lunedì 30 gennaio 2023

La Sciamana

Szamanka

di Andrzej Zulawski.

con: Iwona Petry, Boguslaw Linda, Piotr Machalica, Pawel Burczyk, Stanislaw Jaskulka, Joanna Benda.

Polonia, Francia, Svizzera 1996















Riuscire a generare uno scandalo nell'Europa della seconda metà degli anni '90 non è davvero cosa da poco e Andrzej Zulawski, dopo vent'anni di onorata carriera, c'è riuscito con il suo "film maledetto", "La Sciamana" del 1996.
Presentato tra fischi e polemiche al Festival di Venezia, accolto in patria da una fioritura di stroncature e uscito in sala nel clamore generale (riuscendo persino a riscuotere un ottimo successo di cassetta), il terz'ultimo film del grande autore polacco è stato definito come il suo peggiore, oltre che una sorta di auto-parodia del suo cinema. Ma è davvero così?



Quanto a Zulawski, ne ha sempre parlato pochissimo a causa dello stigma indelebile che gli ha causato. Solo in un'intervista rilasciata per l'uscita in DVD per l'americana Mondo Vision, a quasi vent'anni dall'uscita in sala, ha deciso di rompere il duraturo silenzio, definendolo come un "film senza maschere".
Laddove in passato, sotto il regime comunista, ha sempre dovuto mascherare le sue storie con una coltre "di genere" per passare indenne le maglie della censura, riuscendoci comunque a stento, usando il dramma storico in "Diabel", l'horror in "Possession" e la fantascienza in "Sul Globo d'Argento", in "La Sciamana" il grande artista decide di ritrarre storia e personaggi in modo diretto, creare un racconto d'amore anomalo e selvaggio senza travestirlo da altro e anzi usandolo in modo esplicito per criticare la società polacca dell'epoca.
Per farlo, decide questa volta di usare un punto di vista femminile e affida la sceneggiatura alla scrittrice e giornalista Manuela Gretkowska, la quale sviluppa storia e personaggi ispirandosi ad un coppia di amici da poco separatisi. Il risultato è questa storia di amore e sesso tra un uomo maturo e colto ed una ragazza appena ventenne e priva di qualsivoglia cultura: Michal (che ha il volto della superstar dell'epoca Boguslaw Linda) è un archeologo in carriera che ha da poco scoperto il cadavere di un antico sciamano, mentre Wloszka (Iwona Petry), detta "l'italiana" perché "serve la pizza più gustosa", è una ragazza di provincia che ciondola per la città in cerca di soldi e che vorrebbe avere un'istruzione ed è dotata di una carica sensuale primordiale irresistibile.




La prima scena è anche la più esplicativa, ossia una citazione diretta di "Ultimo Tango a Parigi", con i due protagonisti che si incontrano in un appartamento e si lanciano immediatamente in un amplesso ai limiti della violenza. Quella che seguirà sarà la più classica relazione zulawskiana tra due personaggi borderline folli e prigionieri della propria emotività, portata in scena come un febbricitante tour de force. In questo, il grande artista non fa davvero nulla di nuovo e tornano tutti i cliché del suo cinema: il sesso esplicito e distruttivo come materializzazione di un sentimento strabordante, i simbolismi trasgressivi e provocatori, i dialoghi deliranti, gli inserti grotteschi. Tutto come da copione, tanto che l'etichetta di "auto-parodia" sarebbe anche calzante, se non fosse che, nel bene e nel male, il suo occhio e la sua mano sono al solito fermi e, anzi, per quanto manierista, questo suo undicesimo film è pur sempre più interessante e riuscito di "La Nota Blu" o di quel "Le mie notte sono più belle dei vostri giorni", il quale potrebbe davvero ambire a suo peggior film. Il che non esime comunque "La Sciamana" dall'essere un'opera imperfetta.




L'Italiana è quasi un doppio di Isabelle Adjani in "Possession", una donna sensuale e fatale, un essere che incarna una bellezza incontestabile e al contempo distrugge qualsiasi cosa con cui entri in contatto. Una femme fatale vera e propria che si insinua nella vita di Michal e la destabilizza anche più di quanto non fosse prima. 
Lui, borghese e già promesso sposo ad una donna bellissima e intelligente, è schiavo dei sensi e delle passioni, usa la sua cultura per sottomettere la ragazza, la quale a sua volta sottomette lui con la sua carica erotica. 
Su di un primo piano, la storia raccontata da Zulawski è nuovamente quella di una relazione "tossica" che porta i due partner in una spirale distruttiva.




Lo sciamano ritrovato nei pressi di Varsavia è un enigma, un essere vissuto prima che gli strati culturali succedanei corrompessero quei luoghi. Un doppio ideale di Michal, il quale preme per ritrovare una genuinità che ha dimenticato e forse mai avuto, ma anche di Wloszka, la quale indossa il medesimo cappello e balla in modo frenetico al ritmo dei tamburi, incarnando una vitalità preistorica che soprarvvive ancora oggi negli anfratti di un città tanto cupa, quanto religiosa e razionale.
Il rapporto si fa simbiotico e cannibalistico, come sottolineato da quel finale nel quale spunta l'antropofagia vera e propria (in realtà pietra angolare sulla quale la Gretkowska ha costruito tutta la storia): lui vuole divorare lei e sottometterla tramite la superiorità intellettiva, lei vuole divorare lui, carpirne la conoscenza e la posizione sociale oltre che il corpo, da cui la rincorsa perenne verso i soldi e l'orgasmo raggiunto solo con lui e mai con altri amanti (il fidanzato medico, il compagno di lavoro). Da cui il paragone con lo sciamano, morto probabilmente a causa di una aspirante sciamana che ha tentato di rubargli il potere.
Come sempre, questa lettura ad altezza di personaggio nel cinema di Zulawski prelude sempre ad un simbolismo volto a condannare le ipocrisie della società.




