martedì 30 novembre 2021

Matrix

The Matrix

di Lana & Lili Wachowski.

con: Keanu Reeves, Laurence Fishburne, Carrie-Anne Moss, Hugo Weaving, Joe Pantoliano, Gloria Foster, Marcus Chong, Anthony Ray Parker, Julian Arahanga.

Azione/Fantascienza/Cyberpunk

Usa, Australia 1999












Con la sua uscita nell'ultimo anno del secolo, "Matrix" è come un punto esclamativo alla fine di due decadi di sviluppo e affermazione della narrativa cyberpunk. Nata più o meno nei primissimi anni '80, con la produzione di Philip K.Dick e alcune intuizioni Harlan Ellison a fare da precursori, portata sul grande schermo da "Blade Runner", la "via" del cyberpunk diventa mainstream a partire dagli anni '90. Innumerevoli sono le opere che vi si rifanno in questo decennio, all'interno di ogni medium immaginabile: in tv impazzano il "Tekwar" di William Shatner e "Total Recall 2070", che più che rifarsi al blockbuster di Paul Verhoeven sembra un vero e proprio adattamento di "Blade Runner"; nel mondo dei videogame arrivano le prime avventure immersive nelle forme dei due "System Shock" di Warren Spector, mentre perfino il fumetto mainstream non resiste al richiamo del genere, con le testate "2099" che reinventano i più famosi personaggi dell'universo Marvel in un universo pregno di tecnologia impazzita. Nella letteratura, Neal Stephenson porta il cyberpunk ad un livello successivo, cosciente di sè, dando nuova forma alle intuizioni avute da Gibson nel decennio precedente e lo stesso Gibson trova nuova affermazione con la Trilogia del Ponte. Nel mondo degli anime, oltre ad "Akira" già nel decennio precedente, è grazie a "Serial Experiments Lain" che il cyberpunk trova una nuova forma, più sottile e ermetica, pronta a dargli nuova profondità.
Al cinema, tuttavia, le cose sono stagnanti; l'adattamento di "Neuramante" è in cantiere dalla fine degli anni '80 e fatica a vedere la luce e, in compenso, quello di "Johnny Mnemonic" diventa un flop cocente, tant'è che lo strambo "New Rose Hotel" di Abel Ferrara sembra mettere una pietra tombale su ogni adattamento possibile di William Gibson. L'unico vero esponente del cyberpunk a trovare vero successo è il capolavoro di Mamoru Oshii, quel "Ghost in the Shell" che diverrà addirittura nuovo termine di paragone all'interno del filone medesimo.
Ed è proprio a GITS che le sorelle Wachowski (all'epoca fratelli) e in generale al cyberpunk declinato negli anime sembrano rifarsi per la creazione del loro cult.

 

"Matrix" è, innanzitutto, riproposizione e solo talvolta rielaborazione di topoi estetici, stilistici e narrativi altrui. Trovare tutti i riferimenti al passato è obbligatorio per poter davvero capire (e soprattutto apprezzare) il lavoro svolto dal duo di autrici.
Lo stile di regia, fatto di ralenty intensi e coreografie con wire-work esagerate pesca a piena dal cinema di Hong Kong, dagli action di John Woo alle infinite produzioni che gli Shaw Brothers hanno sfornato a partire dalla fine degli '60, in particolare dal cinema di Tsui Hark, che già negli anni '80 ne aveva esasperato lo stile verso una forma stilistica nuova, ancora più estrema nella sua forte componente spettacolare.
Se il concetto di "Matrice" intesa come cyberspazio viene ripresa direttamente da "Neuromante" (anche se sembra che lo stesso Gibson abbia ripreso il termine e il relativo significato da un episodio di "Doctor Who" di metà anni '70), quello di realtà virtuale come alternativa alla realtà sensibile con la quale gli essere umani possono/devono collegarsi viene dal romanzo "Simulacron 3" di David F.Galouye (che Rainer Werner Fassbinder aveva portato sul piccolo schermo nel 1973 con lo splendido "Il Mondo sul Filo"), ma soprattutto al saggio "Simulacri e Imposture" di Jean Braudillard, che appare nel film come "contenitore" della vera identità di Neo; il sistema di collegamento posto alla base della nuca è un richiamo a "Ghost in the Shell", che le Wachowski omaggiano anche nella scena della sparatoria al mercato durante l'ultima sequenza prima del climax. La guerra con le macchine, manco a dirlo, viene da "Terminator" e il concetto di realtà apparente come pura illusione, dietro alla quale si cela una realtà effettiva, si rifà alla letteratura di Philip K. Dick e ai suoi "diversi strati del reale", soprattutto dalla famosa intervista di Metz del 1977, nella quale l'autore teorizzava una realtà virtuale come illusione globale ordita da un governo delle macchine; ma da questo punto di vita, l'opera che sembra aver ispirato maggiormente le autrici è in realtà decisamente più pop, ossia il primo "Megazone 23", uno dei primi OAV ad essere mai stati prodotti.


Arrivato negli Usa come versione cinematografica di quel memorabile pastrocchio chiamato "Robotech", "Megazone 23" narra la storia di Shogo Yahagi, motociclista scapestrato e romantico la cui vita viene sconvolta quando un suo amico gli consegna una strana super-motocicletta, trasformabile in un robot da guerra; indagando sulle origini dello strano mezzo, il ragazzo scopre come il mondo in cui vive sia in realtà una simulazione creata ad hoc da un supercomputer, modellata sul Giappone degli anni '80 poiché visto come apice del benessere umano. In realtà, sia lui che i suoi concittadini vivono reclusi in una futuribile colonia spaziale semovente che tenta di ritornare verso la natia Terra.
Oggi come oggi, non è certo il caso di riscoprire "Megazone 23" ed i suoi due seguiti; trattasi di opere genuinamente figlie del loro tempo, dove le spettacolari immagini e la trama accattivante sono sorrette da una sceneggiatura lacunosa e incoerente, priva persino di un finale adatto. Tant'è che si può tranquillamente affermare come le Wachowski, facendone loro lo spunto di trama, riescano in realtà a dar vita ad un'opera decisamente più convincente e coinvolgente.


