lunedì 26 dicembre 2022

Una Notte Violenta e Silenziosa

Violent Night

di Tommy Wirkola.

con: David Harbour, John Leguizamo, Leah Brady, Alex Hassell, Beverly D'Angelo, Alexis Louder, Edi Patterson, Brenda Fletcher, Andre Eriksen, Alexander Elliot, Mitra Suri.

Azione/Fantastico

Usa, Canada 2022













Tommy Wirkola è un filmmaker che si compiace delle sue stesse idee bizzarre. Siano esse fatte di nazisti sopravvissuti al '45 rifugiandosi su di una base lunare o Hansel e Gretel sexy cacciatori di streghe, quello che gli interessa è creare storie strampalate per divertirsi come un matto nel portarle in scena, anche se poi i suoi film finiscono per soffrire proprio a causa di un'esecuzione claudicante.
Non fa eccezione "Violent Night", action fantastico con un un Babbo Natale ultraviolento la cui idea di base è anche interessante, ma sviluppata in modo a tratti sonnolento.



Idea che altro non è se non la più classica rielaborazione del canovaccio di "Die Hard", citato anche esplicitamente. Durante la notte della Vigilia, un Babbo Natale disilluso si ritrova suo malgrado bloccato nella casa di una famiglia di ultramilionari durante una rapina in corso. La sua missione, oltre a salvare la pelle, è quella di proteggere la piccola Trudy, che crede ancora nello "spirito natalizio".



E "Die Hard" è per l'appunto il nume tutelare, con le dinamiche tra personaggi ad essere riprese pari pari dal classico di McTiernan. Torna un protagonista stanco anche se sempre letale che ha una linea diretta con un altro personaggio, con il quale si allea per salvare la situazione; un'ambientazione unitaria, data da una villa al posto del grattacielo della Nakatomi; un pugno di rapinatori spietati guidati da un leader carismatico (che qui ha il volto di John Leguizamo). A queste, Wirkola aggiunge un omaggio a "Mamma ho perso l'Aereo", con gli iconici trabocchetti rielaborati in chiave splatter, per aggiungere un po' di pepe al tutto.
Ma la vera identità viene data dalla caratterizzazione dei personaggi. Passi per il Babbo Natale di David Harbour, vero e proprio cliché del "Babbo Bastardo" disilluso e schifato dalla deriva materialista delle feste, certamente non originale e al quale viene persino negata una origin-story completa, finendo per colpire grazie al carisma del suo interprete, la famiglia in ostaggio è un coacervo di "tipi antipatici" che nella sua ansamble trova una sua ragion d'essere, con una figlia volitiva e volgare, un nipote GenZ al quale si vorrebbe davvero far esplodere la testa, un genero attore cretino e un matriarca mostruosa perfettamente incarnata da una rediviva Beverly D'Angelo. Nucleo controbilanciato dai "buoni" genitori di Trudy, tra i quali spicca un Alex Hassell la cui espressività pazza per una volta funziona davvero a dovere.



Wirkola si fa produrre il tutto da David Leitch, la cui passione per le coreografie è evidente, con le scazzottate eseguite come perfetti "balletti sanguinolenti", il cui stile non è però all'altezza di quanto visto in "Nobody" o nella serie su John Wick. 
Quel che affossa la visione è però una parte centrale inutilmente noiosa, dove storia e azione rallentano e vengono ingolfati da dialoghi a tratti inutili. Qui si dimostra di non aver capito la lezione di De Souza nell'imbastire lo script del classico con Bruce Willis: nel momento in cui la tensione della storia principale cala, bisogna bilanciare il tutto con i personaggi secondari; se in "Die Hard" si seguivano anche le vicende del duo di agenti del FBI, le quali tenevano alta la tensione, in "Violent Night" nulla viene dato per mantenere l'attenzione, che inevitabilmente scivola via per una buona mezz'ora.
Il che impedisce in definitiva a questo strambo clone di divenire quel piccolo classico natalizio che pur avrebbe potuto essere.

sabato 24 dicembre 2022

Festa in casa Muppet

The Muppet Christmas Carol

di Brian Henson.

con: i Muppet e Michael Caine.

Animazione/Fantastico/Commedia/Musical

Usa, Regno Unito 1992


















Con oltre trenta adattamenti per il grande e piccolo schermo, è davvero difficile stabilire quale sia la migliore trasposizione de "Il Canto di Natale" in audiovisivo. 
I cinefili più accaniti tendono ad individuarla nell'ancora oggi notevole "Lo Schiavo dell'Oro" del 1951, con un Alistair Sim semplicemente perfetto nel ruolo di Scrooge, ma da qualche anno, c'è una nuova tendenza, forse dovuta anche al ricambio generazionale e alla nuova apertura mentale che esso comporta; tra gli adattamenti più acclamati si profila così quel "Festa in Casa Muppet" che già alla sua uscita in sala ottenne un ottimo riscontro di critica e il cui valore oggi viene in un certo senso riscoperto.
Non bisogna neanche stupirsi di tale preferenza vista poi la sua ottima caratura; e sarebbe davvero facile darne il merito alla sola, strepitosa, performance di Michael Caine, ma per essere precisi è tutta l'opera di adattamento effettuata che risulta incantevole prima ancora che riuscita.




Un progetto che nasce sotto la stella del lutto; non solo quello per la scomparsa di Jim Henson, morto nel 1990 a soli 53 anni, ma anche per quella di Richard Hunt, storico animatore sin dai primissimi anni del Muppet Show, ai quali il film è dedicato. Brian Henson, figlio di Jim, si fa quindi carico oltre che della produzione, come suo solito, anche della regia, esordendo nel ruolo per portare avanti quello che  sarebbe stato un ritorno dei Muppet al cinema dopo quasi otto anni. Riesce poi a trovare un protagonista in Michael Caine, che ottiene la parte al posto di David Warner, cosa in realtà mai sperata: era impensabile che un attore di quel calibro, all'epoca, prendesse parte ad una produzione per bambini. E Caine, si sa, non è un attore qualunque, per questo prese la famosa decisione di preparare il ruolo come se dovesse recitare per la Royal Shakespeare Company, regalando uno dei migliori Scrooge mai apparsi su schermo.