Perché "La Sciamana" segna anche il ritorno dell'autore nella natia Polonia, la quale a metà degli anni '90 è divenuta una nazione apertamente capitalistica e cattolica, la quale sembra aver già dimenticato l'oppressivo regime comunista scomparso neanche dieci anni prima, ma che non risulta più genuina che in passato.
Zulawski ha ammesso che il suo non è un film anti-cattolico, ma che ha lo stesso voluto condannare una tale deriva dal suo punto di vista, da cui il ricorso agli opprimenti simbolismi religiosi e alla scena nella quale l'italiana vomita insulti contro la Madonna dinanzi ad un compagno che prega, o come quando Michal si veste da prete quasi ad accettare una sua sconfitta; al contempo, descrive la crisi di valori con il personaggio del fratello di Michal, prete che ha perso la fede e ha abbracciato la propria omosessualità finendo per autodistruggersi, in una società dove solo i chierici non vengono etichettati come "deviati" se single e dove la Chiesa ha finito per dare rifugio a migliaia di omosessuali, i quali non ne hanno mai davvero accettato la dottrina e i dogmi, finendone schiacciati.
Ecco perché i due protagonisti ricercano e in parte trovano una nuova forma di spiritualità, una ascesi data dalla contemplazione e dalla soddisfazione del corpo, una sorta di tantrismo dove però viene raggiunto l'orgasmo, una fede nelle forme estetiche e nei sensi, la quale li rende più liberi, ma solo all'interno del talamo sessuale, mai al di fuori di esso, dove comunque non trovano equilibrio alcuno.



Allo stesso modo, la disumana struttura industriale di stampo sovietico ha lasciato spazio alla libera impresa del capitalismo, la quale non risulta più umana neanche per sbaglio. Il lavoro in fabbrica, sia essa quella della carne in scatola che quella siderurgica, è alienante, svuota l'essere di ogni sua possibile ricchezza interiore che non sia quella data dai puri riti religiosi, solo per poi annientarne il corpo, da cui le scene nelle quali Wloszka lavora in modo meccanico, come in stato di trance.




Laddove la storia riesce bene o male ad essere sempre comprensibile e riuscita, Zulawski inciampa in un racconto inutilmente ridondante, che porta a ripetere i medesimi concetti ad oltranza senza mai declinarli in modo fresco, sia all'interno del film che nell'intero corpo dell'opera dell'autore.
"La Sciamana" non è quindi il suo peggior film, ma non aggiunge davvero nulla a quanto da lui fatto in precedenza, non nei contenuti, tantomeno nella forma.




Quanto al lascito del film, esso è davvero bizzarro. In Italia, pur presentato a Venezia, arriva solo in VHS e solo in edicola, in una rassegna de "L'Espresso" sul cinema erotico d'autore. Ad oggi non è mai stato edito su supporto digitale, tantomeno distribuito ufficialmente in sala.
Tutto lo scandalo che ha generato è stato dovuto alle scene di sesso, come se le platee mondiali avessero dimenticato quanto erotismo esplicito fosse presente nel cinema d'autore europeo contemporaneo e non.
Alla fine della riprese, Iwona Petry fuggì in India con il marito e denunciò pubblicamente il comportamento "inappropriato" di Zulawski sul set, affermando di essere stata costretta a girare veri rapporti sessuali e di come lui sia stato crudele nei suoi confronti; il resto del cast e della troupe smentirono immediatamente la storia dei rapporti espliciti e Zulawski, anni dopo, ha confermato di essere stato effettivamente crudele nei suoi confronti, ma solo perché lei partì a riprese non ancora terminate, tornando dopo una pausa natalizia solo a seguito di pressioni da parte dei produttori. Ad oggi, la Petry ha recitato solo in un episodio di un telefilm in patria e si è ritirata dagli schermi, adducendo la pessima esperienza sul set come motivo del suo abbandono alla recitazione; ma a conti fatti ciò che Zulawksi le ha fatto fare non è nulla che altre sue colleghe non abbiano fatto, anche per cineasti molto meno importanti.
Sia quel che sia, la carriera dell'autore, da questo punto in poi, non si sarebbe più ripresa. Malauguratamente.

venerdì 27 gennaio 2023

Va' e Vedi

Idi i smotri

di Elem Klimov.

con: Aleksey Kavchenko, Olga Mironova, Lubomiras Laucevicus, Vladas Lagdonas, Jüri Lumiste, Viktors Lorencs, Evgeny Tilcheev.

Unione Sovietica (Bielorussia) 1985



















Esistono film in grado di trascendere lo status di opere cinematografiche e persino quello di opere d'arte; pellicole così viscerali e vivide da poter essere descritte solo come "esperienze", veri e propri avvenimenti che finiscono per toccare l'anima e la mente dello spettatore sino a scuoterle nel profondo, travalicando i limiti di fruizione virtuale canonici.
"Va' e Vedi" è uno di quei film, una vera e propria discesa nell'inferno più profondo dell'esperienza bellica, la cui potenza evocativa annienta ogni forma di sospensione dell'incredulità e al contempo annichilisce ogni pretesa di realismo o verosimiglianza per farsi puro concentrato di astrazione tematica ed emotiva, eppure al contempo talmente tangibile e verosimile da colpire allo stomaco coì come al cuore e al cervello.



Il suo fautore, Elem Klimov, è forse il cineasta più sottovalutato del suo tempo. Non perché non abbia ottenuto riconoscimenti quando era in vita o perché i suoi film siano stati stroncati dalla critica o ignorati dal pubblico, bensì perché, a differenza di altri illustri cineasti sovietici, non ha mai raggiunto lo status di artista venerato sul piano internazionale e, anzi, un culto del genere si è avviato spontaneamente solo negli ultimi anni, quando i cinefili più giovani ne hanno riscoperto le opere proprio grazie a "Va' e Vedi", il quale, a sua volta, è diventato finalmente una pellicola di culto oltre che riconosciuto per il suo indicibile valore.
Un film che lo ha segnato nel profondo, in tutti i sensi. Lui, bielorusso di nascita, che ha assistito a quelle stragi qui così fedelmente ricostruite, ha passato circa sette anni in quest'avventura umana e filmica; un primo tentativo di produzione viene avviato già a fine anni '70, ma questa si arena a causa delle difficoltà economiche. Solo nel 1983 Klimov e soci riesco a far partire la produzione vera e propria, la quale si conclude alla fine del 1985; il relativo sforzo viene coronato con la presentazione al Festival di Venezia nel 1986, nell'ambito di un progetto di presentazione di opere filmiche provenienti dall'Unione Sovietica, dove però non vince alcun premio.
Nonostante l'ottima accoglienza internazionale e un buon successo di pubblico, "Va' e Vedi" resterà il suo ultimo film. Ritiratosi dal ruolo di regista, Klimov passa gli anni successivi all'uscita del film ricoprendo il ruolo di primo segretario nell'Unione dei Cineasti Sovietici, garantendo visibilità a quegli autori precedentemente ostracizzati dal regime; si spegnerà nel 2003 senza aver mai preso parte a nessun altro progetto cinematografico e lasciando questo sua ultima opera come un vero e proprio testamento.




