mercoledì 31 maggio 2023

Renfield

 

di Chris McKay.

con: Nicholas Hoult, Awkwafina, Nicolas Cage, Ben Scwartz, Shoreh Aghdashloo, Brandon Scott Jones, Camille Chen, Bess Rous.

Commedia/Fantastico/Splatter

Usa 2023
















Bisogna essere onesti: l'unico vero motivo di interesse verso un film come "Renfield" è la presenza di Nicolas Cage nei panni di un Dracula istrionico e per questo irresistibile; proprio lui che a inizio carriera era affetto da "Stress da Vampiro" e che pare abbia più volte esternato la sua voglia di interpretare il vampiro più famoso del mondo.
Certo, l'aver capovolto la storia originale di Bram Stoker come riletta nel classico della Universal del 1931 per crearne un sequel dal punto di vista dello "schiavetto" del Conte è un'idea intrigante, così come lo è il fatto che il tono sia stato virato verso la commedia. Ma su tutto è la presenza di Cage ad incuriosire e a rappresentare il vero traino per la visione. E il buon Nic, come sempre, non delude le aspettative.



Questo perché lo script, pur basato su di un vecchio soggetto di Robert Kirkman, ripropone tutti i cliché del caso: una voce narrante del protagonista che spiega fatti e situazioni, con tanto di flashback che iniziano troppo presto, la prefigurazione della risoluzione del terzo atto già nel primo, un poliziotto (questa volta donna) forte e incorruttibile a sua volta figlio del miglior agente che ci sia mai stato e l'immancabile momento di crisi per l'eroe, tutte le possibili forzature necessarie a far svolgere la storia e senza contare come l'umorismo talvolta appare castigato, rinunciando alla cattiveria in situazioni dove un pizzico in più avrebbe reso le battute memorabili. Persino l'idea di rileggere la relazione tra il Principe della Notte e il suo famiglio come manipolazione tossica non è più di tanto originale, visti i tempi che corrono.




A rendere  "Renfield" simpatico e godibile ci pensa così soprattutto il cast. E se Nicholas Hoult e Awkwafina ci mettono il massimo, non sono nulla in confronto ad un Cage scatenato, che riprende direttamente il modello di Bela Lugosi e lo trasforma in una perfetta parodia e prima ancora in una maschera demoniaca che se purgata dai risvolti ironici, ben avrebbe potuto funzionare in una rilettura seria. Dracula è qui magnetico ed elegante, ma anche violento e rivoltante, un mostro fatto e finito travestito da gentiluomo, piuttosto che un gentiluomo con una natura infernale. A renderlo del tutto irresistibile sono poi le sue impagabili faccette, le mossette teatrali, la cadenza gigionesca con cui snocciola le battute e il gusto per l'overacting qui quanto mai sublime.



In cabina di regia, McKay prende la sfavillante energia del suo villain e la immerge in un perfetto contesto cinefilo, rifacendo con il suo cast alcune delle scene più celebri del classico di Tod Browning e immergendo gli interni nei cromatismi gotici classici, virati anche ad un più moderno neon, ma dimostra di non avere più di tanto gusto per l'azione, facendo spesso ricorso all'otturatore semichiuso per incrementare artificialmente il ritmo delle singole inquadrature, con ovvi risultati confusionari.




"Renfield" riesce così ad intrattenere a dovere, ma mai a stupire o coinvolgere, neanche grazie all'umorismo, composto da battute e gag alla fin fine dimenticabili. Quel che resterà impresso nella memoria sarà sicuramente Cage, come ovvio.

venerdì 26 maggio 2023

Bones and All

di Luca Guadagnino.

con: Taylor Russell, Timothée Chalamet, Mark Rylance, Anna Cobb, Michael Stuhlbarg, André Holland, Kendle Coffey, Ellie Parker, Madeline Hall, Christine Dye, Sean Bridges, Anna Hall, Jessica Harper, Chloe Sevigny.

Italia, Usa 2022


















Luca Guadagnino è certamente uno dei cineasti italiani più apprezzati al mondo, oltre ad essere praticamente l'unico ad aver trovato terreno fertile a Hollywood (dove persino il pur ben accolto Stefano Sollima sembra aver trovato meno spazio). Eppure, quanti suoi film sono davvero memorabili?
Al di là del successo commerciale e di critica, "Suspiria" e "Chiamami col tuo nome" non sono certo pellicole riuscite. Se poi si trona ancora più indietro, a "Melissa P." e "A Bigger Splash", le cose peggiorano sensibilmente.
Non c'era quindi un vero motivo per aspettarsi di meglio da "Bones and All"; eppure, dinanzi alle sue immagini, si resta piacevolmente colpiti e a visione finita ci si accorge di come Guadagnino abbia finalmente trovato un suo equilibrio e creato un'opera riuscita.




Stati Uniti, anni '80. Maren (Taylor Russell) è una diciottenne che (ri)scopre di appartenere ad una genia di cannibali. Abbandonata dal padre, parte alla ricerca della madre, che l'aveva abbandonata subito dopo la nascita. Attraversando l'America incontra due suoi simili, l'anziano Sullivan (Mark Rylance) e il giovane e solo apparentemente scapestrato Lee (Timothée Chalamet).