"Festa in casa Muppet" traspone in maniera mirabolante lo spirito del "Canto di Natale". La catarsi di Scrooge è quanto mai cristallina e il fatto che sia mostrata tramite l'interazione con un un gruppo di pupazzi non la rende meno ammaliante, anzi forse ne aumenta il valore magico.
Il "casting" dei Muppet risulta quantomai azzeccato: Kermit, che per una volta cede il posto di protagonista della storia, risulta perfetto nei panni di Cratchit, così come i due vecchi burberi nel ruolo "sdoppiato" di Marley, l'ex socio di Scrooge; la trovata davvero geniale è però quella di includere lo stesso Charles Dickens, "interpretato" da Gonzo, che fa da narratore, cosa che permette di trasporre persino la bella prosa dickensiana su pellicola, poi messa in contrappunto dalle battute di Rizzo il Ratto, qui spalla di Gonzo, il quale aiuta ad alleggerire i toni.




Ed è proprio il lavoro fatto sul tono a stupire; un'unica concessione alla natura di "progetto per bambini" viene data dall'esclusione dei due figli scheletrici del Fantasma del Natale Presente; in compenso, il Fantasma del Natale Futuro risulta sempre inquietante e la sua visione tragica di un futuro funereo non viene alleggerita nemmeno dai due narratori, i quali vengono platealmente fatti uscire di scena per tutta la sequenza.
Perfette anche le rappresentazioni del Fantasma del Natale Passato, forse mai così così etereo, e di quello Presente, dalla paciosità strabordante.




Le canzoni sono come sempre affidate a Paul Williams, che anche qui compone pezzi simpatici e orecchiabili. Purtroppo, la colonna sonora ha ricevuto un colpo basso al montaggio: nella theatrical cut, poi distribuita anche in vhs e messa in streaming sul Disney+ di mezzo mondo, è stata tagliata la scena nella quale il personaggio di Belle intona la bella "When Love is Gone", forse la migliore composizione di tutto il film e la cui partitura è usata anche come tema nell'ultimo atto. Il che non solo priva il pubblico di una scena toccante, ma rende anche incompleta la simmetria del racconto: quando Scrooge siede al tavolo dei Cratchit al pranzo di Natale, intona infatti "When Love is Found", chiudendo il cerchio con il proprio passato. Ad oggi, l'edizione integrale del film è visionabile purtroppo solo sulla versione americana di Disney+, ma fortunatamente anche nella sua versione monca il film funziona a dovere.



Tanto che, tra una canzone cordiale e una battuta di spirito, tra la magnifica freddezza di Caine e l'irresistibile carica di simpatia dei Muppet, "Festa in casa Muppet" merita davvero di essere considerato come una delle migliori trasposizioni di Dickens mai apparse su schermo.

mercoledì 21 dicembre 2022

R.I.P. Mike Hodges



 1932 - 2022

Il nome di Mike Hodges resterà indelebilmente legato al cultissimo "Flash Gordon", ma bisognerebbe ricordarlo più per gli exploit hard boiled, primo fra tutti l'imprescindibile "Get Carter", prova di un talento davvero non comune forse mai davvero sfruttato a pieno.

martedì 20 dicembre 2022

Avatar- La Via dell'Acqua

Avatar: The Way of Water

di James Cameron.

con: Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang, Britain Dalton, Jack Champion, Jamie Flatters, Kate Winslet, Cliff Curtis, Joel David Moore, CCH Punder, Edie Falco, Brendan Cowell,Trinity Jo-Li Bliss.

Fantascienza/Animazione

Usa 2022







Tredici anni dopo il primo viaggio su Pandora, James Cameron torna dall'oblio filmico per ridare forma a quei paesaggi, per riportare su schermo la sua fascinazione per i fondali oceanici, la sua ossessione per la tecnologia, la sua passione ecologista (vera o di riporto che sia) e l'innata tematica su come la tecnologia cambi l'essere organico. 
Un nuovo kolossal in CGI, un nuovo blockbuster da 350 e oltre milioni di dollari, una nuova frontiera per gli effetti visivi, che ora arrivano davvero alla perfezione; ma "La Via dell'Acqua" non è un sequel, quanto una sorta di "Avatar al quadrato", dove tutto è più grande, più ricercato, più intimo, eppure incredibilmente uguale al primo film.



Su Pandora le cose sembrano essersi stabilizzate. Jake Sully (Warthington), ora capo tribù, e Neytiri (Zoe Saldana) hanno creato una propria famiglia, con tre figli, il primogenito Neteyam (Flatters), l'indomito Lo'Ak (Dalton) e la piccola Tuk (Trinity Jo-Li Bliss), ai quali si è aggiunta Kiri (Sigourney Weaver), giovane nata misteriosamente dall'avatar della dottoressa Augustine. Ma le cose belle non durano: dal cielo tornano i Terrestri e, tempo un anno, la guerra di conquista ricomincia. Il che porta Jake e famiglia a lasciare la propria tribù e trasferirsi presso i Metkayina, fiero popolo Na'vi che vive in simbiosi con il mare.