Non un semplice film di guerra; non ci sono battaglie combattute da soldati veri e propri, le loro tragedie o eroismi di sorta; e benché la spettacolarità non manchi, non si può davvero definirlo come un film spettacolare in senso stretto. Non siamo davanti ad una cronaca bellica stile "Il Grande Uno Rosso", né ad una riflessione esistenzialista incorporata in una visione grandiosa degli eventi stile "Apocalypse Now", tantomeno in un discorso retorico volto a celebrare chi ha combattuto e vinto la Seconda Guerra Mondiale come in "Salvate il Soldato Ryan". A Klimov tali risvolti non interessano e racconta piuttosto quello che è un vero e proprio romanzo di de-formazione, la storia di un ragazzo poco più che bambino la cui esistenza viene sconvolta dal contatto con l'orrore più puro e genuino. E con lui, anche noi che osserviamo il mondo tramite i suoi occhi riusciamo a scivolare verso quel luogo a metà strada tra la follia vera e propria e la desertificazione emotivo-mentale.




Non per nulla, la prima scena parla da sola: il protagonista Flyora (Aleksey Kavchenko) gioca assieme ad un compagno più piccolo, mimando una guerriglia, mentre cerca tra i resti di una battaglia un fucile che gli permetta di unirsi ai partigiani. Già qui la visione è chiara: la guerra vista da chi non vi ha preso parte è, appunto, un gioco o al massimo un'occasione potenziale per perpetrare eroismi.
La tragedia futura viene preconizzata dalla madre di Flyora, la quale tenta di dissuaderlo dall'unirsi ai combattimenti. Ma invano.
Arrivato al campo della resistenza bielorussa, il giovane comincia a toccare con mano la vita nelle foreste sovietiche, ma la sua visione gioiosa degli eventi è ancora di là dal cambiare, anche grazie all'incontro con la coetanea Glasha (Olga Mironova).




In questo secondo atto si assiste ad una sorta di maturazione sentimentale del protagonista, il cui contatto con la bellissima ragazza lo porta a virare la propria attenzione verso l'amore. Ma a Klimov non interessa creare un contrasto tra le gioie del primo amore e l'orrore della guerra, quindi inizia a già qui a distruggere il proprio protagonista: è con la scena del bombardamento e la sua conseguente sordità momentanea che Flyora inizia un'ideale discesa agli inferi, intercalata unicamente da un ultima visione di bellezza data dalla giovane compagna.



E' con il ritorno al villaggio natio che il suo stato mentale comincia a compromettersi. Il primo eccidio, mostrato solo di sfuggita, comporta una prima discesa verso la spirale della pazzia, simboleggiata dalla strozzatura nel pantano, nel quale porta con se anche Glasha. Il quale a sua volta prelude solo alla realizzazione piena degli eventi, con l'incontro con l'anziano del paese, bruciato vivo dai nazisti, il quale lo rimprovera di essere la causa della strage. Ed è qui che la metamorfosi del protagonista ha inizio: i capelli gli vengono tagliati e la sua espressione viene deformata in un silenzioso urlo di dolore.




Inizia così una digressione centrale nella quale Flyora segue lo "zio" Rubezh (Vladas Lagdonas) e altri due compagni alla ricerca di provviste per i sopravvissuti del villaggio. La quale si apre con la creazione dell'effige di Hitler, costruita unendo pezzi di fango ad un teschio umano. Questo manichino cadaverico, spettro del responsabile delle stragi, è in parte il fulcro tematico del film (come disvelato nel finale, tanto che il titolo di lavorazione del film era un "tarantiniano" "Uccidete Hitler", poi cambiato perché ritenuto di cattivo gusto): la responsabilità individuale che si fa collettiva; da un lato, quella del dittatore che da solo è riuscito ad annegare un intero continente nel sangue, dall'altra quella di chi poteva anche solo potenzialmente fermarlo, ma non ha mosso un dito.
Il fantoccio, ennesimo inserto grottesco che rende ancora più spiazzante la visione, viene portato con se dal gruppetto a mo' di arma per tendere imboscate ai convogli nemici, ma finisce letteralmente nel nulla, nella piena concretizzazione del leitmotiv secondo il quale nulla va come pianificato, tutti gli eventi finiscono per travolgere i personaggi, in un modo o nell'altro. Tanto che persino questa sortita si concluderà in un nulla di fatto, portando al terzo atto, vero e proprio centro nevralgico di tutta l'opera.



Il secondo massacro, che si consuma nel villaggio di Perekhody, contiene il cuore di tutta la riflessione di Klimov. Una sequenza tanto lunga quanto angosciante, nella quale la logica dello sterminio nazista trova una rappresentazione accurata e insostenibile. Comincia con gli invasori che si insinuano po' alla volta nelle case, con la paura di un semplice rastrellamento e la vana promessa di viveri e beni di prima necessità, per poi virare verso la strage. Il sadismo del genocidio prende le forme di una promessa di libertà: qualora i bambini vengano abbandonati al loro destino, gli adulti saranno liberi di salvarsi. 
Flyora, qui come non mai, si fa mero punto di vista, perde ogni sua connotazione caratteriale per divenire un membro anonimo di una massa e si salva per puro caso.
L'esito è scontato e sconcertante. Klimov sottolinea la mostruosità dell'atto facendo ricorso nuovamente al registro grottesco, inserendo i personaggi dei collaborazionisti bielorussi come veri e propri clown sadici e giustapponendo la spensieratezza dei soldati tedeschi al terrore assoluto dei contadini. E usando come simbolo della serenità degli assalitori la visione di una bellissima donna che si gode lo spettacolo degustando un astice e quella di un ufficiale che conduce il tutto con freddezza mentre accarezza una scimmietta sulla sua spalla.



