mercoledì 30 novembre 2022

Clerks III

di Kevin Smith.

con: Jeff Anderson, Brian O'Halloran, Jason Mewes, Kevin Smith, Rosario Dawson, Trevor Fehrman, Marilyn Ghigliotti, Jennifer Schwalbach, Amy Sedaris, Justin Long, Harley Quinn Smith, Kate Micucci.

Commedia

Usa 2022 















Tra "Clerks." e "Clerks II" sono passati dodici anni. Tra "Clerks II" e "Clerks III" addirittura sedici. E nuovamente, né il cinema americano, né quello di Kevin Smith sono gli stessi.
Il cinema indie ha ritrovato parte dello spazio perduto anche grazie all'affermazione delle piattaforme streaming e alla loro endemica fame di contenuti, mentre il crowdfounding permette oggi agli autori meno convenzionali di trovare aria per i propri progetti.
Smith, dal canto suo, ha usato l'approvvigionamento dei fan in primis per creare il suo film più serio e spiazzante, ossia "Red State", per poi tornare ai collaudati territori della commedia. Umanamente ha affrontato le gioie dell'essere padre con la figlia Harley Quinn Smith e le ha persino dedicato ben due film, lo sgangherato "Yoga Hosers" e quel "Jay & Silent Bob Reboot" anch'esso sgangherato quanto si vuole, ma anche incredibilmente accorato. E' riuscito persino ad entrare nel multiverso DC, dirigendo alcuni episodi dei serial CW nei quali ha incluso Jay e Silent Bob, rendendo il suo Askewniverse parte del mondo di Flash e soci.
Ma il cinema di Smith ha anche avuto un'involuzione, non riuscendo più ad essere fresco e brioso e ricorrendo spesso ai solo giochi di parole per creare umorismo. Così "Clerks III" arriva purtroppo nel periodo peggiore della sua carriera e ne risente in maniera decisiva.




Progetto che trova il suo seme in un episodio del 2018: mentre si recava ad un'esibizione, Smith subisce un attacco di cuore e se non fosse stato ricoverato immediatamente, sarebbe morto. L'autore del New Jersey usa quest'esperienza per riflettere sul suo stato e sulla maturazione, oramai alla soglia dei cinquant'anni. Il ruolo di padre viene così declinato nell'ultimo film su Jay e Silent Bob, mentre il ruolo di persona e amico trova una declinazione qui, per il tramite di Dante e Randal. 




"Clerks III" è un film sulla morte e il rimpianto. La morte aleggia su tutto, a partire da quella di Becky, che ha lasciato un vuoto nella vita di Dante. Il rimpianto si fa strada poco alla volta nella mente dei due ex ragazzi; li avevamo lasciati lì, nel loro negozio, ora di loro proprietà e alle soglie di una vita migliore, ma li ritroviamo in un'esistenza che sembra essersi dimenticata di quanto accaduto nel mentre, ricollegandosi direttamente con il primo film, partite di hockey sul tetto incluse. Non un'esclusione di "Clerks II", quanto una negazione di quanto di buono sarebbe potuto conseguire, con i due personaggi persi di nuovo nel vuoto di un purgatorio asfissiante.
Tutti e due sono chiamati a confrontarsi con la morte, ma mentre Dante non riesce davvero mai ad elaborare il lutto, è come sempre Randal a scoprirsi più maturo di quanto si potesse sospettare, usando l'esperienza di quasi fine-vita per trovare un nuovo inizio, che prende le forme del meta-film sulle loro esperienze da commessi.



Il reboot che Smith sbeffeggiava in precedenza diventa mezzo salvifico e si diverte come un matto a far reinterpretare a Brian O'Halloran e Jeff Anderson le scene dei primo film con 25 e rotti anni in più sul groppone. Il che lo porta anche indirettamente a riflettere sul lascito di quel film: se non ci fosse stato, anche lui, forse, sarebbe ancora confinato al Quick Stop Grocery ad immaginare una vita migliore, a contare i "se fosse" e "se avessi", con un alone di tristezza tangibile che rende la storia quantomai empatica anche al di là della tematica della morte.
Eppure, come in molti suoi film recenti, non c'è vera realizzazione, né la piena maturazione delle idee di base. L'importanza del lutto e del suo superamento non trovano catarsi, non di certo grazie a quel colpo di scena un po' raffanzonato che di certo non colpisce quanto dovrebbe e che tantomeno aiuta a trovare una chiusura ideale al tutto.
Quel che è peggio, l'umorismo non raggiunge neanche per sbaglio le vette dei capitoli precedenti. I dialoghi su "Star Wars" non hanno mordente, neanche quando Randal spiega ad Amy Sedaris la bellezza di "The Mandalorian" e non ci sono più di tanti riferimenti al cinema pop odierno, come se questo terzo capitolo vivesse in un vuoto distaccato dal resto dell'esistenza. Le battute sconce non sono ilari, è intelligenti e persino lo sketch dove il cristianissimo Elias diventa un "satanista rinato" risulta fiacco, anche perché ripetuto sino allo sfinimento.




Un terzo capitolo decisamente in tono minore, questo "Clerks III". Un conclusione (si spera temporanea) all' Askewniverse che di certo non rende giustizia a quanto di buono fatto in passato, né al potenziale dato da personaggi e situazioni. E si spera davvero che Smith ritrovi la grinta al più presto.

martedì 29 novembre 2022

Boiling Point

di Philip Barantini.

con: Stephen Graham, Vinette Robinson, Alice Feetham, Ray Panthlaki, Malachi Kirby, Hannah Walters, Izuka Hoyle, Taz Skylar, Lauryn Ajufo, Jason Felmyng.

Drammatico

Regno Unito 2021














Lavorare nella ristorazione è un inferno e chiunque vi abbia preso parte può confermarlo. Se l'apparenza deve essere perfetta, dietro il velo si celano drammi insostenibili, appaiati ad una pressione lavorativa che talvolta sfiora il ridicolo. 
Come rendere questa situazione di puro caos? Forse il piano sequenza è davvero lo strumento filmico più azzeccato. Non per nulla, già nel 2007 l'italiano "Valzer" presentava un'unica inquadratura per dar vita allo stress lavorativo, questa volta di un hotel. Philip Barantini adatta invece lo strumento al mondo della cucina e con "Boiling Point" espande un suo cortometraggio di 22 minuti in un'inqadratura di 88, contando sempre su di un solido Stephen Graham nei panni del protagonista Andy. Ma alla fine il tutto risulta purtroppo superficiale.



Il setting è dato: un ristorante, rinomato ma alla mano, durante il periodo natalizio. Andy è costretto a tirare le fila sia dietro che davanti ai fornelli, in una costruzione in crescendo che lo porterà al punto di rottura del titolo. Nel mezzo, un girotondo di clienti razzisti, influencer fastidiosi, un critico culinario con mire espansionistiche e un gruppo di collaboratori con le proprie idiosincrasie.
Da questo punto di vista la narrazione è perfettamente riuscita, inanellando una serie di disgrazie che si sommano sino ad esplodere. La struttura è anche azzeccata: seguendo il protagonista e tramite lui il pugno di personaggi che lo circonda, riusciamo davvero a percepirne lo stress, sia fisico che emotivo.




