lunedì 31 gennaio 2022

Femme Publique

La Femme Publique

di Andrzej Zulawski.

con: Valérie Kaprisky, Lambert Wilson, Francis Huster, Patrick Bauchau, Giséle Pascal, Roger Dumas, Diane Delor, Jean-Paul Farrè.

Drammatico/Erotico

Francia 1984











Al suo terzo film francese, Andrzej Zulawski firma una delle sue opere più incolori. E su questo non c'è dubbio. Ma come ogni opera d'autore, "Femme Publique" è pregno di un fascino pulsante, oltre che di una maestria tecnico-stilistica che oggi, in un panorama filmico in cui il cinema d'autore è insabbiato nelle coordinate stantie della camera a mano e del montaggio lento, risulta ancora più dirompente. Tanto che, pur al netto dei suoi innegabili difetti, resta lo stesso una visione interessante.


Francia. Ethel (Valérie Kaprisky) è una modella di nudo aspirante attrice che riesce ad ottenere un ruolo di spicco nell'ultimo film dell'acclamato giovane regista Lucas Kessling (Francis Huster). Intrecciata una turbolenta storia d'amore con il volitivo autore, la vita della ragazza precipita in un baratro dopo la morte di Elena (Diane Delor), anch'ella giovane attrice, di origine cecoslovacca, ed ex amante di Kessling. Conosciuto il di lei ex marito Milan (Lambert Wilson), Ethel diviene un surrogato della donna scomparsa, perdendo sé stessa.


Torna ancora una volta il tema del doppio, nuovamente intrecciato ad una storia d'amore. Tant'è che "Femme Publique" sembra quasi nascere da una costola di "Possession": anche Ethel è un doppio perso in una (doppia) relazione fatta di sopraffazione possessiva.
Sia Lucas che Milan sono due figure maschili infernali. Il primo sfrutto i corpi delle sue attrici per farne feticci, sessuali e non, oggetti da mostrare manipolandoli a piacimento sul set come nella vita e del tutto assorbito nel suo ruolo di intellettuale ribelle, schiavo di emozioni e sensazioni e per questo del tutto irrazionale. Una figura nella quale Zulawski fa confluire anche il peggio di sé stesso, con la sua ossessione per una recitazione estrema e la conseguente necessità di spingere i suoi interpreti al limite.



Milan è un uomo perso nella contemplazione del passato, di un amore perduto che lo ha distrutto, come il Jacques de "L'Importante è Amare", che trova in Ethel una continuazione di quella donna ora scomparsa per sempre. Un uomo stretto tra le macchinazioni politiche (diventa l'assassino di un vescovo lituano scomodo alle autorità della Sfera Orientale) e la pazzia d'amore, che porta la donna giù in una relazione distruttiva.


Ed è Ethel, ovviamente, centro e motore di tutto. Un personaggio ambiguo, anche se solo in parte, che vive grazie al viso angelico e al corpo perfetto di Valérie Kaprisky, quasi sempre scoperto. Da questo stratagemma erotico, Zulawski intesse una critica al lavoro dell'attore e al rapporto tra questi e il regista. L'attore è un corpo da sfruttare, adoperato per dare forma alle ossessioni erotiche del regista e del pubblico, appartenente ad un professionista che lo "vende" a queste due figure. Il regista lo acquista, lo fa suo, lo sfrutta sino allo sfinimento, in un rapporto del tutto uguale a quello della prostituzione, come esplicitato nell'ultima scena tra Ethel e il vecchio fotografo; non per nulla, "Femme Publique" ricorda "Fille Publique", espressione francese per indicare le prostitute.


In quanto attrice, Ethel è anche doppio, corpo "vuoto" da riempire con la personalità del personaggio di turno. Da qui la linea di discrimine fluida tra il suo rapporto con Lucas e quello dei loro personaggi nel film che stanno girando, che si confonde sovente sino a coincidere nel tragico finale. E, soprattutto, il ruolo di rimpiazzo come partner di Milan, puro riflesso di una donna che fu, nella quale si cala totalmente, pur restando fisicamente ancorata alla sua identità originaria.


L'occhio di Zulawski si perde nella contemplazione, oltre che dei corpi dei personaggi, delle strade di un Parigi moderna, fatta di palazzi storici e luci al neon, reclame pubblicitarie e arte di strada e, in generale, sullo sfondo accade sempre qualcosa, sino a sfiorare la duplicazione dei punti di interesse nell'inquadratura. Come in "Possession", anche qui la città diviene parte integrante del racconto e mai come ora la macchina da presa riesce a fondere lo sfondo con i corpi per creare immagini dalla compattezza stupefacente.