Ed è nell'ultima sequenza che la visione di Klimov si disvela in tutta la sua crudeltà. Braccati dai partigiani e dall'Armata Rossa, i responsabili dell'eccidio si ritrovano nei panni delle vittime. Le prime immagini sono anche le più forti: l'ufficiale donna giace agonizzante, Flyora  le si avvicina e raccoglie delle garze che però usa per riparare il calcio del suo fucile, il quale si era roto in precedenza; una donna, anch'ella sopravvissuta a stento al massacro del villaggio e violentata dai nazisti, arriva sul luogo in stato confusionale e il protagonista, guardandola, esclama le frasi che gli erano state dette da Glasha, come a testimoniare l'impossibilità di trovare effettiva felicità in un contesto del genere e a tracciare un ideale parallelo con la ragazza, la quale potrebbe aver subito il medesimo destino, solo a pochi kilometri di distanza.



Lo sterminio dei nazisti crea un'ideale contrappasso. L'intento di Klimov è quello di condannare le stragi naziste e la loro bieca ideologia suprematista, ma con la messa in scena della loro carneficina riesce lo stesso a creare una condanna universale alla guerra e alla violenza dell'uomo: non c'è differenza tra invasori e invasi, durante un conflitto tutti sono chiamati a compiere atti disumani.
E la metamorfosi di Flyora giunge a conclusione: non più ragazzo, né più uomo, è ora un vecchio nel corpo di un giovane, dallo sguardo perso nella perenne contemplazione del male assoluto. E la galleria di orrori non trova una conclusione, con quella marcia nella quale lui si confonde tra gli altri combattenti che può preludere a nuove mostruosità.



Klimov immerge tutte le immagini in colori lividi, i colori dell'inverno bielorusso; ma il realismo delle pure immagini viene giustapposto ad una colonna sonora cacofonica che ricrea il caos interiore del protagonista; l'esito è tanto verosimile quanto soggettivo: quella ritratta è la realtà filtrata dalla coscienza, un riflesso interiore che ne è amplificazione iperbolica che riesce a penetrare sino al cuore dello spettatore per distruggerlo, annullando ogni barriera tra la percezione e il fatto percepito, disintegrando ogni possibile alone fittizio delle immagini.
E l'atmosfera violenta non viene acuita dagli inserti bizzarri, i quali non stemperano l'indole plumbea delle situazioni, finendo anzi per amplificarla.



Lo stile di regia è tanto secco quanto virtuoso. L'uso insistito dello sguardo in macchina, che in teoria dovrebbe disvelare l'artificiosità della messa in scena, finisce invece per conferirle una veridicità maggiore, accentuata dall'uso della macchina da presa ad altezza uomo, perennemente montata su supporto steady, che insegue i personaggi e fissa gli eventi anche con panoramiche precise e che si ritrova a sollevarsi da terra solo quando riprende la soggettiva del bombardiere nei primissimi minuti, unica concessione ad una visione non-umana sulla storia.
Il virtuosismo vero e proprio trova spazio unicamente nella scena del furto della mucca, dove la ripresa, quasi in piano sequenza, passa repentinamente dall'essere una soggettiva ad un'oggettiva e viceversa; mentre l'uso dell'effetto vertigo viene sovvertito: anzicchè creare una distorsione volta a sottolineare lo straniamento dei personaggi, viene usato per rendere più plastica le immagini nelle quali i partigiani scattano delle foto ricordo, enfatizzandone la staticità.
"Va' e Vedi" riesce così ad essere tanto feroce quanto incredibilmente bello.




E come tutte le migliori opere d'arte, la sua profondità non è ostica, non cerca di alienare lo spettatore usando un linguaggio fine a sé stesso. Tutt'altro, Klimov cerca e riesce sempre ad intraprendere un dialogo con chi osserva il film, finendo per incollarlo alle sue immagini per tutti i suoi 142 minuti. E se è davvero difficile ragionare per assoluti, non si può negare come in un'ideale classifica dei migliori film di guerra mai fatti, "Va' e Vedi" potrebbe troneggiare. Ma il suo valore non si limita a quello di semplice opera filmica, divenendo qualcosa di più grande e importante.

lunedì 23 gennaio 2023

First Man- Il Primo Uomo

First Man
 
di Damien Chazelle.

con: Ryan Gosling, Claire Foy, Kyle Chandler, Jason Clarke, Corey Stoll, Patrick Fugit, Ciaràn Hinds, Pablo Schreiber, Olivia Hamilton, Shea Wigham, Lukas Hass.

Biografico

Usa, Giappone, Cina 2018
















Il ritratto passato alla Storia di Neil Armstrong è quello di un uomo del tutto distaccato dalle passioni, uno scienziato stoico fino alla freddezza più totale, tanto che Oriana Fallaci, inviata a Houston durante l'operazione Apollo 11, lo descrisse come un vero e proprio "robot". Non c'è da stupirsi, dunque, che il volto più famoso della conquista della luna sia divenuto il ben più affabile Edwin "Buzz" Aldrin. Ma questa sua freddezza era innata?
Al suo terzo film, Damien Chazelle porta su schermo il libro omonimo di James R.Hanse e per la prima volta lascia scrivere la sceneggiatura ad un terzo (Josh Singer, affermatosi anche grazie a "Il Caso Spotlight" e "The Post") cercando di indagare la figura di Armstrong sul piano strettamente umano e finendo per creare il suo miglior film.




Neil Armstrong è un uomo letteralmente inseguito dalla morte. In primis quella della figlioletta, scomparsa a pochi anni di vita a causa di un tumore; poi quella dei colleghi morti durante i test della missione Apollo; non da ultima, la sua stessa morte, sfiorata durante il collaudo del veicolo lunare.
Nella visione di Chazelle, Armstrong usa il distacco emotivo come meccanismo di elaborazione del lutto, per non annegare nel dolore di una perdita devastante che lo avrebbe compromesso a vita. Da cui la lontananza emotiva verso i colleghi e gli amici, ma anche verso quella moglie e quei figli che quasi non saluta prima di partire per la luna.
Una lettura vincente e interessante, graziata anche dalla scelta di Ryan Gosling come protagonista, la cui abituale calcolata inespressività si sposa alla perfezione con la caratterizzazione. E che ben si integra in un cast composto da alcuni dei migliori caratteristi odierni.