Ma la scelta formale si rivela alla fine arma a doppio taglio: manca il tempo necessario per approfondire i personaggi secondari e i loro drammi, i quali finiscono per restare sullo sfondo; le loro storie sono anche interessanti e ben rispecchiano le disavventure tipiche di molti lavoratori del settore (e non), ma la descrizione breve seppur decisa non rende loro giustizia. 
Alla fine si resta più che altro freddi dinanzi agli eventi, persino quando questi precipitano. La scelta di usare una forma tanto precisa finisce per stritolare la storia e benché il lavoro di cast e regia sia encomiabile, non si può certo definire "Boiling Point" come un'opera del tutto riuscita.

lunedì 28 novembre 2022

R.I.P. Albert Pyun



 1953 - 2022

Ma alla fine, Albert Pyun è davvero stato uno dei peggiori registi al mondo?
Certo, a guardare roba impresentabile come i sequel della serie "Nemesis", "Ticker" o l'improbabile "Capitan America" del 1990 si potrebbe dire di si. Ma al suo attivo aveva anche pellicole decisamente più riuscite, come l'esordio "The Sword and the Sorcerer" e "Adrenalina", quindi forse l'epiteto di "peggior regista di sempre" era esagerato. 
Il suo mestiere era innegabile e ha semplicemente avuto la sfortuna di dover dirigere B-Movie a budget ridicoli. Tra i quali, per fortuna, ogni tanto spuntava qualcosa di valore, a ricordarci di come anche lui, in realtà, sapesse il fatto suo.

sabato 26 novembre 2022

Clerks II

di Kevin Smith.

con: Brian O'Halloran, Jeff Anderson, Rosario Dawson, Trevor Fehrman, Jason Mewes, Kevin Smith, Jason Lee, Ethan Supplee, Jennifer Schwalbach, Jake Richardson.

Commedia

Usa 2006














Dodici anni dopo "Clerks", il cinema americano non è più lo stesso. Il revival del cinema d'autore ha lasciato spazio al ritorno dei blockbuster, mentre il cinema indie si è ritagliato un piccolo spazio solo talvolta commercialmente rilevante. Kevin Smith, dal canto suo, ha continuato una carriera bene o male coerente, ha diretto qualche film davvero ben riuscito ("Chasing Amy"), qualcun altro decisamente meno ("Mallrats" e "Dogma") e ha persino sfiorato la possibilità di prendere parte ad un film di supereroi ("Superman Lives"). 
Ma a metà degli 2000 qualcosa va storto: "Jersey Girl", il suo film più costoso e meno personale, non solo si rivela un flop, ma viene anche considerato come un semplice veicolo per sfruttare la fama dell'amico Ben Affleck. Qualcosa si rompe e l'enfant prodige degli anni '90 si rende conto di dover fare un passo indietro, tornare ad una dimensione più personale. Si ricorda così di una promessa fatta all'amico Jason Mewes su di un possibile sequel del suo esordio; e anche a causa dei problemi di dipendenza da alcool e droga di quest'ultimo, decide di mettere davvero in cantiere una continuazione della vita di Dante e Randal, nonostante quell'universo narrativo, l' "Askweniverse", fosse teoricamente terminato nel 1999. Riportati a bordo anche Brian O'Halloran e un inizialmente ributtante Jeff Anderson, Smith torna in piena forma dirigendo un sequel che fa crescere i suoi personaggi e che resta tutt'oggi foriero di alcuni dei migliori sketch di tutta la sua filmografia.




Che fine hanno fatto i due cazzoni più simpatici degli anni '90? Semplice: nessuna. 
Dieci anni dopo, sono ancora a lavorare al Quick Stop Grocery e all'adiacente videoteca. Questo finché una mattina il negozio non prende fuoco. I due vengono così assunti al fast food "Mooby's" e Dante è ora alla vigilia dalla partenza dal natio New Jersey con la sua ragazza e prossima moglie Emma (Jennifer Schwalbach, nella realtà moglie di Smith), ma sembra avere fin troppa affinità con il suo capo, la bella e simpatica Becky (Rosario Dawson).




Dante e Randal sono cresciuti... più o meno. Il primo ha messo la testa a posto, sta per lasciare il Jersey e diventare finalmente un adulto, mentre il secondo è ancora il fannullone sboccato di sempre. Ma è davvero così?
Dante forse non vuole davvero una vita lontana da casa, con una donna a cui piace, ma che non ama. La sua vera anima gemella è Becky, non solo attraente, ma anche dotata di una simpatia fuori dal comune. E Randal sarà anche sempre perso nella sua pochezza, ma ha le idee chiare: quella dell'amico non è maturità, ma spirito conformativo. Se nel primo film i due erano persi in una vita vuota, ora rischiano di trovare un senso che però non li appartiene, trovare una forma di realizzazione che altro non è se non un dettame di una società della quale restano e resteranno comunque ai margini. E la realizzazione questa volta non arriva grazie al deus ex machina Silent Bob (il quale per la prima volta non dice nulla di importante per l'evoluzione della trama), ma grazie ad un confronto diretto e accorato tra i due protagonisti. Il loro è un grido di libertà a tutti i trentenni del mondo: non sentitevi obbligati a fare nulla, cercate voi la vostra strada. Ed in un beffardo gioco del destino, alla fine Smith li fa tornare al punto di partenza, a quel passato in bianco e nero che in teoria si erano lasciati alle spalle all'inizio, ma che ora ha un nuovo significato, più vivo e importante che mai.




Diventare adulti non significa tradire sé stessi, non vuol dire perdere la propria anima. E Smith lo sa al pari dei suoi personaggi, ecco perché costruisce questo seguito con una struttura del tutto simile al primo, nuovamente basata su dialoghi briosi e folli. I quali vanno oltre la tradizione del regista e si configurano come gag davvero irresistibili, delle quali almeno due sono da antologia, ossia l'incredibile dissertazione di Randal sul termine "porch monkey" e il dialogo che lui stesso ha con il giovane imberbe Elias e la sua impossibilità di avere rapporti con la fidanzata a causa del troll che vive nella di lei vagina... mentre in sottofondo parte la marcia funebre di "Shining". Ma si potrebbe citare anche la sequenza di Kinky Kelly, che da sola vale l'intera visione.




