mercoledì 30 giugno 2021

L'Altra Faccia dell'Amore

The Music Lovers

di Ken Russell.

con: Richard Chamberlain, Glenda Jackson, Max Adrian, Christopher Gable, Kenneth Colley, Izabella Telezynska, Bruce Robinson, Sabina Maydelle.

Biografico/Drammatico

Inghilterra 1971













Il biopic d'autore è un filone molto frequentato dal cinema di Ken Russell. Basti pensare al Franz Liszt di "Lisztomania" (1975), al Rodolfo Valentino dell'omonimo "Valentino" (1977), al Mahler de "La Perdizione" (1974) o al Brzeska di "Messia Selvaggio" (1972). L'amore di Russell per l'arte, in special modo per la musica, sboccia già nei primi anni della sua carriera, quando la BBC lo incarica di dirigere una serie di special sui grandi maestri della classica. Già in questa occasione, il grande regista elabora uno stile moderno, quasi pop, con il quale porta in immagini la musica classica, una sperimentazione che trova pieno compimento nel 1971, anno in cui firma "The Music Lovers", biografia di Piotr Tchaikovsky (1840-1893) strutturata come un dramma e condotta come un musical vero e proprio, ricamato sulle note immortali dell'artista, in un biopic ancora oggi moderno, ritmato ed espressivo.


La figura di Tchaikovsky veniva evocata già nell'ultimo atto di "Donne in Amore", dove il dramma derivante dalla sua omosessualità veniva sbeffeggiato dai protagonisti. Ed è proprio questo dramma, con i suoi personaggi e le relative conseguenze, che Russell porta ora in scena. Piotr Tchaikovsky trova un perfetto interprete in Richard Chamberlain, che ben ne fa trasparire i turbamenti: impegnato in una relazione omosessuale con il conte Chiluvsky (Christopher Gable), il grande compositore teme lo scandalo e decide così di sposarsi con la spasimante Nina (Glenda Jackson), meretrice e ninfomane. Ma il vero dramma deve ancora aver luogo: il matrimonio tra i due non viene consumato, il che li porta ad una forte crisi interiore ed esteriore. Nel frattempo, Piotr trova una mecenate nella nobile von Meck (Izabella Telezynska), perdutamente attratta dalla sua arte.


Il dramma poggia così su quattro figure cardine: il compositore, la moglie, la mecenate e il di lui amante. Un ruolo minore ma essenziale ha, almeno nella prima parte, il personaggio di Sasha (Sabina Maydelle), sorella di Tchaikovsky e da lui vista come compagna ideale. La tensione tra i personaggi è palpabile: Tchaikovsky teme per la propria reputazione, ma non riesce a scrollarsi di dosso l'attrazione maschile, né a trovare una forma di comunione con la compagna, né sul piano fisico, nè su quello spirituale, sul quale, anzi, riesce a trovare un intesa con la von Meck, la quale idealizza la sua figura ammaliata dalla sua musica e diventa un oggetto del desiderio etereo, una musa evanescente ma al contempo sempre presente.
Il turbamento interiore trova forma nella bellissima scena del treno, dove la mancata consumazione dell'atto amoroso si tinge di un'atmosfera orrorifica, basata sui contrasti luce/ombra, sul disagio del protagonista e sull'estasi monca della donna.
Allo stesso modo, la relazione intricata tra i personaggi viene portata in scena tramite i movimenti di macchina nella bellissima scena d'apertura, il concerto nel quale si formano le attrazioni.


La classicità solitamente ancorata alla messa in scena della musica operistica viene letteralmente gettata dalla finestra; da sempre accusato di adoperare uno stile eccessivo e barocco, Russell porta in scena il biopic a modo suo; e per essere chiari, i termini "eccessivo" e "barocco" sono calzanti, ma non nella loro accezione negativa.
Russell fonde storia, personaggi, umori e sensazioni con la musica, che diviene essenza stessa del racconto; da qui la struttura quasi da musical dal film, il quale usa le parti in prosa come trait d'union con le sequenze in cui è la classica a divenire mezzo narrativo, sulla quale viene adagiato il dramma. Le sequenze dell'incontro al concerto, della lettera, della prima notte di nozze, del tradimento e del trionfo sono così ancorate alla partitura originale dei concerti e delle opere, in un'opera non di affiancamento, ma di totale fusione che, pur non raggiungendo uno stato di perfezione, riesce ugualmente ad ammaliare.