Tutto cambia, tutto è uguale. Anche troppo. Torna Quaritch a fare da supercattivo, ora rinato come clone Na'vi. Torna la fierezza di un popolo indigeno, con i Maori alieni a sostituire i Nativi Americani pandoriani e Cliff Curtis a strappare il ruolo di capo a Wes Studi, solo per ritrovare praticamente le medesime dinamiche del primo film. E se inizialmente la nuova invasione sembra essere giustificata dalla necessità per gli umani di trovare un nuovo pianeta abitabile, alla fine del primo atto Cameron reintroduce a forza l'elemento dello sfruttamento ambientale, con il liquido cerebrale dei tulkun, vero e proprio elisir di lunga vita, che sostituisce l'unobtanium e avvicina maggiormente il mondo di Cameron a quello di Frank Herbert, giusto per far capire al pubblico che va comunque bene odiare gli invasori.
Ma la pigrizia della scrittura non si ferma al riciclo delle idee di base, con un intero secondo atto che è praticamente la fotocopia di quanto visto nel primo film.



Cambiano i tempi, cambia la generazione. I figli di Jake sono ora al centro della narrazione, con un primogenito coraggioso e un secondogenito scapestrato ma dal cuore grande. L'arrivo nella nuova tribù reinnesca praticamente il medesimo meccanismo di conoscenza del mondo visto nel primo film, questa volta dal punto di vista di Lo'Ak; appena arrivato sul posto, si innamora della bella figlia del capo, impara a cavalcare le bestie da soma, questa volta anfibie anzicché semplici volatili, si scontra con l'intolleranza di alcuni membri locali e finisce per domare una delle bestie sacre.. tutto suo padre, tutto già visto, tutti riciclato perché alla fin fine a Cameron non importa nulla dei Na'vi, di Jakesully e prole assortita, gli importa solo ricreare nel modo più spettacolare possibile le meraviglie dei fondali marini, aggiungendo questa volta vera acqua al posto della semplice terra.
Il cuore de "La Via dell'Acqua" non è sito nella tematica famigliare, nel messaggio ecologista, nello sbalorditivo performing capture, tantomeno nelle sequenze di lotta o fuga, quanto nelle scampagnate acquatiche, nelle lunghe scene di subacquee con le quali Cameron ci accompagna in quel mondo nel mondo che tanto lo affascina e che qui rivive in modo ancora più spettacolare. Il che porta ad un quesito forte: perché ricreare il tutto in CGI?



Perché spendere l'equivalente del PIL di una nazione per creare paesaggio tranquillamente esistenti sul nostro pianeta? Se nel primo film la creazione da zero del mondo di Pandora trovava la sua ragione d'essere in quell'estetica tanto familiare quanto aliena e in quei paesaggi impossibili, ora non c'è davvero nulla che non potrebbe trovare  un equivalente terrestre, sia sulla terra che sott'acqua, tanto che il buon Cameron ber avrebbe potuto optare per un vero e proprio ibrido tra live-action e animazione, limitandosi a intensificare la carica spettacolare di veri paesaggi per renderli davvero extraterrestri. E qui si potrebbero citare autori quali Herzog, Tarkovsky e Malick e la loro capacità di trasformare luoghi familiari in qualcosa di incredibilmente "altro" (come in "Stalker" e "The Far Blue Yonder"), ma si riuscirebbe a vincere già solo riguardando le immagini che Louis Malle catturava sott'acqua per Jacques Cousteau quasi cento anni fa.
Cameron preferisce creare tutto da zero, costringere gli attori a girare il tutto in vasche piene d'acqua contro green-screen all'interno di volume addobbati con solo qualche elemento scenografico fisico e spendere fior fiori di milioni per un risultato si spettacolare, ma anche inutilmente costoso. Quanto poi all'effettivo valore delle immagini di "La Via dell'Acqua", si pone lo stesso problema che, ancora, aveva già il primo film.




Laddove il loro valore estetico è innegabile e qui trova una caratura ulteriore in una perizia tecnica che ha dello sbalorditivo, facendo raggiungere vette inusitate di fotorealismo (soprattutto nelle animazioni dei personaggi, dalla naturalezza sbalorditiva), ci si accorge subito di come lo stile delle stesse sia alquanto anonimo. Non c'è la ricerca di una composizione del quadro davvero efficace, non c'è la volontà di sperimentare movimenti di macchina impossibili da ottenere dal vivo (e in questo, è Spielberg ad essere ancora un maestro con il suo "Le Avventure di TinTin"); ogni singola inquadratura è ai limiti del secco, quasi del minimale, tanto che non c'è nulla che le differenzi da quelle di qualsiasi altro kolossal hollywoodiano degli ultimi trent'anni. Le uniche trovate che restano nella memoria sono la soggettiva di Payakan e l'immagine di lui e Lo'Ak che si "stringono la mano", davvero troppo poco. 
E un paragone è qui d'obbligo: per capire l'occasione sprecata, basti vedere quanto fatto da Denis Villeneuve con il suo "Dune", il quale, con la metà del budget, effetti speciali in parte analogici e scenografie naturali, è riuscito a creare un'esperienza visiva decisamente più impressionante.
Torna quindi, più prepotente che mai, il quesito se questo sia ancora cinema, ma questa volta una risposta sembra essere chiara: no, questa è animazione tout-court e non c'è nulla che differenzi il lavoro di Cameron da quello che Ralph Bakshi già faceva negli anni '70, se non l'uso della tecnologia tridimensionale al posto dell'animazione classica e le ovvie differenze di capitali da investire.




