lunedì 28 febbraio 2022

Occhiali Neri

di Dario Argento.

con: Ilenia Pastorelli, Asia Argento, Andrea Gherpelli, Mario Pirrello, Maria Rosaria Russo, Gennaro Iaccarino, Andrea Zhang.

Thriller

Italia, Francia 2022

















L'ultimo film riuscito di Dario Argento risale al 1993 ("Trauma"), l'ultimo film che ha diretto ("Dracula 3D") è un' offesa alla sua stessa carriera e allo status di "Maestro del Brivido" che aveva giustamente guadagnato, oltre che al buon senso in generale. La sua carriera ha subito un collasso a partire dagli anni '90 e ha raggiunto un punto di distruzione totale con gli ultimi quattro film. E ad 82 anni, di certo nessuno si aspettava un ritorno alla forma con quest'ultimo "Occhiali Neri", progetto che sembrava dovesse partire già all'indomani di "Non ho sonno" ma che arriva nelle sale solo adesso. Invece, con un twist degno di un giallo, Argento riesce bene o male a sorprendere in positivo: questa sua nuova fatica non è certo un ritorno al suo periodo d'oro, né un thriller particolarmente memorabile, ma ha il grosso merito di essere un film decoroso, tutto sommato ben diretto e che riesce a non scadere mai, miracolosamente, nel ridicolo.


La storia è da giallo italiano classico: assassino con i guanti neri terrorizza le escort romane. Una giovane ragazza, Diana (Ilenia Pastorelli), sopravvissuta ad un suo attacco, perde la vista e si ritrova a dover riorganizzare totalmente la sua vita, oltre a dover badare al piccolo Chin (Andrea Zhang), i cui genitori sono morti a causa del killer.
La struttura del whodunnit viene in parte abbandonata; più che sul mistero dell'identità del killer, ora quantomai secondario, Argento si concentra sul personaggio di Diana, sul suo status di non-vedente e su come questo improvviso dramma le ha sconvolto la vita. Il rapporto con il figlio adottivo ricorda in parte quello tra il personaggio di Karl Malden e Cinzia De Carolis in "Il Gatto a Nove Code", ma qui ha un ruolo centrale, divenendo parte del cuore della narrazione.
Questa si discosta in parte dal classico thriller nella prima parte adagiandosi sulla descrizione dei personaggi e, tutto sommato, convince; manca di certo l'originalità nel tratteggiare i protagonisti, ma il loro ritratto finisce per funzionare.


Dove la mano di Argento risulta stanca, purtroppo, è proprio nella componente "di genere"; manca vera tensione nelle sequenze degli omicidi, che si risolvono ora più che mai in un semplice bagno di sangue atto a sfoggiare i sempre ottimi effetti speciali di Sergio Stivaletti; tensione che cala in realtà anche durante la lunga sequenza dell'isneguimento nell'ultima parte, che pur ben condotta, non riesce davvero a sorprendere.
Come thriller, in pratica, "Occhiali Neri" non funziona a dovere e tanto basterebbe per stroncarlo. Se non fosse che, almeno, riesce bene o male a non scadere mai nel ridicolo, nonostante la recitazione "naturalistica" della Pastorelli, che sembra impegnata sul set di un dramma televisivo piuttosto che su quello di un film di genere, o, ancora, quella acerbissima del piccolo Zhang, ovviamente dovuta alla sua inesperienza. 
Mediocrità compensata dal gusto di Argento, che sa ancora come portare su schermo le sue visioni. In generale, la messa in scena è ferma e riserva qualche bella sorpresa nell'uso delle soggettive, con uno stile più statico rispetto a quanto  ci abbia abituato, ma lo stesso di buona fattura. Così come di ottima fattura sono gli stunt, eseguiti a regola d'arte, degni di un action vero e proprio. E persino le belle musiche di Arnoud Rebottini (ma in origine Argento voleva niente meno che i Daft Punk) riescono a trasmettere un ottima sensazione onirica, oltre a risultare perfettamente feroci quando devono.


"Occhiali Neri" è così un film piccolo e imperfetto, ma che ridà finalmente lustro ad una filmografia che sembrava persa nel pozzo nero dell'umiliazione. L'Argento migliore è ormai andato, ma per lo meno la decenza è di nuovo alle porte.

venerdì 25 febbraio 2022

Annette

di Leos Carax.

con: Adam Driver, Marion Cotillard, Devyn McDowell, Simon Helberg, Angèle, Natalia Lafourcade.

Francia, Belgio, Usa, Germania, Messico, Svizzera, Giappone 2021


















Il cinema di Leos Carax è certamente irriverente e distruttivo, ma al contempo ha un cuore "puro", nel quale si agitano sentimenti sinceri, quasi viscerali; il che si riverbera in una messa in scena palesemente "finta", volta a sbugiardare la verosomiglianza che le immagini potrebbero avere, ma che al contempo le rende ancora più vivide, arrivando a colpire nel profondo i sensi e i sentimenti di chi osserva.
"Annette", da questo punto di vista, è la perfetta cartina di tornasole di questo modo di intendere la Settima Arte: un musical che fa della negatività il suo sentimento portante, ma che cela un lato sensibile pronto ad esplodere in faccia allo spettatore per farlo appassionare ad una storia semplice, ma al contempo riuscita.