Lasciatosi alle spalle in bianco e nero sgranato dell'esordio, "Clerks II" vive di colori sfavillanti, come il giallo sgargiante del Mooby's; e Smith si concede persino un timido numero musicale, giusto per dare spazio ad un budget più alto che in passato. Ma la colonna portante è sempre data dai dialoghi, al solito immersi in una cultura pop pulsante, ma che viene costantemente messa alla berlina. La generazione X è cresciuta e i suoi gusti non sono più quelli dominanti: affianco alla trilogia per antonomasia, ossia quella di "Star Wars", ora c'è quella de "Il Signore degli Anelli" di Jackson ad insidiarne il trono. Ma anche quella "trilogia prequel" che ne ha infangato i fasti. E Smith si diverte come un matto a far scontrare i fanboy e a defecare sulla sacralità di entrambi i franchise, benché lo faccia con amore e più rispetto di quanto si possa credere.




La scommessa alla fine è vinta: Smith è riuscito a ritrovare lo smalto perduto e "Clerks II" finisce paradossalmente per essere tutt'oggi uno dei suoi film migliori e tranquillamente annoverabile tra i migliori sequel di sempre.

giovedì 24 novembre 2022

The Menu

di Mark Mylod.

con: Anya Taylor-Joy, Ralph Fienness, Nicholas Hoult, Hong Chau, Janet McTeer, John Leguizamo, Paul Adelstein, Aimee Carrero, Reed Birney, Judith Light.

Thriller/Grottesco

Usa 2022















---CONTIENE SPOILER---

La cucina è davvero arte? Difficile dirlo. Dopotutto si tratta pur sempre di un mezzo che permette di assaporare sensazioni più che effimere, che durano giusto il tempo della disgregazione nel palato per poi sparire nel nulla. Fenomeno esasperato ai tempi della cucina molecolare, delle porzioni inesistenti, dei piatti tanto barocchi nel concept quanto scarni nella consistenza e nella durata nei sapori.
Gli chef sono, di conseguenza, veri artisti? Anche questa è una domanda dalla ardua risposta. Quel che è certo è che il successo dell'alta cucina degli ultimi dieci anni ha creato dei veri e propri mostri, fenomeni mediatici saliti alla ribalta grazie al carattere inflessibile e insensibile, che si divertono più ad insultare avventori e collaboratori piuttosto che a regalare gusti efficaci. E che finiscono persino per diventare rivoltanti opinionisti sociali, come nel triste caso di Alessandro Borghese.
Negli ultimi tempi il cinema sta finalmente scoprendo l'orrore che si cela nel mondo della cucina. Già un annetto fa, "Pig" sbeffeggiava l'assurdità del tutto e quest'anno in sala c'è stato prima il purtroppo mal distribuito "Boiling Point", mentre in streaming il bel "The Bear", i quali hanno dato uno spaccato crudo della vita dietro i fornelli. "The Menu" rincara la dose e crea un affresco grottesco sulla follia della moda dei sapori, passando al tritacarne tanto i diabolici cuochi che si credono veri e propri artisti dal talento disumano. quanto gli stupidi avventori pronti a spendere tonnellate di quattrini pur di mangiare fesserie ricercate.




La struttura è quella di un folk-horror mischiata ad elementi slasher. Il gruppo di clienti viene invitato su di un'isola per una cena esclusiva, un luogo remoto, quasi selvaggio, nel quale compare persino un affumicatoio stile nordico che sembra uscito dritto dritto dal set di "Midsommar". Il gruppo è colorito, ma tra tutti è ovviamente la final girl di turno (Anya Taylor-Joy) a sospettare qualcosa, poiché l'unica a non credere nella "grandezza" della cucina d'elite. E lo chef, interpretato con piglio sottilmente demoniaco da un ottimo Ralph Fienness, è un vero e proprio Jigsaw del palato, un cerimoniere che usa la sua arte per concupire e poi distruggere le vittime.
Ma laddove l'ingegnere sadico della serie di "Saw" era un giustiziere vero e proprio che usava la violenza per punire soggetti socialmente riprovevoli, Slowik è invece un artista pazzo e a pezzi che si prende una rivincita del tutto personale verso chi gli ha fatto un torto. C'è ovviamente la coppia di critici culinari, rei di aver distrutto le carriere di una moltitudine di colleghi pur avendolo supportato in passato. Gli yuppie impiegati nell'azienda del mecenate, che resta in piedi grazie al malaffare. Il mecenate stesso, che ha mercificato la sua passione. Ma anche tutto quel gruppo di semplici degustatori in cerca di un'esperienza "artistica", coloro i quali hanno foraggiato la trasformazione della culinaria in un passatempo snob per ricchi, drenandone ogni gusto, desertificandone i contenuti, avvalorando le stravaganti e aride ricette della cucina molecolare. Non per niente, a salvare la situazione è un buon vecchio cheeseburger.




Lo sguardo di biasimo è rivolto tanto ai produttori, quanto ai consumatori. Laddove lo chef è uno psicopatico, l'idiozia del cliente medio viene incarnata principalmente dal personaggio di Nicholas Hoult, vero e proprio idiota follemente innamorato di una cultura culinaria della quale vorrebbe anche essere parte, ma che finisce per annientarlo. Il resto del gruppo è quanto ci si può aspettare da un ambiente del genere, ossia un gregge di borghesucci persi nell'ostentazione onanistica di un lusso effimero, la cui componente volgare è magnificamente incarnata da un sempre bravo John Leguizamo, qui nei panni di un attoruncolo i cui manierismi sono, per sua ammissione, ispirati a Steven Seagal.
La vena satirica si gonfia fino al grottesco. I tempi sono quelli della commedia nera, di una metafora deformata fino all'iperbole. Non per nulla, tra i produttori c'è quell'Adam McKay che ha fatto della satira demenziale la sua cifra stilistica. E l'intento parodico si palesa esplicitamente quando viene ripresa la grafica di "Chef's Table" per introdurre i piatti e quella di un qualsiasi reality di cucina per scandire i tempi della cena.




Laddove il registro grottesco funziona, non paga l'idea di declinare il tutto con la più classica struttura da horror. Tanto che il finale è ampiamente intuibile e finisce con il risultare stantio oltre che scontato. Ma forse non conta l'arrivo, quanto il viaggio: come in una cena vera e propria, si devono assaporare le singole portate, i singoli sapori, acidi e irresistibili, per ricordarci come, spesso, ci si lasci ammaliare a torto da mode tanto chic quanto vacue.

mercoledì 23 novembre 2022

Niente di nuovo sul fronte occidentale

Im Westen nichts Neues

di Edward Berger.

con: Felix Kammerer, Albrecht Schuch, Aaron Hilmer, Moritz Klaus, Daniel Brühl, Adrian Gründwald, Edin Hasanovic.

Guerra

Germania, Usa, Regno Unito












Pubblicato nel 1929, "All'Ovest niente di nuovo" di Erich Maria Remarque è unanimamente considerato come uno dei più importanti romanzi di guerra mai scritti, nonché uno dei più sferzanti scritti pacifisti del XX secolo. In esso, lo scrittore fa confluire non solo l'esperienza distruttiva della Grande Guerra, con grande attenzione sugli effetti psicologici su quella giovane generazione tedesca che si ritrova a guardare in volto un orrore che nessun uomo aveva mai provato prima, ma anche il biasimo feroce contro quella generazione dei "padri" che li hanno indottrinati verso il conflitto con una retorica nazionalistica aberrante, resa ancora più rivoltante se appaiata con la cronaca del fronte. 
Tanto che la reazione della comunità nazionalsocialista non si fece attendere: Goebbles osteggiò pubblicamente il romanzo e si arrivò persino a bruciarne pubblicamente le copie. Mentre nell'Italia fascista, la pubblicazione fu bloccata sul nascere.




