mercoledì 28 giugno 2023

Possessor

di Brandon Cronenberg.

con: Andrea Risenborough, Christopher Abbott, Jennifer Jason Leigh, Sean Bean, Tuppence Middleton, Tilo Horn, Rossiff Sutherland, Gabrielle Graham, Hanneke Talbot, Rachel Crawford, Megan Vincent.

Canada, Regno Unito 2020















Il difetto che viene sempre e da sempre contestato al cinema di Brandon Cronenberg è quello di essere una pura fotocopia sbadita di quello del padre David, dal quale riprende tematiche, intuizioni narrative e talvolta anche qualche spunto di messa in scena senza però averne la profondità o la carica provocatoria.
Critica veritiera, ma che non tiene conto del vero difetto delle opere di Cronenberg figlio, ossia la più totale insipienza. Se già l'esordio "Antiviral" soffriva (tra le altre cose) di una mancanza di significato effettivo, "Possessor" si configura come un film totalmente vacuo, che prende uno spunto interessante e che vorrebbe declinare una tematica sempre attuale, ma che finisce per girare in tondo per tutta la sua durata senza andare mai a parare da nessuna parte.



Tasya Vos (Andrea Risenborough) è il membro di una sinistra corporazione che usa un'avvenieristica tecnologia in grado di proiettare la coscienza in un corpo altrui, usata per commettere omicidi su commissione. Dopo un colpo ben riuscito, viene incaricata dalla sua superiore Girder (Jennifer Jason-Leigh) di entrare nel corpo di Colin Tate (Christopher Abbott), fidanzato della figlia del magnate John Parse (Sean Bean), capo di un'importante azienda specializzata in data mining. Ovviamente non tutto andrà secondo i piani.



L'idea di una macchina che permette di insinuarsi dentro il corpo altrui è quantomeno geniale e Brandon la usa per investigare il tema dell'identità. L'ombra dell'opera di Philip K.Dick si allunga sul film proprio come avviene su quelli del padre, tanto che lo stesso si apre con una citazione di "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?" con una macchina usata per modulare le emozioni; e proprio l'uso di tale rimando è indicativo del lavoro effettivamente svolto dall'autore, essendo un elemento portato in primo piano e poi subito lasciato a sé stesso. Perché se l'intenzione di Brandon è di far riflettere su come la mente e il corpo possano essere programmati da fattori esterni (da cui l'immagine del toro forzato ad attaccare usando delle scosse elettriche via radio), l'idea di usare una macchina che sovrascrive le coscienze è ovviamente sbagliata, visto che non si tratta di una personalità modificata esternamente, ma di una nuova coscienza inserita in un altro corpo.
Se, viceversa, la sua intenzione è quella di far riflettere sulla fragilità del concetto di identità, "Possessor" più che sbagliato è del tutto malriuscito.




Non c'è un solo momento nel quale Brandon affronti di petto il tema, si limita ad accumulare simboli e metafore senza poi dar loro corpo e significato effettivo; e, anzi, dà sfogo alla sua vena visionaria solo negli inserti onirici, appiattendo anche la semplice visione. 
Questo perché parte dall'ambiguità del tutto, dove non si dovrebbe capire quanto delle azioni eseguite dal corpo di Colin sono di fatto eseguite dalla sua volontà, ma da una parte non lascia capire chi sia davvero in comando in un dato momento, dall'altra, quando lo fa, la risposta cade a vuoto, dimostrazione di come la visione di base sia già fallata di per sé stessa. Il tema diventa così un mero pretesto per un racconto, il quale è sua volta freddo e noioso.




Come in "Antiviral", anche qui la regia non riesce ad imprimere il giusto ritmo agli eventi, i quali risultano fin troppo dilatati; manca poi la tensione e la violenza insistita non è mai catartica, solo compiaciuta. Con la conseguenza che si arriva davvero ad annoiarsi subito, non riuscendo a cogliere praticamente nulla di quanto Brandon voglia esprimere. Il che tocca l'apice nella caratterizzazione dei personaggi, praticamente assente.



"Possessor" finisce per essere il classico passo indietro nella carriera di un autore, che riprende solo i difetti dell'esordio e non aggiunge nulla, anzi finisce per peggiorare praticamente tutto. Un film vuoto e compiaciuto, frutto di una visione confusa e di una direzione scialba.

martedì 27 giugno 2023

Skinamarink

di Kyle Edward Ball.

con: Lucas Paul, Dali Rose Tetreault, Ross Paul, Jaime Hill.