"First Man" è poi anche una perfetta cronaca della missione lunare, dagli inizi del Progetto Gemini sino al ritorno sulla Terra. L'occhio di Chazelle è quasi clinico nel ritrarre l'evoluzione della corsa alla luna, i test fisici e meccanici e la stessa missione Apollo 11. Le fasi dell'allunaggio, ricostruite con dovizia di particolari, vengono magnificamente enfatizzate dall'uso del freeze-frame quando il modulo lunare tocca il suolo per la prima volta, mentre il primo passo viene descritto in modo più diretto, ma non meno emozionante. Tanto che l'unico difetto della messa in scena è dato da un uso della camera a mano talvolta troppo caotico, non aiutato dalla scelta di usare per lo più inquadrature molto strette per aumentare il coinvolgimento emotivo.




Vincente è anche l'idea di portare in scena tutte le sequenze più spettacolari usando esclusivamente il punto di vista dei personaggi, restando sempre all'interno dell'abitacolo dei veicoli, usando come finestra sugli eventi solo i piccoli oblò; il che riesce a rendere perfettamente giustizia agli eventi anche grazie ad un ottimo sound design.
E ottima è anche la scelta di lasciare la descrizione della società americana ai margini, isolandola in sequenze piccole ma efficaci, che descrivono in modo diretto lo scetticismo del pubblico verso una conquista valutata come inutile (a far specie, su tutte, le vere dichiarazioni di Kurt Vonnegut, fortemente contrariato dal fatto che lo stato americano investisse tanti soldi a fronte di una forte crisi urbanistica in corso e del tutto ignorata), solo per poi trasformarsi in trascinante entusiasmo durante i momenti clou della missione.




Forte di uno script azzeccato e di una messa in scena di ottimo livello, "First Man" è ad oggi il miglior esito del cinema di Chazelle, la prova di quel suo talento tanto sbandierato e che qui trova piena e completa espressione per la prima volta.

martedì 17 gennaio 2023

L'Ultima Salomè

Salome's Last Dance

di Ken Russell.

con: Glenda Jackson, Imogen Millais-Scott, Stratford Johns, Nickolas Grace, Douglas Hodge, Denis Lill, David Doyle, Russell Lee Nash, Mike Edmonds, Ken Russell.

Regno Unito, Usa 1988














Scritta nel 1891, la "Salomè" di Oscar Wilde potrebbe davvero essere definita come la sua "opera maledetta", non solo per i suoi contenuti o la rilettura che da della famosa vicenda biblica per sé, quanto per lo scandalo che ne accompagnò la creazione. Censurata dal ciambellano inglese, poiché all'epoca era vietato portare in scena rappresentazioni della Bibbia, trova una prima messa in scena solo a Parigi e solo nel 1896, scatenando le ire dell'autore.
Non che il contenuto sia meno scandaloso, ovviamente. Tanto che, a posteriori, sembra ovvia che a portarlo al cinema nella sua versione più celebre ci abbia pensato Ken Russell, il quale, nel 1988, si riunisce con Glenda Jackson e crea un adattamento barocco e postmoderno, che traduce in immagini sfarzose e kitsch le parole di Wilde.




Il 5 Novembre 1892, Oscar Wilde (Nickolas Grace) viene invitato ad una rappresentazione segreta della sua "Salomè" presso il postribolo dell'amico Alfred Taylor (Stratford Johns). A vestire i panni della protagonista c'è la giovane servetta Rose (Imogen Millais-Scott), mentre in quelli del Battista il compagno di Wilde, Alfred "Bosey" Douglas (Douglas Hodge).




Russell si inginocchia davanti a Wilde e mette al suo servizio tutta la sua carica visionaria. Fonde la messa in scena teatrale con quella filmica, come avrebbe fatto anche Peter Greenway giusto un anno dopo con "Il Cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante", ma lascia che anche il confine tra la recita dei personaggi e la pièce che portano in scena sfumi poco alla volta, sino ad un finale beffardo.
Il suo occhio si concentra sulla costruzione pittorica dell'inquadratura, che così diventa un vero e proprio quadro in movimento, trabordante dettagli, enfatizzando i corpi degli attori nella loro statuarietà, nel loro intrinseco erotismo.




Non a caso, gli schiavi hanno le forme di bellissime donne dalle curve sensuali che completano ogni fotogramma con i loro seni nudi (tra le quali troviamo anche Linzi Drew, che dopo un paio di collaborazioni con Russell sarebbe diventata una pornostar di successo), così come i soldati hanno un corpo da bodybuilder (uno dei due principali è persino interpretato dal famoso modello Michael Van Wijk, all'epoca immagine barbarica per antonomasia nelle reclame pubblicitarie). E tutti i personaggi sfoggiano costumi volutamente fantastici, che sembrano usciti da un numero di "Métal Hurlant", rendendo questa rappresentazione quasi un episodio perduto di "Fellini Satyricon". L'effetto è semplicemente ammaliante e si sposa alla perfezione con l'opera originale.




La "Salomè" di Wilde è una rilettura decadente dell'episodio biblico. Una storia di lussuria sfrenata, tale da guidare le azioni di tutti i personaggi; c'è ovviamente la lussuria di Erode e di Erodiade, qui ritratta come una donna libidinosa quanto il compagno, per di più invidiosa delle sue attenzioni verso la figlia. Ma è soprattutto la lussuria di Salomè a guidare il tutto; lei, solitamente ritratta come un mezzo per la morte di Giovanni Battista, qui ne diviene la carnefice, spinta com'è dalla rabbia per non essere riuscita a concupirlo.
La lussuria come forza motrice degli uomini che Russell estende anche a Wilde, qui ritratto come un dandy libidinoso, perso nella contemplazione del corpo del nuovo valletto, il quale per finisce per causare le ire di Bosey con conseguenze tanto disastrose quanto ilari; e che Russell ritrae magnificamente alternando il corpo di Imogen Millais-Scott a quello di un ballerino maschio durante la rappresentazione della celebre danza dei sette veli.