Henry (Adam Driver) è uno stand-up comedian velenoso, Ann (Marion Cotillard) è una cantante d'opera affermata. I due si amano e dalla loro unione nasce Annette. Dopo un incidente in cui Ann muore, Henry scopre il talento canoro di Annette e decide di sfruttarlo.
Una storia semplicissima, già vista persino nella filmografia di Carax con il precedente "Boy meets Girl". Un uomo, una donna, un'unione. Tutto qui. Si fa per dire: Carax insiste sui personaggi, in particolare su quello di Henry, ammantato in un colore verde reminiscente di quello di Monsieur Merde, la sua maschera prediletta. E se M.Merde è provocazione, Henry McHenry è disgusto, è dileggio gratuito, è la personificazione dell'egocentrismo e dell'individualismo, la cui colpa ha la forma di una voglia che si ingrandisce con il passare del tempo.


Da cui deriva la forma di Annette, quella di una bambola, un oggetto, un qualcosa di non vivo, una marionetta da muovere a piacimento. Un orpello usato per fini personali, come le donne che lo accusano di molestia, come quella moglie "rea" di averlo superato in fama. Henry è negatività allo stato puro, che si fa violenza, ma prima ancora prevaricazione; per il quale non c'è salvezza, negata in un finale splendido, dove le maschere calano e tutto si rivela per ciò che è davvero.


A distanziare "Annette" da un dramma qualsiasi è la forma o, meglio, la "non-forma". Carax scardina totalmente ogni modalità convenzionale sin dal prologo: introduce gli Sparks, autori della colonna sonora e quindi fautori del film, in quanto musical vero e proprio. Quando i loro strumenti vengono collegati, il mondo del film si illumina e il cast principale può annunciare di cominciare ("So may we start").
Nella costruzione dei numeri musicali, si diverte ad invertire i ruoli, con i personaggi sul palco che "subiscono" le canzoni da parte del pubblico. O, come nella bella scena con protagonista un sorprendente Simon Helberg, a costruire il numero musicale come un dialogo tra personaggio e pubblico, recuperando una forma di "classicismo" solo nella bellissima sequenza finale, dove il cuore emotivo della storia esplode in un tripudio di sentimento.
Ne consegue un'esperienza spiazzante, ma vivida, anticonvenzionale e incredibilmente originale. "Annette" non ha di certo la forza del precedente "Holy Motors" e come molti musical odierni non ha canzoni davvero memorabili, ma è lo stesso un dramma riuscitissimo e originale nella forma.


lunedì 21 febbraio 2022

Non Aprite quella Porta (2022)

Texas Chainsaw Massacre

di David Blue Garcia.

con: Sarah Yarkin, Mark Burnham, Elsie Fisher, Jacob Latimore, Moe Dunford, Olwen Fouere, Jessica Allain, Nell Hudson, Alice Kriege.

Usa 2022















Ricapitolando: la saga di "The Texas Chainsaw Massacre" conta tre seguiti del film originale, un remake firmato Platinum Dunes del 2003, un prequel del remake, un sequel diretto del primo film che elimina tutti gli altri sequel ("The Texas Chainsaw Massacre 3D" del 2013), un prequel del film originale ("Leatherface" del 2017), senza contare un sequel apocrifo, ossia quel "Non Aprite quella Porta 3" del 1990 diretto da Claudio Fragasso e una serie di omaggi diretti, ossia la trilogia della famiglia Firefly di Rob Zombie. E, a conti fatti, tolto il primo sequel, gli omaggi e forse il prequel del remake, il resto si sarebbe anche potuto evitare, visto che si tratta di pellicole irrilevanti nella migliore delle ipotesi, del tutto brutte nella peggiore.
Nonostante questo, ecco arrivare Fede Alvarez con un nuovo sequel che nuovamente distrugge la continuity post-1974, riprende il titolo del film originale eliminando il "The" come se fosse un requel vero e proprio e si pone come continuazione del capolavoro di Hooper. Se ne sentiva il bisogno? Certo che no, ma è sempre meglio concedere il beneficio del dubbio. Concesso il quale si può dire con piena cognizione di causa che, davvero, non si sentiva il bisogno di questo ennesimo sequel.


Sono passati circa 50 anni dalla strage di Leatherface e famiglia. Nel frattempo, l'America è cambiata, il Texas è cambiato. Un gruppo di giovinastri si reca da Austin ad Harlow con l'itnenzione di gentrificare quella che è una città fantasma. Non sanno, però, che proprio lì ad attenderli c'è Leatherface, che per cinquant'anni ha fatto il bravo bambino in un orfanotrofio e che ora è pronto a riprendere in mano la motosega per fare strage.