Horror

Usa 2022
















Quello che conta davvero nel cinema del terrore è la pura efficacia con la quale la sensazione di paura viene comunicata allo spettatore. Tutto il resto è una semplice sovrastruttura che talvolta può inificiare l'intenzione primaria, facendo scadere il tutto nell'improbabile. L'horror è in definitiva il "genere" dove la messa in scena e la costruzione della scena sono le uniche vere cose che contano. Ne consegue come sfrondare la narrazione di tutto ciò che non è necessario può portare ad un risultato più puro e diretto.
E' quello che succede in "Skinamarink", dove l'esordiente Kyle Edward Ball si disfà di ogni influenza "classica" per arrivare al cuore del registro orrorifico, creando un'opera tutto sommato riuscita.



La trama è pressocché inesistente: durante la notte, due bambini si svegliano in preda al terrore e scoprono che c'è qualcosa di sinistro nella loro casa, una presenza demoniaca che li perseguita e impedisce loro di scappare. 
Un canovaccio che affonda le sue radici nella paura più elementare, quella della notte, del buio, quella sensazione, più forte da infanti ma presente anche da adulti, di non essere soli, che ci sia qualcosa nell'ombra pronta ad acchiapparci e farci del male.
Se già la storia è archetipica e per questo anticonvenzionale, è nella messa in scena che il film di Kyle Edward Ball trova non solo il suo punto di forza, ma anche quello di maggiore originalità e identità.
Il punto di vista è quello dei bambini, ma né loro, nè i genitori, tantomeno il demone sono mostrati in modo diretto. La macchina da presa è un'entità a sé, un occhio che si trova al livello dei personaggi e a tratti ne capta direttamente il punto di vista, ma che finisce per avere un punto di vista oggettivo negli eventi che in realtà oggettivo non è. La messa in scena non è quella di una ripresa del reale, quanto una forma di espressionismo delle sensazioni e impressioni interiori, che su schermo si sostanziano in inquadrature sghembe che alternano timidi movimenti e inquadrature fisse decentrate, in un racconto dove quello che conta non è l'evento per sé stesso, quanto ciò che evoca.



Ball crea così un'atmosfera soffocante nel modo più semplice possibile, ossia negando ogni appiglio visivo dello spettatore, il quale finisce per sperimentare in prima persona le sensazione dei protagonisti in modo persino più diretto di quanto la semplice ripresa in soggettiva avrebbe potuto garantire. Un'atmosfera opprimente sottolineata dall'uso del filtro grana che fa assomigliare le immagini a quelle di un filmino casalingo, ma mai a quelle di un found-footage vero e proprio, e che viene acuita dallo stile di regia astratto che avvicina la visione a quella di una vera e propria installazione artistica piuttosto che a quella di un semplice film. Con la conseguenza che "Skinamarink" riesce davvero a inquetare e spaventare, facendo leva sulla paura del buio, sull'impossibilità di discernere davvero cosa accada su schermo e a prevedere cosa possa avvenire, benché alla fin fine non accada nulla su schermo e gli eventi più importanti rimangano fuori scena.
L'opera di Ball potrebbe quindi ambire ad entrare nel pantheon dei migliori horror mai concepiti, se non fosse per un vero peccato capitale: a tratti è mortalmente noiosa.




Costruire un lungometraggio sulla sola atmosfera è un'impresa azzardata per un veterano e per un esordiente è una vera e propria scommessa; nonostante il talento e l'impegno, Ball non riesce sempre a tenere alto l'interesse, indulgendo troppo su dettagli inutili e rendendo intere sequenze ridondanti, tanto che alla fine gli oltre cento minuti di durata vengono quadruplicati nella percezione dello spettatore; una durata inferiore, magari di una ventina di minuti, avrebbe reso "Skinamarink" ugualmente inquietante, ma anche decisamente più godibile.

lunedì 26 giugno 2023

R.I.P. Frederic Forrest



 1936 - 2023


Come accade con la stragrande maggioranza dei caratteristi, il nome di Frederic Forrest non dirà nulla ai più. Ma lui, in quarant'anni di carriera, ha interpretato quasi novanta ruoli, lavorando con autori del calibro di Francis Ford Coppola, Abel Ferrara, Wim Wenders e Arthur Penn, talvolta anche come protagonista e con piglio spesso camaleontico, prova di un ottimo talento.