La distorsione del reale in "Matrix", così come in "Megazone 23" è totale, non ci sono ambiguità: Matrix è una simulazione, il mondo post-bellico è reale, ogni ambiguità è assente, cosa che distanzia il lavoro delle Wachowski da Dick e che rende la narrazione più piatta (tanto che Braudillard, all'uscita del film, finì persino per criticarlo), ma non necessariamente peggiore. Perché quello delle Wachowski, al di là delle influenze e degli spunti narrativi e filosofici, è sostanzialmente un ottimo film d'azione, un blockbuster che mira ad intrattenere creando sequenze action che in Occidente non si erano mai viste.
Da questo punto di vista, "Matrix" è, se non un capolavoro, quantomeno un gioiello di tecnica applicata all'intrattenimento: l'uso del bullet time per enfatizzare le acrobazie impossibili dei personaggi è ancora oggi sbalorditivo, impressionante all'epoca, così come la riproposizione degli stilemi del cinema d'azione di Hong Kong riesce davvero a creare una visione unica, fresca e affascinante.


La prima parte è per forza di cose la più riuscita: il mistero di Matrix, la "tana del coniglio" nella quale Neo precipita sino a scoprire la verità, la rivelazione di come il mondo sia fittizio e la realtà sia un incubo dominato da delle macchine che usano gli uomini come fonte energetica (trovata sicuramente poco realistica, ma lo stesso estremamente disturbante) e la scoperta di un mondo da incubo, ma reale, effettivo, che va riconquistato da un'umanità ridotta ai minimi termini.
Le Wachowski mantengono saldamente le redini della regia, sanno quando accelerare il ritmo e quando rallentare, dando spazio ai personaggi, lasciando che la narrazione fluisca in modo naturale, mai forzato.
L'uso dei simbolismi è azzeccato; nella prima parte torna la tematica del risveglio, portata in scena in modo quasi buenelliano, con Neo che si risveglia costantemente da un sonno che sembra eterno. Mentre il riflesso, lo specchiarsi in una superfice riflettente porta alla conoscenza di se stessi, rimarcata nella scena dell'Oracolo.


Dove "Matrix" inciampa e nel suo voler avere una profondità filosofica che, di fatto non ha, appiattendosi su citazioni inutili (perché la nave di Morpheus, il dio greco dei sogni e del sonno, è dedicata a Nabucodonosor?) e insistendo sul concetto di risveglio apofatico che in realtà smette di aver significato dopo la scena della pillola blu. Non più riuscita è la tematica della profezia che si autoavvera, con la resurrezione di Neo "miracolosa" che toglie ogni dubbio sulla sua vera identità, quella di un super-uomo piuttosto che quella di un uomo comune che ha trasceso i limiti dell'umana percezione.


"Matrix" funziona come thriller, nella sua prima parte, e come perfetta pellicola action nella seconda. La trama fantascientifica è si derivativa, ma perfettamente riuscita, riuscendo ad intrigare anche dopo la prima visione. E con la sua uscita in quel del 1999, ad un anno da quel "Dark City" che ne declinava gli stessi argomenti con un'estetica gotica, e nello stesso anno di "eXistenZ", può tranquillamente essere vista come l'ultima grande pellicola cyberpunk di Hollywood, il supremo tentativo della Mecca del Cinema di dare corpo alle ossessioni post-tecnocratiche di fine millennio. 

venerdì 26 novembre 2021

I Molti Santi del New Jersey

The Many Saints of Newark

di Alan Taylor.

con: Michael Gandolfini, Alessandro Nivola, Leslie Odom Jr., Vera Farmiga, Jon Bernthal, Ray Liotta, Corey Stoll, Michela De Rossi, Billy Magnussen, John Magaro, Michael Imperioli.

Usa 2021













A quasi quindici anni dalla sua conclusione, l'eco de "I Soprano" risuona ancora sia tra i fan della prima ora che tra coloro i quali, pur non amandola, ne riconoscono l'incommnsuarabile valore storico. Benché non priva di antecedenti, è con l'opera di David Chase che la golden age dei serial ha inizio; il tutto con un imperativo categorico: svecchiare il linguaggio televisivo affidandosi alle immagini piuttosto che alle parole, riprendendo stilemi narrativi tipicamente cinematografici e lasciando che siano le azioni a descrivere gli stati d'animo dei personaggi, piuttosto che le parole. Il mezzo televisivo rifiorisce con una narrazione ardita, anticonvenzionale e grazie ad una storia di gangster cruda, complessa ma al contempo lontana da molti dei luoghi comuni del genere.


Partendo dal lascito di Scorsese e l'immortale "Quei Bravi Ragazzi", Chase ibrida lo sguardo alla manovalanza criminale con lo psico-dramma, rifacendosi in parte anche al piccolo cult, ad esso coevo, "Terapia e Pallottole" di Harold Ramis, ma utilizzando uno humor più asciutto e nero. La storia del piccolo boss di Newark Tony Soprano, della sua rapace madre Livia, della sua matta e egocentrica sorella Janice e di tutto un pantheon di personaggi disfunzionali e deboli riscrive le regole del criminal-drama per farsi storia di perdenti, di sconfitte umane e materiali che trova una chiusa in quel perfetto finale aperto, dove tutto può accadere ma dove nulla accade perché darebbe un appiglio definitivo ad un cast che vive di indeterminatezza.
Eppure già all'indomani di quel finale, Chase parlava apertamente di un adattamento cinematografico, il quale, complice anche la prematura scomparsa di James Gandolfini, arriva solo oggi e nelle forme di un prequel. Un film che dovrebbe fare da "atto 0" al serial, ma che di fatto non aggiunge nulla a quanto visto nelle sei stagioni, né può essere apprezzato da chi non conosce la serie, restando un'opera interessante, ma incompiuta.


E' il 1967. Mentre in tutto il New Jersey impazzano le proteste della comunità nera, Dick Moltisanti (Alessandro Nivola) intreccia una pericolosa relazione con la nuova moglie del padre, l'immigrata italiana Giuseppina (Michela De Rossi). Nel frattempo, suo cugino Johnny Soprano (Jon Bernthal) viene condannato al carcere e lui stesso si ritrova nello scomodo ruolo di figura paterna per il giovane Tony Soprano (Michael Gandolfini).