Mettiamo subito in chiaro una cosa: questo sequel è certamente più dignitoso di quello strambo esperimento ai limiti del parodistico che era "The Texas Chainsaw Massacre 3D" ed è certamente più godibile dell'insipido prequel "Leatherface"; ma ciò, ovviamente, non lo rende automaticamente memorabile.
Qualcosa di interessante c'è anche, in primis il personaggio di Lila, sopravvissuta ad una sparatoria scolastica che trova il coraggio per affrontare i suoi demoni ora incarnati nel gigante texano. Ed è sicuramente simpatico ritrovare Sally, la sopravvissuta del primo film, in modalità Laurie Strode in "Halloween 2018", ossia divenuta una Sarah Connor ossessionata dalla vendetta. Il tutto però non viene sviluppato a dovere: quello di Lila è un percorso scontato, Sally viene usata come semplice deus ex machina. E i punti di interesse finiscono qui.


E' stato un errore cucire tutto il film sul solo personaggio di Leatherface, che perde così il suo fascino. Questo era dato, almeno inizialmente, dal fatto che lui non fosse altro che l'estremizzazione di un orrore intrinseco nella società americana, che sfociava anche nei suoi familiari, i quali avevano giusto un'apparenza umana. Tolto questo contesto, Leatherface diventa una semplice "maschera" priva di personalità, tanto che potrebbe essere tranquillamente sostituita da Michael Myers o Jason Voorhees. E giusto per rendere meglio l'idea, qui si esibisce anche nello "sguardo laterale" brevettato dai suoi colleghi.
Vien da ridere se poi si pensa che questo Leatherface è alle soglie degli 80 anni ma si muove con agilità, sfoggia una forza sovraumana e, ancora come i suoi colleghi, sembra aver sviluppato un'insolita resistenza alle pallottole.


La caratterizzazione dei ragazzi, d'altro canto, è alquanto stramba. Sulla carta dovrebbero essere dei teen-ager antipatici stile slasher anni 2000, degli influencer che invadono una cittadina e riportano il mostro sulla via del massacro. Ma l'antipatia del gruppo non viene mai sottolineata, neanche nella sequenza del pullman, dove in teoria l'idiozia generalizzata della generazione Z dovrebbe essere punita dalla motosega, ma ciò non porta davvero ad una catarsi, vuoi per una regia che si dimentica di enfatizzare a dovere le cattive intenzioni del gruppo, vuoi per il fatto che non si può davvero parteggiare per un Leatherface che si è già macchiato di crimini indicibili. Lo splatter, che sfocia subito nel gore più puro, manco a dirlo non è davvero brutale, anzi è talmente urlato che sconfina subito nel grottesco, finendo per far divertire più che inorridire.


Alla fine della fiera, questo "Texas Chainsaw Massacre" è l'ennesimo slasher senza lode, ma neanche senza vera infamia. Un filmettino che intrattiene il giusto, ma non mantiene mai davvero le promesse, gettando alle ortiche tutto il suo potenziale. Chi si accontenta, tuttavia, avrà poco di cui lamentarsi.

venerdì 18 febbraio 2022

Tommy

di Ken Russell.

con: Roger Daltrey, Ann-Margret, Oliver Reed, John Entwistle, Keith Moon, Elton John, Robert Powell, Jack Nicholson, Eric Clapton, Tina Turner, Paul Nicholas, Pete Townshend.

Rock Opera

Regno Unito 1975
















Quando si pensa ai videoclip la mente è portata a cocnepire un'estetica "brutta", fatta di montaggio veloce e inquadrature a caso, con una costruzione delle scene ricreata tutta in post-produzione sulla base di riprese caotiche e atte a ricercare un ritmo veloce nel modo più semplicistico possibile. Colpa di chi ha tradotto nel peggior modo possibile il linguaggio musicale in quello filmico, di quella generazione di filmmaker che ha malamente ricreato sul Grande Schermo una costruzione delle scene totalmente basata sul montaggio (Michael Bay in primis), senza badare alla sostanza delle immagini. 
Tuttavia, creare un videoclip musicale è anch'essa un'arte: bisogna saper dare alla musica una forma visiva e costruire una narrazione, salda o blanda che sia, in armonia totale con le note. Non stupisce, quindi, che a fronte di tanti pessimi registi formatisi con i video musicali, ce ne siano altrettanti di ottimo talento (basti pensare già solo a David Fincher e Richard Stanley); né deve stupire più di tanto come l'arte della messa in scena musicale abbia trovato proprio al cinema la sua genesi con quel "Tommy" che ha visto la collaborazione degli Who con Ken Russell e che ha portato ad uno dei "musical" più belli di sempre.