Estensione che in realtà crea una compattezza tematica tangibile. Tanto che "L'Ultima Salomè" è a conti fatti uno degli esiti migliori di tutto il cinema di Ken Russell, un omaggio intelligente e lussuoso, ma mai tronfio o compiaciuto.

lunedì 16 gennaio 2023

R.I.P. Gina Lollobrigida

 

1927 - 2023

Resterà per sempre famosa come "La Diva" del cinema italiano del Secondo Dopoguerra, grazie a quella sua sensualità verace e innata. Gina Lollobrigida ha incarnato perfettamente i canoni estetici di una nazione, ma è riuscita altresì a dare interpretazioni efficaci in classici come  "Achtung! Bandit!", "Torna a Settembre" e "Le Avventure di Pinocchio".

venerdì 13 gennaio 2023

The Pale Blue Eye- I Delitti di West Point

The Pale Blue Eye

di Scott Cooper.

con: Christian Bale, Harry Melling, Lucy Boynton, Simon McBurney, Toby Jones, Timothy Spall, Gillian Anderson, Harry Lawtey, Charlotte Gainsbourg, Robert Duvall, Hadley Robinson.

Thriller

Usa 2022












Se fosse uscito qualche anno fa, "The Pale Blue Eye" sarebbe stato il classico esempio di "bel film", quelle pellicole che pur non eccellendo in nulla, riescono lo stesso a conquistare il pubblico e persino la critica, configurandosi come una piacevole visione stagionale. E' un peccato che film del genere oramai non vadano più nelle sale, le quali sono dedicate esclusivamente ai blockbuster e a qualche pellicola d'autore pluripremiata, lasciando fuori onesti prodotti artigianali come questo. Perché Scott Cooper non sarà di certo un grande artista e questo suo omaggio a Edgar Allan Poe ha qualche sbavatura imperdonabile, ma nel complesso funziona davvero a dovere.



1830. All'accademia di West Point viene ritrovato il cadavere di un giovane cadetto, apparentemente suicida. Per investigare viene chiamato, in via ufficiosa, l'ex poliziotto Augustus Landor (Christian Bale), il quale viene presto affiancato da una giovane recluta affascinata dal caso: Edgar Allan Poe (Harry Melling).



L'idea alla base è semplice e interessante, quella di uno scrittore che si ritrova letteralmente catapultato in una delle sue opere, come già fatto da Wim Wenders e Francis Ford Coppola con Dashiell Hammett in "Hammett- Indagine a Chinatown" nel 1982. In questo caso lo script è basato sul romanzo omonimo di Louis Bayard del 2003 e prende le mosse dal punto di vista di un personaggio immaginario piuttosto che da quello del protagonista effettivo.
L'amore per l'opera di Poe è palpabile e perfettamente ricreato dall'atmosfera della messa in scena, senza mai scadere nello scolastico, lasciando sempre che sia il racconto a dettare tempi e tematiche; tanto che persino l'obbligatoria citazione de "Il Corvo" viene isolata in pochi fotogrammi.
Quella di "The Pale Blue Eye" è una storia alla Poe al 100%, in cui i personaggi sono mossi dalla paura della morte; fobia che si fa fascinazione sia per loro, sia per chi racconta. Su di tutto, aleggia l'ombra del sovrannaturale, evocato ma mai mostrato, una presenza fantasma che porta suggestioni oltremondane talvolta tangibili, ma sempre sfumate, contribuendo alla creazione di un'atmosfera affascinante.



Il mistero ha una costruzione classica e una risoluzione di certo non originale, ma lo stesso accattivante. A tenere lo spettacolo ci pensa in primis il cast, con un Christian Bale al solito in parte e Harry Melling che ritrae un Poe giovane ma già nel pieno della tempesta emotiva, enfatizzandone l'eccentricità e riuscendo al contempo a renderlo empatico. Robert Duvall concede un piccolo cameo, Gillian Anderson funziona anche se alle prese con un personaggio caricaturale; l'unica attrice ad essere in ombra è Charlotte Gainsourg, sprecata in un ruolo del tutto marginale che non le consente di brillare quanto avrebbe potuto.



La messa in scena del mestierante Cooper funziona, pur se priva di guizzi, ma trova una caduta di stile clamorosa nella scena del suicidio, che ben potrebbe indurre al riso. Per il resto, riesce a convincere, anche perché si affida quasi totalmente alla bella fotografia e alle note sempre ottime di Howard Shore.
"The Pale Blue Eye" riesce così a convincere e ad intrattenere a dovere. Un exploit di certo non memorabile, ma altrettanto certamente ben confezionato ed eseguito.

giovedì 12 gennaio 2023

BARDO, la cronaca falsa di alcune verità

Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades

di Alejandro Gonzalez Iñàrritu.

con: Daniel Giménez Cacho, Griselda Siciliani, Ximena Lamadrid, Iker Solano, Louis Couturier, Andrés Almeida, Clementina Guadarrama.

Messico 2022

















Iñàrritu è un cineasta dal grande talento e purtroppo ne è pienamente cosciente. Come tutti gli artisti sicuri della propria arte, era solo una questione di tempo prima che commettesse un passo falso. E quando ha cercato di vendere "The Revenant", vero e proprio "spaghetti-western d'autore" come un film "talmente bello che le sue immagini andrebbero proiettate in un tempio", era chiaro che il suo prossimo film sarebbe sicuramente stato un'opera il cui compiacimento sarebbe stato estremo.
In questo, il regista messicano non ha sbagliato e "Bardo" è il suo film più compiaciuto, più innamorato di sé, talmente fiero della sua bellezza da far saltare i nervi ad ogni inquadratura. Peccato che se ne siano accorti tutti, ecco perché le stroncature alla sua presentazione a Venezia. E peccato, soprattutto, che spesso quelle immagini siano pura masturbazione d'autore.