Ma il linguaggio di Russell non si ferma alla mera unione di immagini e musica, ridefinendo il modo di inquadrare l'esecuzione delle opere. Al bando la staticità propria del classicismo "da salotto", la regia fa un gran uso di camera a mano per inseguire le note suonate dal protagonista, quando non segue direttamente i personaggi in un percorso di messa in scena dinamico e tridimensionale. Russell trova poi un'inedita pittoricità nelle sequenze oniriche, volutamente artefatte, patinate e rarefatte, visioni di una perfezione talmente alta da risaltare subito come fasulla.


"The Music Lovers" trova così una dimensione perfetta nel modo in cui restituisce la grandezza della musica di Tchaikovsky su Grande Schermo, con uno stile ipercinetico e talmente moderno da spiazzare e convincere ancora oggi.

mercoledì 23 giugno 2021

Diabel

di Andrzej Zulawski.

con: Leszek Teleszynski, Malgoratza Braunek, Wojciech Pszoniac, Iga Mayr, Anna Parzonka, Michal Grudzinski, Monica Niemczyc.

Drammatico/Horror

Polonia 1972















L'istinto distruttivo dell'uomo è una forma "accettabile" di follia? Un quesito di difficile soluzione, cui Zulawski tenta di dare una risposta con "Diabel", una delle sue pellicole più sovversive e astratte.


Nella Polonia del XVIII Secolo, il giovane Jakub (Leszek Teleszynski), imprigionato a causa di un fallito attentato contro il sovrano, ritrova la libertà grazie all'intevento di uno strano figuro di nero vestito (Wojciech Pszoniac). Accompagnato da una suora (Monica Niemczyc), il giovane inizia così un viaggio di ritorno verso casa, solo per scoprire come l'intero mondo sia cambiato.


L'atto di ribellione è, in questo caso, la molla che fa scattare la follia, la "mutazione" umana e percettiva di Jakub, il quale diviene divorato, un po' alla volta e definitivamente, dalla sete di sangue. Due le forze che lo guidano: da un lato il Male, che prende le forme di uno strano diavolo dai modi teatrali, un arlecchino che lo sprona nei suoi intenti violenti e dissacratori. Dall'altro la monaca, figura religiosa che assiste passivamente agli eventi; non un "Bene" nel senso stretto del termine, quanto l'insieme di quelle qualità umanitarie e morali che accompagnano l'essere umano, una forma di super-io il quale viene sovente ignorato.
Il cammino di Jakub non è redenzione in senso stretto, non viene intrapreso per purgare sé stessi, quanto per assistere e ovviare alle storture che lo circondano: la morte del padre, il ritorno della madre, scomparsa, ora affermatasi socialmente grazie al meretricio e il tradimento della promessa sposa con il suo migliore amico. Jakub è, in tal senso, una forza disgregatrice che distrugge tutto ciò che tocca, che uccide deliberatamente qualsiasi persona gli sia vicino e dissacra tutto ciò che gli si para innanzi. Da qui anche l'uso dell'incesto come metafora della distruzione del valore famigliare, dell'avvelenamento dei rapporti un tempo genuini.


Se Jakub è ferocia, non meno feroce di lui è il mondo che lo circonda, quasi un inferno in terra dove tutto sembra essere stato assimilato al male, ritorto in una forma grottesca e maligna, i cui spasmi di follia non sono diversi da quelli del protagonista.
La violenza diviene così forza plasmatrice che, distruggendo, fa a pezzi un ordine percepito come malsano, da cui il tema dell'anarchia, dell'attentato all'ordine costituito per ricrearlo in una forma più giusta. Ma al male non segue giustizia e quello che dovrebbe essere nuovo equilibrio è altresì puro caos che finisce per consumare tutto, persino l'agente provocatore che lo usa come affermazione di sé.