Una storia fatta di padri assenti. Dickie si ritrova suo malgrado a rivivere la tragedia di Edipo: dopo aver ucciso il padre, giace con la matrigna e come a causa di una sorta di castigo divino, ritrova il genitore nello zio, sempre interpretato da un redivivo Ray Liotta, il quale non riesce ad aiutarlo nei momenti di difficoltà, finendo per divenire una versione più quieta del fu genitore.
A sua volta, il giovane Tony (interpretato dal figlio di James Gandolfini, Michael, il quale dimostra un ottimo talento) è alle prese con un padre evanescente, con il quale non riesce ad instaurare alcun rapporto, mentre la sua vera vera figura paterna, ossia Dickie, finisce per abbandonarlo.


Sullo sfondo, l'ascesa criminale della comunità nera, in una ricostruzione minuziosa e vibrante delle proteste di fine anni '60 che finiscono per portare ad una singolare forma di inclusivismo, quello criminale, con un finale dove il reietto diviene esso stesso maschio alfa grazie alla violenza.
E, di fianco alla ricostruzione storica, quella umana, dei personaggi che chi conosce la serie già ha inquadrato.
La distruzione mentale di Livia trova qui la sua origine, con il rifiuto di una cura farmacologica che la porterà ad una nevrosi crescente. Così come ha inizio la cattiveria acida di Junior, il quale passa dall'essere una spalla supportiva ad un egocentrico vendicativo. Soprattutto, si assiste all'inizio dell'erosione del carattere di Tony, che già in giovane età vede le sue ambizioni tarpate da un ambiente che sembra non considerarlo, di sicuro non apprezzarlo.


Tutto questo percorso caratteriale non trova volutamente una chiusa; ogni conflitto viene accennato, pochi sono risolti in modo adeguato e altri non trovano alcuna catarsi. Non aiuta di certo la regia piatta di Alan Taylor, che, pur formatosi con la serie, non trova qui l'enfasi giusta per dar corpo agli eventi, i quali scorrono spesso piatti e senza mordente.
L'operazione di trasposizione finisce così per ricordare quanto fatto da Vince Gilligan con "El Camino", ossia un film pensato per i fan, ma che non aggiunge davvero nulla a quanto detto nella serie originale. L'opera di Chase e Taylor è professionale e perfettamente recitata, ma chi ha amato la serie non ci troverà nulla di nuovo, mentre chi non la conosce finirà per trovare la storia ancora più inconcludente.

mercoledì 24 novembre 2021

Sir Gawain e il Cavaliere Verde

The Green Knight

di David Lowery.

con: Dev Patel, Alicia Vikander, Joel Edgerton, Sarita Choudury, Anais Rizzo, Ralph Ineson, Sean Harris, Kate Dickie, Barry Keoghan, Erin Kellyman.

Fantastico

Irlanda, Canada, Usa, Regno Unito 2021













Che cos'è il coraggio? Lo possediamo davvero tutti o dobbiamo guadagnarcelo soffrendo e lottando contro un destino certo? David Lowery si pone queste domande riportando in scena la storia del "Cavaliere Verde", uno degli episodi più particolari del Ciclo Bretone, creando un film ipnotico e affascinante.


A Camelot, la sera di Natale, Re Artù (Sean Harris) festeggia con i suoi fidi cavalieri, quando all'improvviso un gigantesco cavaliere verde irrompe nelle sale. Lo strano figuro offer al re un gioco: chiunque riuscirà a colpirlo riceverà in dono la sua possente ascia, ma, in cambio, ad un anno esatto, dovrà recarsi presso la Cappella Verde e ricevere in cambio quello stesso colpo.
Gawain (Dev Patel), qui nipote di Artù, accetta la sfida e decapita il cavaliere verde, vincendone l'arma. Ma un anno passa sin troppo in fretta...


Il nemico della gloria è la morte. La morte è onnipresente in "The Green Knight", a partire dal colore verde, il marcio, il colore della terra che si riappropria di ciò che è distrutto, trasformandolo il altro, assimilandolo a sé. La morte è qui concetto laico, non cristiano: non c'è una continuazione alla vita, che si sfalda e finisce al momento in cui si spira. Come re Artù, oramai vecchio e moribondo, o la "santa" Winnifred, che pur comparendo come spirito torna subito a divenire cadavere.
Gawain è, in pratica, un codardo, un uomo che rifugge la gloria per paura della morte e, prima ancora, indugia nei piaceri più labili evitando i suoi compiti di cavaliere; come un novello Enrico V, preferisce il vino alla spada e la sua donna, di umile estrazione e forse meretrice, è usata come mero orpello da usare per i propri piaceri.
La chiamata all'avventura diventa così un viaggio che tempra il cavaliere e, forse, lo redime.


La prima impresa di Gawain è anche la più importante: al primo imprevisto, viene derubato da un pugno di ragazzi. Spogliato dei suoi mezzi, di quegli addobbi che ne sanciscono lo status di cavaliere, deve ritrovare da sé la virtù, schivando la paura della morte e mettendosi in gioco in prima persona, da cui il rifiuto dei giganti di aiutarlo ad attraversare la valle.
La catarsi diventa la vera impresa: con un'anticipazione, l'aspirante cavaliere realizza come l'onore non sia una menzogna, o almeno come un regno edificato su di una menzogna sia destinato a cadere, come la morte lo attenda comunque. Da qui la decisione di accettarla, che conduce ad un finale volutamente ambiguo, che lascia il destino dell'eroe in sospeso, forse perché non conta tanto ciò che avverrà, quanto ciò che Gawain ha imparato, come si è evoluto.


L'occhio di Lowery è attentissimo alla composizione dell'inquadratura. Con la fotografia di Andrew Droz Palermo da vita ad immagini incredibili, ammantate nelle tenebre o nelle nebbie, creando un'atmosfera irreale; quello di Gawain è un viaggio onirico, nella mente prima ancora che nella coscienza, un sogno ai limiti del febbricitante dove tutto è possibile, dove il confine tra vero e immaginario è inesistente, in contrasto con la forte crudezza di costumi e scenografie.