Pubblicato nel 1969, "Tommy" degli Who è praticamente etichettabile come la prima "rock opera", ossia un concept album concepito per narrare un'unica storia tramite le canzoni. Creazione che rielabora l'esperienza del chitarrista del gruppo, Pete Townshend, che si ispira alla sua vita per il personaggio e il suo percorso: Tommy Walker è il figlio di un aviatore disperso in guerra. Nato orfano, viene cresciuto dalla madre e dal secondo marito, ma l'assistere ad un episodio di violenza ne distrugge la psiche, rendendolo cieco, sordo e muto. Chiuso in sé stesso, il giovane cresce tra le cure della madre e del patrigno, ma non riesce a scansare del tutto le insidie della tossicodipendenza, la violenza del bullismo e persino l'abuso sessuale. Riesce però a trovare una valvola di sfogo grazie al flipper, del quale diventa un "mago", giungendo alla ricchezza e celebrità. Ma quando non è alle prese con il gioco, Tommy fissa la sua immagine allo specchio in una scura contemplazione; preoccupata, la madre, in uno scatto d'ira, distrugge lo specchio, il che inaspettatamente libera il ragazzo dalla prigionia interiore. Tommy diventa così un miracolo vivente, un "messia" che istituisce una propria religione, la quale però crolla su sé stessa, portandolo ad una forma di realizzazione e pace interiore.


L'anno di produzione del film è essenziale: 1975, ossia lo stesso in cui esce "Bohemian Rapsody" dei Queen, quello che è comunemente definito come il primo videoclip della storia (anche se sperimentazioni precedenti, soprattutto in Italia, non sono mancate). Sempre nel '75 arriva al cinema la versione filmica di "The Rocky Horror Picture Show", quello che è praticamente il primo musical post-moderno. E giusto un anno prima, Brian De Palma aveva portato al cinema un'altra rock opera, quel "Il Fantasma del Palcoscenico" che anticipata l'estetica del "Rocky Horror" ed era contemporaneamente un concept album filmico vero e proprio.
Russell, dal canto suo, aveva già in curriculum dei "musical" d'autore, ma è grazie al produttore Robert Stigwood, all'epoca reduce dal successo di "Jesus Christ Superstar", che si avvicina alla musica degli Who. E il resto, è il caso di dirlo, è Storia.


Nell'ibridare immagini e musica, Russell non rallenta mai il racconto. Non ci sono pause in "Tommy", l'azione si modera solo ai titoli di coda. Il ritmo, sebbene basato sulle singole canzoni, è comunque sempre alto e la narrazione, di conseguenza, è incalzante. La totale assenza dei dialoghi, inoltre, porta il lavoro di Russell al di là del semplice musical, tanto che il termine "opera rock" può davvero essere adoperato per individuare questo stile inedito, lontano dai canoni del film musicale "classico", diverso persino da quanto visto nei coevi "Rocky Horror" e "Il Fantasma del Palcoscenico". 
"Tommy" si configura così come qualcosa di diverso, di estremamente originale persino se rivisto oggi, una pellicola che usa le immagini e la musica per comunicare in modo diretto con lo spettatore; un'opera "sensoriale", che chiede a chi la osserva di lasciarsi trascinare per i suoi 111 minuti nel mondo del suo protagonista per assaporarne emozioni e sensazioni.


Ma a caratterizzare la progenie di Russell e degli Who in modo diretto è anche l'ambientazione; lontana sia dalla swinging London che già a fine anni '60 andava scomparendo, sia dagli ambienti più intellettuali, "Tommy" si muove in ambienti proletari, nei bar dove il flipper è l'unico vero richiamo, nei campi estivi tipico ritrovo della gioventù delle classi meno abbienti e, manco a dirlo, negli strip club, in quei sordidi ritrovi infestati di sesso a pagamento e droga. Il tutto, ovviamente, filtrato dall'occhio di una regia visionaria.


Il mondo di "Tommy" diviene così contemporaneamente realistico e fantastico, una percezione alterata di una realtà del tutto simile a quella del protagonista. Le immagini si fanno così grandiose e cacofoniche, alternando una plasticità essenziale ad un montaggio frenetico: siano esse parte di un flusso (in)interrotto o fotogrammi perfettamente ricercati, quelle create da Russell sono sempre figure spettacolari, magnificamente incastonate con le note originali. E che immagini: basti pensare alla splendida sequenza di Acid Queen, incarnazione della tossicodipendenza, che prende le forme di una vergine di ferro moderna che tortura in protagonista mentre Tina Turner si scatena in una danza irrefrenabile. O le oscure immagini del bullismo del cugino Kevin e degli abusi dello zio Ernie, che trasformano la visione in una sorta di "Arancia Meccanica" (ancora più) musicale, una dark comedy nerissima e irresistibile. O, ancora, la feroce sequenza in cui la madre di Tommy viene "annientata" dai demoni del consumismo, con schiuma, fagioli e cioccolata che inondano un intero set.


Nelle mani di Russell, la storia originale di Pete Townshend non solo acquista ulteriori significati, ma ritrova anche una coerenza che nella forma prettamente musicale in parte mancava, per stessa ammissione del suo autore. Russell usa i personaggi dell'opera per riflettere sulle false religione, sulla forza manipolativa del sensazionalismo e dei "divi" come profeti incapaci di portare vero cambiamento. Da qui la sequenza, sublime, della "chiesa di Marilyn", falsa diva il cui sacerdote Eric Clapton non riesce a dare sollievo ai malati. O lo stesso finale, con Tommy divenuto un falso profeta, idolo di una religione che dovrebbe emancipare gli ultimi riproponendo la traumatica esperienza del loro messia, ma che si rivela esperienza vacua, buona solo ad idolatrare la vittima di una disgrazia.
Da qui l'affondo verso la società consumistica, dalla mercificazione del divismo che porta ad un consumismo distruttivo, da cui la sequenza dello spot che "vomita" merce su Ann-Margret, con la quale l'autore si diverte ad esorcizzare la vergogna per i suoi esordi pubblicitari.