Un primo adattamento cinematografico del libro arriva già nel 1930: produzione americana diretta da Lewis Milestone, sciocca il pubblico per la crudezza del racconto, pur celando gli elementi grafici esplicitamente descritti nel romanzo. Il successo è immediato e arriva persino a vincere uno dei primi Oscar come miglior film. Un secondo adattamento, anch'esso anglofono, arriva nel 1979, questa volta ad opera della CBS, con script di Paul Monash e diretto da Delbert Mann, che crea un piccolo kolossal televisivo con un ottimo cast, tra i quali spiccano Ernest Borgnine, Ian Holm, Donald Pleasance e Patricia Neal. Produzione anch'essa graziata dall'ottimo successo, tanto da arriva persino al cinema in Europa.
Ma la mancanza è evidente: non c'è mai stata una trasposizione germanofona di uno dei più importanti romanzi tedeschi del XX secolo. Lacuna alla quale ovvia Edward Berger tramite una produzione Netflix, con una trasposizione che pur affidandosi ad una regia altamente ambiziosa ma non sempre azzeccata, riesce perfettamente a restituire il senso d'orrore presente nel romanzo e a conferire un ritratto crudo e veritiero della Prima Guerra Mondiale.




Si parte dall'indottrinamento: all'Università, un professore pontifica sull'importanza del sacrificio per la patria, sull'onore della guerra, sulla grandezza intrinseca nel morire per il kaiser. Quattro ragazzi, appena diciasettenni, fanno carte false per essere arruolati. Seguiamo così l'esperienza bellica attraverso il punto di vista di Paul Bäuer (Felix Kammerer), della sua amicizia con il veterano ed ex scarpino Katczinsky (Albrecht Schuch), prima guida poi amico inseparabile, fino alla disgregazione totale del gruppo.
La descrizione è spietata: morte, sangue e fango, miseria e fame. I soldati sono insidiati più dalla trincea che dal nemico. La fame, in particolare, è l'avversario più ostico, con i protagonisti che spesso rischiano la vita per rubare pochi viveri. E mentre i fanti muoiono, per stenti o per il piombo, gli ufficiali biavaccano lontano dal fronte, arroccati in una torre d'avorio, guardando solo il riflesso degli eventi mentre degustano prelibatezze al caldo. La scissione è netta, con i soldati da una parte, gli ufficiali dall'altra, i giovani da un lato, gli anziani dall'altro, gli impressionabili idealisti in prima fila come carne da cannone, gli eredi di nobili famiglie in cerca di gloria e carriera al sicuro nelle retrovie.




Assieme ai drammi dei soldati e agli orrori dei combattimenti, seguiamo anche la vicenda di Matthias Erberger (interpretato da Daniel Brühl), delegato all'armistizio dopo tre anni di battaglie che hanno ridotto la Germania allo stremo. Tramite i suoi occhi vediamo la cocciutaggine delle alte sfere, coloro i quali il campo di battaglia non lo hanno visto neanche con il cannocchiale, ma che sono saldamente convinti della vittoria, impauriti dall'onta che da una resa potrebbero subire, parte più alta e disumana di una classe dirigente chiusa in sé stessa, lato estremo di quella generazione interessata solo al nome e pronta a sacrificare milioni di figli per il proprio bene.
Il quadro che ne emerge è completo e sfaccettato e trova un limite di scrittura unicamente nel poco spazio concesso ai compagni di Paul, ai quali un approfondimento maggiore avrebbe giovato e sarebbe riuscito anche a trasmettere un senso di coinvolgimento persino maggiore di quello, pur alto, già presente.




Regia e fotografia si immergono nella trincea con uno sguardo perennemente ad altezza uomo. I colori sono quelli del fango e del piombo, intercalati dal rosso vivo del sangue e della carne dilaniata: per la prima volta i dettagli più scioccanti narrati da Remarque trovano forma filmica. Ma prima ancora, si riesce a vivere l'esperienza in modo diretto con una messa in scena certosina, la quale però non scade mai nell'ormai trito modello spielberghiano: la macchina da presa è quasi sempre salda, non c'è la volontà di ricreare il senso di spaesamento tramite facili artifici estetici. I punti di riferimento, semmai, sono altri e certamente più elevati, ossia Malick e l'ormai inevitabile Klimov.




Le prime immagini parlano chiaro: come ne "La Sottile Linea Rossa", Edward Berger vuole creare un parallelo con i tempi della natura. Lontano dalla terra di nessuno, eppure incredibilmente vicino, la fauna vive tranquilla e la flora continua ieratica la sua esistenza. Immagini che fanno il paio con quelle verso la fine, gli inserti dell'ospedale da campo con i resti umani che vengono sciacquati via a fine conflitto. Ma durante tutto il film, questa simmetria si perde e quelle immagini iniziali diventano vacue, inutili inclusioni che non portano alla riflessione dovuta.
Decisamente più riuscita è invece la rielaborazione della lezione di Elem Klimov: se per tutto il film la descrizione degli eventi è oggettiva, benché basata sul punto di vinta principale di Paul, nel climax questa diventa soggettiva, con un'ascesa verso il cielo catartica che deforma la percezione degli eventi fino ai limiti del poetico, con lo sguardo del protagonista che finisce per ricordare quello del coevo di "Va' e Vedi".



Questo nuovo adattamento di "All'Ovest niente di nuovo" riesce così nell'impresa di restituire la drammaticità del romanzo, con un piglio spettacolare mai compiaciuto e giusto qualche sbavatura.

giovedì 17 novembre 2022

Clerks- Commessi

Clerks.

di Kevin Smith.

con: Brian O'Halloran, Jeff Anderson, Marilyn Ghigliotti, Lisa Spoonauer, Jason Mewes, Kevin Smith, Scott Moiser, Scott Schiaffo.

Commedia 

Usa 1994

















Nei primi anni '90, il sistema produttivo hollywoodiano riceve un piccolo scossone. Complice anche il crescente successo del Sundance Film Festival di Robert Redford, il pubblico prima che la critica dopo cominciano a riscoprire una forma cinematografica lontana dal mainstream, dall'action iperviolento così come dall'horror slasher, così come dal cinema falso impegnato e superclassico. Il cinema d'autore torna così alla ribalta, in una ideale continuazione delle istanze della New Hollywood di due decenni prima.
Ma se la crisi dello Studio System e dei kolossal alla fine degli anni'60 portarono all'era degli autori, nei '90 a trionfare sono proprio gli studios. Questa volta non i grandi conglomerati quasi secolari, ma le piccole case di produzione, che fino ad allora sgomitavano per avere un posto al sole e che ora si ritrovano con un mercato potenzialmente in espansione. La figura dei leoni la fanno la New Line di Bob Shaye, che tempo dieci anni e diverrà una major vera e propria, oltre alla Miramax (e la relativa succursale Dimension Film) dei fratelli Weinstein.
Proprio questi sono i responsabili dell'ascesa di due degli autori americani più rappresentativi di queste nuova corrente filmica, ossia Quentin Tarantino e Kevin Smith.