"The Green Knight" è un'opera ipnotica, affascinante nella messa in scena, convincente nella declinazione del mito; una piccola grande epica che dimostra come sia ancora possibile raccontare il mito in modo moderno ed efficace.

martedì 23 novembre 2021

Paganini

di Klaus Kinski.

con: Klaus Kinski, Debora Caprioglio, Nikolai Kinski, Dalila Di Lazzaro, Eva Grimaldi, Marcel Marceau, Andrè Thorent, Donatella Rettore, Bernard Blier, Tosca D'Aquino, Feador Chalipain Jr.

Biografico/Erotico

Italia, Francia 1989














Quando il 23 Novembre 1991 Klaus Kinski si spegneva nella sua casa in California, la stampa decise di ricordarlo in modo bizzarro e forse indegno, ossia come uno degli attori più difficili da dirigere. Non che non fosse vero, basti pensare alle sfuriate con il pur amico Werner Herzog o le strampalate pretese sui set degli ultimi film da lui interpretati. Ma Kinski era certamente di più di un matto dal grande talento, era forse uno dei migliori attori del XX secolo, che poteva contendere a Marlon Brando e Laurence Oliver la corona di migliore in assoluto.



Certo è che il suo carattere non lo ha davvero aiutato: affetto da schizofrenia, certificata in gioventù, Kinski odiava il ruolo del regista al punto di rifiutare ingaggi da parte di artisti del calibro di Pasolini, Spielberg e Ken Russell, spesso optando per apparire in b-movie dove poteva meglio influenzare la produzione. E non si può neanche dire che la sua carriera ne abbia davvero risentito, con oltre 130 ruoli accreditati ed un curriculum che spazia dalla serie A alla serie Z. Eppure, sembrava che davvero mancasse qualcosa a Kinski, quel "quid plus" che lo caratterizzasse come artista vero e proprio. Qualcosa che ai suoi occhi ha la forma di un progetto davvero personale, un film a cui sia attaccato non solo per motivi lavorativi, ma anche affettivi. Film che diviene, purtroppo, anche il suo ultimo lavoro, ossia "Paganini", stramba e delirante biografia del violinista "del diavolo" che Kinski dirige in prima persona, ma solo dopo il rifiuto dell'amico Herzog.



Nella sua "Versione Originale", montata da Kinski in prima persona, così come nella theatrical cut, di poco più corta, "Paganini" è un'allucinazione folle e incontrollata di un artista (sia quello della storia, sia colui che la racconta) in preda ad un delirio animalesco. Le visioni, talvolta rinchiuse in singole inquadrature, sono sfrenate e incontrollate, tanto che a volte si fatica a seguirle. Così come si fatica a seguire tutta la narrazione, sfilacciata sino al pasticcio.
Il Paganini di Kinski è una figura demoniaca, un mostro in grado di penetrare il corpo e la coscienza delle donne grazie al solo violino. E la sua storia è tutta qui, una sarabanda di donne in orgasmo, preti indignati e sviolinate libere, la cui unica luce di bontà viene data dal tenero rapporto tra il violinista ed il suo pargolo, interpretato dal vero figlio di Kinski.


"Paganini" è follia messa su pellicola, un viaggio allucinato e incontrollato dentro la testa di autore che pensa ad un altro artista, la cui vita lo affascina. Non c'è metodo nell'esecuzione, non c'è un filo logico, o a-logico o nesso alcuno tra scene, inquadrature e immagini, che talvolta paiono fuoriposto, con tutte quelle carrozze in corsa e l'ordine cronologico degli eventi scardinato sino al non-senso. Immagini al ralenty, pornografia vera e propria (e il dietro le quinte svela come spesso le attrici siano state letteralmente abusate dall'attore/autore) e musica classica si amalgamano senza fondersi, senza mai trovare un punto cruciale, restano elementi tra loro estranei.



La visione si fa così tour de force pesante sino alla noia, un assistere passivo ad eventi privi di significato sul lungo termine e talvolta persino nel breve termine. Kinski, in fondo, non fa che ripetere un concetto, ossia: "Paganini era un genio musicale che amava alla follia il sesso" e lo fa sino alla ridondanza, la quale arriva già dopo la prima sequenza, quei diciannove interminabili minuti del concerto al Regio Teatro di Parma con la voce-off di una donna gaudente.
Il tutto cucito in immagini piatte, quasi tutte create palesemente con soli teleobiettivi, nelle quali i personaggi si muvono senza senso o scopo, tranne quando sono colti dalla passione erotica.


L'ultimo Kinski è, forse, il Kinski più genuino: sfrenato, sfrontato, strafottente ed egocentrico sino alla violenza, vera e artistica. "Paganini" è così uno strambo pasticcio "d'autore", un getto di sangue e sudore su pellicola fatto d'istinto, di pancia più che di mente o coscienza. Un lascito che non rende però giustizia alla carriera del suo autore, ma forse rende perfettamente giustizia all'uomo, geniale e sfregolato, una figura di culto alla quale neanche le orrende accuse di pedofilia senmbrano poter adombrare il mito.

sabato 20 novembre 2021

Ghostbusters: Legacy

Ghostbusters: Afterlife

di Jason Reitman.

con: McKenna Grace, Finn Wolfhard, Paul Rudd, Carrie Coon, Celeste O'Connor, Logan Kim, Annie Potts, Bill Murray, Dan Aykroyd, Ernie Hudson, Sigourney Weaver, J.K.Simmons.

Fantastico/Commedia

Usa, Canada 2021











Chissà cosa ha spinto davvero la Sony a produrre questo "Ghostbusters: Afterlife" ("Legacy" in Europa). Dopotutto, il reboot di Paul Feig non solo ha il primato non invidiabile di film più odiato degli ultimi 10 anni (merito anche e soprattutto dei suoi autori), ma ha anche causato oltre 40 milioni di dollari di perdete alla casa produttrice, sancendo, in teoria, la fine del franchise del fantasmino bianco.
Eppure, cinque anni dopo, ecco arrivare un nuovo film con protagonisti gli scienziati pasticcioni creati da Dan Aykroyd e Harold Ramis, in barba ad ogni aspettativa. Il perché la Sony abbia deciso di togliere il telone dalla Ecto-1 e produrre un terzo capitolo della serie è tutto da capire: fiducia in un brand che ancora smuove parecchi soldi? Forma di scusa verso Aykroyd per non avergli permesso di creare il suo "Ghostbusters: Hellbent"? Voglia di rivendere al pubblico adulto la nostalgia del passato stile "Stranger Things"?
Forse una combinazione di tutte queste cose. Una cosa è però certa: "Afterlife" è in tutto e per tutto un film di Jason Reitman che, per la prima volta alle prese con un budget grosso benché non esorbitante ed un blockbuster vero e proprio, riesce innanzitutto a creare un film ad altezza di personaggi, che non sfigura nella sua filmografia fatta di piccole storie e piccole persone.