Ogni elemento sociale in "Diabel" è corrotto. La famiglia diviene luogo di incesto, dove fratelli ritrovati si appropriano della casa paterna e del corpo della sorella. La figura paterna, in primis, è assente, presentata come un cadavere, quasi un doppio di quel sovrano che si voleva distruggere e la cui assenza è forse essa stessa causa della rovina. La figura materna, d'altro canto, è corrotta, trasformata da forza creatrice ad ammasso di carne per il sollazzo del corpo, con l'incesto che diviene il doppio malato dell'affetto, oramai corroso dal male. Le figure dei saltimbanchi sono quasi dei doppi della stessa società, ridotta ad un'ombra, ad un gruppo di figuranti impegnati nella ripetizione di gesti ormai vuoti e fini a sé stessi. E se il nucleo famigliare primigeneo è un cadavere in decomposizione, la famiglia che il protagonista avrebbe dovuto costituire con la sua fidanzata è ora un corpo estraneo, dove la nascita di un figlio torna ad essere momento orribile, che coincide con la morte piuttosto che con la generazione della vita.


Il caos è il padrone delle vite, la violenza mezzo di creazione, corruzione e distruzione. Eppure, in un finale sorprendente, Zulawski afferma come in realtà la soluzione al male sia a portata di mano, in quei valori che, bene o male, accompagnano l'uomo nella sua vita e che sono in grado di distruggere la sua parte più bestiale; benché questa presa di posizione arrivi tardi, quando oramai tutto è perduto per Jakub e per coloro che ha distrutto, è comunque una forma di salvezza, la quale non porta frutti solo perché ignorata, data per scontata e mai seguita.


Lo stile dell'autore si fa ora più preciso. La camera a mano riesce a creare immagini al solito ipnotiche, ma anche estremamente pittoriche, ricercate nella loro forma solo apparentemente casuale, dove ogni movimento dei corpi e del corpo della macchina da presa stesso è in realtà premeditato al centimetro. L'uso del colore si fa ora più marcato, con tonalità fredde che privano i corpi della loro umanità per trasformarli in cadaveri semventi, ombre di un'umanità al collasso.
E "Diabel" conferma la grandezza del suo autore, un proseguo decisamente più cupo e disperato del suo esordio, che riesce ad ammaliare e sconvolgere.

lunedì 21 giugno 2021

Ginger e Fred

di Federico Fellini.

con: Giulietta Masina, Marcello Mastroianni, Franco Fabrizi, Frederick Ledebur, Salvatore Billa, Totò Mignone, Augusto Poderosi, Sergio Ciulli.