Non un horror, neanche nella sua eccezione "elevated", "Bones and All" usa lo spunto orrorifico come metafora pura e semplice; anzi, quando decide di sconfinare nel "genere" (in particolare nel climax), Guadagnino si dimostra al solito incapace di costruire la giusta tensione, anche solo drammatica, per rendere le scene davvero tese.
Il suo sguardo è invece rivolto a questo pugno di bizzarri personaggi dalla natura mostruosa, ma al contempo dall'indole sin troppo umana.
Come i vampiri di Anne Rice, vivono ai margini del mondo, relegati per di più non in attici di lusso o agghindati in abiti firmati, ma nel limbo del sottoproletariato spiantato; come gli immortali di "Highlander" percepiscono la presenza dei loro simili a breve distanza, riuscendo così a riconoscersi facilmente. E come i primi e a differenza dei secondi, lottano disperatamente per conquistare dei legami affettivi, primo passo per trovare il loro posto in un mondo freddo.




Per i tre personaggi tutto ruota attorno al concetto di appartenenza e, in senso lato, di famiglia. Maren viene abbandonata dal padre e comincia il suo peregrinare per trovare una nuova famiglia, solo per poi scoprire come la madre non possa acoglierla (trovandola con le braccia mozzate, dimostrazione fisica di tale incapacità). Sullivan vuole avere un rapporto affettivo, una forma di condivisione delle esperienze, in modo talmente disperato che parla di se in terza persona per combattere la solitudine. Lee, da ultimo, va e viene dalla famiglia di origine e trova in Maren il primo passo verso la creazione di un proprio nucleo.
Famiglia come condizione necessaria per l'uomo e appartanenza come bisogno primario. Non per nulla, quando Maren scopre che nel "gruppo" di cannibali è entrato un estraneo, si sente minacciata e quando scopre, ancora, che una delle sue vittime aveva moglie e figlio, ha una forte crisi interiore, realizzando come abbia spezzato quel legame che lei tanto ricerca.
Il cannibalismo diventa così sublimazione di quel necessario rapporto affettivo, tanto che nel finale la consumazione diventa rito propiziatorio, suggellazione di un legame umano e amoroso. E Guadagnino, suo malgrado, ha dovuto spiegare più volte come tale metafora non sia in realtà ispirata ad Arnie Hammer e al bizzarro caso che ne ha disintegrato la carriera.




Guadagnino dirige bene il racconto, usando uno stile asciutto, con alcune trovate interessanti solo in fase di montaggio, con gli attacchi sull'asse reminiscenti di qualche visione kubrickiana; per il resto opera di sottrazione, affidandosi a singoli fotogrammi, ai volti e corpi di Taylor Russell e Chalamet, ma riesce lo stesso a creare immagini talvolta stuzzicanti.
"Bones and All" è quindi la dimostrazione che quando si impegna e rinuncia a voler strafare, quando decide di affidarsi principalmente alla storia piuttosto che alle atmosfere o ad una fascinazione per la violenza spicciola, anche lui possa confezionare ottimi exploit. Nella speranza che questo sia l'inizio per un cambio di rotta di una filmografia tanto celebrata quanto poco interessante.

mercoledì 24 maggio 2023

R.I.P. Kenneth Anger



 1927 - 2023


Anticonformista, provocatore, ribelle nel corpo e nell'anima. Benché abbia diretto solo cortometraggi, l'influenza di Kenneth Anger nel cinema moderno (americano e non) è incalcolabile. 
Oltre ad aver generato scandalo con le immagini, lo ha fatto anche con le parole, nel suo imprescindibile libro "Hollywood Babilonia", cronaca di scandali e malcostumi malcelati ancora oggi spiazzante. Tanto che ogni cinefilo degno di questo nome deve riscoprirne l'eredità




"Fireworks" (1947)




"Rabbit's Moon" (1950)




"Scorpio Rising" (1963)




"Invocation of my Demon Brother" (1969)





"Lucifer's Rising" (1972)

lunedì 22 maggio 2023

Peter Von Kant

di Francçois Ozon.

con; Denis Menochét, Khalil Ben Gharbia, Isabelle Adjani, Hanna Schygulla,Stefan Crepon, Aminthe Audiard.

Drammatico/Biografico

Francia, Belgio 2022
















Il fatto che il cinema di Rainer Werner Fassbinder sia ad oggi poco conosciuto (e non solo da parte delle nuove generazioni) è un peccato non unicamente per l'oblio al quale sue opere sono destinate, quanto per il fatto che la carica provocatoria che molte di queste hanno (e che è tutt'ora tangibile) finisce inevitabilmente per perdere di significato. Senza contare, poi, come molte delle tematiche da lui affrontate e sviscerate con passione, profondità e cognizione di causa sono tutt'oggi attuali e che molto cinema "da festival", creato da autori spesso sopravvalutati, cerca di fare lo stesso, ma senza averne la forza drammatica o espressiva.
A riportare nella memoria collettiva il compianto autore tedesco ci pensa così François Ozon, suo fan della prima ora, i cui melodrammi potrebbero essere visti come figli di quel cinema. E con piglio fortemente autoriale, crea una sorta di bio-pic che è soprattutto omaggio all'uomo e all'artista, ai suoi eccessi, ai suoi umori e amori.