"La Via dell'Acqua" ha però anche qualche merito, persino nella pur minimale scrittura. Si opta per una storia più piccola, con al centro una famiglia e le sue idiosincrasie e il rapporto paterno ad essere un tema centrale; e si concede persino una forma di profondità al personaggio di Quaritch, ora anche lui padre. Ma poi Cameron, impaurito che un minimo di complessità possa spaventare il grande pubblico, decide lo stesso di infialare un altro "nazicattivo" con il cacciatore di balene, talmente monodimensionale da essere una caricatura.
L'impegno ecologista trova finalmente una corretta rappresentazione nella scena della caccia alle balene, decisamente più drammatica dell'attacco all'albero visto del primo film e che riesce davvero a trasmettere tutto l'orrore insito in un atto del genere.
La tematica spirituale, sempre blanda e ai limiti del ridicolo, trova anch'essa una rappresentazione più adeguata nella litania sull'acqua, vera e propria "cavolata new age" che però nel contesto del film funziona a dovere.
In generale, tutto l'impianto narrativo, per quanto basilare, derivativo e manieristico, risulta meno tedioso che in passato e, pur oltrepassando le tre ore di durata, questo sequel riesce a non annoiare quasi mai.
Certo è che quando in quel finale Cameron decide di rifare "Titanic" in un contesto estetico che sembra uscito dall'ultimo atto di "Terminator 2- Il Giorno del Giudizio", la volontà si disvela ulteriormente, ossia quella di creare un atto di puro onanismo che non concede nulla di davvero solido, solo tanto compiacimento nella messa in scena.




Il luogo comune secondo il quale "Avatar" sia una spettacolo del tutto vuoto è così ora più vero che mai. Come al solito, chi ha amato il primo film impazzirà anche per questo sequel, chi cerca vera sostanza, sia narrativa che cinematografica, faticherà persino a riconoscere quel giovane artista che tante emozioni aveva saputo regalare in passato, qui presente solo per la sua capacità di creare un'estetica vincente e nulla più.

lunedì 19 dicembre 2022

Emancipation- Oltre la Libertà

Emancipation

di Antoine Fuqua.

con: Will Smith, Ben Foster, Charmaine Bingwa, Gilbert Owuor, Ronnie Gene Blevins, Mustafa Shakir, Aaron Moten, Steven Ogg.

Storico/Drammatico

Usa 2022















Se "Emancipation" fosse stato prodotto negli anni '90 (ossia anni prima di "12 Anni Schiavo"), forse lo si sarebbe accolto come un piccolo capolavoro e Will Smith avrebbe persino preso quell'Oscar che invece l'Accademy ha dovuto concedergli per quella cretinata di "King Richard".  Questo perché l'ultima fatica di Apple+ è un film vecchio nella scrittura, oltre che ridondante nei contenuti, vista la sovraesposizione di storie del genere in quella Hollywood moderna la quale è definitivamente convinta che la "questione nera" non sia mai stata affrontata davvero nell'intera storia del cinema ed è al contempo cosciente di come prodotti del genere assicurino premi e riconoscimenti vari, visti anche gli squallidi regolamenti dei concorsi e delle cerimonie, che oramai premiano solo l'inclusivismo un tanto al chilo e l'impegno di pura facciata.
E il tutto è, come sempre, un grosso peccato, visto che la storia di Peter il Fustigato (in realtà chiamato Gordon), volto e corpo degli orrori dello schiavismo americano, avrebbe meritato davvero un'opera più solida e meno convenzionale.



Nel 1863, mentre la Guerra di Secessione infuria, Abraham Lincoln, prossimo alla scadenza del mandato presidenziale, emana un editto di emancipazione degli schiavi: la popolazione di origine africana segregata negli stati del sud è ora libera, anche se solo formalmente. 
In Louisiana, lo schiavo Peter (Smith), di origine haitiana e padre di famiglia, viene ceduto dal padrone all'esercito confederato e allontanato così dal nucleo famigliare.
Giunto ai limiti del fronte, Peter viene a sapere del proclama presidenziale e decide di scappare verso Baton Rouge, dove è accampato l'esercito dell'Unione. Sulle sue tracce si mette il feroce "cacciatore di negri" Jim Fossel (Ben Foster).


La costruzione della storia è quanto di più banale ci si possa aspettare, a partire dalla caratterizzazione di Peter, forte credente la cui fede in Dio non vacilla praticamente mai, rientrando nell'archetipo dell'eroe amicano vecchia scuola. Quella di Fossel, vero e proprio villain, rientra nello stereotipo del cattivo razzista fatto e finito e persino quando la sua indole intollerante dovrebbe trovare una forma di razionalizzazione, si preferisce glissare e confermare il fatto che il suo odio è illimitato e quasi innato, concedendo una forma di blando approfondimento solo quando si iscrive il suo comportamento nell'educazione impostagli per via paterna; al bando ogni forma di vera contestualizzazione storica, ogni richiamo alle follie sociologiche, scientifiche e giuridiche ottocentesche e alle forme di economia del sud degli Stati Uniti, la piattezza aiuta forse l'immedesimazione di quel pubblico di faciloni che solitamente viene preso di mira da produzioni del genere, preferendo il sensazionalismo alla buona narrazione.



Narrazione che inoltre non risparmia altri luoghi comuni, dalla sopravvivenza superomistica di Peter, il quale arriva persino a sconfiggere un alligatore a mani nude, al monologo ispiratore prima della battaglia utile a spiegare ai più distratti lo spirito indomito e indistruttibile del protagonista. Tutto già fatto, tutto già visto, tutto che sembra uscita da quel cinema spettacolare e impegnato di venti o trenta anni fa, quando aveva davvero motivo di esistere e forse risultava persino fresco ed efficace.
Come se non bastasse, si decide anche di dare spazio alla figura della moglie di Peter, con una sottotrama che non solo non aggiunge nulla di davvero sostanziale alla storia, ma finisce anche per spezzare malamente quella tensione che la storia deve trasmettere, disvelandosi come un semplice pretesto per dare spazio ad un personaggio femminile.



Antoine Fuqua, dal canto suo, è un regista il cui curriculum presenta prove che vanno dal buono all'inguardabile e qui si sforza di creare immagini spettacolari, senza però riuscire mai davvero a stupire, abusando di ralenty e di quel drone pazzo che oramai sembra essere diventato un must nelle grandi produzioni. Di certo, non è assistito dalla fotografia di Robert Richardson, che si limita clamorosamente a desaturare i colori al massino per poi alternare una monocromia che non riesce mai a conferire alle immagini l'eleganza ricercata. E su tutto, vige una forma di insistenza sulla violenza che la rende compiaciuta, ma mai davvero scioccante, persino quando su schermo appaiono le teste mozzate degli schiavi disobbedienti.