Un film che, di fatto, ha una doppia anima. La prima è quella propria del cinema di Reitman: ecco tornare personaggi strambi e perdenti, ultimi tra gli ultimi, incastrati nel purgatorio della provincia americana (in realtà totalmente ricreata nella campagna canadese). La piccola Phoebe (McKenna Grace) è un outsider, un piccolo genio incapace di relazionarsi al prossimo. Suo fratello Trevor (Finn Wolfhard) il classico teen-ager privo di qualità effettive, alle prese con un mondo ostile. La loro madre Callie (Carrie Coon) una donna sola, abbandonata dal padre prima ancora che da un merito letteralmente invisbile, che non ha più nulla ed ha bisogno di un modo per riavviare da capo la sua vita. Mentre a Summerville, tipico paesino di provincia yankee, li attendono un professore che la vita ha bloccato nella mediocrità (Paul Rudd) ed un piccolo appassionato di paranormale (Logan Kim) per il quale il mondo è più grande e variegato del resto dei suoi concittadini. 



Reitman si concentra su questo pugno di perfetti perdenti, mostra la loro quotidianità, la loro voglia di riscatto puntualmente castrata dagli eventi e, piano piano, il loro rapporto con il sovrannaturale, con quel qualcosa di "più grande" che ne riconfigurerà le vite, in meglio o in peggio che sia. Il suo tocco è leggero, non fa pressione sui risvolti più umoristici i quali, quando arrivano, risultano così genuini, nonostante il fatto che, per la prima volta nella serie, agli attori sia concesso pochissimo spazio per l'improvvisazione.




L'altra anima è quella più ovvia, ossia la continuazione della storia degli acchiappafantasmi. Quella che sulla carta pareva la più rischiosa e pronta a fallire: l'impressione che il tutto si sarebbe risolto in una parata di rimandi al passato per stuzzicare la nostalgia degli aficionados era forte e non mancano strizzatine d'occhio in tal senso. Ma Reitman non è J.J.Abrams, né uno dei fratelli Duffer, non gli interessa tanto compiacere il pubblico di vecchi fans, quanto fare colpo sui più piccoli, su quella generazione che non è cresciuta giocando con i pupazzi dei The Real o canticchiando le note di Ray Parker Jr.




Trama e personaggi, in tal senso, sono cristallini: sono passati 30 anni dall'ultimo avvistamento dei fantasmi, ossia sono 30 anni che il brand dei ghostbusters ha esaurito la sua carica iniziale. I fans della prima ora sono cresciuti, come testimonia il personaggio di Rudd, e benché il loro affetto per il passato sia genuino, sono andati oltre, sono diventati altro, non si sono fossilizzati nel feticismo dei loro eroi e non sono loro a muovere davvero gli eventi, nè a salvare la situazione.
I dodicenni di oggi, che negli anni '80 avrebbero apprezzato il primo film e il cartone, riscoprono piano piano il passato, riallacciano i rapporti con il rimosso, ridanno nuova linfa a quegli oggetti ora impolverati. E quando il passato ritorna davvero, non lo fa come riproposizione calligrafica di ciò che fu: Gozer, di nuovo antagonista principale (sotto il cui make-up dovrebbe celarsi niente meno che Olivia Wilde), non è più "il distruggitore", ma il dio dei morti pronto a conquistare la terra, ossia è una nuova minaccia sotto le spoglie di ciò che è familiare. Allo stesso modo, il fantasma Muncher è si un rimando allo storico Slimer, ma che ha una sua anima che lo eleva dal ruolo di semplice "segnaposti della nostalgia".


Ma quando l'omaggio entra davvero in gioco, risulta genuino e sincero. A proiezione finita, con quel "per Harold" a sancire la fine degli eventi, il perché Reitman padre e figlio, Dan Aykroyd, Ernie Hudson e persino Bill Murray abbiano deciso di riprendere in spalla gli zaini protonici è chiaro, ossia dare un ultimo addio a quei personaggi e al loro co-creatore, un saluto ad un amico e ad un mondo che meritava un incarnazione migliore di quella del 2016.
La nostalgia, in tal senso, c'è tutta: i versetti dell'Apocalisse, la Ecto-1, lo score originale di Elmer Bernstein, la collezione di spore, muffe e funghi di Egon e persino quello strano aggeggio rosso che veniva confiscato ai tre protagonisti all'inizio del primo film. Ma, ancora, il tutto viene rispolverato per i nuovi arrivati, per essere ripreso e apprezzato non solo e non tanto dai nostalgici. E se i nuovi personaggi sono tutti all'altezza, il rientro in scena degli storici acchiappafantasmi poteva essere davvero gestito meglio del classico intervento del deus ex machina, unica macchiolina in un'operazione altrimenti attenta.




Jason Reitman riesce così nel duplice intento di rendere omaggio ad un amico ed al suo classico, a ridare forza al franchise ma, prima ancora, a creare una storia credibile e dei bei personaggi. Un film volutamente piccolo, ma dal cuore grande, che evita le trappole più ovvie e si configura come un sequel all'altezza dell'originale e perfettamente riuscito.

venerdì 19 novembre 2021

The French Dispatch

di Wes Anderson.

con: Benicio Del Toro, Owen Wilson, Lyna Khoudri, Steven Park, Timothée Chalamet, Tlda Swinton, Léa Seydoux, Frances McDormand, Adrien Brody, Jeffrey Wright, Mathieu Amalric, Tony Revolari, Bob Balaban, Bill Murray, Willem Dafoe, Liev Schrieber, Saoirse Ronan, Henry Winkler, Pois Smith, Christoph Waltz, Cécile de France, Guillaume Galliene, Rupert Friend, Elisabeth Moss, Jason Schwartzman, Fisher Stevens, Griffin Dunne, Anjelica Huston.