Italia, Francia, Germania 1985

















Tra il 1979 e il 1983 si affaccia in Italia il modello della tv commerciale; dopo vari esperimenti delle tv locali, soppressi per mantenere il monopolio della RAI, con il favore della Corte Costituzionale, che nel 1976 decreta la libera trasmissione via etere, Silvio Berlusconi riesce, a poco a poco e non senza incappare in varie beghe legali, ad ottenere tre canali televisivi, ex regionali, con copertura nazionale, in grado di rivaleggiare con il modello pubblico. Nascono Canale 5, Italia 1 e Rete 4, le reti che poi verranno ribattezzate Mediaset, le quali decidono di combattere la battaglia per gli ascolti usando una programmazione agguerrita, fatta degli ultimi prodotti televisivi americani e proponendo in prima serata i classici del cinema italiano e non; con un piccolo prezzo da pagare: se ai tempi della tv nazionale le inserzioni pubblicitarie erano quasi inesistenti, limitate al solo intervallo tra primo e secondo tempo, nella tv commerciale, per ovvi motivi economici, i film vengono letteralmente cannibalizzati dagli spot, trasformando la visione in una vera e propria corsa di resistenza tra un'interruzione e l'altra.
Federico Fellini, dinanzi allo scempio perpetrato dalla tv commerciale, conia lo slogan "Non si interrompe un'emozione", che sarà poi ripreso dalla sinistra in una fallimentare campagna per la regolarizzazione delle interruzioni pubblicitarie; slogan che racchiude la sua posizione in merito a questo nuovo modo di intendere la fruizione filmica (il fenomeno del home video, pur di successo all'estero, avrebbe ancora stentato ad affermarsi nel Bel Paese).
Come si riverbera questa situazione para-culturale sulla produzione filmica del grande autore riminese?
Come già fatto con la neo emancipazione femminile in "La Città delle Donne" e la violenza metropolitana in "E la Nave Va", Fellini prende di petto l'argomento e lo sviscera in "Ginger e Fred", ideale versione moderna de "La Dolce Vita", con un enfasi divisa tra lo stato della creatività e una ricerca del tempo perduto personale.


La televisione di Fellini è un circo più ameno di quello ripreso ne "I Clowns", una sfilata di casi umani imbarazzante e insostenibile, che comprende un mafioso pluricondannato riverito come un guru, vecchie glorie sul viale del tramonto (i due artisti del titolo), sosia di personaggi famosi (oltre ai due che riflettono il compianto Lucio Dalla, è possibile scorgere anche un finto Celentano, doppio del vero apparso ne "La Dolce Vita"), un frate dei miracoli, nani, un imprenditore che ha superato il record di rapimenti, ballerine sgallettate e tanta pubblicità, dove la figura femminile viene ipersessualizzata al fine di vendere un prodotto, con il sesso che si fa tramite per la compravendita. Un'iperbole folle, che all'epoca fu persino criticata (da Umberto Eco in primis) per la scarsa verosomiglianza, ma che si rivela beffardamente profetica: la spazzatura che invade lo schermo come le strade di Roma è quella che comparirà una quindicina d'anni dopo nella vera televisione, con divette scosciate e falsi divi creati ad hoc e il trash che diventa portata principale dell'abbuffata catodica. Come il Cronenberg di "Videodrome", Fellini aborrisce la verosomiglianza in favore di una caricatura, in questo caso grottesca, perfetto specchio deformato di una realtà ad un passo dal realizzarsi, per questo ancora oggi spaventosamente attuale.


La televisione è essa stessa specchio deformato di una realtà delirante. Le strade sono invase dai rifiuti, i personaggi si muovono in periferie desolate, figlie dell'accanimento urbanistico che porta ad ammassare edifici su edifici senza un vero piano regolatore ,creando uno squallore urbano che sembra inevadibile; ed essi stessi sono dei "freaks", falsi artisti figli di una realtà impazzita, con travestiti che si sentono santi caritatevoli e sosia persi in imitazioni caricaturali di sé stessi. E nella stessa realtà, giganteggiano i cartelloni pubblicitari, che invitano a consumare con voracità, a rimpilzarsi di cibo fino ad esplodere per far girare la giostra di un consumismo che ha perso ogni coordinata di riferimento.
La televisione è così lo strumento per disintegrare la coscienza umana, riplasmare l'essere umano ad un recipiente vuoto non dissimile dai sacchi neri della spazzatura che fanno capolino per le strade, un consumatore vorace di piccole vanità, sesso un tanto al chilo, storielle strappalacrime prive di vera morale e sensazionalismi da copertina; una "nuova-umanità" che di rado Fellini mostra in modo diretto, lasciando che sia direttamente lo spettatore ad identificarsi con il modello evocato.