E forse non possono esistere due cineasti più diversi. Laddove Tarantino ha un background cinefilo eterogeneo ed enciclopedico e nel suo cinema è l'influneza dei cineasti europei e dei grandi artisti americani è più forte di quanto lui stesso voglia ammettere, Smith, nato e cresciuto nel New Jersey, è invece quello che oggi verrebbe definito "un geek", appassionato di cultura popolare "bassa" come i fumetti di supereroi, "Star Wars" e il cinema adolescenziale americano anni '80. Non per nulla, per finanziare "Clerks", con i suoi 27 mila dollari di budget, ha venduto gran parte della sua collezione di comics.
Ma proprio come Tarantino, Smith dimostra subito un'abilità nello scrivere dialoghi frizzanti davvero unico, che diventa già da ora una cifra stilistica nel suo cinema. Dialoghi infarciti di tutte le profanità possibili: vagonate di “cazzi”, autotreni di “fregne” e intere galassie di “’fanculo” scandiscono le otto ore della giornata tipo dei due protagonisti, dure ragazzi qualunque, impiegati (male) in due negozietti limitrofi. Due tipici giovani adulti americani (e non).
"Clerks." non un è semplice film sulla crescita, quanto un vero e proprio spaccato generazionale, un ritratto livido e sferzosamente ironico di una generazione persa, quella “generazione X” composta dai nati tra l’inizio degli anni ’60 e la fine degli anni ’70. Ragazzi e ragazzi che si ritrovano negli anni ’90 alle soglie della vita adulta, ma senza veri programmi per il futuro, sogni, ambizioni o ideali di sorta.




Dante (Brian O'Halloran) e Randal (Jeff Anderson) sono due aspetti speculari di una gioventù del genere: bloccati in una eterna vita da ragazzi, alle prese con un lavoro modesto e sottopagato e senza la minima voglia di porvi rimedio. Il primo si preoccupa di essere coerente, di “fare il proprio dovere” da commesso come se fosse un gran lavoro, mentre il secondo è un lavativo totale ed irredento.
Ma per il loro tramite, Smith non elogia l’ozio o la stupidità endemica, bensì ritrae con dosi da rinoceronte di ironia questo vuoto pneumatico, puntellandolo qua e là con una pacata ma efficace dose di malinconia.
Mentre Randal viaggia per tutto il film come una meteora, fregandosene di tutto e di tutti e riuscendo, con questo suo strambo cinismo, persino a far chiarezza sulla vita all’amico di sempre, Dante si rifugia sempre più nella sua nullità. Un giovane uomo che non vuole crescere, che si rifiuta di continuare la relazione con la più matura Veronica (Marilyn Ghigliotti), preferendo l’immatura ex Caitlin (Lisa Spoonauer), anch’ella in fuga dalla maturità, personificata dal matrimonio. Relazioni che si barricano dietro alla repulsione per una sessualità femminile vista come troppo esuberante (“Hai succhiato 37 cazzi!?!?!?”) per non evolversi e restare sospese in un limbo di inconcludenza, persino quando lo sboccatissimo Jay e il saggio Silent Bob, vere e proprie icone degli anni ’90 e non solo, suggeriscono saggiamente all’imberbe commesso cosa sarebbe meglio fare.




Inconcludenza che Smith eleva a forma narrativa: non c’è conclusione nella storia, nessuna vera catarsi liberatoria per Dante o Randal, solo il personaggio di Caitlin finisce per autodistruggersi in modo tragicomico. D’altro canto la vita è anche questa: un purgatorio esistenziale dal quale non sembra esserci via d’uscita, ma solo poche ancore di salvezza. Come il sesso (vero o anche solo immaginario), l’idolatrazione della cultura pop, le partite di hockey o le poche, vere, relazioni interpersonali. Non per niente, la vita può finire in un attimo, come accade all'amica scomparsa giovanissima e il cui funerale viene dissacrato dai due ragazzacci fuori scena.




Un cinismo tipico della prima metà del decennio che ammanta il film con un'aura quasi distruttiva. Se non fosse per quella bella scena nella quale Dante e Veronica si avvicinano nella prima parte. Controbilanciata, ovviamente, nella seconda, da quel piccolo piano sequenza statico nel quale Dante confronta Caitlin e la sua intenzione di sposarsi, che sposta nuovamente l'asticella verso la freddezza. Smith forse non vuole che questi personaggi si salvino, anche perché all'epoca lui era parte di loro: tutto il film è basato sulla sua esperienza da commesso e girato nel negozio in cui lavorava. L'unica concessione data loro è la salvezza fisica: il finale originale, con Dante che veniva letteralmente freddato durante una rapina a fine giornata, è stato tagliato e il film sfuma verso il nulla, come in un loop eterno nel quale questi buffi perdenti continuano a vivere, ma sono destinati a restare perennemente intrappolati in un mondo in bianco e nero, privo di vie di fuga e vera realizzazione. In proposito, Smith stesso ha ammesso di aver strutturato il film come una sorta di "Divina Commedia", con il protagonista, chiamato in omaggio ad Alighieri, perso in una serie di gironi infernali.




Ad alleviare il tormento, solo l'umorismo, una risata tanto salvifica quanto acida, corrosiva, che non cela il cinismo sottostante. E le gag sono tutt'oggi irresistibili, tra i siparietti dei due protagonisti, le cazzate di Jay e Silent Bob, le incazzature con i clienti e il monologo cult di Randal che elenca una serie infinita di titoli porno davanti ad una madre con la figlia.
"Clerks.", ad oggi, è un manifesto di un cinema che fu e la cui influenza è ancora presente in tante pellicole indie, ma a differenza di queste ha una carica di sincerità e passione che molto "giovane cinema d'autore" odierno ha perso. Il suo umorismo è irresistibile, i personaggi simpatici e la direzione di Smith sa dosare i tempi e dimostra un buon gusto estetico. Tanto che il premio come miglior regia ottenuto a Cannes è stato, tutto sommato, davvero meritato.

martedì 15 novembre 2022

La Stranezza

di Roberto Andò.

con: Toni Servillo, Salvatore Ficarra, Valentino Picone, Renato Carpentieri, Donatella Finocchiaro, Luigi Lo Cascio, Galatea Ranzi, Fausto Russo Alesi, Giulia Andò, Aurora Quattrocchi.