"Missouri" (1976)



"Apocalypse Now" (1979)



"Un Sogno lungo un Giorno" (1981)



"Hammett- Indagine a Chinatown" (1984)





"Un Giorno di Ordinaria Follia" (1993)



"Trauma" (1993)



The Flash

di Andy Muschietti.

con: Ezra Miller, Michael Keaton, Sasha Calle, Michael Shannon, Ben Affleck, Ron Livingston, Kiersey Clemons, Antje Traue.

Supereroistico/Fantastico/Commedia

Usa 2023













Si potrebbe quasi definire "The Flash" come un film maledetto. Questo perché la storia di come il Velocista Scarlatto di casa DC sia giunto finalmente sul grande schermo è costellata di rimandi, marce indietro, abbandoni forzati di autori, continui reshoot che hanno portato alla posticipazione dell'uscita in sala e non da ultimo dalla letterale perdita del senno di Ezra Miller, il quale ad un certo punto ha deciso di diventare una sorta di "aspirante nuovo Charles Manson" abbandonandosi a violenze, manipolazioni, sequestri e amenità assortite, il tutto rigorosamente perdonato dalla "giuria degli executives", i quali non lo hanno cacciato via dal franchise DC, né hanno fatto a gara ad allontanarlo dalle produzioni, a differenza di quanto accaduto altri suoi colleghi meno fortunati quali Johnny Depp e Kevin Spacey che pur sono stati riabilitati da un giudizio vero e proprio.
Fatto sta che alla fine anche Flash ha avuto un suo film in solitaria, dopo il cameo in "Batman v. Superman- Dawn of Justice" e la partecipazione al doppio film sulla Justice League.





Flash (o "the Flash" in originale) è uno dei supereroi più famosi di casa DC nonché uno dei più riconoscibili al mondo. Moderno Mercurio, il primo Flash, Jay Garrick, viene creato da Gardner Fox e Harry Lampert nel 1940 e diviene subito uno dei personaggi più riconoscibili e amati del fumetto americano.
Al pari di Lanterna Verde e Wonder Woman, anche il Velocista Scarlatto viene riconcepito nella Silver Age, dove , nel 1956. cambia identità e persino universo, in una rigenerazione operata sempre da Gardner Fox e dal celebre disegnatore Carmine Infantino. Il secondo Flash, Barry Allen, è ad oggi il più famoso e amato e la sua origin story la più celebre: poliziotto della sezione scientifica, viene conoinvolto in un incedente nel quale un fulmine colpisce dei reagenti chimici nel suo laboratorio di analisi. Ottenuta la supervelocità, Barry decide di prendere il nome Flash in omaggio proprio a Jay Garrick, che qui è... il protagonista di un noto fumetto che leggeva da bambino.
Nasce così la suddivisione in "Terre" degli eroi DC ed è proprio Barry Allen il primo a viaggiare tra le prime due: nel mitico "Flash dei Due Mondi" del 1961, Barry infrange la barriera dimensionale e si ritrova fianco a fianco di Jay Garrick, in quello che è il primo cross-over multidimensionale della storia del fumetto, oltre che il battesimo definitivo del concetto, oggi tanto in voga, di multiverso.




Ed è sempre Barry Allen ad essere protagonista di un altro primato nel fumetto supereroistico, ossia la prima vera morte importante in casa DC. Nel 1985, durante l'evento "Crisi nelle Terre Infinite", si sacrifica per cercare di fermare il piano di distruzione multiversale dell'Anti-Monitor, lasciando poi il mantello di Flash al suo pupillo Wally West, che ricoprirà questo ruolo sino al 2010 circa, quando Grant Morrison decide di resuscitarlo e restituirgli il ruolo di Flash principale.
Ma anche negli anni di assenza, l'ombra di Barry Allen è sempre stata presente nelle testate DC: il presagio di morte Black Flash, sorta di zombi che i velocisti vedono quando rischiano di morire, si scoprirà altri non essere che il corpo rianimato di Allen; allo stesso modo, la Forza della Velocità, sorta di dimensione dalla quale i velocisti traggono i loro poteri, si scoprirà generata dallo stesso Barry quando ha cominciato a correre e nella stessa si trova la sua anima, confinata lì dopo che l'Anti-Montior ne ha distrutto il corpo; senza contare come lo stesso fulmine che lo colpì causandone la trasformazione si scoprirà essere nient'altro che la sua stessa anima, generatrice di un loop temporale definitivo. Ed infine negli anni '90, sulle pagine di "Teen Titans", appare persino un Barry Allen da un mondo alternativo, bardato in una vistosa armatura rossa, versione cinica e spietata che affianca il più cauto e buono Wally West.