Il punto di partenza è "Le lacrime amare di Petra Von Kant", che Ozon reinventa immergendo Fassbinder e il suo più grande amore, Armin Meier, come i personaggi principali, il regista Peter Von Kant e il suo grande amore Amir Ben Salem, creando uno specchio tra realtà e finzione, artista e arte, similmente a quanto fatto da Coppola e Wim Wenders in "Hammet- Indagine a Chinatown". Il che porta ad una prima e urgente considerazione.
La storia d'amore con Meier era già stata portata in scena dallo stesso Fassbinder nell'episodio da lui diretto di "Germania in Autunno", dove i due interpretavano loro stessi e declinavano la loro relazione come un dramma nel quale l'autore non celava il suo carattere irascibile, brusco, dipingendo l'amato come una vittima, similmente a quanto accade nei suoi film di finzione. Questo perché anche nella realtà Fassbinder dominava Meier, cosa che portò al suo suicidio, nel 1978, per elaborare il quale il grande regista cerò quella vera e propria confessione intitolata "Un Anno con 13 Lune". Declinare questa storia ponendo al centro Fassbinder e invertendo i ruoli di dominatore e dominato potrebbe quindi essere visto come un'operazione falsa, prima ancora che di cattivo gusto.



Anche per questo, Ozon mette le cose in chiaro in almeno due parti del film; più esplicitamente verso la fine della penultima sequenza, dove il personaggio di Sidonie accusa Peter di come nei suoi film interpreti sempre il debole, quando nella realtà è il forte. In secondo luogo, nell'incipit, con lo sguardo del vero Fassbinder che spicca su schermo a testimoniare come "Peter Von Kant" non sia tanto una biografia vera e propria, quanto un omaggio o, meglio, un atto d'amore verso di lui e il suo cinema. Senza contare come, nella seconda parte, sulle pareti della casa del protagonista spicchi un'immagine chiarificatrice, quella del personaggio di Amir visto come San Sebastiano nella famosa martirizzazione, per chiarificare ulteriormente come nella realtà, ribaltata come arte dall'altra parte dello schermo, fosse lui ad essere una vittima vera e propria.
Questa è dunque l'unica vera chiave di lettura dell'opera, ossia come una ripresa di un modello per omaggiarne il creatore; non un semplice bio-pic e neanche un semplice remake, quanto un'operazione di pura interpretazione personale di vita e opera.




Ozon riprende struttura e storia di "Petra Von Kant" e le fa sue. Infrange l'unita di tempo, trasformando le scene in sequenze con stacchi precisi e verso al fine rompe definitivamente anche quella di spazio e del punto di vista, riprendendo quello di Amir.
Peter Von Kant è così un doppio di Fassbinder, un alter ego che ha raggiunto un età che lui non ha mai compiuto, così come Amir è un'amante avaro ed egoista. Il personaggio di Sidonie diventa una diva e ex amante del regista (un po' Ingrid Caven, un po' Irm Hermann) che ha il volto dell'eternamente giovane Isabelle Adjani, mentre nei panni della madre ritroviamo Hanna Schygulla, che alle soglie degli 80 anni ha ancora una presenza scenica invidiabile.
Ozon trova poi in Denis Ménochet un perfetto volto e un perfetto corpo per la sua visione di Fassbinder, al quale l'attore infonde una fragilità tangibile, benché la volubilità del suo vero carattere riesca ad essere allo stesso modo ben rappresentata quando necessario.




Il dramma si consuma ripercorrendo la storia e le dinamiche dell'originale, con solo alcune variazioni. In primis, l'amore malato di Karl, che qui sostituisce Marlene, è sempre celato tra le pieghe dei suoi sguardi e nel finale, quando Peter lo accetta questa volta per davvero, lui lo rinnega se ne va, avendo realizzato il suo ruolo di rimpiazzo amoroso. Meno spazio viene concesso al personaggio della figlia Gabriele, forse anche in ossequio alla mancanza di paternità da parte di Fassbinder e Sidonie diventa amica, musa e ex amante, il cui ruolo resta sempre "tossico" ma è più centrale nella dinamica amorosa tra i due personaggi principali.
Tale dinamica è simile e diversa rispetto a quella di Petra Von Kant e di Karin. Mentre Petra vuole dominare e sottomettere per davvero l'amata, Peter, sebbene arrivi alla fine alla sua stessa realizzazione, ama Amir di un amore puro; la loro relazione comincia con l'attrazione e a questo primo stadio Peter vuole letteralmente rubarlo, usando la macchina da presa come strumento per carpirne l'anima e i sentimenti. Ma la sua attrazione è implicitamente più pulsante e viva di quella della sua controparte originaria, proprio perché affonda le sue radici in quella reale tra Fassbinder e Meier.