Commedia/Biografico

Italia 2022














Cercare di dare una forma all'ispirazione è sempre cosa ardua. Lo è ancora di più quando ad essere coinvolto è un artista come Luigi Pirandello. E lo è definitivamente se si cerca di dare un ordine al caleidoscopio di idee, sensazioni, frustrazioni ed emozioni che lo hanno portato alla creazione a quel capolavoro di rottura avanguardistica di "Sei personaggi in cerca d'autore", la cui modernità è ancora oggi, a 100 anni dalla sua prima messa in scena, incalcolabile.
Nonostante questo, Roberto Andò decide di cimentarsi in un'operazione rischiosissima, resa ancora più perigliosa dalla commistione con la commedia; il risultato, spiace dirlo, è purtroppo del tutto malriuscito.



Nella Sicilia alla vigilia degli anni '20 del '900, Luigi Pirandello (Servillo) torna al paese natio per seppellire la balia Maria Stella (Aurora Quattrocchi). Il caso lo porta ad incontrare i due becchini del luogo, Onofrio e Sebastiano (Ficarra e Picone), i quali si dilettano con il teatro e cercano di portare in scena un drammetto da loro creato, in un ambiente di certo non consono all'arte.




Un Pirandello già famoso, due persone comuni, non più giovani, che aspirano al successo teatrale. Da un lato la tradizione, anche prettamente siciliana, del teatro, dall'altra la volontà di distruggere ogni forma di falsità nella messa in scena per arrivare ad una forma di verità più viva, una autenticità che nell'arte troppe volte manca. Come si arriva al totale scompaginamento di un testo teatrale classico?
Per Andò la risposta è alquanto scontata: Pirandello si è trovato ad assistere da una piéce flagellata dagli imprevisti, con gli attori che escono dai personaggi per perseguire le proprie ossessioni e il pubblico, fonte di ispirazione per la storia, che la contesta drammaticamente. Il che finisce per sminuire la figura dell'autore, il suo genio e persino le sue ossessioni, che sovente si limitano a prendere la forma dei personaggi che lo perseguitano o dei flashback che descrivono il difficile rapporto con l'amata moglie.



Per la maggior parte del tempo, Andò si diverte a seguire i personaggi (immaginari) di Ficarra e Picone, finendo per inanellare tutti gli stereotipi sulla sicilianità possibili e immaginabili. Tra boss mafiosi paciosi, gelosie, corna e triangoli amorosi scassati, la mente corre al cinema italiano che fu, a Germi e Monicelli; ma se loro descrivevano personaggi simili quando questa realtà era ancora inedita e urgente, al giorno d'oggi non si può non categorizzarli come stereotipi e luoghi comuni, nonostante l'ambientazione d'epoca. E con l'aggravante che i siparietti comici alla fin fine non sono nulla di rimarchevole e neanche troppo divertenti.




Un'operazione che alla fine non rende giustizia a Pirandello, non ne dà una visione inedita, né più di tanto interessante. D'altro canto è forse impossibile cercare di descriverne il genio tramite un registro classico, con una storia canonica e adagiata su di uno script sin troppo quadrato, che ha un sussulto creativo solo nel finale. e alla fine ciò che resta è la solita bella prova di Servillo, oltre alla simpatia di Ficarra e Picone, forse gli unici comici televisivi odierni che funzionano davvero anche al cinema (con buona pace di Checco Zalone). 

lunedì 14 novembre 2022

Don't Worry Darling

di Olivia Wilde.

con: Florence Pugh, Harry Styles, Chris Pine, Olivia Wilde, KiKi Layne, Gemma Chan, Nick Kroll, Sydney Chandler, Kate Berlant.

Thriller

Usa 2022
















---CONTIENE SPOILER---


Chissà se senza tutte le polemiche, "Don't Worry Darling" avrebbe ottenuto le medesime attenzioni. Chissà se in assenza dello sputo dato o meno da Harry Styles a Chris Pine al Festival di Venezia la gente sarebbe corsa lo stesso in sala. Chissà se senza i botta e risposta tra Oliva Wilide e Shia LaBeuf, qualcuno avrebbe degnato di vera attenzione il film. E chissà se senza le storie delle scappatelle sul set tra la Wilde e il neopartner Styles qualcuno sarebbe stato davvero curioso di guardare la sua seconda prova da regista, anche al netto di una campagna pubblicitaria solida.
Perché nonostante la tematica dell'emancipazione femminile sia sempre attuale e lo stile visivo usato sia  a tratti ispirato, il thriller della Wilde è qualcosa di incredibilmente superficiale, facilone, derivativo e persino improbabile, che di certo non riesce a calamitare su di sé attenzioni che non siano di sufficienza, se non addirittura di disprezzo.




Dinanzi alle immagini e alla storia, nella prima parte, la mente corre inevitabilmente a "The Stepford Wives", sia l'originale del 1975 che il pallido remake del 2004; da un lato c'è l'eslusivo "club per soli maschi", dall'altro l'uso dell'estetica anni '50 per simboleggiare la perfezione civile americana e l'oppressione verso la donna, all'epoca, inutile persino dirlo, vista come semplice angelo del focolare e corpo da possedere. La poca originalità non si ferma però solo all'estetica e a qualche richiamo. La comunità isolata fuori dal mondo e ferma nel tempo richiama anche "Antebellum", ma il colpo di scena qui proposto è decisamente più assurdo: è tutto una simulazione, una realtà virtuale che ricrea un mondo perfetto, ossia una Matrix misogina. Ed è qui che ogni sospensione dell'incredulità a farsi benedire.
Non si capisce perché una persona che muoia in una simulazione condivisa dall'autente tramite un semplice impianto VR e non innestata direttamente nel tronco encefalico debba morire anche nella realtà, soprattutto quando si tratta di soggetti che sanno di vivere in un videogame; non si capisce perché la comunità sia sita in mezzo ad un deserto, visto che è già letteralmente tagliata fuori dal reale; non si sa perché ci siano dei glitch nel sistema, come l'aereo che si schianta inspiegabilmente o le uova vuote, forse colpa di un programmatore pigro, soprattutto isto sono eventi che vengono mostrati ma che alla fin fine non hanno un vero peso nella storia. Non si sa perché sia proprio Alice ad essere la sola (la seconda, per l'esattezza) a sospettare che sotto tutta questa perfezione ci sia qualcosa di losco, né perché il sistema cominci a collassare proprio quando decide di scappare. E quando riesce a scappare attraversando lo specchio, più che alla citazione carrolliana ricercata la mente corre a "Matrix Resurrection", oltre ovviamente al mai dimenticato "THX 1138".
E lo script non si risparmia certo in non sensi anche nell'esecuzione della storia vera e propria, come l'uccisione del demiurgo Frank nel finale, messa lì solo per creare un castigo verso il "big bad" del film o il fatto che molte delle donne prigioniere siano state dotate dello stesso antefatto per spiegare la loro presenza in una comunità in mezzo al deserto.