La sorte di Flash al cinema non è certo stata propizia: un film sulle sue avventure era in cantiere già all'indomani dell'uscita di "Batman Begins", per la regia del factotum David S.Goyer, ma, complice l'incapacità della Warner di pianificare le produzioni correlate, tale progetto naufraga definitivamente.
Più fortuna ha invece trovato nel medium televisivo, con ben due serie televisive di culto.
La prima e meno longeva esordisce nel 1990 e vede John Wesley Shipp vestire i panni di Barry Allen. Tipica produzione dell'epoca, con episodi autoconclusivi e una vena camp temperata solo dall'influenza del Batman di Tim Burton, il cui successo è stato il motivo della produzione, si segnala ad oggi solo per il cast (dove compare anche uno scatenato Mark Hamill nei pani di Trickster), per i valori produttivi e le musiche di Danny Elfman. 
Mandata in onda contro la seconda serie de "I Simpson", chiude i battenti dopo solo una stagione, lasciando la tv orfana di una serialità supereroisitica degna di questo nome.



Le cose cambiano nel 2014. Dopo il successo di "Arrow", CW sforna un serial su Flash che si conclude quest'anno dopo ben nove stagioni. Anche questa è una tipica produzione figlia dei tempi, con il racconto di genere che si intreccia con le love-story dei personaggi finendo per annacquarlo, ma la trasposizione funziona e, sebbene con stagioni altalenanti, riesce persino a regalare emozioni. Nei panni di Barry Allen, Grant Gustin si dimostra perfetto con il suo fisico da corridore e ritorna persino John Wesley Shipp in ben tre ruoli: il padre di Barry, Jay Garrick e il Flash del 1990, che qui trova una conclusione alle sue avventure nel mega cross-over che traspone "Crisi sulle Terre Infinite". Non manca neanche il ritorno di Mark Hamill nei panni di ben due Trickster, oltre che al cameo di Ezra Miller nei panni del Flash del DCEU.




Si arriva così alla prima vera avventura filmica di Flash e le cose, come da tradizione nelle sue storie, si fanno complicate. A fare da base per lo script è infatti l'evento "Flashpoint" del 2011, il quale ha riplasmato l'universo DC facendolo transitare verso l'era di "New 52". Barry Allen, da poco tronato in vita, decide di viaggiare indietro nel tempo alla sua infanzia, quando sua madre è stata uccisa da un misterioso assassino facendo ricadere la colpa sul padre, al fine di salvare la genitrice. Così facendo finisce però per ricreare il mondo, andando a modificare non solo il suo destino, ma anche quello di tutti coloro che ha conosciuto: se lui si ritrova con una madre ma privo di poteri, Superman atterra a Metropolis anzicchè a Smallville e diventa una cavia da laboratorio per il resto della sua vita, Bruce Wayne muore durante la rapina che avrebbe dovuto uccidere i suoi genitori e questi diventano Batman (il padre) e il Joker (la madre), Cyborg è un'arma vivente al servizio del governo americano, mentre  Atlantide e Themischyra sono impegnati in una guerra ultradecennale che porta lentamente il mondo verso la catastrofe. Barry deve così trovare il modo di recuperare i suoi poteri e risanare le cose e per farlo chiede l'aiuto di Thomas Wayne, un Batman decisamente più cinico e violento rispetto al figlio.




Su schermo, quella che era partita come una trasposizione più o meno fedele di "Flashpoint" ne diventa una rielaborazione, dove il Batman è di nuovo quello di Tim Burton e la catastrofe non viene portata dallo scontro tra Aquaman e Wonder Woman, ma dall'arrivo del generale Zod di Michael Shannon.
L'intento è chiaro, ossia creare non solo un film sul Velocista Scarlatto, ma anche una sorta di riscrittura del DCEU che spalanchi le porte alla ristrutturazione di James Gunn e Peter Sarafin; oltre, ovviamente, a rivendere al pubblico la nostalgia per il passato, per quel Batman stroncato negli anni '90 ma ancora imperituro nel cuore del pubblico.
Intenzioni ambiziose. Peccato però che alla fine "The Flash" sia un film fuori tempo massimo, benché tutto sommato non disprezzabile.