Usa, Germania 2021










Il rischio implicito nel cinema di Wes Anderson è che la forma finisca per divorare la sostanza, che l'estetica ricercatissima e riconoscibile obliteri personaggi e trama. Cosa che avveniva in "Il Treno per il Darjeeling" e che a tratti avviene anche in "The French Dispatch". Ma in quest'ultimo caso è davvero un male?


Ambientato nell'immaginaria cittadina francese di Ennui, in un periodo temporale ricompreso tra gli anni '50 e '70, l'ultima fatica Anderson altro non è se non un gigantesco atto d'amore verso il cinema e la cultura francese, verso l'arte astratta e le avanguardie pittoriche del XX secolo, verso la Nouvelle Vague e la controcultura del Maggio (qui Marzo) parigino e verso le atmosfere e l'estetica del polar di Clouzot e Melville. La cornice, in sostanza, lo spiega da sé: tre episodi "e mezzo" che portano in scena altrettanti articoli del French Dispatch, giornale americano sito in Francia che getta uno sguardo alieno sulle vicende più importanti della nazione.


L'arte è forma della follia, ossessione erotica filtrata attraverso uno sguardo deviante a sua volta ricomposto in geometrie fredde, rese ancora più algide da un bianco e nero glaciale. L'artista Rosenthaler (Benicio Del Toro) e la sua algida musa Simone (Léa Seydoux) sono due archetipi "maledetti" della pittura francese del Secondo Dopoguerra, che distrugge ogni parvenza umana per farsi astrazione pura. E se è vero che la vera bellezza è negli occhi di chi osserva, allora il mercante d'arte squinternato Cadazio (Adrien Brody) ha di certo trovato una gallina dalle uova d'oro. Anderson ritrae i personaggi in modo irriverente, come degli idioti a piede libero, ma il suo sguardo non è davvero caustico, quanto divertito e si fa per una volta dinamico nell'uso della camera a mano che infrange le sue famose geometrie per dare forma alla furia. Soprattutto, mette da parte l'uso del colore per usare un bianco e nero profondo, dando un tocco diverso e originale alle immagini.


La Rivoluzione Sessantottina ha il volto di Timothée Chalamet, chiamato "Zeffirelli" per ovvi motivi; e la contestazione viene filtrata attraverso l'occhio maturo di Frances McDormand, la quale non può che rimanere affascinata da quei movimenti sgangherati e confusi, ma la cui indignazione è genuina. L'omaggio a Godard è evidente nell'uso dei colori, con i bianchi intensi giustapposti alle esplosioni dei colori di base, mentre il bianco e nero diventa quello di "Fino all'Ultimo Respiro", con tanto di inquadratura della coppia a letto a fare capolino.


L'indagine culinaria del reporter Roebuck Wright (Jeffrey Wright) diventa un caso di polizia quando il figlio del commissario (Mathieu Amalric) viene rapito da dei facinorosi. Il modello è dato soprattutto da Melville, con un bianco e nero  contrastatissimo e una storia poliziesca condotta però con brio e leggerezza.
Ad Anderson mai come ora interessano le immagini e le parole; la narrazione filmica diviene così un fiume in piena di concetti talvolta antitetici e inconciliabili, come nell'ultimo episodio, ma tenuti sempre insieme da una narrazione ferrea, che non desiste e non conosce veri tempi morti.
Le singole storie ritraggono tutti i topoi del suo cinema, soprattutto il rapporto padre-figlio e la ricerca costante di ispirazione e, pur non raggiungendo la complessità di altre sue opere, restano comunque riuscite, in un'antologia divertita e sentita che incanta e delizia per tutta la sua durata.


L'operazione trova la sua ragione d'essere nella rielaborazione dei topoi narrativi e stilistici; non un semplice omaggio al passato, quanto una sua rilettura personale, che permette al cinema d'autore francese di rifulgere e ad Anderson di provare nuovi concetti e stilemi estetici. Un cinema che è bene o male pura forma, pura estetica messa al servizio delle immagini e delle parole, ossia dei concetti astratti più che al servizio di storia e personaggi. E che, grazie ad una conduzione magistrale e divertente, è totalmente riuscita, per questo quantomai preziosa.

lunedì 15 novembre 2021

Ghostbusters II (Acchiappafantasmi II)

Ghostbusters II 

di Ivan Reitman.

con: Bill Murray, Dan Aykroyd, Sigourney Weaver, Harold Ramis, Ernie Hudson, Rick Moranis, Annie Potts, Wilhem von Homburg, Peter MacNicol, Kurt Fuller, David Margulies, Harris Yulin, Janet Margolin, Max Von Sydow.

Fantastico/Commedia

Usa 1989













Verso la fine degli anni '80 il brand dei Ghostbusters era sinonimo di successo. Quello strano film del 1984, mix tra commedia alla Saturday Night Live e suggestioni horror, era riuscito a travalicare lo status di semplice campione di incassi e film di culto per diventare fenomeno pop, anche grazie alla sua natura di opera "popolare", con un comparto sonoro composto da artisti in voga quali i Bus Boys e Ray Parker Jr. e, soprattutto, un cartone animato, il bel "The Real Ghostbusters", che non solo aveva conquistato l'attenzione dei più piccoli, ma anche quella degli spettatori adulti, con quel suo mix di commedia e serietà che replicava perfettamente la formula del film.
Nel 1988 il cambio di vertici alla Columbia porta ad una decisione che era già nell'aria: creare un nuovo film con al centro il quartetto di scienziati pasticcioni che possa bissare il successo del suo predecessore. Ma c'è un grosso problema: nessuno degli autori originari sembra avere la minima idea sulla storia da portare in scena.
Dan Aykroyd inizia ad avere uno spunto per una trama fattibile: gli acchiappafantasmi in trasferta in Scozia per salvare Dana Barrett, ora prigioniera in una sorta di regno sotterraneo abitato da creature mistiche. Spunto che piace, dal quale nasce uno script che convince praticamente tutto il cast a tornare a bordo. Ma una volta sul set, Ivan Reitman, Bill Murray e Harold Ramis si ritrovano tra le mani un nuovo script che non fa altro che ripetere i topoi del primo film, con sommo scontento di tutti, i quali si ritrovano a dover lavorare loro malgrado ad un progetto in cui non credono.
"Ghostbusters II" esce così nell'estate del 1989 (dicembre in Italia), portando a casa ben 215 milioni a fronte di un budget di 37 e la cui corsa è frenata solo dall'uscita totalizzante del Batman di Tim Burton; per gli executives non vale la pena continuare il franchise, che tempo due anni si fermerà anche sul piano televisivo e questo secondo exploit filmico resterà per molti anni anche l'ultimo. Ma, a conti fatti, si tratta davvero di un sequel indegno?