E' ironico che il difetto principale del film venga esplicitato nei dialoghi. In una delle prime scene, Lucas impartisce a Ethel una lezione importante sulla recitazione, su come spesso gli attori recitino solo le singole scene senza pensare al personaggio nella sua interezza, frammentandolo in una miriade di "sotto-personaggi" diversi. L'intero film è così, frammentato in una serie di scene e situazioni espressive, ma che stentano a confluire in un'unica, solida, narrazione. Se la narrazione è solida, il racconto lo è molto meno, presentando situazioni sfilacciate che si uniscono tra loro solo sul lungo termine, generando talvolta confusione.


Tuttavia, sarebbe ingiusto negare il fascino di un film magnetico, splendidamente fotografato e impreziosito da belle performance da parte del cast. Prova del talento del suo autore.

venerdì 28 gennaio 2022

Macbeth

The Tragedy of Macbeth

di Joel Coen.

con: Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Bertie Carvel, Brendan Gleeson, Corey Hawkins, Harry Melling, Brian Thompson, Matt Helm, Stephen Root.

Usa 2021
















Alla fine è successo: i fratelli Coen si sono divisi. Dopo circa 40 anni di carriera come collaboratori e 15 come co-registi accreditati, il duo di Minnesota è scoppiato, con Joel rimasto ad occuparsi di regia e sceneggiatura. Una cosa passeggera? Così si spera. Fatto sta che anche senza l'ausilio del fratello, il talento di Joel Coen continua a risplendere. 
Per il suo "esordio" in solitaria, Joel decide di confrontarsi con l'eredità del Bardo, con quel "Macbeth" che è tra le sue opere più amate dalla Settima Arte. E decide di farlo a modo suo, trasformando quella che avrebbe potuto essere una semplice trasposizione in un atto d'amore verso tutto quel cinema che lo ha da sempre ispirato.


Il "Macbeth" altro non è che la tragedia del potere, la storia di un uomo accecato dalla vanagloria a cui un destino beffardo designa prima la grandezza, poi la rovina, distruggendone l'indole nobile. Nelle mani di Coen, la tragedia shakesperiana trova una nuova dimensione e un nuovo significato. Quella di Macbeth diviene una metafora sull'inevitabilità della morte, del destino avverso come tappa immancabile, di una disfatta che attende solo di concretizzarsi. Da qui le parole che aprono il primo e il terzo atto: "When", ossia quando la tragedia si perfezionerà, "Tomorrow", ossia quando la morte coglierà il protagonista.


Morte che è già parte del personaggio sin nella sua indole: Macbeth e la sua Lady non sono due giovani baroni, ma due nobili di mezza età, le cui rughe donano una cadenza ancora più mortifera ai dialoghi già in origine funerei.
Ma questo "Macbeth" è soprattutto un omaggio cinefilo al noir e, in generale, al cinema post-espressionista. Fotografia e scenografia si fondono per crea immagini profonde, con una ricerca della geometricità a tratti esasperante e che trova la sua forma in immagini perfette, dalla plasticità incredibile, forme rigorose che tagliano i fotogrammi in poligoni rigorosi. La forza visiva è così inusitata, imponente, rendendo una visione già memorabile ancora più penetrante.
Notevole anche l'ibridazione con il linguaggio teatrale: la ricerca della centralità porta alla trasformazione del fotogramma in un palco vero e proprio e l'alternanza tra campo e controcampo suggerisce la frontalità tra due prosceni veri e propri, aumentando il tasso di spettacolità della messa in scena.


Soprattutto, Coen riesce a non cadere nel solito giochino cinefilo fine a sé stesso. A differenza di quanto accadeva in "Miller's Crossing" e "Barton Fink", il citazionismo non è fine a sé stesso, ma sempre subordinato alla volontà di trasmettere la forza dell'adattamento. trovando così un equilibrio perfetto tra racconto e ambizione, prova di un'intensa maturità artistica.

lunedì 24 gennaio 2022

Scream

di Matt Bettinelli-Olpin & Tyler Gillett.

con: Neve Campbell. David Arquette, Courtney Cox, Marley Shelton, Melissa Barrera, Jenna Ortega, Heather Matarazzo, Jasmin Savoy-Brown, Sonia Ammar, Mikey Madison, Jack Quaid, Dylan Minnette, Mason Gooding.

Thriller/Horror

Usa 2022













---CONTIENE SPOILER---

In un panorama filmico popolato da sequel, remake, reboot ed similia, un film come lo "Scream" del 2022 (o "Scream 5" per i puristi) è un'operazione obbligatoria, uno specchio deformato di come il cinema in generale e quello seriale in particolare viene percepito da un pubblico sempre più vorace e volitivo.
Il duo di Radio Silence, fresco fresco dal successo di "Ready or Not" riprende l'eredità di Wes Craven, a cui questo nuovo capitolo è ovviamente dedicato, per declinarlo nel modo più classico possibile, dove per "classico" si intende in linea con la saga: laddove già il primo film era una decostruzione dei topoi dello slasher che citava i classici per ricrearne il filone in modo non originalissimo, ma quantomeno nuovamente vitale, questo quinto capitolo fa il punto sul fenomeno dei reboot, della nostalgia venduta un tanto al chilo e arriva finanche a coniare il termine  "requel" per indicare quei prodotti a là "Il Risveglio della Forza", che creano una continuazione riproponendo gli elementi più riusciti dell'originale senza così trovare una vera identità.