"Emancipation" non è certo un brutto film e anzi troverebbe una sua ragion d'essere come pellicola didascalica per formare i più giovani agli orrori dello schiavismo, ma come film di denuncia e rielaborazione storica paga lo scotto di un'esecuzione convenzionale, priva di originalità e veri guizzi artistici, divenendo presto esangue e alla fin fine inerme. Resta comunque l'ottima prova di Will Smith, che tra una sfilata glamour e uno schiaffo utile solo a far alzare i riflettori, si ricorda di essere ancora un attore vero e proprio.

giovedì 15 dicembre 2022

Pinocchio

Guillermo Del Toro's Pinocchio

di Guillermo Del Toro & Mark Gustafson.

Animazione/Fantastico

Usa, Messico, Francia 2022






















In un certo senso, il "Pinocchio" di Del Toro non poteva uscire in un periodo peggiore. Solo quest'anno il capolavoro di Collodi è stato riportato su schermo sia dall'orrido remake Disney di Zemeckis che da quel "Pinocchio- A True Story", film d'animazione in CGI russo che definire mediocre sarebbe un complimento; e il tutto ad appena tre anni dall'exploit di Matteo Garrone. Il rischio è quello della sovraesposizione, di un rigetto da parte del pubblico di una storia risaputa e rivista, nonostante il nome dell'autore sia sempre una garanzia di originalità.
Fortunatamente, l'ultima fatica del visionario messicano si rivela come non solo una riuscita rilettura, ma anche come uno dei suoi film migliori.




Una rilettura che si allontana dalla storia originale, modificandone in parte la trama e soprattutto i personaggi per darne un significato ulteriore. Il setting è anzitutto diverso, con l'Italia fascista che sostituisce il neocostituito regno; il personaggio del Conte Volpe è poi una fusione del Gatto e la Volpe e Mangiafuoco, mentre l'inedito personaggio del Podestà finisce per ricoprire il ruolo di cattivo e sorta di nemesi di Geppetto; Lucignolo, da ultimo, diventa il figlio del Podestà e non più l'incarnazione dell'archetipo del bambino cattivo, quanto un personaggio tutto tondo e quasi speculare al protagonista. La Fata Madrina viene poi sostituita da due sfingi, incarnazioni della vita e della morte, della quale è l'ultima in realtà a guidare Pinocchio nel suo viaggio.




Un viaggio che non è più solo quello di un bambino che deve imparare la differenza tra bene e male, quanto una lunga catarsi sul rapporto padre/figlio. Un rapporto che Del Toro sa non essere univoco, è cosciente di come si possa sbagliare sia da una parte che dall'altra. Geppetto è sicuramente un padre amorevole, ma lo è anche troppo, non riuscendo ad elaborare la perdita del figlio Carlo neanche a decenni di distanza. Pinocchio diventa così un surrogato, un vero e proprio essere redivivo che ne prende il posto ancora prima che la sfinge gli dia vita, da cui la reimmaginazione della costruzione del burattino come una sorta di delirio frankensteiniano. Tanto che lo stesso Pinocchio finisce per perdere qualsiasi connotazione umana nell'estetica, ridotto ad un vero e proprio pezzo di legno umanoide.




La sua è inizialmente la storia di un bambino perso tra mille richiami che deve capire dove sta il bene, ma subisce subito un cambiamento. Il Grillo Parlante, ribattezzato Sebastian, si distacca da lui da metà film in poi, finendo per ricoprire unicamente il ruolo di narratore. Pinocchio deve così invece imparare ad essere un buon figlio, nel bene e nel male, trovare una dimensione personale che gli permetta di rendere orgoglioso il babbo, senza però compromettere la sua coscienza. La collaborazione con il Conte Volpe (nella seconda parte della storia vero e proprio replicante di Mangiafuoco) è volontaria come nella versione di Zemeckis, ma qui trova una giustificazione narrativa e caratteriale che dona una compattezza narrativa ulteriore alla storia.




Ma il "Pinocchio" di Del Toro è anche una tipica favola del regista messicano, nella quale ritornano tutti i suoi temi ricorrenti. In primis, la morte, anche qui causata da una bomba come ne "La Spina del Diavolo" e che ritorna puntualmente ad intervalli regolari quando il protagonista viene freddato dagli eventi. Una morte che non è tragica, per lui, quanto per chi gli sta accanto, con la vita eterna che alla fine diventa una maledizione, una condanna a seppellire gli amati.
In secondo luogo, il contesto storico diventa colonna portante nella narrazione, persino più che in "Il Labirinto del Fauno" e non solo a causa della comparsa del "nano Benito" in una scena tanto dissacrante quanto divertente, quanto e soprattutto con la sostituzione del Paese dei Balocchi con il campo di addestramento dei balilla. Il mondo fatato che trasforma i bambini in asini facendo leva sui bassi istinti diventa una fabbrica di assassini che de-umanizza gli infanti vendendo la vanagloria del conflitto (il che ad un pubblico italiano, cosciente della disastrosa gestione bellica del governo fascista, risulta ancora più devastante), con le maschere antigas che sostituiscono le teste d'asino. "Pinocchio" ritrae la mostruosità della macchina bellica in modo efficace, anche se del tutto universale, finendo per creare una disanima perfetta, ma che glissa su alcuni degli aspetti più caratterizzanti della retorica del Ventennio e che avrebbe donato un significato ulteriore e ancora più caratterizzante alla storia.