A conferire ulteriore carisma ad una pellicola già memorabile, ci pensa in cast. Su tutti è Ann-Margret a brillare in una performance trascinante, che la vede anche all'apice della bellezza bucare ogni singola scena; interpretazione per la quale ottenne persino una nomination agli Oscar, ai quali, però, fu battuta da Louise Fletcher per "Qualcuno volò sul nido del cuculo", anch'ella memorabile, ma non ai livelli della Margret. Elthon John appare per pochi minuti nei panni del "Pinball Wizard" e diventa subito un'icona pop, così come Eric Clapton nei panni del predicatore della chiesa di Marilyn. Tina Turner è semplicemente spumeggiante, mentre Roger Daltrey, pur trentenne all'epoca delle riprese, è forse l'unico interprete possibile per il ruolo di Tommy, cucito sulle sue movenze e sulla sua espressione vuota e sognante. Dulcis in fundo: Oliver Reed, benché incapace di cantare nella realtà, è anch'egli un pezzo essenziale del film e concede l'interpretazione più divertita della sua carriera.



Affascinante e trabordante, "Tommy" è un'esperienza cinematgrofica ancora sbalorditiva, un viaggio ai limiti del lisergico in un mondo al di là dei sensi che stimola gli stessi sensi in modo incredibile, oggi forse ancora più spettacolare che alla sua uscita in sala.

lunedì 14 febbraio 2022

Tre Piani

di Nanni Moretti.

con: Riccardo Scamarcio, Alba Rohrwacher, Margherita Buy, Adriano Giannini, Nanni Moretti, Elena Lietti, Denise Tantucci, Stefano Dionisi, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Tommaso Ragno.

Italia, Francia 2021
















---CONTIENE SPOILER---

Nanni Moretti è sempre stato narcisista. E la superbia è solo un altro nome del narcisismo. L'arroganza, poi, è connaturata ad entrambe. E ci vogliono davvero dosi massicce di narcisismo, superbia e arroganza allo stato puro per indignarsi dinanzi al mancato riconoscimento del valore di un film come "Tre Piani"; un film al quale può essere davvero riconosciuto solo di essere banale, scialbo nella messa in scena e, quel che è peggio, decisamente noioso, una specie di feuilletion mascherato da analisi psicologica di un'umanità il cui senso di famiglia viene distrutto e ricreato, ma che si ferma sempre, clamorosamente, sulla superficie di fatti e personaggi. Come tanto, troppo pessimo cinema italiano moderno insegna.


Basandosi sull'omonimo romanzo di Eshkol Nevo, Moretti trasporta l'azione da Tel Aviv a Roma, ma l'uso delle location non riesce a restituire l'anima dei luoghi, tanto che si potrebbe tranquillamente pensare ad una qualsiasi città italiana. In una palazzina bene, tre famiglie lottano per la coesione: Lucio (Riccardo Scamarcio) cade nell'ossessione di un possibile abuso ai danni della figlioletta da parte di un anziano vicino; i coniugi Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti), entrambi magistrati, sono alle prese con un orrendo omicidio stradale commesso dal giovane figlio; infine Monica (Alba Rohrawacher) si districa tra una figlia neonata e l'assenza del marito.


Tre storie diverse, accomunate dal crollo psicologico dei personaggi e dalla conseguente crisi famigliare. Quella di Lucio è una storia di castigo divino, un karma che lo ripaga della paranoia con la persecuzione: da potenziale vittima degli abusi diventa carnefice quando causa indirettamente la morte del presunto colpevole e, quel che è peggio, finisce egli stesso con il commettere il medesimo crimine andando a letto con la di lui nipote, la minorenne Charlotte. Dora e Vittorio sono due genitori divisi tra il senso di giustizia e un amore impossibile per un figlio che ha sofferto per la loro educazione rigorosa, mentre la storia di Monica è uno spaccato sulle conseguenze della solitudine.
Materiale a dir poco scottante, che forniva all'autore argomenti interessanti su cui riflettere. E che questi getta magistralmente alle ortiche grazie ad un'esecuzione ai limiti del dilettantesco.


La costruzione delle scene appiattisce tutto il narrato. L'esempio più illuminante è dato dalla scena in cui Charlotte seduce Lucio, piatta al punto da dare l'impressione che questi decida di andare a letto con una minorenne solo perché ne ha la possibilità. 
Per un buon 90%, come da tradizione nel cinema di Moretti, tutto viene cucito sui dialoghi, lasciando pochissimo spazio alle sole immagini. E quando queste arrivano sotto la forma di simbolismi, non è che le cose migliorino: un corvone imperiale che fa le boccacce alla macchina da presa che non si capisce cosa debba rappresentare (la paura della morte? L'incdere della malattia?) e una mazurka itinerante che fa da catarsi ridicola a tutto il percorso dei personaggi, il che è tutto dire.