Il movente degli omicidi è anche il fulcro dietro la creazione del film. "Stab", la serie di film nei film che riproponevano in chiave di fiction gli eventi reali nella serie "Scream", ha chiuso i battenti con un ottavo capitolo diretto dall'autore di "Cena con Delitto"... ossia, esiste un film come "Gli Ultimi Jedi", che ha "osato" prendersi delle libertà con i luoghi comuni della serie e per questo è stato linciato mediaticamente dai fan. Due fan particolarmente tossici decidono di far ripartire gli omicidi in modo da dare agli sceneggiatori una nuova storia, questa volta creata secondo le loro voglie; in poche parole: i killer siamo noi, o più precisamente quei fanboys che si credono migliori dei filmmaker e decidono di creare una loro storia in teoria migliore di quella ufficiale.
Una storia che, nella migliore tradizione dei "requel" riprende gli elementi classici e li affianca ad alcuni nuovi, ma sempre collegati al capostipite. Ecco dunque che la nuova protagonista Sam Carpenter altri non è se non la figlia illegittima di Billy Loomis (quindi, Sam Loomis, come il personaggio di Donald Pleasance in "Halloween"); tra i suoi amici figurano i nipoti di Randy e fa la sua comparsa persino il nipote di Stu, il secondo killer del primo film.



La carneficina è quindi nuova e classica e i vecchi personaggi riprendono i ruoli aggiornandoli al tempo: laddove Sidney è diventata una Sarah Connor in miniatura, Gale Weathers è una donna più matura e sensibile, mentre Linus è un uomo oramai al crepuscolo. Il duo di autori si prende così il rischio e, da differenza di ciò che accade in molti "requel", fa dire a questo pugno di personaggi qualcosa di nuovo e arriva sinanche ad infrangere la formula classica uccidendo Linus, l'eterno sopravvissuto, che ora scompare in un fulgore di gloria. L'affondo, ovviamente, è verso quelli aficionados che pensavano di sapere già cosa si sarebbero trovati davanti, sebbene simile a quanto fatto da J.J.Abrams con Han Solo.
La formula viene comunque ulteriormente svecchiata donando a Ghostface un tocco di sadismo in più, con gli omicidi che ora fanno letteralmente male e sono tutti giocati sul dolore fisico provato dalle vittime. Quando poi, nel finale, si decide di uccidere il personaggio di Mikey Madison nello stesso modo in cui muore in "C'era una volta a... Hollywood", il gioco cinefilo si fa sublime, citando il supremo citazionista e decostruttore del cinema.


Il modello dello script è volontariamente identico al "classico", con tutti i luoghi comuni citati nella serie, tanto che nel terzo atto si ha la canonica festa già esorcizzata nel quarto capitolo. Ma questo non impedisce a Olpin e Gillett di giocare con le aspettative nelle singole scene, come quando disinnescano più volte di fila il cliché del jump-scare dello sportello che si chiude dietro il personaggio di turno.
Ma alla fin fine, ciò che rende questo nuovo capitolo memorabile è davvero la strizzatina d'occhio che fa verso i fan del cinema horror e, soprattutto, il modo in cui sbeffeggia i fandom tossici, l'ossessione per la "purezza" nelle serie, la volontà idiotica di avere nuovi film sempre uguali ai vecchi, di ritornare, con nostalgia o meno, sempre nei soliti luoghi con i soliti personaggi. Come "Matrix Resurrection", ma con una vena più sadica.

mercoledì 19 gennaio 2022

Pig

di Michael Sarnoski.

con: Nicolas Cage, Alex Wolff, Adam Arkin, Cassandra Violet, Julia Bray, Elijah Ungvary, Brian Sutherland, Beth Harper, Tom Walton, Nina Belforte.

Usa, Regno Unito 2021


















Nicoals Cage si è creato da solo la fama di attore stravagante, eccessivo, dannatamente folle e sopra le righe. E il caso ha voluto che la sua carriera imboccasse una strada stramba: stante la necessità di lavorare, a causa di una truffa che lo ha quasi ridotto sul lastrico, il buon Cage ha praticamente accettato ogni singolo ruolo gli venisse proposto, con la conseguenza che la sua carriera è ad oggi amena ma anche altalenante. E poi arriva "Pig", un film che avrebbe tutte le carte in tavola per essere definito "strambo", ma nel quale lui si muove in maniera eccelsa, regalando una performance magnetica e sussurrata, fulcro di un racconto contemplativo messo al servizio di una storia che in altre mani sarebbe potuta essere parodistica, ma che l'esordiente Michael Sarnoski dirige con pugno saldissimo e serissimo.