Assistito dallo specialista in stop-motion Mark Gustafson (qui al suo esordio nel lungometraggio), Del Toro crea animazioni dalla fluidità sconvolgente, che divengono ancora più preziose quando ci si accorge di come questa sua fatica sia praticamente il film d'animazione passo-uno più lungo mai concepito. Ma a fare la differenza è ovviamente il suo gusto estetico, che fonde il gotico con un personalissimo tocco orrorifico. Al di là del design del protagonista, a colpire è quello delle sfingi: esseri appartenenti ad una mitologia pagana, ma reinventate con i crismi caratterizzanti gli angeli della tradizione ebraica (con le ali tempestate di occhi come la Morte di "Hellboy- The Golden Army"). Ma si potrebbe citare anche il design di Volpe, ibrido uomo-felino, o l'espressività della scimmia Spazzatura.




"Guillermo Del Toro's Pinocchio" è così una rilettura riuscita e spettacolare, un film profondo e emozionante, animazione fatta con la testa di un adulto e il cuore di un bambino, che aggiunge molto al classico di Collodi senza snaturarlo. Un piccolo miracolo, prova di come anche in Occidente è possibile fare animazione di un certo valore.

venerdì 9 dicembre 2022

Dead for a Dollar

di Walter Hill.

con: Christophe Waltz, Willem Dafoe, Rachel Brosnhan, Hamish Linklater, Brendon Scott, Warren Burke, Benjamin Bratt, Guy Burnet, Gabriela Alicia Ortega, Luis Chavez.

Western

Canada, Usa 2022















Si aspetta sempre con trepidazione un film di Walter Hill, un cineasta dal retaggio davvero impagabile; si attende sempre con ansia una sua nuova prova, anche se ultimamente si rimane sempre delusi, più o meno a seconda del film. Perché forse il decano dell'action americano ha perso il suo smalto e la grinta, quella volontà di ricreare il cinema "duro" e adulto in modo moderno e anticonvenzionale, accontentandosi invece della convenzionalità più pura. E "Dead for a Dollar" rappresenta purtroppo la prova decisiva di questa sua deriva, oramai forse incontrovertibile.




Hill riprende un vecchio script di Matt Harris e lo riarrangia rendendo la storia ancora più interessante: il cacciatore di taglie Max Borlund (Waltz) viene incaricato dal magnate Martin Kidd (Amish Linklater, l'indimenticato padre Paul di "Midnight Mass") di salvare la moglie Rachel (Rachel Brosnhan), rapita dall'ex buffalo soldier Poe (Burke) e portata oltre il confine messicano. Ad accompagnarlo nella missione, il soldato afroamericano Elijah Jones (Scott), mentre oltre confine ad attenderli ci saranno il boss locale Tiberio Vargas (Bratt) e il letale giocatore d'azzardo Joe Cribbens (Dafoe), vecchia conoscenza di Borlund.





Tante le tematiche, vecchie e nuove del western, che vengono presente e ripensate. C'è il vecchio adagio dell'amicizia virile tra Cribbens e Borlund, in teoria nemici, ma che hanno un forte rispetto l'uno per l'altro. La corruzione morale del potente di turno, Vargas, uomo al di sopra della legge, i cui precettori finiscono però per oppoivrsi in ragione di un ritrovato senso del dovere. E poi c'è la questione afroamericana, con i personaggi di Poe e Jones, ex commilitoni che ora si ritrovano ai lati opposti della barricata della legge. Oltre che la presentazione di una donna forte in un contesto nel quale solitamente cose del genere latitano, con il personaggio di Rachel, donna emancipata in periodo storico che non le consente di affermarsi, soprattutto sul piano sentimentale.
Storia e tematiche declinate a dovere, che trovano una risoluzione adeguata nella durata della pellicola. Ma la cui messa in scena è fatalmente pigra e fiacca.




Hill opta per uno stile totalmente classico. Bandisce ogni deriva spettacolare, ma anche quella secchezza che avrebbe reso il film a suo modo memorabile. Ogni sequenza inizia e finisce senza l'enfasi necessaria, ogni risvolto di storia viene affidato unicamente ai personaggi e agli attori che lo portano avanti. Non c'è mordente, non c'è nulla di davvero notevole, persino quando si cita Sergio Leone, il cui stile barocco e ricercato sarebbe stato decisamente più adatto a rendere le vicende degne di nota. La ripresa in digitale, con una color grading posticcia per ingiallire le immagini, risulta inoltre indigesta, portando ad immagini piatte e prive di nerbo alcuno. Persino il cast ha alti e bassi: se Dafoe e Rachel Brosnhan danno delle interpretazioni di buona caratura, Christoph Waltz appare svogliato e oltretutto privo del carisma necessario per il ruolo, cosa assai strana visto che, tra le altre cose, aveva già interpretato il bounty killer in "Django Unchained" con ottimi esiti.





"Dead for a Dollar" finisce così per essere una delle pellicole più deludenti degli ultimi anni, un filmino indegno del nome di Hill, uscito e presto dimenticato, che non fa nulla per essere memorabile e riesce perfettamente nell'intento. E pensare che l'ultimo western vero e proprio che Hill ha diretto per il cinema è stato quel mezzo capolavoro di "Wild Bill" rende il tutto ancora più triste. 

martedì 6 dicembre 2022

Weird: The Al Yankovic Story

di Eric Appeal.

con: Daniel Radcliffe, Rainn Wilson,Evan Rachel Wood, Julianne Nicholson, Toby Huss, Lin Mauel-Miranda, Jack Black, Emo Philips, Seth Green, Trenyce Cobbins.

Commedia

Usa 2022

















Come definire "Weird Al" Yankovic? Un comico, sicuramente. Un cantante e cantautore, altrettanto sicuramente. Di certo entrambe le cose, visto che ha praticamente creato il genere della parodia musicale già negli anni '80, decenni prima che si popolarizzasse grazie al web e persino primo dei nostrani Gem Boy e Checco Zalone. Forse la definizione più precisa e calzante è quella di showman, vista la sua capacità di creare intrattenimento a 360 gradi, essendo anche arrivato al cinema con il ben riuscito anche se di scarso successo "UHF" nel 1989.
Di sicuro un personaggio sui generis, che ha attraversato i decenni riuscendo bene o male ad essere sempre sulla cresta dell'onda, con i suoi sketch talvolta naif ma sempre spassosi.