"Bardo" è una confessione, il punto fermo di un autore che cerca di dare un senso alla sua carriera fondendo ricordi, emozioni, sensazioni e pensieri vari. I paragoni con lo zibaldone di "8 1/2" non sono mancati e si potrebbe vedere nel capolavoro di Fellini un ideale punto di riferimento, ma Iñàrritu non ha la grazia del compianto maestro riminese, tantomeno la sua leggerezza, men che meno la sua profondità, neanche quella meramente stilistico-estetica.
Nel portare in scena il caos mentale ed emotivo del suo alter ego Silverio (Daniel Giménez Cacho), si ferma sempre, prepotentemente sulla superficie delle cose, senza mai cercare di dare davvero un significato alle immagini che non sia un puro ludibrio visivo. Il che raggiunge l'apice nella lunga sequenza dedicata al destino dei discendenti degli indigeni del Messico e del confronto con la figura di Cortez da parte di un uomo che è "più bianco dei bianchi" e che deve praticamente tutto al massacro perpetrato secoli addietro dai coloni spagnoli. L'incipit è scioccante e quando si arriva ad un tête à tête tra i personaggi, si sconfina subito in una suggestione meramente estetica che porta la narrazione a vivere verso un'inutile metareferenzialità.




Ma questo è solo uno dei tanti passi falsi commessi nel racconto. Il dualismo ideologico verso gli Stati Uniti, odiati in quanto colonizzatori culturali, adorati in quanto fonte di riconoscimenti artistici, viene  rievocato più volte, ma non si giunge mai ad un giudizio in merito, né questa mancanza di giudizio assurge mai ad elemento intellettuale forte, facendo restare la questione del tutto sospesa. Allo stesso modo, la figura di Slivano, borghese dalle idee rivoluzionarie, resta sempre nel limbo dell'indecisione ideologica, venendo a tratti caricata di attributi negativi (la scena dell'ingresso in spiaggia vietato alla servitù), talvolta ritratto come vittima (la scena ad essa speculare, dell'ingresso negli Stati Uniti, dove non gli viene formalmente riconosciuta la cittadinanza da parte di una guardia di etnia nativo-messicana).
Quando poi si decide di dare una catarsi nel rapporto tra personaggi, questo scivola talvolta verso il ridicolo, come nella scena dell'incontro tra il protagonista e il padre, in teoria commovente, nei fatti ridicola a causa dell'insensata decisione di ritrarlo come uno sgorbio in CGI; talatra, invece, si resta nuovamente sulla superficie, come nel rapporto con i figli, soprattutto con quello mai nato.




Laddove il bardo del titolo è un riferimento alla via di mezzo tra la vita e la morte secondo il buddhismo, "Bardo" più che un compromesso è un urlo a squarciagola, la statuizione di grandezza di un autore la quale risuona vacua e compiaciuta, come nella scena madre in cui Silvano balla su note che solo lui sente. Questo è alla fine il lavoro e la posizione di Iñàrritu, quella di un artista che non accetta compromessi di sorta, tira avanti per la sua strada e finisce per perdere di vista tutto, alienando ogni possibile empatia (sia verso la forma che la sostanza), firmando il suo peggior film.

lunedì 9 gennaio 2023

The Fabelmans

di Steven Spielberg.

con: Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano, Judd Hirsch, Seth Rogen, Keeley Karsten, Julia Butters, Chloe East, Sam Rechner, Oakes Fegley, Isabelle Kusman, David Lynch.

Usa 2022


















---CONTIENE SPOILER---

Forse per un autore, quando si arriva ad una certa età, diventa obbligatorio confrontarsi con il passato, con gli anni formativi, con la pre e post adolescenza per capire o anche solo illustrare quel momento che ne ha deciso il destino, fare un amarcord di ciò che fu per capire ciò che si è. E Steven Spielberg, a 76 anni, decide di dare forma filmica al ricordo, portare su schermo una rielaborazione del passato per illustrare al pubblico ciò che fu per lui. E ben avrebbe potuto fare una "tornatorata", idealizzarne tutti gli aspetti in modo ruffiano, dando come sempre al pubblico ciò che vuole. Invece, miracolosamente, fa l'esatto opposto e crea un ritratto drammatico e umano di un'esperienza personale forse mai davvero digerita.



Nel cinema di Spielberg, la famiglia è sempre stata un rifugio amorevole, un nido da proteggere e nel quale ritrovare conforto e amore nonostante tutti i mali presenti nel mondo (l'unica eccezione in tal senso è stata data in "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo", restando per di più una pura parentesi per oltre quarant'anni). In "The Fabelmans" la famiglia è invece un crogiolo di dolore, tenuta in piedi dall'abitudine, il compromesso e la menzogna vera e propria Il tutto a causa delle figure femminili (e in questo Spielberg va in controtendenza rispetto al cinema woke odierno che vuole la donna ferma nella dicotomia vittima/guerriera); la prima figura negativa introdotta è quella della nonna paterna, vera e propria "matrigna ebrea" che si compiace di insultare chiunque le capiti a tiro per sentirsi superiore a tutti.
Il vero perno del dolore, il fulcro sul quale poggia la futura disgregazione, è però la madre, vista come donna passionale e talentuosa, ma al contempo egoista e umorale. Quello di Mitzi Fabelman è il personaggio più antipatico mai apparso nella filmografia spielberghiana e ben potrebbe rientrare in un'ideale top 10 dei personaggi più sgradevoli mai apparsi su schermo. E' una donna che ha a cuore solo il suo benessere, pur volendo ricoprire il ruolo di madre di famiglia, che non si cura di come la sua relazione extraconiugale possa influire sul marito e i figli e che ha un vero e proprio crollo psicologico quando non può più soddisfarla. E a Spielberg non interessa riconciliarsi con questa figura materna immatura e scomoda: persino quando potrebbe perdonarla, si limita ad accettarla, al massimo a sottolineare come il suo carattere egocentrico sia simile a quello del suo alter-ego filmico, il protagonista Sammy. E la scelta di far interpretare questa donna orrenda nella bellezza a Michelle Williams risulta vincente, poiché riesce incarnarne perfettamente l'indole bambinesca e i manierismi ai limiti dello snob.