Cinque anni dopo gli eventi del primo film, il gruppo di acchiappafantasmi è allo sbando. Nessuno crede ai fantasmi (?), Dana (Siguorney Weaver) e Peter (Murray) si sono lasciati e lei ha anche avuto un bambino, il piccolo Oscar, da un altro uomo. Ray (Aykroyd) e Winston (Hudson) sbarcano il lunario come intrattenitori alle feste di compleanno dei bambini, mentre Egon (Ramis) è tornato nel campo della ricerca. Ma una nuova minaccia affligge New York: dal sottosuolo affiora una strana melma che sembra reagire alle emozioni negative. Mentre al museo dove lavora Dana uno strano dipinto sembra avere vita propria...



La struttura della storia è praticamente identica a quella del primo film: il gruppo di acchiappafantasmi si (ri)forma e fa fortuna, c'è una minaccia portata alla persona della bella Dana, la quale intreccia (di nuovo) una relazione con Venkman, il gruppo viene arrestato grazie alle macchinazioni di un infido dirigente pubblico (ora il braccio destro del sindaco, interpretato dal bravo caratterista Kurt Fuller) e nel finale una mascotte gigantesca se ne va a spasso per la città poco prima che gli eroi salvino la situazione in un trionfante bagno di folla.
Struttura che funzionava perfettamente in un film d'origine, malamente in un seguito. Per intenderci: come si fa a non credere ai fantasmi? La divinità sumera a forma di gigante di zucchero che passeggiava per Park Avenue cos'era, un turista a caso? E perché internare gli acchiappafantasmi in manicomio in un mondo dove l'esistenza di spettri e demoni è documentata?




La storia così si affloscia in una riproposizione di luoghi comuni, ora triti e inefficaci, anche se non manca di punte di originalità. L'idea che il cattivo sia il fantasma di un tiranno dei tempi antichi sopravvissuto ai giorni nostri per riguadagnare il suo potere ha il suo fascino, così come la trovata di dare una forma fisica al "male" umano, quella melma che è forza del Male e che al giorno d'oggi appare ancora più significativa che in passato, in un mondo dove intere vite finiscono a causa di un cattivo tweet. Paga la scelta di dare il volto di Wilhem von Homburg a Vigo, violento e dispotico anche nella vita reale, così come quella di dargli la voce, minacciosa e elegante, del compianto Max Von Swydow, per creare così un villain davvero memorabile.
I punti di forza del primo film, fortunatamente, tornano anche nel sequel: il cast è affiatato e l'alchimia del gruppo si vede ad ogni scena. L'umorismo funziona bene (anche se la versione italiana soffre un adattamento claudicante, opera del compianto Oreste Lionello) e gli effetti speciali sono ancora oggi notevoli.



Da menzionare anche la bella fotografia del compianto Michael Chapman, che dona un ulteriore tocco di originalità al film: laddove la New York immortalata da Laszlo Kovacs nel primo film era grigia e realistica, quasi quella di un film di William Friedkin popolato da strampalati ectoplasmi, quella di questo seguito è un luogo surreale, dove dietro ogni angolo potrebbe celarsi qualcosa di magico e oltremondano.
La mano di Reitman è al solito salda, sapendo come dirigere un gruppo di comici con precisione, lasciandoli improvvisare quando è opportuno, riportandoli allo script quando le cose si fanno serie. E questa volta, calca la mano maggiormente sul versante horror, con un paio di sequenze da incubo azzeccate: l'eslporazione della vecchia metropolitana, con le teste mozzate che appaiono all'improvviso, e il rapimento del piccolo Oscar... anche se non si capisce perché il personaggio di Janosz in questa scena diventi un fantasma per poi tornare umano.


Come seguito, "Ghostbusters II" difetta di vera originalità, ma più che brutto è un film malriuscito, seppur comunque dotato di un suo appeal. I fan degli acchiappafantasmi non possono non amarlo, per gli spettatori meno appassionati si tratta più che altro di un buon film di intrattenimento, che però non ha la forza del suo predecessore.
Scottato dall'esperienza, all'epoca Dan Aykroyd si mise subito a lavorare ad un ipotetico "Ghostbusters III", il quale trovò l'ostilità di Bill Murray e, soprattutto, il disinteresse dei produttori. Il terzo capitolo dagli acchiappafantasmi vede il buio della sala solo nel 2021, dopo la morte di Harold Ramis e il flop di del controverso reboot del 2016... ma questa è un'altra storia.

venerdì 12 novembre 2021

Eternals

di Chloè Zhao.

con: Gemma Chan, Richard Madden, Angelina Jolie, Salma Hayek, Kit Harrington, Lia McHugh, Kumail Nanjiani, Barry Keoghan, Brian Tyree Henry, Lauren Ridloff, Don Lee, Bill Skarsgaard.

Fantastico

Usa, Inghilterra 2021













---CONTIENE SPOILER---

Alla fine della fiera, Kevin Feige dovrebbe davvero erigere una statua d'oro e avorio a Jack Kirby. Lui, "The King" (ma sarebbe meglio definirlo "The God"), l'uomo che ha praticamente creato la Marvel Comics dando vita a praticamente tutti i Vendicatori: Iron Man, Thor, Hulk, Capitan America, ossia quei personaggi che hanno permesso, trasposti su schermo, la nascita del MCU, il fenomeno cinematografico (e non solo) più grande di sempre (almeno per quel che riguarda i numeri), che ha trasformato i Marvel Studios da piccola casa di produzione a juggernaut macina-miliardi implacabile.