Percorso che, manco a dirlo, è prevedibile e scandagliato in modo superficiale. Si parte dal disfacimento del nucleo famigliare della coppia di giudici, il quale si basa sul doppio binario di un figlio scapestrato e della sua cattiveria come reazione alla loro soffocante educazione. Lasciando tutto ancorato ai dialoghi, a confronti dialogici costruiti su battute insipide e stereotipate, il dramma non colpisce mai come dovrebbe, non si avverte mai davvero la sofferenza di un figlio che vorrebbe essere amato ma che dai genitori riceve solo rimproveri, così come quella di due figure genitoriali convinte di aver educato al meglio il proprio figlio ma che sono chiamate a confrontarsi con il suo comportamento. Quel che è peggio è che quel poco di empatia che si potrebbe riservare per questo sfortunato terzetto di personaggi viene azzerato dalla recitazione di Nanni Moretti, per la quale l'unico aggettivo possibile è "cagnesca": ogni sua battuta è recitata in modo spento e robotico, senza che alcuna emozione traspaia dalle stesse, come un ragazzino chiamato a prendere parte suo malgrado alla recita scolastica. L'unica eccezione è data dalla sentita scena della segreteria telefonica, ma è il classico caso di "troppo poco e troppo tardi", che non redime una performance imbarazzante, alla faccia dei suoi quaranta e passa anni di attore e regista.


Quello di Lucio, d'altro canto, dovrebbe essere una sorta di "Delitto e Castigo" ambiguo, ma l'esecuzione è talmente debole da non far provare alcuna vera emozione, né quando questi scade nella paranoia, nè quando commette il peccato che persegue e il lieto fine davvero non aiuta alla riuscita della storia. Unica nota positiva: di tutto il cast, Scamarcio è l'unico a salvarsi, anzi per la prima volta sfoggia una tecnica recitativa impressionante, risultando sempre credibile, sempre perfettamente calato in un ruolo non facile e che riesce a fare davvero suo, unico pregio di un disastro colossale.
Disastro che arriva puntualmente nella storia di Monica, ennesima donna emotiva e isterica che il cinema nostrano si diverte a dipingere in modo sempre, categoricamente e incontrovertibilmente approssimativo. Una donna che di punto in bianco comincia a cadere verso il fondo della pazzia, coartata dalla solitudine e dalla paura di una malattia genetica che le ha già tolto la madre; ma il suo percorso è fatto come sempre di dialoghi piatti e interazioni fantasmatiche trite, che non fanno altro che statuire l'ovvio; non c'è mai la ricerca di una forma espressiva, narrativa o di messa in scena, originale o anche solo azzeccata, tutto è frustrato da una mancanza di verve a tratti davvero inquietante, che raggiunge l'apice a causa della solita, sciatta recitazione della Rohrwacher, che come sempre passa da un'espressione vacua e tediosa ai suoi soliti sorrisini che, appiccicati sul viso di un personaggio che dovrebbe soffrire di depressione, risultano anche più fuori luogo del solito.



E come sempre, come era lecito aspettarsi da lui, a Moretti non interessa un fico secco della messa in scena, costruisce ogni singola scena nel modo più convenzionale possibile e ammanta il tutto in una fotografia televisiva, fatta di luci sparate a mille nel caso in cui anche l'ultimo oggetto di scena sullo sfondo non fosse visibile agli spettatori in ultima fila. Se le immagini dei suoi film sono quasi sempre state poco ricercate o poco incisive, qui sono tutte orgogliosamente brutte, come pensate per la peggiore fiction di Rai Uno e invece appiccicate a forza sul grande schermo. Di nuovo, vien da chiedersi cosa (non) abbia imparato il buon Nanni in oltre quarant'anni di acclamata carriera da regista.



"Tre Piani" è un film genuinamente brutto, scialbo, a tratti talmente disdicevole da divenire patetico. Un'operaccia piatta, sbrigativa, recitata male (per fortuna non da tutti) e portata in scena peggio. Per Moretti, è purtroppo il caso di dirlo, forse è arrivato il momento di ripensare davvero al suo modo di concepire la Settima Arte, se preferisce davvero questo suo lavoro a tanto altro cinema d'autore che si è visto nel 2021.

R.I.P. Ivan Reitman



1946 - 2022

Si potrebbe tranquillamente ricordare Ivan Reitman come uno dei "padri" di "Ghostbusters", ma sarebbe ingiusto. Come regista, ha diretto anche altre riuscite commedie come "I Gemelli", "Un Poliziotto alle Elementari", "Stripes", "Meatballs" e "Dave- Presidente per un Giorno", senza contare il purtroppo dimenticato "Cannibal Girls", con cui già ad inizio anni '70 ibridava horror e commedia; e, soprattutto, come produttore ha dato vita ai primi lavori di David Cronenberg, ossia "Il Demone sotto la Pelle" e "Rabid", oltre che il super-classico "Animal House" per John Landis ed il divertente esperimento "Heavy Metal". Un talento, il suo, forse più fulgido di quanto ci si potrebbe a prima vista aspettare.

giovedì 10 febbraio 2022

Tick, Tick... BOOM!

di Lin Manuel Miranda.

con: Andrew Garfield, Alexandra Shipp, Robin de Jesus, Vanessa Hudgens, Joshua Henry, MJ Rodriguez, Jonathan Marc Sherman, Bradley Whitford.