Dinanzi a questo nuovo "non-modello", Amelia e Pippo risaltano come due anomalie, due "fantasmi" del passato portatori di alcuni valori che, per quanto scrausi e piccolo-borghesi, sono almeno qualcosa dinanzi al mare magnum di nulla e nullità che tutto invade.
Amelia è l'ultimo baluardo di una generazione di artisti che, pur nati all'ombra delle vere star come imitazioni a buon mercato, posseggono tutt'ora un'integrità, un senso del dovere e del lavoro che nella bolgia catodica non esiste, al punto che le tanto necessarie prove del balletto vengono eseguite in un bagno in costruzione, un "non-luogo" attiguo alle quinte dello show, ma da esse del tutto distaccato. Amelia ha lasciato lo spettacolo per trovare il suo posto come piccola imprenditrice, una "borghesuccia" che pur persa nelle piccole piccole gioie e dolori della mediocrità è riuscita ad ottenere qualcosa.
Pippo, d'altro canto, è quasi un rottame, un'ombra di un uomo forse un tempo geniale, ora sicuramente svilito. Un artista che non ha più nulla da dire se non provocazioni vacue e battutacce compiaciute, ma che ritrova nel perduto amore e nel ballo quella spinta vitale che sembrava aver perso e che ora rifulge genuina in contrapposizione alla parata di false maschere televisive.



Il ritrovarsi dei due artisti diviene ponte verso il passato, strada che si snoda su sentieri mai percorsi, quelli di un amore che non si conosceva e, soprattutto, reminiscenza di una gloria oramai dimenticata. La recherche dei due personaggi è però anche l'apsetto meno riuscito del film, che ne intacca in parte la portata, adagiata com'è sui soli dialoghi di Tonino Guerra che, per quanto ispirati, non riescono a restituire appieno la dimensione dello sconforto interiore dei due.


Quello di "Ginger e Fred" resta tuttavia lo stesso uno sguardo preciso e penetrante nel reale, una ricostruzione iperrealistica di un mondo decadente fino al distopico. E chissà se, in cuor suo, il grande maestro sapesse davvero quanto vero sarebbe diventato questo suo spaccato grottesco (all'epoca) ai limiti del fantascientifico.

martedì 8 giugno 2021

Donne in Amore

Women in Love

di Ken Russell.

con: Glenda Jackson, Oliver Reed, Alan Bates, Jennie Linden, Eleanor Bron, Alan Webb, Vladek Sheybal, Catherine Willmer, Sarah Nicholls, Michael Gough.

Drammatico

Inghilterra 1969

























Ken Russell è stato l'artefice di un cinema dal fascino innegabile, un autore in grado di dominare il box office per almeno un decennio (dal 1969, anno di "Donne in Amore" al 1980 di "Stati di Allucinazione"), fautore di un cinema tanto personale quanto visionario e provocatorio, un "enfant terible" la cui eredità filmica merita di essere riscoperta.


Formatosi alla BBC, come molti registi inglesi dell'epoca, trova l'esordio al cinema con "French Dressing", nel 1964, storia di una piccola comunità inglese che per aumentare le entrate decide di dar vita ad un film festival; trova il primo vero successo commerciale nel 1967, con "Il Cervello da un Miliardo di Dollari", avventura dell'agente segreto Henry Palmer affidatagli da Michael Caine in persona. Ma è solo nel 1969, con "Donne in Amore", che il suo nome diventa sinonimo di autore, con una pellicola di sicuro successo (Glenda Jackson vinse persino un Oscar per la sua performance) e che inaugura definitivamente il suo cinema. Un esordio che abbozza quello che diventerà il suo stile e che, partendo dal romanzo omonimo di D.H.Lawrence, traccia un quadro progressista dell'amore, risultando però in parte datato.



Nell'Inghilterra degli anni '20 del secolo scorso, le sorelle Gudrun (Glenda Jackson) e Ursula (Jennie Linden) conoscono il rude Gerdard (Oliver Reed) e il disincantato Rupert (Alan Bates). Laddove l'amore, ideale e idealistico, sboccia con naturalezza tra Rupert e Ursula, Gudrun e Gerard intrecciano una storia basata soprattutto sul rapporto fisico.