Rob (Cage) è un solitario che vive nei boschi e vive commerciando tartufi; la sua unica compagnia è data dal suo maiale, che lo aiuta nella ricerca dei funghi. Questo finché l'animale non viene rapito e lui non torna in città, facendo il diavolo a quattro per ritrovarlo.
Inutile dirlo, così nero su bianco la trama è praticamente identica a quella di "John Wick", solo con un suino al posto del cane. Ma le similitudini con la serie di Chad Stahelski e David Leitch finirebbero praticamente qui, se non fosse per la volontà, non dissimile, di creare un universo alternativo, un mondo sotterraneo dove gli chef prendono il posto dei killer prezzolati. Ed è questa la caratteristica più bizzarra di "Pig": al di là della storia personale del suo protagonista, porta in scena un mondo stilizzato nel quale i cuochi sono rockstar potenti come boss mafiosi e sono pronti a tutto per affermarsi sul prossimo.
Ma a Sarnoski non interessa la stilizzazione, né l'esagerazione. Il mondo creato è al servizio della storia personale di Rob e permette al regista/sceneggiatore di dare un piccolo affondo all'ossessione odierna per la culinaria, per l'importanza che viene data al cibo, per un industria diventata arte nel senso peggiore del termine, con chef che si scapicollano per creare piatti senz'anima e senza gusto, pronti per essere venduti a prezzi esorbitanti a clienti ai quali non interessano i gusti, quanto l'etichetta di lusso.


La narrazione è tutta basata sul senso di perdita, sulla solitudine di Rob, il suo alienarsi da un mondo che non comprende e che forse non ha mai compreso, dal quale si è sganciato a seguito del lutto e verso il quale non prova il minimo interesse. Da qui la performance misurata ed empatica di un Nicolas Cage che ci ricorda come, sotto la patina di attore pazzo e simpatico, si celi ancora un interprete solido.
Performance che fa il paio con l'atmosfera scostante, veicolo della vacuità esistenziale del personaggio che trova un'ottima rappresentazione; la quale, purtroppo, pecca però di una regia sin troppo canonica, tutta fatta di camera a mano e silenzi, come tanto cinema indie americano propina da quindici anni a questa parte.


Convenzionalità che in parte affossa un visione altrimenti interessante, un film piccolo e mesto, ma tutto sommato perfettamente riuscito.

lunedì 17 gennaio 2022

Titane

di Julia Ducournau.

con: Agathe Rouselle, Vincent Lindon, Garance Marillier, Lais Salameh, Mara Cisse, Marin Judas, Diong-Keba Taku.

Francia, Belgio 2021

















---CONTIENE SPOILER---

Con "Raw" la Ducournau si era fatta conoscere come una cineasta complessa, alla quale piace usare registri, toni e tematiche diverse per creare un racconto complicato messo al servizio di una storia in realtà semplice. Con "Titane", la giovane autrice fa di più, elevando la complessità del racconto all'ennesima potenza, fondendo echi cronenberghiani e trsukamotiani con una sensibilità europea austera e priva di compromessi, per narrare una storia ancora una volta non complessa, ma decisamente più ampia e a suo modo profonda. Trionfando a Cannes, con sommo sconforto di Nanni Moretti, che forse si aspettava che il suo "Tre Piani" venisse premiato per il capolavoro che non è. E se già Cannes è la prova del talento, l'odio di Moretti potrebbe davvero essere visto come la piena consacrazione.



Alexia (Agathe Rouselle) è un personaggio dall'indole stratificato, forte e al contempo fragile. Ci viene introdotta in modo magnificamente esplicativo: sin da bambina cerca di avere un rapporto diretto con il padre, ma lo fa tramite la violenza, in modo indisponente. Da qui, dopo un incidente, si ritrova una placca di titanio nella testa ed un feticismo per le automobili.
La ritroviamo anni dopo, cresciuta, mentre lavora come ballerina durante un esposizione automobilistica; non è cambiata: la sua attrazione per il metallo permane. Attrazione che si appaia al rifiuto della carne e con essa dei rapporti umani. Come in "Crash", il metallo è nuova carne, esso viene accolto nel corpo per creare una nuova vita, mentre il corpo umano altrui viene distrutto, fatto a pezzi, lacerato sadicamente ogni volta che viene usato come strumento per trovare un contatto umano. L'unione dei corpi, la penetrazione, è qui sinonimo di sola morte.
Afflato distruttivo che culmina con l'uccisione dei genitori, sacrificati in un fuoco distruttivo all'egoismo di Alexia. E da qui, "Titane" cambia letteralmente pelle e diventa altro.