Biografico/Musical

Usa 2021
















Composta da Jonathan Larson all'incirca nel 1991, "Tick, Tick... Boom" è un'opera particolare anche nell'ameno panorama off-Broadway. In essa, il compianto compositore (scomparso a soli 35 anni, alla vigilia della prima del suo capolavoro "Rent") rielabora il periodo della sua vita che va dai 29 ai 30 anni, momento nel quale si accorge che la sua carriera da artista cominciava forse a decollare, o forse no, mettendo in discussione tutta la sua vita, le sue scelte e le sue credenze. Eseguita dal vivo dallo stesso Larson, accompagnato da una piccola rock band, la performance originale sprizzava energia da tutti i pori e ben faceva presagire il talento immane del suo autore.
Lin-Manuel Miranda, dal canto suo, è invece un autore che ha conosciuto il successo praticamente fin da subito: raggiunto il successo già a 22 anni, è una delle firme più giovani nel panorama del musical e la sua fama è già immortale. Che sia proprio lui ad adattare la pièce biografica di Larson, quindi, è cosa alquanto stramba.


Pièce che aveva già in sé dei difetti che la potrebbero rendere ostica ad un certo tipo di pubblico, dovuti alla particolare visione della vita di Larson. Bohème convinto, l'artista preferiva vivere nella povertà più ottusa piuttosto che "concedersi" al lavoro. Cosa ci sia di male nel lavorare nel campo pubblicitario come gavetta per opere migliori o, più semplicemente, per potersi permettere di dedicarsi senza pensieri a lavori più "artistici" è un concetto che viene mostrato, ma mai spiegato. La particolarità di Larson, da questo punto di vista, sta nell'accettare in modo totale uno stile di vita antiquato (inutile dire come risalisse già all'epoca al secolo precedente) e falsamente liberatorio, visto che, ad ogni modo, ogni essere umano ha pur sempre bisogno di mangiare. E il lavoro presso un'agenzia pubblicitaria, per quanto "bieco", "anti-artistico" e "capitalistico", talvolta è il modo migliore per farsi notare nel mondo dello spettacolo. Vien da ridere, inoltre, quando il problema sembra venire affrontato nei dialoghi, solo per poi glissare sulle problematiche personali del personaggio di Michael, lasciando la questione in sospeso in modo ai limiti del codardo.
Se già questa considerazione può far storcere il naso, il fatto che ha portarla su schermo sia proprio Miranda la rende persino ipocrita: non per nulla, mentre questo suo biopic musicale raccoglieva consensi in streaming, il suo lavoro fatto per la Disney in "Encanto" gli garantiva le entrate necessarie per sopravvivere. Quando si dice la coerenza.


Stando poi alla biografia di Larson in sé stessa, questa può apparire riduttiva così come presentata in questa sua opera. La sua è la storia di un artista frustrato, alle prese con quella che crede essere l'opera della sua vita (l'avvenieristico "Superbia", ispirato a "1984" e oggi a dir poco profetico) e la genesi di quella che invece sarà l'opera per la quale verrà ricordato (ossia "Rent"). Districandosi tra una tormentata love-story, una serie di amicizie minacciate dall'HIV e la ferrea volontà di successo, il suo percorso è uguale a quello visto in mille altri biopic, sia al cinema che a teatro.
A fare la differenza sono così le sole prove musicali: le canzoni originali sono orecchiabili, anche se mai davvero memorabili, ma le prove degli attori, queste si, memorabili lo sono davvero. Capitanato da un Andrew Garfield scatenato, il cast regala emozioni a volontà incarnando alla perfezione i personaggi di Larson e le loro idiosincrasie.


Se la visione viene così comunque salvata, resta il dubbio sulla necessità di tale adattamento. L'opera originale aveva senso se inserita nel periodo personale dell'autore, questa rievocazione, invece, è più un omaggio all'uomo che all'artista, lasciando molto il tempo che trova. Tant'è che, forse, sarebbe stato meglio creare un nuovo adattamento di "Rent", visto quello deludente fatto nel 2005 da Chris Columbus. O, meglio ancora, magari un'opera originale che parlasse direttamente della genesi di "Rent", approfondendo alcune delle tematiche più drammatiche e interessanti che qui sono invece solo abbozzate.

mercoledì 9 febbraio 2022

R.I.P. Douglas Trumbull


 1942 - 2022

A volte ci si dimentica come il cinema, soprattutto se "di genere", sia un'attività svolta da più individui, ensamble di esperti che mettono la loro arte personale al servizio di una visione comune. E Douglas Trumbull ha sempre dato un contributo essenziale per rendere davvero memorabili le visioni fantascientifiche più importanti della seconda metà del XX secolo e oltre. Senza contare come le sue singole regie siano state, a loro volta, eccezionali: lo splendido "Silent Running" e quel "Brainstorm" che ha anticipato di parecchio le intuizioni poi sviluppate in "Strange Days", "Paprika" e "Inception".