La poca originalità e i buchi di trama sono però un problema marginale laddove si tiene conto che questa metafora femminista alla fin fine funziona pochissimo e male. Le donne della comunità di Victory non sono davvero oppresse, non sono subordinate al maschio nel senso convenzionale del termine, non hanno vere aspirazioni castrate dai mariti, sono felici e spensierate e c'è persino qualcuna che si trova in questa falsa realtà di sua spontanea volontà. I maschi, anzi, amano profondamente le loro partner e le soddisfano in tutti i modi possibili, anche sul piano fisico (e si sorride se si pensa che secondo la Wilde gli spettatori del 2022 dovrebbero scandalizzarsi dinanzi ad una scena di sesso orale nella quale è la donna a godere). Come se non fosse abbastanza, in questo mondo altro esiste una forma di integrazione razziale che nei veri anni '50 era fantascienza e lo è persino oggi in alcuni angoli degli Stati Uniti.
Più che una prigione dorata, la simulazione è forse davvero un Eden, soprattutto quando si spiega come gli uomini debbano abbandonarla ogni giorno per tornare in una realtà difficile al fine di potersi permettere di vivere bene in un mondo di fiaba. Le vere vittime, paradossalmente, finiscono per essere loro senza che nessuno degli autori se ne renda conto (sarà un caso che gli autori del soggetto vengono dalla Asylum?).
La morale dovrebbe anche essere quella di "The Truman Show" (altra scopiazzatura) secondo la quale è pur sempre meglio vivere in un brutto mondo reale che in un perfetto mondo di finzione, ma ci si chiede quanto possa essere davvero brutto un mondo nel quale la protagonista, pur oberata dal lavoro, è un medico chirurgo con un posto fisso, una casa propria e un fidanzato bello e premuroso. 
Per di più, anche la metafora del balletto viene sprecata: una forma d'arte dove un gruppo di donne sono costrette a muoversi all'unisono, a seguire un ritmo prestabilito da qualcun altro e a ripetere infinite volte i medesimi gesti per il ludibrio del pubblico mentre vengono spesso abusate dietro le quinte ben avrebbe potuto rappresentare il perfetto simbolo dell'oppressione femminile, ma la Wilde lo getta su schermo senza mai dargli il giusto peso.




Viene poi davvero da ridere se poi pensa a come la Wilde abbia a sua detta ricalcato il personaggio di Frank su Jordan Peterson e i suoi tristemente famosi podcast e comizi contro l'emancipazione femminile e di come, sempre a sua detta, quella di Victory dovrebbe essere una forma di rappresentazione dell'ideale sociale degli incel. Si ride perché forse non ha sentito come Peterson, pur deprecabile per le sue posizioni, abbia spesso e volentieri preso le distanze dalla comunità incel e non abbia anzi perso occasione per biasimarli per i loro stessi fallimenti con le donne. Vien da ridere ancora di più laddove ci si rende conto di come secondo lei questi leoni da tastiera possano essere davvero in grado di creare una distopia retrograda.




Tra una metafora fallace e una sceneggiatura bacata, pigra e del tutto priva di spunti originali o anche solo davvero interessanti, "Don't Worry Darling" finisce inevitabilmente per tediare, quando non fa contorcere dalle risate o sbadigliare. 
Spiace davvero vedere un'attrice bella e brava come Florence Pugh invischiata in un progetto del genere, benché ne esca a testa alta con una performance di buon livello. E spiace ancora di più dover dismettere in tal modo un film femminista in un periodo nel quale determinati valori sono costantemente messi sulla graticola. Ma ad Hollywood, si sa, l'impegno si misura con le sole parole, non con i fatti, e che le intuizioni contano più dell'effettiva esecuzione.

giovedì 10 novembre 2022

Black Panther: Wakanda Forever

di Ryan Coogler.

con: Letitia Wright, Angela Bassett, Tenoch Huerta, Lupita Nyong'O, Winston Duke, Danai Gurira, Dominique Thorne, Martin Freeman, Julia Louis-Dreyfuss, Lake Bell.

Avventura/Fantastico/Azione

Usa 2022












Il primo "Black Panther" rappresentava al contempo l'apice della popolarità del MCU e la prima avvisaglia della sua decadenza. Da una parte, il film è stato un successo enorme, riuscendo persino a portare a casa qualche Oscar e venendo nominato finanche come miglior film. Ma dall'altra il giochino ipocrita tipicamente hollywoodiano si era palesato davanti a tutti: il film non era certamente memorabile e non rendeva neanche giustizia ad un personaggio importante non solo nel contesto fumettistico, eppure era stato accolto come un capolavoro e prima ancora venduto come "il film che avrebbe cambiato la vita degli spettatori afroamericani", tanto che si era arrivati persino ad organizzare una serie di proiezioni a prezzo ridotto per i bambini dei quartieri difficili. Trucco svelato: era mera pubblicità che marciava sulla miseria sociale. E il clamore suscitato dal film era tutto dovuto all'ambiente woke che girava su sé stesso. Al punto che, tra il pubblico, le prime critiche arrivarono dalla stessa comunità afroamericana, che di certo non poteva identificarsi in un eroe ricco e potente che impediva la rivolta degli oppressi.
Quattro anni dopo il panorama è in parte cambiato. La Disney ha portato sin troppo avanti la sua politica di "politically correctness" e la crociata dell'inclusivismo forzato, i Marvel Studios hanno incassato un paio di cocenti flop in sala ("Eternals" e "Shang-Chi"), oltre ad aver propinato al pubblico alcune delle serie in streaming più stupide mai concepite ("Hawkeye", "Moon Knight" e soprattutto "She-Hulk- Attorney at Law"). I fan oramai sono scontenti della piega presa dalla produzione del Marvel Studios e quello che sembrava un universo inattaccabile e sin troppo amato si sta lentamente trasformando in un pupazzo su cui sfogare le proprie frustrazioni. "Wakanda Forever" è in un certo senso il successo che lo studio necessita e occorre di conseguenza chiedersi se questo sequel, flagellato in partenza dalla morte del compianto Chadwick Boseman, sia davvero in grado di ridare lustro alla compagnia o dignità al personaggio.
Per fortuna, "Wakanda Forever" è un sequel che surclassa in tutto l'originale e si pone persino come uno dei migliori esiti della Marvel al cinema.




Su tutto vige l'ombra del lutto. La morte di Boseman diventa la morte di T'Challa, che lascia un regno senza un sovrano e prima ancora una famiglia senza un figlio ed un fratello. Le redini della storia vengono così affidate a Shuri (Letitia Wright) e alla regina Ramonda (Angela Bassett, che come da copione brilla sul resto del cast). Il Wakanda deve così difendersi dalle pressioni internazionali per ottenere i segreti del vibranio, ma anche dall'inedita minaccia di Namor (Tenoch Huerta), sovrano del regno subacqueo di Talocan.