Alexia cambia identità e gender, distruggendo e riplasmando il suo corpo diventa il figlio perduto di Vincent (Vincent Lindon), capitano dei vigili del fuoco distrutto dalla perdita. E "Titane" diventa la storia di un figlio e di un padre, dando forma a quel rapporto precedentemente castrato. Il tema identitario diventa centrale: laddove la carne si è fatta acciaio, ora l'io diventa perfetta maschera dell'interiorità, palesata tramite un volto non proprio, forse proprio per questo ancora più reale.
Alla Ducournau, di fatto, non interessa riflettere su come la modernità abbia modificato l'essenza e la corporalità dell'essere umano, a differenza delle sue fonti di ispirazione; le interessa, piuttosto, intessere nuovamente una storia sull'identità e la famiglia.



Alexia è una figlia in cerca di affetto, Vincent un padre in cerca di un figlio. La necessità li unisce, ma il loro rapporto non è meno vero o forte di uno effettivo vero e proprio. Da qui il racconto si concentra su loro due, sulla loro ideale contrapposizione: se Alexia è il metallo, il rifiuto della carne, Vincent è la carne, con un corpo anziano ma ancora possente, fragile e al contempo forte, imponente e ingombrante. Da cui la sintesi, in un finale che mischia in modo miracolosamente equilibrato splatter e sensibilità.




Se la Ducournau riesce a districarsi ottimamente nella storia, è nel racconto che trova una perfetta dimensione; con facilità spiazzante, fonde il registro drammatico con quello grottesco per dar vita a sequenze agghiaccianti, come quella del massacro alla fine della prima parte (dove tra l'altro ritorna il personaggio di Justine di "Raw", in un simpatico cameo). La sua mano è fermissima e la sua indole selvaggia perfettamente controllata, con un uso dei movimenti di macchina saggio e, soprattutto, uno sfoggio incredibile per la capacità di creare atmosfere sinistre e oniriche. "Titane" diventa così un dramma dalla fortissima espressività, eloquente e ipnotico, un piccolo esempio di cinema d'autore al contempo sfacciato e controllatissimo, prova di un ottimo talento.

martedì 11 gennaio 2022

Lamb

di Valdimar Jòhannsson.

con: Noomi Rapace, Hilmar Snaer Gudnason, Bjorn Hylnur Haraldsson, Ingvar Sigurdsson, Ester Bibi.

Islanda, Svezia, Polonia 2021

















---CONTIENE SPOILER---


Ci sono opere ermetiche, che lasciano allo spettatore un margine di manovra nell'interpretazione del racconto; ci sono opere che fanno ricorso al simbolismo per veicolare messaggi più profondi, alla metafora per meglio traghettare un significato e all'atmosfera per comunicare una sensazione, uno stato d'animo che si fa avvolgente o straniante. E poi c'è "Lamb" che rifacendosi alla tradizione di tanto cinema autoriale europeo, tenta di intessere una narrazione astratta ed ermetica per parlare di lutto, alienazione e illusione, ma riesce solo a comunicare una forma di straniamento ai limiti del parodistico, con un uso del ritmo sonnolento e senza mai riuscire davvero a creare una forma comuncativa effettiva con lo spettatore.



Esordio per Valdimar Jòhannsson, coadiuvato alla scrittura dal poeta e scrittore Sjòn, "Lamb" racconta la storia di una coppia, Maria (Noomi Rapace) e Ingvar (Hilmar Snaer Gudnason), allevatori di pecore nella remota campagna islandese, e della loro bambina, Ada, ibrido umano-ovino, che crescono come una normale bambina.




L'eco di "Eraserhead", a livello tematico, è forte, ma laddove Lynch costellava il racconto di simboli astratti, "Lamb" è un racconto lineare, ermetico per l'uso minimale dei dialoghi e degli stessi simboli. La storia parla da sola: la coppia di neo-genitori non è affetta da un disturbo psicologico, la prospettiva di Pètur, fratello di Ingvar introdotto nel secondo capitolo, getta una luce oggettiva sui fatti e Ada è davvero una creatura vivente e "mutante". Cosa vuole dunque essere "Lamb"? Questo è quello che lo spettatore è chiamato a capire in 106 minuti di immagini.




"Lamb" è una storia sull'alienazione, forse, su come una coppia che vive ai limiti del mondo reagisca alla solitudine grazie ai legami famigliari, dati sia dalla genitorialità che dal rapporto fraterno.
Ma la scena del cimitero che apre il terzo capitolo getta anche un'altra luce sulla storia. Ada era il nome di una bambina morta. L'Ada che la coppia si ritrova a crescere è così, nelle  stesse parole di Maria, un nuovo inizio, la possibilità di creare un nuovo nucleo famigliare dalle ceneri del vecchio. Ada è un sostituo, ma non un surrogato, venendo amata appieno come se fosse l'unica creatura della coppia.