Questa descrizione disincantata della famiglia come menzogna collettiva accettata per puro quieto vivere, per quanto acida, risulta più sincera di quanto Spielberg abbia fatto in proposito in tutta la sua carriera e "The Fabelmans" diventa di conseguenza il suo film più schietto (anche se il più sentito resterà forse per sempre "Schindler's List").
Dall'altra parte c'è lui, Sammy, il vero centro della narrazione, alter-ego di Spielberg con il quale rievoca la nascita della passione per il cinema, quello shock dopo la visione de "Il più grande spettacolo del mondo", quel treno che deraglia ricostruito ossessivamente con i giocattoli, preludio ai filmini amatoriali con i quali affinerà sia la passione che la tecnica. La quale culmina con le riprese di "Escape to Nowhere", quel piccolo corto più volte citato dall'autore dietro le quinte di "Salvate il Soldato Ryan" del quale potrebbe quasi inteso come una precoce prova generale e le cui riprese vengono qui rievocate in modo simpatico, con la vera macchina da presa che crea un movimento impossibile per i mezzi che aveva all'epoca.



"The Fabelsman" diventa così uno spaccato sito nel mezzo della ardua realtà e della passione escapista, rifuggendo definitivamente da quell'idealizzazione falsa e ricattatoria di tante operazioni simili e già questo da solo ne sancirebbe l'ottimo valore. Ma Spielberg riesce persino ad andare oltre.
Nella terza parte del racconto, porta in scena il trasferimento in California e quando sembra che tutto debba scadere nell'ovvio, con il piccolo ebreo Sammy picchiato dai bulli antisemiti, la sorpresa è dietro l'angolo: la creazione del filmino per le vacanze estive della classe è l'occasione che porta l'autore a riflettere, praticamente per la prima volta nella sua carriera, sulla forza manipolativa del cinema. Quei personaggi così antipatici al di fuori e così fragili all'interno divengono, nell'occhio del protagonista, degli eroi olimpici, con il bullo Logan trasformato in un eroe mitico, mentre il giovane psicopatico Chad viene disvelato per la creatura infelice che è. Il che porta Logan ad una crisi, ad affrontare i suoi limiti in una confessione tanto violenta quanto catartica, forse il vero punto nevralgico del film: proprio come lui, è lo stesso Spielberg ad affrontare i suoi demoni riguardandoli su schermo, con il segreto del tradimento della madre a sua detta portato in silenzio per anni.



E poi c'è ovviamente quel finale già diventato di culto: John Ford appare all'aspirante filmmaker e rievoca il suo famoso discorso sull'importanza dello spazio nell'inquadratura. E far interpretare il regista americano più importante di sempre (secondo forse solo a David Wark Griffith) a David Lynch, ossia uno dei più grandi artisti viventi, è semplicemente un colpo di genio prima ancora che un accorato omaggio alla bellezza del cinema.



"The Fabelmans" trova così il suo valore nell'anticonvenzionalità della storia, nella sua volontà di rievocare il passato senza abbellirlo e anzi volendolo affrontare a viso aperto. Non il film migliore di Spilberg in assoluto, né il capolavoro che molti decantano, ma sicuramente un'opera sincera e forte e per questa tra le migliori della sua lunga carriera.

venerdì 6 gennaio 2023

Glass Onion- Knives Out

Glass Onion- A Knives Out Mistery

di Rian Johnson.

con: Daniel Craig, Edward Norton, Janelle Monàe, Kathryn Hahn, Dave Bautista, Kate Hudson, Leslie Odom Jr., Madelyn Cline, Jessica Henwick, Noahn Segan.

Commedia/Mystery

Usa 2022














Nonostante sia stato silurato dal franchise di "Star Wars" tramite un vero e proprio plebiscito (e a torto), Rian Johnson può ben consolarsi con un'altra serie di successo, ossia quella di "Knives Out", che sembra davvero lanciata verso la continuità. Nata come decostruzione del murder-mystery classico con il bel primo capitolo, con "Glass Onion" trova una sorta di variazione interna che la trasforma ora in un omaggio accorato al "genere" che al contempo vuole svecchiarlo senza però disconoscerne la tradizione.



Torna il whuddonnit, con un mistero vero e proprio riguardante il colpevole dell'omicidio di turno; una formula in parte più classica, per quanto classico possa essere un film di Rian Johnson; ecco perché tra i tanti camei extralusso compare anche quello della compianta Angela Lansbury.
Ma con la stessa velocità con cui il classicismo viene introdotto, viene al contempo aggiornato alla modernità. Al film interessa più che altro la descrizione del cast di idioti che forma il circolo di amici del riccastro Miles Bron (Norton), tutti incarnanti aspetti vomitevoli dei cosiddetti "ricchi moderni": c'è ovviamente la senatrice ecologista d'accatto (Kathryn Hahn), uno scienziato edonista e superstar (Leslie Odom Jr.), una vera e propria influencer idiota (Kate Hudson) il cui ideale opposto è lo youtuber sciovinista cretino e mammone (Dave Bautista) accompagnato dalla moglie-pupa (Madelyn Cline), oltre all'elemento di disturbo, dell'ex socia tradita e scaricata (Janelle Monàe), unico elemento di empatia e sottostante bontà del gruppo. Il tutto coronato da lui, l'ormai mitico Benoit Blanc (Daniel Craig), gustosissima parodia dell'investigatore geniale.



Johnson passa al tritacarne questo cast di odiosi arrivisti, ma ovviamente a fare la figura peggiore è l'anfitrione, un riccone buono a nulla che si scopre essersi arricchito con l'inganno, archetipo sin troppo veritiero, tanto che ha dovuto specificare come in realtà non sia ispirato a nessuno, ma è davvero difficile non vederci la spregiudicatezza di Mark Zuckenberg o la sbruffonaggine idiota di Elon Musk. Il suo intento in fondo è tutto qui, ossia quello di distruggere questi personaggetti, queste macchiette dall'umanità fin troppo vivida, così caricaturali eppure al contempo così dannatamente veritieri. E ci riesce in pieno, visto che gli si riesce ad odiare nonostante abbiano il volto di ottimi e stimati attori.



Il mistero, a sua volta, regge bene, nonostante il colpevole sia anche in parte intuibile, anche grazie alla costruzione della storia, fatta di strati sempre più complessi, come la cipolla del titolo. Ciò che conta è comunque la risoluzione, il movente e ovviamente la punizione, quello sfanculamento urlato a squarciagola e quantomai meritato.
Per questo, sia come seguito che come mystery preso a sé stante, "Glass Onion" funziona a dovere e si spera davvero che la serie di "Knives Out" possa regalare ulteriori capitoli di questo livello.