"Andromeda" (1971)



"2002: La Seconda Odissea- Silent Running" (1972)






"Star Trek- Il Film" (1979)







"Brainstorm- Generazione Elettronica" (1983)



"The Tree of Life" (2012)

La Fiera delle Illusioni- Nightmare Alley

Nightmare Alley

di Guillermo Del Toro.

con: Bradley Cooper, Rooney Mara, Cate Blanchett, Toni Collette, Willem Dafoe, Richard Jenkins, Mark Povinelli, Ron Perlman, Mary Steenburgen, David Strathairn, Clifton Collins Jr., Tim Blake Nelson.

Usa, Messico 2021













Il "classicismo" di per sé stesso è un registro che cela molte trappole stilistico-retoriche. E' facile cadere nella contemplazione degli stilemi di un cinema che fu, rendendo la narrazione indigesta. E Del Toro, purtroppo, compie questo errore in "Nightmare Alley", rievocazione d'epoca in chiave noir che il grande regista messicano dirige con pugno fermo, ma anche con tanto compiacimento.




Del Toro traspone su schermo il romanzo omonimo di William Lindsay Gresham, già adattato nel 1947 da Edmund Goulding, con Tyrone Power nei panni del protagonista. Al centro del racconto, il personaggio di Stanton Carlisle, qui interpretato da un ottimo Bradley Cooper, nullatenente che si unisce ad un circo di freaks; tra le tende dei fenomeni da baraccone, al fianco di un virgiliesco Willem Dafoe, Carlisle carpisce i segreti del mentalismo, che applica a suo vantaggio in una serie di truffe che lo porteranno alla fama. E come ogni storia di ascesa che si rispetti, anche la sua culmina in una caduta, in un'autodistruzione ricercata come affermazione delle proprie capacità. Quello di Stanton è un gioco a chi ne sa di più, un'escalation di inganni sempre più subdoli votati a sottomettere e manipolare la vittima di turno; che, come imparerà a sue spese, alla fin fine può essere chiunque: se la sua è una capacità cialtronesca, fine e intelligente quanto si vuole, ma pur sempre collegata da una forma di truffa circostanziata, quella della dark lady Lilith Ritter (che ha il volto luciferino di una sempre ammaliante Cate Blanchett) è una scienza che va più a fondo, arriva a carpire i moti della psiche umana sino a prevederne le mosse, oltre che a comprenderne a fondo le ragioni. Il mentalismo è un arte, ma la psicologia è una scienza.



Il confronto non si appiattisce mai sullo scontro tra punti di vista, ma resta sempre ancorato al gioco tra gatto e topo da noir classico, i cui cliché tornano nella seconda parte, la più vicina al "genere". La prima è invece uno spaccato della vita da drifter mancato di Carlisle, uomo salvato dalla strada e dalla miseria dal puro caso. Miseria a cui tornerà nel finale, in una circolarità che rende la storia prevedibile, ma anche incredibilmente compatta. In fondo, la sua altro non è se la storia di un reietto che tenta di risalire la china, che trova un momento di acclamazione solo per poi finire più in basso da dove è partito, finendo per essere quel "geek" che tanto compativa.


Del Toro, dal canto suo, si mette del tutto al servizio della storia e crea una confezione elegantissima, fatta di scenografie d'epoca ricercate nei minimi dettagli, costumi eccezionali e oggetti di scena squisitamente ricostruiti, ammantati in una splendida fotografia che ne esalta il cuore oscuro, riuscendo a ricreare un'atmosfera torbida e sinistra pur adoperando una palette di colori caldi, per rendere il tutto ammaliante.
Nella costruzione delle scene non si rifà tanto ai "classici" dell'epoca (la storia è ambientata tra il '39 e il '41), preferendo riprendere la lezione dei "modernisti", Orson Welles in primis, adoperando movimenti di macchina precisi al millimetro anche per le sequenze dialogiche, rendendo ogni scena più dinamica di quanto potesse essere. Ma sfortunatamente, il racconto finisce per ingolfarsi nella seconda parte; con 150 minuti di durata, ben 40 in più rispetto al primo adattamento, "Nightamere Alley" vive purtroppo anche di tempi letteralmente morti, con intere sequenze che avrebbero giovato di un ritmo più vivido, ma che finiscono per scadere nell'ammirazione onanistica della messa in scena, dei valori produttivi, delle interpretazioni del cast.


Non che la lentezza sia un difetto in sé; ma a tratti sembra che Del Toro indugi troppo sulle singole scene, nell'ammirazione sfrontata del suo stesso lavoro. "Nightmare Alley", di conseguenza, è un film perfettamente riuscito e splendidamente diretto, ma fin troppo compiaciuto di sé. Non un disastro, ma una pellicola che avrebbe potuto avere ben altra caratura.