Le new entry questa volta si alternano agli estremi dei personaggi classici e modernissimi del roaster Marvel.
Namor il Sub-Mariner viene creato dal Bill Everett nel 1939, quando la Marvel era ancora denominata "Timely Comics". Dai lineamenti orientali, è nei fumetti il sovrano di Atlantide in lotta contro gli umani, rei di aver depredato impunemente le ricchezze del mare. Nella sua storia editoriale ha spesso ricoperto il ruolo di villain, soprattutto contro i Fantastici Quattro, ma anche quello di anti-eroe, entrando persino nell'enclave degli Illuminati assieme a Tony Stark, Stephen Strange, Charles Xavier e l'odiato Reed Richards.
Su schermo, Namor diventa Namòr, sovrano di un regno subacqueo situato nel mare dello Yucatan e fondato dai rifugiati aztechi scacciati dai conquistadores, dove viene venerato come il dio Kukulkàn. Cambiamenti dovuti in parte alla tematica anti-colonialista del film, ma soprattutto per differenziarlo dall'Aquaman di casa DC, il quale, pur avendo esordito su carta successivamente al Sub-Mariner (ed essendo di fatto un suo clone), è arrivato al cinema per primo.




All'estremo opposto, Riri Williams appare per la prima volta nel 2015, nella testata di Iron Man per mano del prolifico Brian Michael Bendis e finisce subito per diventare uno dei personaggi più odiati dell'intera storia editoriale della Casa delle Idee; il perché è poi, paradossalmente, incredibilmente comprensibile ed estremamente detestabile.
Riri è la punta dell'iceberg della politica di inclusione forzata della Marvel, la quale ha deciso di sostituire tutti gli eroi più amati e di etnia bianca con dei nuovi personaggi afroamericani, donne o entrambi. Si ha così Miles Morales come nuovo Uomo Ragno, Laura Kinney come nuova Wolverine, Sam Wilson come nuovo Capitan America e appunto Riri Williams come nuova Iron Man, benché il suo nome da battaglia è sin dall'inizio Ironheart. E se Miles Morales è stato ostracizzato solo dai soliti intolleranti, Laura Kinney non ha mai davvero ricevuto critiche forti anche grazie al segreto di Pulcinella per il quale Logan sarebbe prima o poi ritornato a reclamare il titolo di mutante artigliato e Sam Wilson ha in realtà scontentato per lo più i suoi stessi fan di vecchia data (soprattutto di colore), i quali hanno giustamente fatto notare come la sua "promozione" a Cap ha in un certo modo sminuito il suo alter-ego precedente, la Williams ha da subito suscitato polemiche, concentratesi sul fatto che sia impossibile che una quindicenne fosse in grado di creare una tecnoarmatura funzionante, che sia in sostanza la più classica "Mary Sue" creata ad hoc per far colpo sul pubblico femminile e di colore. Peccato che questa armatura vada in pezzi al primo utilizzo e che lei riesca a costruirne una davvero funzionante solo grazie all'aiuto di Tony Stark e che, su tutto, il suo "genio precoce" non è nulla di nuovo in un universo dove un Peter Parker quindicenne crea un polimero in grado di sollevare tonnellate di metallo praticamente nella sua cameretta e lo stesso Stark da vita ad una serie di robot perfettamente funzionanti già a otto anni.
Pregiudizio razzista? Sicuramente. Ma di certo non hanno aiutato all'apprezzamento né il fatto che la testata che ospitava le sue prime avventure continuasse a portare il nome di Iron Man e non di Ironheart, né il fatto che le sue prime storie fossero di una mediocrità sconsolante.
Senza contare come, in ossequio ai dettami woke più cretini, si è deciso di dotarla di un flashback del tutto deficiente nel quale chiedeva alla maestra di discriminarla. Il ciò al solo fine di creare empatia e portare alla ribalta i problemi dei giovani neri nel sistema scolastico americano... e poi c'è gente che si arrabbia quando si dice che spesso i fumetti di supereroi sono semplice spazzatura per bambini.



In "Wakanda Forever", Riri Williams diventa il mcguffin da recuperare/proteggere in una storia dagli echi colonialisti. Il Wakanda è responsabile dell'aver svelato al mondo l'eisstenza del vibranio e di essersi rifiutato di condividerne i giacimenti. Gli Stati Uniti iniziano così una ricerca nel resto del mondo e ne trovano una parte nei pressi di Talocan. Namor ricatta Ramonda e Shuri, chiedendo la consegna della giovane scienziata che ha creato il rilevatore in grado di tracciare l'agognato metallo divino. Ma ciò è solo il preambolo ad una guerra verso la superficie.
La dinamica è chiara: gli oppressi di ieri diventano i mostri di oggi. I potenti del mondo sono mossi solo dai propri interessi e i popoli più deboli devono collaborare per non essere schiacciati. Il che funziona grazie all'empatia verso gli Yucatechi e la tragedia del colonialismo nel centro-sud America. Un po' meno se si pensa che tutto si sarebbe potuto evitare se il Wakanda avesse davvero avviato una politica di collaborazione internazionale (e ai più intelligenti non può poi sfuggire come sia in realtà impossibile che una nazione sia diventata la più potente e tecnologicamente progredita al mondo senza aver mai commerciato con nessuno). Namor da un lato, Shuri e Ramonda dall'altro divengono così dei sovrani chiamati ad evitare un conflitto globale e al contempo a rispettare i doveri di protezione verso il loro popolo, situazione decisamente più comprensibile rispetto a quella (assurda) del primo film.



Ma il focus è anche sulla tematica dell'elaborazione del lutto, della somatizzazione necessaria della perdita e dell'urgenza di andare avanti. Sia Shuri che Namor sono segnati dalla morte di quello che era il punto di riferimento della loro vita, la madre per lui, il fratello per lei, ed entrambi agiscono mossi dal dolore mai superato. Se questo è un veleno, alla fine diventa lo stesso balsamo che porta alla riappacificazione, al superamento della rabbia e del sentimento di vendetta innato, viatico necessario per la comprensione altrui. Il quale deve però essere accantonato al fine di poter guardare al futuro, con quella scena mid-credit che forse riesce davvero a commuovere.




La mano di Coogler è più ferma e questa volta non abusa la CGI, preferendo quasi sempre l'uso di location e set fisici. La fonte di ispirazione estetica questa volta è chiara, ossia l' "Avatar" di Cameron, con il leitmotiv del tema dell'acqua, i guerrieri di Namor che diventano blu a contatto con l'aria e le battaglie combattute tra armi tradizionali e tecnologia futuribile. Ma il senso di déjà-vù per fortuna viene arginato anche grazie ad un aspetto stilistico tutto sommato originale, con la rielaborazione dei costumi aztechi e africani che riesce davvero a dare un tocco visionario al tutto.




Tanto che, al netto di una durata forse eccessiva, "Wakanda Forever" riesce a convincere e a trasmettere un messaggio progressista per una volta riuscito prima ancora che condivisibile. Cosa che molto spesso non accade nella Hollywood degli SJW urlanti e dell'impegno un tanto al chilo mai davvero sostenuto dal talento.