Benché nella seconda parte omaggi la fotografia di "Lola", la messa in scena è totalmente figlia dello stile di Ozon, tanto che persino i simboli dei manichini e delle bambole vengono messi da parte.
Il suo amore per il cinema di Fassbinder è poi tangibile non solo nell'operazione in generale, quanto soprattutto nell'attenzione ad alcuni dettagli che finiscono per diventare feticistici: il competo bianco indossato dal regista in diverse occasioni, la scenografia usata per spezzare il volto del protagonista, le note di "Each man kills the thing he love" che tornano sovente a sottolineare gli eventi come in "Querelle de Brest" e persino il poster alternativo di quest'ultimo che viene reinterpretato come locandina ufficiale del film, tra gli altri.




La rilettura del classico fassbinderiano fusa con la rilettura della sua biografia finisce così per funzionare. "Peter Von Kant" è così un perfetto omaggio al cineasta oltre che un perfetto dramma nel suo stile. Una dichiarazione d'affetto e stima puramente cinefila e profondamente umana, che può essere amata e compresa a pieno solo da chi conosce e ama il compianto cineasta bavarese, ma che, paradossalmente, anche allo spettatore in cerca di emozioni di certo non dispiacerà.

venerdì 19 maggio 2023

The First Slam Dunk

di Takehiko Inoue & Yasuyuki Ebara.

Animazione/Sportivo

Giappone 2022

























Quando, nel 1990, venne pubblicato il primo capitolo di "Slam Dunk", non c'era davvero un manga simile nel panorama editoriale. Non che gli spokon non spopolassero, tutt'altro; è solo che il basket non era uno sport particolarmente frequentato dall'industria dell'intrattenimento nipponica, complice anche lo scarso impatto che aveva avuto sul pubblico nel corso degli anni. Le cose cambiarono proprio grazie al successo di "Slam Dunk", che portò molti giovani giapponesi della Generazione X ad appassionarsi a questo sport fino ad allora ignorato.
Merito della matita e della penna di Takehiko Inoue, mangaka al primo vero successo e che diverrà uno dei più apprezzati al mondo anche grazie al purtroppo ancora non concluso "Vagabond". All'epoca ventenne, era appassionato della prima ora di pallacanestro e lascia che questa sua passione influenzi in tutto e per tutto questa commedia sportiva che trova una inusuale punta di originalità proprio grazie all'ambientazione.



La bellezza del manga è però data anche dal connubio tra serio e faceto, quantomai riuscito. Se il protagonista, il rosso Hanamichi Sakuragi, è un vero e proprio scapestrato burlone, il tono delle sue vicende diventa adulto quando si tirano in ballo temi quali l'amicizia, l'amore e soprattutto la tensione sportiva, garantendo così un tasso di coinvolgimento sempre alto. Così come riuscita è la caratterizzazione del resto dei personaggi, i quali divengono di volta in volta protagonisti di piccoli story-arc volti a delucidarne passato e carattere.
E su tutto, è il tratto pittorico di Inoue a rendere davvero eccellente una lettura già di suo ottima.




Il successo è praticamente immediato, tanto che già 1993 arrivò sugli schermi televisivi nipponici un riuscito adattamento anime che ne incrementa la popolarità. Arrivato anche in Italia nel 2000, dove si è contraddistinto per un adattamento, curato da Nicola Carrassi, che in opposizione alle censure e edulcorazioni effettuate dalle reti Mediaset all'epoca, eccedeva in doppi sensi e rincarava le dosi di umorismo spicciolo; scelta che di sicuro fa storcere il naso ai puristi, ma che rende la visione ancora più piacevole.




Pur tuttavia, l'anime si concluse nel 1996 lasciando in sospeso la storia: l'ultimo arco narrativo, con la sfida agli "imbattibili" membri del Sannoh non trova una trasposizione animata. Se non nel 2022, quando è lo stesso Inoue a co-dirigere un film d'animazione che porta in immagini dinamiche la conclusione della storia.
"The First Slam Dunk" non è però una semplice trasposizione del manga, quanto un adattamento che ne riadatta la storia e che funge non solo da epilogo, quanto anche come omaggio alla stessa.




La differenza più vistosa è data dal cambio del punto di vista sulla vicenda, che da Hanamichi passa al playmaker Ryota Miyagi. Scelta che permette a Inoue di esplorarne quel suo passato che nel manga non trovava spazio, rendendo così la storia generale più completa; soprattutto, permette anche ai neofiti di affezionarvici, costruendo la trama del film su due piani differenti, con la partita da una parte e flashback dall'altro.
Ryota è un ragazzo schiacciato dal peso del lutto; in primis quello del padre, poi quello del fratello maggiore ed exemplum vitae Sota, scomparso giovanissimo. Si ritrova così sin da subito a dover elaborare un doppio lutto e a dover fare i conti con una madre distrutta dal dolore. Situazione che lo porta a sviluppare una scorza fredda che gli permette di eccellere nello sport, usato sia per omaggiare il fratello, ex promessa, sia come mezzo di affermazione personale in un mondo ostile.