Il finale, con l'ingresso in scena della creatura paterna, quello che assieme alla pecora che viene uccisa da Maria è il vero genitore di Ada, getta anche un'altra luce sulla vicenda. La natura si riprende ciò che è suo da quegli esseri umani che l'hanno sottomessa, ne hanno estirpato la vita per accrescere egoisticamente la propria, senza badare ai suoi sentimenti. L'uomo-capra, feroce e sinistro, è lo spirito di quegli animali sacrificati per la sopravvivenza umana che si riprende letteralmente una parte di se stesso, una successione, ossia un diritto alla vita che gli era stato strappato.




Se la storia bene o male funziona, è il racconto di Jòhannsson a vacillare. La regia azzecca l'atmosfera, ai limiti del folk-horror e con inserti da fiaba campestre che accrescono il fascino della storia, ma poi si perde nella contemplazione inutile della quotidianità dei personaggi, che non aggiunge nulla al narrato e anzi affossa spesso le buone intenzioni. Anzicché dare spazio allo sfondo della campagna islandese, che fa capolino giusto in qualche bella inquadratura, la regia si perde in sequenze inutili, quasi come volesse artificialmente aumentare la durata di una storia che avrebbe funzionato anche con mezz'ora di durata in meno; anzi, probabilmente avrebbe funzionato meglio.




L'attenzione dello spettatore è così inutilmente diluita e sviata su particolari inutili, come il passato rock dei personaggi o la relazione tra Maria e Pètur. Il racconto risente così di lungaggini, ma soprattutto di un compiacimento spiazzante per il ritmo lento, per la contemplazione onanistica del nulla, che nulla da e nulla trasmette. Difetti tutto sommato scusabili, dato lo stato di esordiente del regista, ma che compromettono di molto la visione.

lunedì 10 gennaio 2022

La Perdizione

Mahler

di Ken Russell.

con: Robert Powell, Georgina Hale, Lee Montague, Miriam Karlin, Rosalie Crutchley, Guy Rich, Richard Morant, Antonia Ellis, Dana Gillespie.

Biografico

Inghilterra 1974













Ottenuta la fama con "I Diavoli", Russell torna inizialmente al suo primo amore, ossia la biografia dei grandi compositori. Con "Mahler" si approccia alla vita di Gustav Mahler (1860-1911) con gusto sperimentale, creando un'opera che forse non ha la forza di "The Music Lovers", ma rende lo stesso giustizia ad un grande artista.


Nel 1911, ad una settimana circa dalla morte, Gustav Mahler (Robert Powell) rientra a Vienna dopo un tour in America, accompagnato dalla moglie Alma (Georgina Hale). Il tragitto in treno è costellato dai ricordi della sua vita, dalla paura per la perdita dell'amore, dagli errori e dai lutti.


Un viaggio come metafora di una vita. Un percorso a ritroso frammentato e intramezzato da sogni e visioni. Russell adopera una messa in scena totalmente libera, alternando il rigore della verosomiglianza all'efficacia del' grottesco. Impossibile non innamorarsi della sequenza de "Il Convertito", vero e proprio film nel film con in quale si da corpo alla conversione al cristianesimo del compositore, usata come puro strumento per divenire direttore dell'orchestra sinfonica di Vienna.
Con piglio grottesco ed espressivo, Russell dà vita ad una situazione, appunto, grottesca, una conversione fatta ad hoc per compiacere una vecchia valchiria antisemita, con una favola nordica reminiscente del mito di Sigfrido e proiettata verso il futuro nazista.


Su tutto vigila l'ombra della morte, che segue letteralmente Mahler ovunque vada, con la scomparsa del fratello e della figlioletta a fare da spartiacque nella sua vita. L'altra sequenza da antologia è quella del funerale immaginario, dove l'eros e il thanatos si sovrappongono: morta la scomoda figura del compositore, la moglie è libera di concedersi allo spasimante Max, in un trionfo di libido e disperazione
Ma all'inevitabilità della fine, Russell contrappone la voglie di vivere ritrovata, la comunione rinsaldata con la partner, con un finale lieto, benché contrassegnato dalla precoce scomparsa del protagonista.


La vita del compositore viene scomposta e sviscerata. Oltre agli episodi cardine, Russell pone l'enfasi sull'infanzia, su quella formazione ferrea che il protagonista finisce per rifiutare, allontanadosi dalle lezioni di piano per riabbracciare la natura (complice il personaggio messianico del Vecchio Nick). Torna il simbolo dell'acqua, che però qui è solo inizalmente mortale: dopo averla abbracciata, Mahler la usa come fonte d'ispirazione, divenendo parte essenziale di quella natura alla base delle sue opere. Fondendosi con i suoni del cosmo, Mahler trova la vera ispirazione, riesce a creare una musica nuova, lontana dagli stereotipi dell'epoca, perfettamente in linea con quella forma di avanguardismo propria dei veri maestri.