Cos'è l'amore? Esiste una forma d'amore più completa di altre? Gli interrogativi cardine di Lawrence trovano forma nelle immagini di Russell in modo talvolta smaccatamente teatrale, talaltra più libera, vicina ai sentori del Free Cinema, in un'ideale via di mezzo che finisce per ingessare la messa in scena. 
E l'amore è, per prima cosa, un'esperienza totalizzante, che chiede tutto al partner e trionfa in un abbraccio letale, da cui la splendida sottotrama dei neo sposi, annegati a pochi giorni dalle nozze.


L'amore è altresì affinità, forma di comunione spirituale che si fa vicinanza umana nello spirito. Da qui l'unione "maledetta" tra Rupert e Gerard, un rapporto che tenta di sublimarsi nell'atto fisico sfociando solo in una pantomima, una scena di lotta che sopperisce al sesso e che culmina in una catarsi per entrambi, ma che non è viatico per l'unione; questa, tra i due, resterà sempre e solo ideale, mai davvero effettiva, neanche quando entrambi sono chiamati a confrontarsi con i propri sentimenti. Ed anzi, è proprio la realizzazione dell'inesistenza di un sentimento affettivo vero e proprio che pone fine alla possibile unione.


Cui consegue lo sboccio definitivo della passione tra uomo e donna, un'unione che viene vista da Rupert come afflittiva, soffocante parte del desiderio nella routine ordinaria; un amore che è possessione e che prende prima di Hermione, la volitiva matrona che cerca di concupirlo, poi della relazione con Ursula, la quale riesce tuttavia a non scadere nel meccanico; almeno fino al finale, volutamente ambiguo, che fa presagire una possibile fine alla comunione dovuta al venir meno di uno degli affetti.


Al di là dello specchio, la relazione tra Gerard e Gudrum è instabile, basata su di un'attrazione fisica che non sfocia mai, ne presuppone la comunione spirituale. I due personaggi sono, anzi, agli antipodi: lei è un'artista, aspirante scultrice e amante del bello, lui è rude, mascolino fino alla brutalità e perso nel suo ruolo di rampollo d'industria. La loro unione spesso sfocia nella sopraffazione e quando la carica sessuale si esaurisce, la crisi entra in atto, con Gudrun che trova nell'artista omosessuale Loerke un'ideale compagno e che, come Hermione prima di lei, usa l'arte per sublimare l'unione.


Il racconto è ancorato alla divisione classica in tre atti e la messa in scena trova libertà creativa solo in poche occasioni; lo stile è ancora classico, ma la voglia di provocare di Russell è già presente, tra sequenze di nudo e inserti onirici. Quel che resta è quindi un buon dramma, magnificamente interpretato, che bene o male ancora oggi regge il peso degli anni, ma che, a causa del forte schematismo, è uno dei film peggio invecchiati del grande regista inglese.

venerdì 4 giugno 2021

Heartless

di Philip Ridley.

con: Jim Sturgess, Luke Treadway, Clémence Poséy, Noel Clarke, Justin Salinger, Fraser Ayres, Ruth Sheen, timothy Spall.

Thriller Psicologico

Inghilterra 2009












Lontano dagli schermi dal 1995, anno in cui "The Passion of Darkly Noon" vede il buio della sala, Philip Ridley torna al cinema nel 2009 con "Heartless", vero e proprio thriller psicologico a metà strada tra il mito di Faust e la descrizione della elaborazione del lutto, un piccolo rompicapo che, nonostante le intenzioni, non riesce né a essere originale, nè a coinvolgere.



Londra, Terzo Millennio. Il giovane Jamie (Jim Sturgess) è un piccolo fotografo afflitto da una voglia a forma di cuore che ne deturpa il viso. Muovendosi nei sobborghi, scopre come strani individui si celano nelle tenebre, forse demoni veri e propri. Le cose precipitano quando queste creature uccidono sua madre e, subito dopo, lui viene convocato da uno strano figuro che gli offre la vita che ha sempre desiderato.