Se la cronaca della partita è così coinvolgente, la storia del protagonista riesce ad essere toccante senza mai scadere nel melenso o nel ricattatorio, riuscendo a tratti a commuovere davvero.
Inoue tiene bene i fili di entrambe le narrazioni e riesce a dare il giusto spazio anche agli altri memebri del cast, caratterizzati con pennellate veloci ma decise. La sbruffonaggine di Hanamichi, l'insicurezza dell'erculeo capitano Takenori "Gorilla" Akagi, la determinazione di Rukawa risultano vividi su schermo; e persino il capitano della Sannoh Sawakita trova una sua dimensione nei 124 minuti della pellicola. L'unico personaggio ad essere un po' sacrificato è forse il solo Mitsui, l'ex bullo la cui "redenzione" può apparire forzata allo spettatore che non ha letto il manga o visionato l'anime.




Coadiuvato dal veterano dell'animazione Yasuyuki Ebara, Inoue traspone alla perfezione il dinamismo delle sue tavole sul grande schermo, con immagini ricercate ed un uso certosino della musica; nel racconto, sa perfettamente quando accelerare e quando rallentare, quando interrompere l'azione per dar spazio all'introspezione, quando adoperare inserti umoristici senza farli stonare in un racconto serio e talvolta teso. Il risultato è un piccolo capolavoro di equilibrio dei toni, graziato da un'animazione che sebbene basata totalmente sui soliti modelli tridimensionali dalla fluidità talvolta troppo accentuata (che arriva a stonare nei flashback, causa il minore dinamismo dell'azione), riesce a restituire alla perfezione i movimenti dei giocatori e, così, ad incantare.




"The First Slam Dunk" è così un gioiello di tecnica e racconto, un vero e proprio atto d'amore verso l'opera originale, che completa in modo definitivo e perfetto, oltre che una pellicola riuscita e coinvolgente anche per lo spettatore occasionale. Caso più unico che raro.

giovedì 18 maggio 2023

R.I.P. Helmut Berger


 

1944 - 2023


Volto tra i più carismatici del cinema europeo, compagno di vita e di arte di Luchino Visconti, Helmut Berger ha attraversato la migliore decade del cinema mondiale, prendendo parte ad alcuni delle sue opere più rappresentative. 
Se ne va così un altro decano della Settima Arte.


lunedì 15 maggio 2023

Le lacrime amare di Petra Von Kant

Die bitteren Tränen der Petra von Kant

di Rainer Werner Fassbinder.

con: Margit Carstensen, Hanna Schygulla, Katrin Schaake, Eva Mattes, Gisela Fackeldey, Irm Hermann.

Germania Ovest 1972















---CONTIENE SPOILER---

"Io non sono misogino. E' che prendo le donne sul serio". Così rispondeva Rainer Werner Fassbinder quando gli si chiedeva di commentare le accuse di misoginia che sovente gli erano rivolte. E la sola esistenza di accuse del genere risulta più scandalosa di tutti i suoi film messi insieme; questo perché, proprio come lui sottolineava, dipingeva le donne come personaggi a tutto tondo, come persone con propri pensieri e priorità che non vivono in funzione del maschio, salvo ovviamente quando la tematica della sua opera non ruota intorno ad una relazione amorosa.
Di donne, Fassbinder ne ha raccontate tante nel corso della sua breve ma incisiva filmografia, come Maria Braun o Lili Marleen, giusto per citarne un paio. E dopo la Braun, quella più rappresentativa del suo cinema resta forse Petra Von Kant, le cui lacrime amare sono state l'oggetto di uno dei suoi primi melodrammi con protagonista femminile.



Petra Von Kant (Margit Carstensen) è una designer di moda sull'orlo della piena realizzazione, la cui vita viene sconvolta dall'incontro con la giovane e bella Karin (Hanna Schygulla), da poco tornata in Germania e in cerca di un lavoro.
Fassbinder si focalizza totalmente sul personaggio della Von Kant, centro nevralgico di tutta la narrazione, la quale viene cucita addosso a lei e agli interpreti degli altri personaggi, portatori delle relazioni sentimentali che la muovono; e per una volta, sono tutte donne, tanto che l'unico uomo che appare in scena è lo stesso regista e solo in un cameo all'interno di una fotografia.




Della donna, Fassbinder ritrae la caduta in disgrazia e la presa di coscienza del suo male; una parabola discendente che passa per l'autodistruzione ricercata e desiderata ardentemente, ma che non si realizza mai davvero. Tanto che alla fine, Petra resta in uno stato sospeso, non morta, ma neanche viva, sopravvissuta all'ennesima distruzione sentimentale e dotata di una rinnovata coscienza, la quale potrebbe anche solo in teoria causarne una maturazione umana.