Con un uso inedito dell'illuminazione naturale, Russell dà vita a visioni potenti ed il cast è azzeccato. Purtroppo la biografia di Mahler non ha la forza di quella di Liszt o Tchaykovsky, riuscendo a sorprendere ma non a coinvolgere davvero. La grandezza del suo autore è però lo stesso perfettamente incapsulata in questi magnifici 100 minuti di cinema e musica.

venerdì 7 gennaio 2022

R.I.P. Sidney Poitier


1927 - 2022

Inutile dire come Sidney Poitier abbia rappresentato molto più di un semplice attore dal grande talento e dal fascino magnetico. La sua carriera da sola testimonia la sua importanza, con la sua capacità di raggiungere lo stato di divo e mantenerlo in un periodo storico in cui il solo fatto di essere un attore afroamericano dal talento riconosciuto era di sé stesso un miracolo. Un volto unico, il suo, prestato ad opere impegnate e dirompenti, come "La Parete di Fango", "La Scuola dell'Odio", "La Calda Notte dell'Ispettore Tibbs" e l'ancora oggi attuale "Indovina chi viene a cena", ma anche a splendidi drammi intimisti come il mai dimentico "Incontro al Central Park".

giovedì 6 gennaio 2022

R.I.P. Peter Bogdanovich


 1939 - 2022

Assieme a Martin Scorsese, Bogdanovich ha rappresentato l'anima più cinefila della Nuova Hollywood. Ossessionato dal cinema del passato sino a riesumarlo in "Paper Moon", ha collaborato con la più grande icona di Hollywood, quel Orson Welles con il quale ha avuto un rapporto d'amicizia terminato in maniera burrascosa. E, prima ancora, ha portato avanti le istanze autoriali del cinema americano con capolavori quali "Bersagli" e "L'Ultimo Spettacolo". Un intellettuale completo, che non ha mai disprezzato l'autoirnonia, come provano le sue apparizione in "How I Met your Mother" e "It- Capitolo Secondo".

martedì 4 gennaio 2022

Matrix Resurrections

The Matrix Resurrections

di Lana Wachowski.

con: Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss, Yaha Abdul Mateen II, Jessica Henwick, Jonathan Groff, Neil Patrick Harris, Priyanka Chopra, Jada Pinkett Smith, Christina Ricci, Lambert Wilson.

Fantascienza/Azione

Usa 2021













---CONTIENE SPOILER---


L'era di "Matrix" si è conclusa all'incirca a metà degli anni '00. La delusione per i sequel e la loro innata idiozia hanno condannato all'oblio quella che sembrava essere una perfetta cartina di tornasole dell'estetica e della filosofia dei primissimi anni del XXI secolo.
Le Wachowski, dal canto loro, si sono dapprima fatte perdonare la debacle con quell'adattamento di "V per Vendetta" di Alan Moore tanto libero quanto riuscito, solo per poi dare nuovo e peggiore sfoggio della loro pessima indole creativa sfornando film sempre più brutti: l'imbarazzante "Speed Racer", il giustamente dimenticato "Cloud Atlas" e l'ancora più imbarazzante "Jupiter Ascending", lasciando come vero lascito solo "Sense8" e i progetti collaterali a "Matrix". Tra questi, il più riuscito è stato il MMORPG "The Matrix Online", che continuava la storia oltre "Revolutions" ed espandeva la mitologia della serie in territori persino interessanti.
Ma la Warner non poteva ovviamente lasciar morire un marchio che, solo al cinema, ha fruttato oltre un miliardo e mezzo di dollari in totale. Ecco dunque entrare in cantiere un quarto capitolo, che si sarebbe fatto persino senza le creatrici dell'originale. Alla notizia, Lily si è tirata indietro, mentre Lana ha deciso di prendere in mano le redini dell'operazione creando un sequel-reboot che, nonostante gli sforzi, si è rivelato un vero e proprio flop al botteghino e ha diviso sia la critica che il pubblico. Urge dunque chiedersi, come al solito, se l'operazione sia davvero riuscita.


Torniamo indietro al 1999. Perché le Wachowski hanno creato "Matrix"? Sicuramente per i soldi e per giocare con il bullet time e il wire work, ma anche, forse, per creare un'opera in grado di stimolare la mente degli spettatori; come Braudillard e Dick che le hanno ispirate, le due sorelle volevano dare qualcosa di concreto al pubblico, ma cosa è stato davvero recepito di "Matrix"? Complice la loro volontà di trasformarlo in una trilogia, con esiti disastrosi, è stato rimosso dalla coscienza collettiva e prima ancora trivializzato: al pubblico non interessava la dicotomia realtà/finzione o il risveglio apofatico, quanto il look post-punk, le capriole e le sparatorie al ralenty.
Vent'anni dopo la fine della saga, con un finale aperto e maldestro quanto si vuole, ma al contempo definitivo, il brand doveva tornare e Lana Wachowski ha deciso innanzitutto di sottolineare questa questione: "Matrix" non è stato assimilato dal suo stesso pubblico e ora bisogna rivenderglielo, ma come?