E proprio dalla fantasia sfrenata del Re arrivano anche gli Eterni, una delle sue creazioni più riuscite. E' il 1974, dopo una breve parentesi alla DC dove ha creato quel Quarto Mondo di Darkseid e company che costituisce l'ossatura dell'universo narrativo relativo, Kirby torna dall'amico Stan Lee per creare qualcosa di nuovo, mai visto prima, ossia dei supereroi che incarnassero i miti dell'umanità. Trovata in realtà non nuova, vista la statura archetipica di personaggi quali Flash e Superman, ma che Kirby concepisce in modo del tutto inedito: non solo gli eroi sono personaggi mitologici, ma anche l'origine dell'universo e delle divinità viene riconcepito. Gli Eterni, eroi immortali che hanno vegliato sull'umanità sin dall'origine dei tempi, rappresentano il meglio dell'umanità stessa, figure angeliche e messianiche, inviati dagli Dei, i Celestiali, che ora tornano sulla Terra per giudicarne gli abitanti. Contro di loro, i Devianti, razza di mostri antropomorfi che invece incarna il peggio dell'umanità, talmente imperfetti da essere rappresentati come demoni deformi, incapaci persino di governare efficacemente nel loro stesso regno sotterraneo.


Per portare sullo schermo gli Eterni si è dovuto attendere la Fase 4 del MCU ma non è stata proprio una trovata geniale; già nei fumetti, la cosmogonia kirbyana cozzava con l'esistenza di altri personaggi, primo fra tutti Mefisto, ossia il diavolo dei Tre Libri, tanto che già in epoca risalente il futuro editor della Marvel Ralph Macchio (nessuna parentela con l'interprete di "Karate Kid") aveva criticato la scelta di unire il pantheon divino con quello supereroistico. L'inserimento degli Eterni nel MCU comporta diversi buchi logici, che sono comunque solo uno dei molti difetti del film di Chloè Zhao.



Perché gli Eterni non sono intervenuti contro Thanos? Perché loro non possono interferire negli affari degli esseri umani... peccato che quella del Titano Folle fosse una minaccia di portata universale (e chi ha letto i fumetti conosce anche la stretta correlazione tra i personaggi, che rende il tutto ancora più ridicolo).
Al di là di questo strafalcione, la Zhao eredita uno script fallace, che riesce a rappezzare malamente. Gli Eterni sono i guardiani degli uomini, servi del celestiale supremo Arishem, incaricati di proteggere l'umanità dal pericolo dei Devianti, ora semplici mostri famelici. Ma quando la verità su Arishem e la loro missione viene rivelata, la storia vorrebbe avere echi biblici, trasformandosi in una specie di parabola di Abramo e Isacco di portata mondiale, ma fallisce miseramente nella caratterizzazione dei personaggi.


Il dilemma morale, ossia sacrificare 7 miliardi di vite per garantire la nascita di infiniti altri mondi, viene cucito addosso ai personaggi di Sersi e Ikaris, ma viene subito risolto per il meglio: Sersi, la protettrice degli uomini, è nel giusto, Ikaris è nel torto e se una forma di profondità nel personaggio potrebbe anche essere ricercata, l'interpretazione piatta di un inespressivo Richard Madden di certo non aiuta a trovarla. Quello che in teoria dovrebbe essere un conflitto scottante viene subito risolto nella più classica delle contrapposizioni tra bene supremo e male supremo, con buona pace della Zhao e degli autori e degli stessi Marvel fanboys, che neanche qui troveranno la tanta auspicata profondità di scrittura del MCU che spesso decantano.


Se il conflitto portante è così trito e semplice, la caratterizzazione dei personaggi azzera ogni forma di possibile empatia. Al di là della superbuona Sersi e del classico buon padre di famiglia Phastos, Sprite, in teoria ragazza sofferente, finisce per ricadere nello stereotipo della innamorata folle, Ajak decide di salvare l'umanità perché diversa dalle altre milioni di razze che invece ha spazzato via... in cosa non è dato sapere; Kingo ad un certo punto esce di scena forse perché si annoiava, mentre Tena è protagonista dello scambio di battute più cretino del film: in merito al suo scontro con il deviante Kro le viene detto che la vendetta per la morte dell'amato Gilgamesh non la aiuterà a superare il dolore, ma lei risponde che la morte del rivale invece forse l'aiuterà... in che modo? Vendetta e morte non sono la stessa cosa? E come? E lo stesso Kro viene appiattito, trasformato in un semplice mostro senziente in cerca anche lui di vendetta per la sua razza, tutto già fatto e già visto.
Va dato però un merito alla Zhao nella scelta del cast multietnico, qui non forzata data la natura di essere creati a immagine e somiglianza dell'intera umanità e del fatto che le loro figure sono presenti nelle mitologie di tutti i popoli. Peccato però che poi decida che l'indiano Kingo debba diventare una superstar di Bollywood, spostando l'asticella dal fair play alla presa in giro.


Sempre riguardo ai personaggi, la Zhao ha ammesso candidamente di essersi ispirata alla Justice League di casa DC, arrivando persino ad elogiare il Superman di Zack Snyder; l'influenza è però così forte da trasformare il pantheon di eroi in vere e proprie copie delle loro fonti di ispirazione: tralasciando il fatto che Makkari sia una velocista vestita di rosso, dato il fatto che anche per Flash l'ispirazione è data dal dio Mercurio, non si può non vedere in Ikaris un Superman senza mantello o in Thena una Wonder Woman vestita di bianco e sempre il lei e in Phastos delle lanterne verdi mancate, rendendo il tasso di originalità ancora più basso.
Va dato merito all'autrice di aver creato un film diverso sul piano estetico, facendo ricorso a set naturali piuttosto che ai soliti green-screen piatti (tra l'altro con grande sorpresa di Kevin Feige, che forse era davvero convinto che le uniche immagini possibili al cinema fossero quelle fatte in post-produzione), ma la palette di colori usata non rende per niente giustizia allo stile lisergico e psichedelico del fumetto, facendo perdere in parte spettacolarità alle immagini.


Anche al netto dei suoi grossi difetti, come pellicola di intrattenimento, bene o male, questo adattamento funziona: nonostante la storia basilare e i personaggi piatti, riesce ad intrattenere per tutta la sua durata e a risultare diverso e migliore rispetto agli esiti peggiori del MCU. Certo che, vista l'eredità di Kirby e del suo folle universo, un tale risultato è forse davvero  poco.