Con piglio teatrale, Fassbinder struttura lo script in cinque scene, tutte ambientate nella camera da letto della protagonista e tutte basate sui dialoghi di questa con altri personaggi. Lo stampo è reminiscente dell'allora già defunto Action-Theatre, ma ovviamente la messa in scena fa dei movimenti di macchina e dei primi piani i suoi punti di forza.
Nella costruzione del dramma, Petra è la donna emancipata e in teoria forte, sopravvissuta ad una relazione non proprio idilliaca con un ex marito dal quale ha avuto la giovane figlia Gabriele (Eva Mattes), finita a causa della mancanza di passione, del disgusto che lei provava per quest'uomo privo di vero fascino, oltre che possessivo e spaventato dal suo successo.
La prima relazione sviscerata è quella con l'amica Sidonie (Katrin Schaake), anch'ella donna di successo, la quale riesce tuttavia ad intessere una buona relazione umana e sentimentale con un uomo; questi è all'inizio una confidente, un'amica nel senso comune del termine, una donna con la quale la protagonista può confidarsi. E che la introduce all'altro polo della narrazione, ossia Karin.




Personaggio ambiguo, che cambia anima tra la seconda e la terza scena, Karin è l'oggetto del desiderio; il quale, come da tradizione fassbinderiana, deve essere posseduto.
Inizialmente è una ragazza fragile, alla ricerca di un posto nel mondo, reduce da un dramma personale indelebile (il padre ha ucciso la madre) e impantanata in un matrimonio ai limiti del fasullo, con il coniuge rimasto in Australia. Petra ne rimane folgorata dalla bellezza, ovviamente, ma anche dal suo stato di essere umano in stato di bisogno, del quale può approfittarsi, concupire per sottomettere in una relazione praticamente univoca nella quale lei è il punto forte, Karin un semplice oggetto.




Nella terza scena la passione tra le due donne è sfumata: Karin è divenuta insofferente, mentre Petra è scivolata nella pazzia d'amore, con una dinamica opposta a quella precedente. La protagonista perde il suo ruolo di dominatrice e si fa dominata, sottomessa ad un amore oramai non corrisposto in una relazione che persiste solo come forma di affermazione individuale, oltre che di sfruttamento materiale, come avverrà in un altro celebre dramma fassbinderiano, ossia "Il Diritto del più forte" , nel 1975.
Petra Von Kant diviene così una donna distrutta, una "vittima dell'amore" che rifugge ogni confronto con la figura materna e con la figlia. E persino Sidonie cambia ruolo, divenendo una sorta di nemesi, una donna ora con un titolo sulle spalle, felicemente sposata, la quale le regala una bambola, uno stimolo a crearsi una famiglia sotto forma di sfottò, in una inversione del simbolismo ferreriano secondo il quale la paternità dà dignità al maschio.
Il simbolo del simulacro, d'altro canto, è costante per tutto il film, con i manichini che divengono di volta in volta uno specchio deformato dei personaggi, a rifletterne la vacuità interiore, il loro inscenare rapporti umani forzati, i quali seguono un percorso prestabilito poiché asserviti a emozioni e sensazioni irrazionali e che per questo li rendono schiavi.




Se il ruolo di Petra è di carnefice e vittima, questo non si sostanzia unicamente verso Karin, ma anche e soprattutto verso quello che è il personaggio più tragico di tutto il dramma, ossia la "serva" Marlene (Hirm Hermann).
Un personaggio che attraversa il film restando sempre in religioso silenzio, che non protesta contro gli insulti della "padrona", sfruttato sia lavorativamente che sentimentalmente, Marlene è masochista, un essere che prova piacere nell'essere sottomesso e umiliato, che concepisce l'amore unicamente come abnegazione totale del proprio io. Ed è alle "Marlene di tutto il mondo" che Fassbinder dedica il suo dramma.
Proprio la conoscenza dello status emotivo di questo personaggio rende il finale ambiguo, con quella riconciliazione che ne causa l'allontamento, forse il suicidio; se per Petra forse c'è una speranza di miglioramento, per Marlene forse c'è solo la tragedia definitiva, la fine di una relazione che era tutto proprio perché realizzava pienamente il suo ideale (pur distorto) di affetto.



La costruzione melodrammatica è al solito sfolgorante. La vicenda è immersa in colori caldi, i classici di stampo sirkiano tanto cari a Fassbinder, mentre il suo occhio si muove sinuoso tra i volti e i corpi dei personaggi. La ricercatezza delle inquadrature è magnifica e trova un apice nella profondità di alcune immagini.
Tanto che la costruzione teatrale della scrittura è l'unico vero limite di "Le lacrime amare di Petra Von Kant", che rende la vicenda giustamente claustrofobica, ma sin troppo ancorata ai dialoghi. Difetto veniale, tanto che questo melò resterà per sempre uno dei più riusciti del grande autore tedesco.

venerdì 12 maggio 2023

Toro Scatenato

Raging Bull

di Martin Scorsese.

con: Robert De Niro, Joe Pesci, Cathy Moriarty, Frank Vincent, Nicholas Colasanto, Johnny Barnes, Floyd Anderson, Theresa Saldana, Mario Gallo, Frank Adonis, Kevin Mahon, Lori Anne Flax.