Ma "Weird: The Al Yankovic Story" non è davvero un biopic; o meglio, lo è, ma nel più puro stile di Yankovic, ossia una parodia divertita di qualcosa che di solito viene presentato come estremamente serio. Il bersaglio sono appunto i biopic musicali, rei di imbellettare la vita degli artisti o viceversa di cercarne sempre i lati oscuri per farne una storia di redenzione, seguendo uno schema prefissato che si ripete a prescindere dall'artista. Operazione che in realtà trova il suo incipit già nel 2010.
Sull'onda dei successi di "Ray" e "Walk the Line", Weird Al concepisce e produce assieme ad Eric Appeal di "Funny or Die" un fake trailer su di una possibile biografia. Ad interpretarlo c'è Aaron Paul, mentre Patton Oswald veste i panni del conduttore radiofonico che lo ha scoperto, Dr. Demento. Sketch parodistico che prende in giro tutti i luoghi comuni del filone, esasperandoli sino all'inversosimile. E che sarebbe restato tale, se non fosse stato per il successo di "Bohemian Rhapsody", ossia un biopic talmente tirato e laccato da sembrare una vera parodia. Occasione fin troppo ghiotta per Weird Al, il quale si riunisce con Appeal per espandere il corto in un lungometraggio di quasi due ore, prodotto per la piattaforma Roku, che perde purtroppo Paul nei panni del protagonista ma guadagna un altrettanto ispirato Daniel Radcliffe e una bellissima Evan Rachel Wood in quelli di Madonna, in una commedia demenziale a dir poco gustosa.



Gli elementi portanti portanti del biopic musicale tipo ci sono tutti: un giovane artista frustrato e non compreso dalla famiglia, con tanto di conflitto irrisolto con la figura paterna, l'ascesa al successo, la caduta in disgrazia, catarsi con ritorno alla gloria nel terzo atto. Il tutto elevato all'eccesso, con frasi fatte tipo "Non mi capite!" gridate a squarciagola, un padre perennemente ultraviolento, Madonna stile Yoko Ono e una caduta in disgrazia che trasforma Weird Al nel Jim Morrison di Oliver Stone. Yankovic e Appeal si divertono a prendere in giro tutti i luoghi comuni in un'operazione non originalissima: già nel 2007, Judd Apatow e Jake Kasdan avevano fatto una cosa del genere in "Walk Hard: The Dewey Cox Story", finto biopic su di un cantante mai esistito, ma "Weird" va oltre e reinventa una storia vera in chiave fittizia, risultando più interessante; oltre che condito da sketch decisamente più simpatici.




L'impressione è ovviamente quella di un video di Funny or Die gonfiato a dismisura, ma non è per forza un male. L'umorismo bene o male paga sempre, sia quando icone della musica e dell'arte fanno comparse a sorpresa nell'inquadratura, come nella delirante scena della festa in piscina, sia quando si decide di elevare l'assurdità ogni limite, con quella sequenza nella giungla colombiana nella quale Weird Al da la caccia a Pablo Escobar talmente fuori da ogni schema da risultare immediatamente ilare. In generale, il tono è divertente sino all'inverosimile e trova un picco nell'idea assurda di raccontare come la hit "Eat It", parodia di "Beat It", fosse in realtà un pezzo originale poi copiato da un cantantucolo da strapazzo, un certo Michael Jackson.




Chi conosce Weird Al e le sue pazze canzoni amerà questo strambo finto biopic; chi invece non lo conosce ne apprezzerà lo humor e l'intento parodistico, oltre ad entrare per la prima volta in un mondo per certi versi irresistibile.

mercoledì 30 novembre 2022

Clerks III

di Kevin Smith.

con: Jeff Anderson, Brian O'Halloran, Jason Mewes, Kevin Smith, Rosario Dawson, Trevor Fehrman, Marilyn Ghigliotti, Jennifer Schwalbach, Amy Sedaris, Justin Long, Harley Quinn Smith, Kate Micucci.

Commedia

Usa 2022 















Tra "Clerks." e "Clerks II" sono passati dodici anni. Tra "Clerks II" e "Clerks III" addirittura sedici. E nuovamente, né il cinema americano, né quello di Kevin Smith sono gli stessi.
Il cinema indie ha ritrovato parte dello spazio perduto anche grazie all'affermazione delle piattaforme streaming e alla loro endemica fame di contenuti, mentre il crowdfounding permette oggi agli autori meno convenzionali di trovare aria per i propri progetti.
Smith, dal canto suo, ha usato l'approvvigionamento dei fan in primis per creare il suo film più serio e spiazzante, ossia "Red State", per poi tornare ai collaudati territori della commedia. Umanamente ha affrontato le gioie dell'essere padre con la figlia Harley Quinn Smith e le ha persino dedicato ben due film, lo sgangherato "Yoga Hosers" e quel "Jay & Silent Bob Reboot" anch'esso sgangherato quanto si vuole, ma anche incredibilmente accorato. E' riuscito persino ad entrare nel multiverso DC, dirigendo alcuni episodi dei serial CW nei quali ha incluso Jay e Silent Bob, rendendo il suo Askewniverse parte del mondo di Flash e soci.
Ma il cinema di Smith ha anche avuto un'involuzione, non riuscendo più ad essere fresco e brioso e ricorrendo spesso ai solo giochi di parole per creare umorismo. Così "Clerks III" arriva purtroppo nel periodo peggiore della sua carriera e ne risente in maniera decisiva.




