parziale e la sua maturazione resta sottointesa, celata in una storia mai mostrata, come a dire che non è stato un episodio particolare a renderlo maturo, quanto l'esperienza accumulata nei suoi 400 anni di vita.
Allo stesso modo, Ramirez non è il classico mentore della letteratura fantasy. Benché saggio e benché ricopra il ruolo di maestro per MacLeod, ha un senso dell'umorismo spiccato, è sagace, quasi un ragazzo nel corpo di un adulto che ha fatto tesoro della sua esperienza, ma non ha mai abbandonato la gioia del vivere, pur essendo in vita da quasi duemila anni.
Un discorso simile può essere fatto per il Kurgan: imponente e mostruoso, ha una vena d'umorsimo che si manifesta soprattutto in epoca moderna, che lo rende se non pazzo, quanto meno sopra le righe, regalando alcuni dei momenti migliori del film, come la sequenza della chiesa, che culmina nella frase di culto "E' meglio bruciare subito che spegnersi lentamente!", la quale avrà un'influenza tangibile su tutta la cultura grunge sviluppatasi a partire dalla fine degli anni '80.


Ciò che rende del tutto irresistibile il film è la regia di Mulcahy; formatosi nel mondo dei videoclip e vero e proprio pioniere del "genere", usa un ritmo incalzante ed un montaggio ai limiti del sincopato per ogni scena; le sequenze d'azione brillano per la complessità della regia così come per le ottime coreografie, mentre le transizioni temporali e l'uso dei flashback è a dir poco sublime: la cavalcata nei secoli diviene così un flusso di immagini quasi ininterrotto, che rallenta solo per concedere spazio ai personaggi e alla loro interiorità. Magnifico, ovviamente, l'uso delle canzoni dei Queen, con la struggente "Who wants to live forever" a sottolineare la sequenza più commovente e la bella "One year of love" ad incorniciare la riscoperta dell'amore; non da meno è lo score di Michael Kamen, epico e roboante, perfettamente adatto alle sontuose immagini.


Ancora oggi godibile e straordinariamente moderno nella messa in scena, "Highlander" è un film immortale al pari dei suoi personaggi, che sa regalare emozioni ad ogni visione.


EXTRA

Impossibile, purtroppo, non menzionare la (quasi del tutto) pessima eredità del film.

Primi fra tutti, i sequel, tra i più brutti che un cult possa vantare.


Nel 1990 esce "Highlander II- The Quickening", che inizia laddove il primo film si era concluso: MacLeod è onnisciente e con la sua sapienza messa a disposizione della scienza, crea uno scudo per difendere la Terra dalle radiazioni solari, divenute letali a causa della scomparsa dello strato di ozono. In un futuro distopico, l'Highlander ritrova un suo vecchio nemico, il generale Katana, e riscopre le sue origini: gli immortali sono alieni in esilio. Inutile sottolineare l'idiozia dello script, sia nell'annacquare il mito alla base del film che nella costruzione di una storia di vendetta senza né capo, nè coda. Da salvare, quanto meno, la regia di Mulcahy, sempre ottima, il che rende questo primo sequel tra i brutti film meglio diretti di sempre.



Nel 1995 è il turno di "Highlander III", il quale ignora bellamente il prequel per ricollegarsi al primo film. Dal passato di MacLeod giunge un altro mostruoso immortale in cerca di potere. Tutto già fatto e già visto, ma almeno l'idiozia del secondo film è lontana.



Esce nel 2000, "Highlander: Endgame", che ricollega i film alla serie televisiva. Connor e Duncan MacLeod si ritrovano a dover affrontare un gruppo di immortali capitanati da un predicatore pazzo, ex compaesano di Connor. Suona simpatico, ma non lo è: la storia è piatta e ridicola, i personaggi caratterizzati al peggio e la regia semplicemente orrenda. Al confronto, "Highlander II" è un'opera d'arte.


Nel 2005, l'ultima pellicola, in attesa del futuro remake annunciato da almeno una decina d'anni. "Highlander- The Source" vede Duncan MacLeod alle prese con uno strano "cacciatore di immortali", mentre è alla ricerca della fantomatica "fonte", nella speranza di rigenerare un mondo morente. Nelle intenzioni dei produttori di Sci-Fi Channel, doveva essere il pilota di una nuova serie televisiva, trasformato poi in film-tv a causa dello scarso riscontro ottenuto. E a ragione: la storia è stupida, la direzione pessima e su tutto aleggia una coltre di ridicolo insostenibile, vedere per credere.



Ma il destino televisivo di "Highlander" ha anche portato i frutti migliori. Durata dal 1992 al 1998, "Highlander- The Series" segue le avventure di Duncan MacLeod, pronipote di Connor, nella sua strenua lotta contro altri immortali. Datata ma simpatica, è stata la fonte di ispirazione principale per molti serial di avventura-fantasy degli anni '90, "Buffy l'Ammazzavampiri" in primis, come ammesso dallo stesso Joss Wheadon, il quale è stato fortemente ispirato dalla continuity orizzontale degli episodi, per l'epoca cosa inedita.


Nel 1998 arriva lo spin-off "Highlander- The Raven", incentrato sul personaggio di Amanda, immortale ladra e amante occasionale di Duncan. Misto tra action fantasy e poliziesco, non ha ottenuto il successo sperato e si è concluso dopo una sola stagione.



Nel 1994, infine,  arriva "Highlander- The Animated Series", cartone animato che segue le avventure di Quentin MacLeod, discendente di Connor e Duncan che si muove in un futuro post-apocalittico. Pensata per un pubblico di giovanissimi, è durata giusto un paio di stagioni e non presenta motivi di interesse di sorta per un adulto.




Decisamente più riuscita e interessante è la seconda incarnazione animata: "Highlander- The Search for Vengeance" è un film anime ottimamente diretto dal maestro dell'action Yoshiaki Kawajiri, un'avventura veloce e compatta che rappresenta il miglior sequel del cult originale, unica visione realmente consigliata.