Biografico/Drammatico

Usa 1980












Quando, alla fine degli anni '70, Martin Scorsese inizia le riprese di "Toro Scatenato", la sua carriera è ad un vero e proprio punto morto. Se nel 1976 il successo di "Taxi Driver" lo aveva consacrato come uno dei maestri della New Hollywood, il sanguinante flop di "New York, New York" appena un anno dopo lo aveva portato nei meandri della depressione, combattuta con la tossicodipendenza.
Allo stesso modo, anche la New Hollywood e il "movimento degli autori" che aveva salvato la Mecca del Cinema a inizio decennio non sono più gli stessi. I successi stratosferici di "Lo Squalo" e "Guerre Stellari" avevano imposto un nuovo paradigma produttivo, secondo il quale era inutile finanziare progetti piccoli o medi ad opera di artisti più o meno affermati, quanto investire somme anche importanti in progetti dal sicuro appeal commerciale. Mentalità che si cementificherà proprio nel 1980, anno dell'uscita nei cinema di "Toro Scatenato", a causa dei tonfi di "I Cancelli del Cielo" di Michael Cimino e di "Stardust Memories" di Woody Allen.
"Toro Scatenato" finisce così per rappresentare una morte e una rinascita; la morte è quella del grande cinema d'autore americano, che resterà "ibernato" praticamente per tutti gli anni '80 (anche se con eccezioni tanto sparute quanto importanti), la rinascita della carriera di Scorsese, che con esso firmerà un nuovo capolavoro, nonché uno dei film più belli della sua carriera.




Il tutto parte da uno script di Paul Schrader basato sulla vita dell'ex campione dei pesi medi Jake LaMotta. Sceneggiatura che viene subito intercettata da Robert DeNiro, il quale è interessato alla parte del protagonista e che propone la regia all'amico Scorsese. Il trio di "Taxi Driver" si riforma, mentre la produzione è quella del duo Irwin Winkler-Robert Chartoff, che sull'onda lunga del successo di "Rocky" e "Rocky II" cercano di creare un nuovo film sul pugilato in grado di riscuotere successo. Cosa che avverrà, ma non tanto sul piano commerciale, visto che Scorsese fa totalmente suoi storia e personaggi.





"Toro Scatenato" non è un film sulla boxe, tanto che gli incontri potrebbero anche essere tagliati dal montaggio e la narrazione funzionerebbe lo stesso. A Scorsese non interessa né lo sport in sé, tantomeno le implicazioni filosofiche che esso potrebbe comportare. Quello che gli interessa è la figura di LaMotta e il suo percorso discendente dovuto alla sua indole furiosa e autodistruttiva.
Jake LaMotta è un violento, un uomo che scarica la sua rabbia tanto sul ring quanto fuori. Una rabbia innata, del tutto connaturata al suo carattere irascibile, permaloso, quasi paranoico. Se quello su Travis Bickle era lo studio di una personalità borderline folle, un uomo talmente chiuso in sé stesso da divenire alienato in un mondo pur pazzo e violento, in "Toro Scatenato" Scorsese e Schrader puntano la macchina da presa su di un uomo "normale", un perfetto esponente della comunità italoamericana (e non solo) della sua epoca, il quale, pur se inserito nei margini della società e non considerabile come reietto in alcun modo, è pur sempre un alienato, estraniato rispetto a chi lo circonda, del quale finisce per perdere ogni forma di affetto e rispetto.




Jake si autodistrugge, arriva all'apice della sua carriera pugilistica solo per cadere poco alla volta verso un baratro umano e sportivo dal quale forse non uscirà mai. 
La sua rabbia si sfoga in primis contro sé stesso, contro quel corpo che non rispetta, con il fratello Joey (un Joe Pesci praticamente agli esordi e già fantastico) che deve ricordargli costantemente di mantenersi in forma, e che perderà comunque e definitivamente dopo l'abbandono del ring. E DeNiro, con piglio strasberghiano, opta per una metamorfosi fisica stupefacente, passando da un perfetto fisico da boxeur ad un corpo enorme e sfatto, tempio di un'anima persa. Un performance al solito mimetica, dove non c'è differenza tra personaggio e attore, capace di illudere ad ogni inquadratura su come quello che si sta vedendo non sia lui, ma LaMotta in persona. E come sempre un plauso va anche fatto al doppiaggio di Ferruccio Amendola, che pur purgandone la performance dalle inflessioni italiane, riesce lo stesso a comunicare l'indole grezza del personaggio.




In secondo luogo, la furia di Jake si abbatte sulla giovane moglie Vickie (Cathy Moriarty, all'epoca diciannovenne). Una moglie bambina, almeno all'inizio, che concupisce dopo un colpo di fulmine e che conquista dopo una corte "rustica", dove mostra il suo lato più sensibile. Il quale viene subito surclassato dalla gelosia, prima verso il piccolo gangster Salvy (Frank Vincent) e il boss Tommy Como (Nicholas Colasanto), poi finanche verso il fratello, il quale invece ha cercato suo malgrado di salvarne la relazione.
Amore significa possessione, la donna è oggetto da custodire, quasi un orpello con il quale agghindare la propria vita, se non fosse per quell'affetto che si affaccia alla fine solo come sessualità. Tanto che Scorsese arriva a filmare una delle scene di misoginia più riuscite di sempre quando Jake e il fratello scacciano le mogli da una conversazione.