Il mondo è marcio. Lontano migliaia di miglia dai campi di grano di "Riflessi sulla Pelle" e dal bosco di Darkly Noon, Ridley dipinge la metropoli come un alcova demoniaca dove la violenza e la sopraffazione regnano incontrastate. Ma tale descrizione, più che mostrata, viene evocata tramite i dialoghi, che non riescono a restituire l'adeguato senso di oppressione e le apparizioni demoniache non spaventano davvero, figlie come sono di una CGI scadente, inescusabile nonostante il budget scarso; forse anche per questo Ridley cede alla tentazione di usare i falsi jump-scare per scuotere lo spettatore, riuscendo però solo ad infastidire.


Jamie è un personaggio per certi versi simile a Darkly Noon: entrambi portano il fardello di una famiglia distrutta e di una vita frustrata dal vuoto, da un amore che nella sua non-esistenza li consuma da dentro. Ma laddove la furia di Darkly Noon è scatenata dal super-io della religione, quella di Jamie è totalmente inconscia, covata a causa della violenza subita (le angherie per il suo aspetto) così come a causa di quella in cui la società affoga. Il patto luciferino diviene così il viatico per ottenere quella "vita parallela" solo sognata.


Va dato conto a Ridley di come sia riuscito a ridisegnare il suo Faust connettendolo perfettamente al tema identitario. E le apparizioni di Papa B e del suo assistente sono anche la parte più riuscita del film; il primo è un Mefistofele drammatico, un santone del male metropolitano chiuso in una torre moderna dall'aspetto sudicio, decadente come la città lo è all'esterno. Il secondo è invece un semplice burocrate, un emissario del male "ordinario" che cela un potere immenso in un'apparenza ai limiti del buffo.


La perorazione del patto è, invece, la fase più scontata del film, dove però torna l'elemento del fuoco come forza distruttrice, ma al contempo creatrice. Jamie nasce e perisce dalle fiamme, la sua catarsi è rivelazione e distruzione, vita e morte e accettazione del tutto.
Tutto il resto è codificato nelle forme di un thriller tutto sommato prevedibile, le cui svolte sono telefonate e risapute e che trova nell'umorismo dell'uccisione del gigolò l'unica nota di originalità. Il che è un peccato, vista la caratura di Ridley come autore; e si spera davvero che decida di ritornare, prima o poi, dietro la macchina da presa per lavare questa piccola macchia nella sua carriera.

martedì 1 giugno 2021

La Terza Parte della Notte

Trzecia czesc nocy

di Andrzej Zulawski.

con: Malgorzata Braunek, Leszek Teleszynski, Jan Nowicki, Jerzy Golinski, Anna Milewska, Michal Grundziski, Marek Walcewski, Hanna Stankòwna.

Polonia 1971












E' difficile rendere giustizia al cinema di Zulawski con le parole. Il suo è un mondo febbricitante, fatto di emozioni urlate e stranianti, dinamico sino allo spasmodico, perso in elucubrazioni che si fanno visioni al contempo mistiche e inconsce. Un mondo fatto di doppi, di orrori striscianti sotto una superficie di normalità la quale viene piegata, contaminata dal bizzarro che custodisce sino a deformarsi in una para-realtà lontana dalla verosomiglianza, per questo incredibilmente espressiva, cinta nel monocroma grigio-azzuro e al contempo libera grazie ad una mdp che non è sguardo, ma corpo che si muove alla ricerca di personaggi, intenta in azioni tanto dinamiche quanto le loro.


Figlio di due intellettuali polacchi rifugiatisi in Francia, Zulawski si forma artisticamente presso Andrzej Wajda e arriva al lungometraggio nel 1971 con "La Terza Parte della Notte", classico esempio di esordio che custodisce in nuce tutta la filosofia e la potenza del suo autore. Ispirandosi alla giovinezza del padre, attivo nella resistenza polacca durante l'occupazione nazista, crea un bizzarro ritratto di una crisi interiore che si scontra con il caos della guerra, dove la frammentazione identitaria si fonde con la paura della violenza, creando un vero e proprio thriller surreale magnifico nella sua messa in scena.