L'aspetto più affascinante e male esplorato dei sequel era il concetto di ripetizione. L'eletto e la guerra contro le macchine erano cicli destinati a ripetersi all'infinito, da cui la discrasia e contestuale confusione tra destino e libero arbitrio. "Resurrections" riflette così sul concetto stesso di reboot, su di un ciclo che si ripete, sul rivendere al pubblico ciò che ha già avuto, ma in maniera leggermente modificata (e in ciò arriva però secondo, dopo lo scalcinato ma divertente "Jay & Silent Bob Reboot" di Kevin Smith). Lungo tutto il film, eventi familiari vengono riproposti, a partire dal prologo, ricalcato inqaudratura per inquadratura su quello dell'originale, con i soli dialoghi a chiarificare il fatto che quello che stiano vedendo è una riproposizione in variante (da cui il concetto essenziale di "deja-vu", sempre inteso come "modfica di qualcosa di preesistente"). Dopotutto, "i reboot sono facilmente vendibili". Ma proprio da qui parte la differenza: ora Neo è un game designer di successo, che circa venti anni fa ha fatto il botto con una trilogia di giochi chiamati, appunto, "Matrix". Ora è tempo di crearne uno nuovo, che si farà con o senza il suo coinvolgimento. La metanarrazione è divertente già presa sé, ma acquista valore quando la si riconnette al passato: ciò che è stato ora esiste solo in quanto rielaborazione ludica degli eventi, con l'agente Smith che è diventato il capo di Thomas Anderson e Morpheus che, come paradossalmente avveniva nel "Nirvana" di Gabriele Salvatores, è una ricostruzione digitale del personaggio reale che ha preso coscienza di sé.


La storia diventa così ri-narrazione: il nuovo Morpheus libera Neo assieme ad una nuova Trnity, chiamata Bugs come il coniglio, ossia quel Bianconiglio che per primo mostrò al protagonista la via di fuga dalla finzione. Gli specchi e le backdoor sono ora parte integrante del sistema di immersione e fuga e, soprattutto, Matrix è stata aggiornata ad una nuova versione, più in linea con la contemporaneità.
La nuova Matrix altro non è se non il mondo post-Internet (o "post-Matrix", verrebbe da dire), dove i videogames sono la nuova realtà, un'immersione in un mondo che si sa essere irreale e per questo piace più della realtà. Un mondo dove gli hacker sono stati sostituiti dagli utenti dei social, dove tutti sono connessi eppure non hanno nulla da dire. Concetto interessante e a dir poco scottante... che la Wachowski decide paradossalmente di isolare nei deliri di un Merovingio ancora più macchiettistico, ma che per fortuna resta in scena per giusto qualche secondo.
Eppure la volontà di rivalsa dell'autrice è lo stesso forte: abbiamo abbandonato la volontà di cercare il vero, di andare oltre la percezione della realtà, da qui la necessità di ripercorrere il cammino liberativo di Neo, questa volta anche in modo diverso.


Perché se prima era davvero Neo l'eletto, ora questo concetto è diviso tra lui e Trinity, tra due persone, uomo e donna; la rivoluzione parte dall'uninione, da quella "forza dell'amore" tanto ridicola dei precedenti sequel, quanto azzeccata adesso. 
La storia funziona proprio per il suo essere una riproposizione, una copia non conforme all'originale, un ciclo che si ripete uguale e diverso, ma sempre cosciente di sé stesso (e in questo è forte anche l'assonanza con "Innocence: Ghost in the Shell 2"). E l'operazione riesce anche e soprattutto perché scevra da nostalgia: la ripetizione è data per motivi contingente, non per galvanizzare il pubblico. Anche se non tutto fila liscio: l'agente Smith, al solito redivivo senza spiegazione, ora è promosso anche ad improbabile deus ex machina e come sempre non si capisce perché un virus che ha cercato di assimilare Matrix debba continuare ad esistere, soprattutto in un mondo dove tutti i programmi pericolosi sono stati esiliati.
Le scene d'azione, d'altro canto, non hanno la forza del passato e l'uso estensivo di piani stretti e otturatore semi-chiuso dona loro una parvenza di vecchiaia, come se si fosse ancora nei primi anni 2000. Forse era Lily l'esperta di action nei duo, ma anche così risultano funzionali, anche se mai davvero memorabili. Perlomeno, gli obbrobri di "Reloaded" sono alle spalle.


"Resurrections" riesce così nella non facile impresa di ridare dignità alla saga di "Matrix"; complesso quanto basta, mai compiaciuto o sbruffonesco, è non solo il miglior sequel dei tre usciti, ma anche una fresca riflessione sul concetto di reboot e remake in un'era soffocata dalla riproposizione di schemi abusati e marchi corroborati. Ed è un vero peccato che il pubblico abbia deciso di bocciarlo.