Perché se di bruttezza si può parlare, ci si deve riferire a quella CGI palesemente non finita. A tratti si ha la sensazione di vedere una copia-lavoro arrivata al cinema per errore, con i volti e i corpi del passato di Barry e delle versioni alternative di Superman che sono dei manichini appiccicati su schermo alla bene e meglio, prova di come la Warner abbia chiuso i finanziamenti del film e deciso di distribuirlo senza investire ulteriori capitali per evitare perdite eccessive, con risultati davvero sconcertanti. Resi ancora più incredibili dal fatto che invece molti altri effetti risultano ben riusciti, anche se non al pari con quelli di altre produzioni odierne. Tanto che quando tornano in scena i personaggi de "L'Uomo d'Acciaio", ci si rende conto di come un film di dieci anni fa risulti fatto meglio.




Se si riesce ad oltrepassare lo scoglio di una bruttezza visiva insostenibile anche se parziale, "The Flash" non è affatto un brutto film, anzi.
La storia di Barry Allen e il suo casino spaziotemporale bene o male funziona. Paga soprattutto la scelta di concentrare totalmente su di lui la trama, con Batman e Supergirl che sono praticamente dei semplici comprimari (persino sottoutilizzati) e il vero coprotagonista che altri non è se non una versione alternativa e immatura del protagonista. E paga persino la scelta di Ezra Miller come attore, che da una doppia performance efficacissima e divertente.
Una storia che la serie CW aveva già raccontato su piccolo schermo, ma che su grande schermo trova la sua ragione di esistere grazie alla spettacolarità, alla compattezza e al fatto che sia stata totalmente concentrata su Flash, senza neanche menzionare il ruolo della nemesi Reverse-Flash negli eventi, forse perché nei piani originali, oramai deragliati, doveva essere introdotto in un sequel diretto.
E Andy Muschietti, in cabina di regia, riesce finalmente  sfogare la sua indole comica usando un umorismo massiccio e praticamente mai fuori posto, a differenza di quanto accadeva nel malriuscito "It- Capitolo Due", con un tono leggero e scanzonato che rende la visione davvero simpatica.



Dove risiede dunque il vero problema di "The Flash"? Semplice: nella più totale mancanza di originalità. La storia di un eroe che viaggia in mondi paralleli o linee temporali alternative per rimettere a posto le cose e magari salvare un suo caro è già arrivata sullo schermo con "Into" e "Across the Spider-Verse""Spider-Man- No Way Home" e "Doctor Strange in the Multiverse of Madness" e "The Flash" non può certo contare sulla forza visiva dei primi due. Se fosse uscito a suo tempo, ossia circa cinque o sei anni fa, allora sarebbe sicuramente stato rinfrescate vedere le gesta di un eroe che combatte praticamente contro la sua incapacità di somatizzare il lutto, ma al giorno d'oggi storie del genere sono straviste. Quel che è peggio, già il Quicksilver di casa Marvel aveva dimostrato le potenzialità spettacolari dell'ipervelocità al cinema, castrando molte delle potenzialità offerte da Flash, che finisce quindi per perdere definitivamente ogni tipo di personalità.
Alla fine l'unico vero tocco di originalità viene data dal concetto di multiverso qui utilizzato, che fonde l'idea di mondi paralleli e di linee temporali alternative in uno stesso universo per creare un continuum spazio-tempo complesso, cosa che di solito viene scartata in favore dell'alternativa tra linea temporale e universo parallelo.
Il che è anche buffo se si pensa che, tutto sommato, come film "The Flash" ha più personalità di molti altri film supereroistici recenti, come "Shazam! Furia degli Dei", "Quantumania", "Morbius" e i due exploit su Venom.


Il Velocista Scarlatto arriva quindi ultimo al traguardo; la sua corsa è simpatica, ma affossata da troppi limiti e difetti. E si spera che ora James Gunn riesca davvero a risollevare le sorti di un universo narrativo che meritetebbe davvero molta più considerazione di quanta ne abbia mai avuta.

mercoledì 21 giugno 2023

La Paura mangia l'anima

Angst essen seele auf

di Rainer Werner Fassbinder.

con: Brigitte Mira, El Hedi ben Salem, Barbara Valentin, Irm Hermann, Elam Karlova, Anita Bucher, Margit Symo, Katharina HHerberg, Gusti Kreissl, Doris Mattes, Peter Gruhe.