Durante un soggiorno in campagna, la famiglia di Michal (Leszek Teleszynski) viene sterminata. Tornato in città, il giovane si unisce alla resistenza contro l'occupazione tedesca. Durante una fuga, incappa in una giovane donna, Marta (Malgorzata Braunek), sosia della defunta moglie. Scioccato per l'accaduto, decide di intrecciare con lei una strana relazione umana, mentre, su istruzione dei suoi superiori, si affida ad una clinica dove il vaccino contro il tifo viene sperimentato per il tramite dei pidocchi, che gli garantirebbe entrate stabili e, soprattutto, i documenti necessari per muoversi liberamente per le strade.


C'è la morte, alla base e all'incipit di tutto, così come alla fine. La prima e l'ultima sequenza si incontrano, idealmente, in una congiunzione data sia dalla morte dei personaggi, sia e soprattutto da quella universale, con i versi dell'apocalisse che accompagnano le immagini. La morte è intesa sia come cessata vita, sia come perdita di un affetto e, ancora più in profondità, di una parte di sé: Michal ha perso moglie, madre e figlio, ossia tre dei pilastri della sua esistenza, idealmente il suo passato, il suo presente ed il suo futuro.


La realtà comincia a ripiegare su sé stessa, con il passato che ritorna e il presente che si infrange in una infinità di riflessi. Il riflesso di sè stesso, trovato nel compagno Jan, con la paura di un fallimento; il riflesso della propria identità di amante, trasfigurato nel fantasma del primo compagno della moglie, che ritorna letteralmente dai morti; il riflesso dell'amore in sé, dato dal ritorno di Marta. L'identità sembra così esistere solo in relazione ad altri soggetti, ad altre persone che limitano il sé delineandone i contorni, senza i quali esso potrebbe divenire indefinito, dunque inesistente.
La crisi interiore va di pari passo con quella esteriore: i pidocchi altro non sono che gli occupanti, che succhiano il sangue dei polacchi in cambio di pochi beni, mentre l'idea del peccato che porta con sé una catastrofe si fa sovente concreta. Esiste una dimensione più grande rispetto a quella interiore di Michal, che prende le forme di una visione ultraterrena marchiata con il simbolo dell'occhio nel triangolo; ma, anzicchè portare certezza nella spasmodica corsa del protagonista, finisce per creare un caos ulteriore e ultraterreno, che si comma a quello interno.


A differenza di altri cineasti che hanno toccato tematiche simili (si pensi, su tutti, al coevo Rainer Werner Fassbinder), Zulawski non trova nel suo personaggio una chiusura ideale, un'identità parallela o altra pronta a surrogare quella persa; oltre l'io c'è solo il caos, che prende le forme di una messa in scena anarchica, dove la macchina da presa, rigorosamente a mano, infrange l'unità di visione e l'oggettività per divenire occhio che insegue e al contempo mente che elabora il protagonista e le sue azioni.
Nella sua instancabile rincorsa, la visione è l'unica certezza che viene data al personaggio e allo spettatore: la realtà è a pezzi, l'io cosciente altrettanto, si può solo assistere al dipanarsi degli eventi allucinanti che scorrono dinanzi ai nostri e ai suoi occhi per i 100 minuti di durata, sino ad arrivare ad un'unica concretezza, quella di un ulteriore doppio, il quale fa calare ulteriori misteri su cosa sia successo.


L'unica certezza, in sostanza, è l'incertezza, la coscienza che ci sia qualcosa di sbagliato dentro e fuori di noi, un parassita che succhia il sangue e vomita malattia, pronto a divorare ogni cosa. E in questa sua fluidità di significato, Zulawski riesce a convincere proprio grazie all'estrema libertà narrativa, estetica e stilistica. E questo non è che il primo tassello di una filmografia sfavillante.