Jake finisce per distruggersi, per cadere dal ring pur non essendo mai andato al tappeto. E Scorsese guarda questa parabola discendente contornata di violenza con piglio patetico, con un biasimo morale sottile e al contempo forte, sottolineandone lo stato tragico talvolta in modo secco, lasciando che siano i personaggi a comunicarlo con le loro parole e le loro azioni, talaltra in modo più evocativo usando la musica di Mascagni per ammantare il tutto con un'aura lirica quasi elegiaca.




Come in "Taxi Driver", la violenza in "Toro Scatenato" non è limitata al singolo, ma ad un'intera comunità. Principalmente nel primo atto, tutto il mondo che circonda Jake si abbandona a risse tanto furenti quanto quelle sportive, se non di più. Scorsese lascia questi personaggi sullo sfondo per acuire l'atmosfera plumbea e tragica, rendendo così il suo Bronx incredibilmente vivo e pulsante, quasi un girone infernale dei violenti vomitato in Terra.
Ogni atto viene poi inscritto all'interno di un simbolismo cattolico. La religione non ha un ruolo centrale come in "Mean Streets", restando sempre celata tra le righe, affacciandosi nel racconto sotto le forme di quei santini, crocefissi e rosari che assistono al dipanarsi degli eventi come impotenti e ignorati dai personaggi, la cui fede è puramente formale.




Laddove Scorsese cuce il racconto totalmente sui personaggi, non disdegna lo stesso una messa in scena al solito ricercatissima e virtuosistica come da abitudine in questa fase della sua carriera.
Mette in scena i combattimenti in un modo che non si era mai visto e che non si sarebbe praticamente mai più rivisto sul grande schermo o altrove. Al bando ogni forma di verosimiglianza e realismo, questi sono stilizzati sino all'iperbole, con una violenza urlata, incorniciata in inquadrature ricercatissime e movimenti di macchina talvolta barocchi che esasperano il sangue, il sudore, la forza dei pugni e il dolore inferto. Il tutto sottolineano da un sound design incredibile, che inserisce versi animale in modo subliminale per meglio restituire la violenza del combattimento.



Nelle parti dialogiche, Scorsese si dimostra poi pieno esponente del post-classicismo neo-hollywoodiano, prediligendo una messa in scena che parte dalla scuola della vecchia Hollywood per farsi anche qui incredibilmente moderna. Tra ralenty, movimenti insistiti e il montaggio spezzato della fida Thelma Schoonmaker, "Toro Scatenato" rappresenta l'apice della ristrutturazione della messa in scena del cinema americano, vivendo così i due anime opposte e complementari che si completano a vicenda per creare un'esperienza filmica barocca e affascinante.
La prova definitiva del genio di Scorsese è però insita nella sua capacità di rinunciare al virtuosismo quando necessario: nelle scene drammatiche adopera una costruzione quasi secca, con inquadrature statiche e montaggio puramente conseguenziale, lasciando che sia DeNiro a convogliare lo stato d'animo del personaggio, il quale finisce per risaltare ancora maggiormente.



Nella messa in scena è poi ovviamente aiutato dal sempre ottimo Michael Chapman, che usa anch'egli una luce che si rifà e contemporaneamente aggiorna lo stile della Hollywood classica. La scelta di girare tutto il film in bianco e nero (fatta eccezione per il solo titolo, rosso sgargiante, e i filmini di famiglia, girati in 8mm e diretti dalla troupe per sembrare davvero amatoriali) è dovuta non tanto a ragioni stilistiche, quanto contingenti, data la facile deperibilità della pellicola a colori usata all'epoca. Scorsese e Chapman fanno così di necessità virtù e creano un'estetica che riesce ad essere originale nel panorama del cinema americano di fine anni '70.
Il bianco e nero usato presenta dei contrasti forti che si fanno quasi espressionisti in alcuni interni, per poi sfociare in un'estetica onirica nei combattimenti, dove sovente i personaggi vengono scontornati dallo sfondo, immersi in una sorta di "zona negativa" che ne fa risaltare la fisicità, la quale diventa così estrema.




Il resto, come si suol dire, è Storia: "Toro Scatenato" esce nei cinema americani nel Novembre 1980 e incassa poco più di venti milioni di dollari nel mondo, a fronte di un budget di circa 18; non un flop nel senso tecnico del termine, ma neanche un successo  Nei mesi successivi DeNiro porterà a casa l'Oscar come migliore attore protagonista (l'unico della sua carriera e il secondo dopo quello come non protagonista per "Il Padrino- Parte II"), mentre il film sarà clamorosamente battuto dal giustamente dimenticato "Gente Comune".
L'era della New Hollywood giunge così alla fine e con essa la vera epoca d'oro del cinema americano. Fortunatamente, accade con una deflagrazione e non con un sussulto. E a fronte del tramonto del sistema produttivo che lo ha reso celebre, Scorsese raggiunge definitivamente lo stato di mito della Settima Arte.