Progetto che trova il suo seme in un episodio del 2018: mentre si recava ad un'esibizione, Smith subisce un attacco di cuore e se non fosse stato ricoverato immediatamente, sarebbe morto. L'autore del New Jersey usa quest'esperienza per riflettere sul suo stato e sulla maturazione, oramai alla soglia dei cinquant'anni. Il ruolo di padre viene così declinato nell'ultimo film su Jay e Silent Bob, mentre il ruolo di persona e amico trova una declinazione qui, per il tramite di Dante e Randal. 




"Clerks III" è un film sulla morte e il rimpianto. La morte aleggia su tutto, a partire da quella di Becky, che ha lasciato un vuoto nella vita di Dante. Il rimpianto si fa strada poco alla volta nella mente dei due ex ragazzi; li avevamo lasciati lì, nel loro negozio, ora di loro proprietà e alle soglie di una vita migliore, ma li ritroviamo in un'esistenza che sembra essersi dimenticata di quanto accaduto nel mentre, ricollegandosi direttamente con il primo film, partite di hockey sul tetto incluse. Non un'esclusione di "Clerks II", quanto una negazione di quanto di buono sarebbe potuto conseguire, con i due personaggi persi di nuovo nel vuoto di un purgatorio asfissiante.
Tutti e due sono chiamati a confrontarsi con la morte, ma mentre Dante non riesce davvero mai ad elaborare il lutto, è come sempre Randal a scoprirsi più maturo di quanto si potesse sospettare, usando l'esperienza di quasi fine-vita per trovare un nuovo inizio, che prende le forme del meta-film sulle loro esperienze da commessi.



Il reboot che Smith sbeffeggiava in precedenza diventa mezzo salvifico e si diverte come un matto a far reinterpretare a Brian O'Halloran e Jeff Anderson le scene dei primo film con 25 e rotti anni in più sul groppone. Il che lo porta anche indirettamente a riflettere sul lascito di quel film: se non ci fosse stato, anche lui, forse, sarebbe ancora confinato al Quick Stop Grocery ad immaginare una vita migliore, a contare i "se fosse" e "se avessi", con un alone di tristezza tangibile che rende la storia quantomai empatica anche al di là della tematica della morte.
Eppure, come in molti suoi film recenti, non c'è vera realizzazione, né la piena maturazione delle idee di base. L'importanza del lutto e del suo superamento non trovano catarsi, non di certo grazie a quel colpo di scena un po' raffanzonato che di certo non colpisce quanto dovrebbe e che tantomeno aiuta a trovare una chiusura ideale al tutto.
Quel che è peggio, l'umorismo non raggiunge neanche per sbaglio le vette dei capitoli precedenti. I dialoghi su "Star Wars" non hanno mordente, neanche quando Randal spiega ad Amy Sedaris la bellezza di "The Mandalorian" e non ci sono più di tanti riferimenti al cinema pop odierno, come se questo terzo capitolo vivesse in un vuoto distaccato dal resto dell'esistenza. Le battute sconce non sono ilari, è intelligenti e persino lo sketch dove il cristianissimo Elias diventa un "satanista rinato" risulta fiacco, anche perché ripetuto sino allo sfinimento.




Un terzo capitolo decisamente in tono minore, questo "Clerks III". Un conclusione (si spera temporanea) all' Askewniverse che di certo non rende giustizia a quanto di buono fatto in passato, né al potenziale dato da personaggi e situazioni. E si spera davvero che Smith ritrovi la grinta al più presto.

martedì 29 novembre 2022

Boiling Point

di Philip Barantini.

con: Stephen Graham, Vinette Robinson, Alice Feetham, Ray Panthlaki, Malachi Kirby, Hannah Walters, Izuka Hoyle, Taz Skylar, Lauryn Ajufo, Jason Felmyng.

Drammatico

Regno Unito 2021














Lavorare nella ristorazione è un inferno e chiunque vi abbia preso parte può confermarlo. Se l'apparenza deve essere perfetta, dietro il velo si celano drammi insostenibili, appaiati ad una pressione lavorativa che talvolta sfiora il ridicolo. 
Come rendere questa situazione di puro caos? Forse il piano sequenza è davvero lo strumento filmico più azzeccato. Non per nulla, già nel 2007 l'italiano "Valzer" presentava un'unica inquadratura per dar vita allo stress lavorativo, questa volta di un hotel. Philip Barantini adatta invece lo strumento al mondo della cucina e con "Boiling Point" espande un suo cortometraggio di 22 minuti in un'inqadratura di 88, contando sempre su di un solido Stephen Graham nei panni del protagonista Andy. Ma alla fine il tutto risulta purtroppo superficiale.



Il setting è dato: un ristorante, rinomato ma alla mano, durante il periodo natalizio. Andy è costretto a tirare le fila sia dietro che davanti ai fornelli, in una costruzione in crescendo che lo porterà al punto di rottura del titolo. Nel mezzo, un girotondo di clienti razzisti, influencer fastidiosi, un critico culinario con mire espansionistiche e un gruppo di collaboratori con le proprie idiosincrasie.
Da questo punto di vista la narrazione è perfettamente riuscita, inanellando una serie di disgrazie che si sommano sino ad esplodere. La struttura è anche azzeccata: seguendo il protagonista e tramite lui il pugno di personaggi che lo circonda, riusciamo davvero a percepirne lo stress, sia fisico che emotivo.




Ma la scelta formale si rivela alla fine arma a doppio taglio: manca il tempo necessario per approfondire i personaggi secondari e i loro drammi, i quali finiscono per restare sullo sfondo; le loro storie sono anche interessanti e ben rispecchiano le disavventure tipiche di molti lavoratori del settore (e non), ma la descrizione breve seppur decisa non rende loro giustizia. 
Alla fine si resta più che altro freddi dinanzi agli eventi, persino quando questi precipitano. La scelta di usare una forma tanto precisa finisce per stritolare la storia e benché il lavoro di cast e regia sia encomiabile, non si può certo definire "Boiling Point" come un'opera del tutto riuscita.