Drammatico

Germania Ovest 1974












Laddove la storia d'amore con Armin Meier è rimasta la più importante e influente nella vita e nelle opere di Fassbinder, non va lo stesso sottovalutata l'importanza di un'altra travagliata storia di passione che lo ha visto protagonista, quella con El Hedi ben Salem, anch'egli attore che lui ha scoperto e lanciato, oltre che concupito sentimentalmente.
Incontratisi per caso a Parigi nel 1971, i due iniziano una relazione sentimentale e professionale che si protrarrà per qualche anno. Salem all'epoca + già padre di due figli, i quali si trasferiscono a loro volta a casa del regista, lasciando il Marocco ancora adolescenti. Ma il rapporto tra Salem e Fassbinder è a dir poco tumultuoso: a causa del carattere forte di entrambi, si trovavano spesso a litigare violentemente, scontrandosi anche sul piano fisico; al carattere difficile si sommavano poi le dipendenze, quelle da droga di Fassbinder, quella da alcool di Salem
Nel 1974 la relazione giunge al termine, ma il vero dramma deve ancora consumarsi: in preda all'ira, Salem accoltella tre persone (per fortuna senza ucciderle), poi dice a Fassbinder che "adesso non dovrà più preoccuparsi" e scappa all'estero. Rifugiatosi in Francia, Salem si suicida in carcere (dove era in custodia per altri reati) nel 1977, lasciando Fassbinder nello sgomento. 
Una relazione, la loro, breve, vorticosa e passionale, simile a quella che il grande regista tedesco aveva avuto con Gunther Kaufman, visto il fatto che entrambi sono finite in tragedia. E sul piano professionale, questa relazione porta ad almeno tre risultati: la dedica fatta a Salem alla fine di "Querelle de Brest", la scena de "Il Diritto del più Forte" dove i due protagonisti vanno in vacanza in Marocco e incontrano proprio Salem, vera e propria scusa usata da Fassbinder per reincontrarlo dopo la sua rocambolesca fuga dalla Germania. E soprattutto la creazione di "La Paura manga l'Anima", tra le opere più riuscite del cinema fassbinderiano, del quale Salem è coprotagonista.




Monaco, anni '70. Emmi (Brigitte Mira) è una donna oramai anziana che intreccia una relazione con Alì (El Hedi ben Salem), un immigrato marocchino di molto più giovane di lei, generando uno scandalo.
Una storia d'amore tormentata e votata alla tragedia, come sempre nell'opera di Fassbinder. Ma "La Paura mangia l'anima" non è un puro dramma intimista, quanto e soprattutto una crudele riflessione sulla xenofobia imperante in una nazione che ancora vive tra le macerie del Nazismo.
Alì è una "non-persona" vera e propria, una specie di avatar di tutti gli immigrati in quella Germania che allora come oggi rappresenta l'unica opportunità di lavoro e affermazione economica per gli abitanti del sud del mondo (o anche solo del sud dell'Europa). Persino il suo nome è fasullo, un nomignolo affibbiatogli a causa della sua appartenenza all'etnia araba, prova di come venga visto dai Tedeschi come un nessuno, un animale buono solo per essere sfruttato lavorativo.
Emmi è tedesca di origine polacca, addirittura figlia di un membro rampante del partito nazista, ma non per questo più inserita nel contesto sociale perbenista piccolo borghese. E' una donna sola, madre di tre figli che a stento vede e persa in una solitudine che la divora poco alla volta.
L'incontro tra i due è casuale ed essenziale.




Un rapporto, il loro, non basato sulla passione. Alì non cerca sesso, tanto che nella prima scena rifiuta la pur avvenente ragazza del bar con la menzogna di essere impotente. Lui, come Emmi, cerca una comunione umana, una comprensione interiore, una forma di amore puro, genuino, sacro. Un amore dove la componente fisica esiste, ma non è essenziale, dove il legame umano è tutto e dove per una volta non c'è la volontà di possederedel partner. E che nonostante questo trova la totale ostracizzazione del prossimo. 
Le ragioni della xenofobia sono praticamente inesistenti. Si citano gli attentati di Settembre Nero e l'atavismo politico di estrema destra che cinquant'anni fa come oggi è ancora più di un semplice spettro, ma Fassbinder non è tanto ingenuo da credere che la politica e la paranoia siano gli unici elementi che la ingenerano.
La xenofobia è innata nelle persone. La visione di un diverso, di un estraneo, di un uomo che fisicamente non si omologa agli standard condivisi e condivisibili è destabilizzante; tanto che non è solo Alì ad essere la vittima del biasimo dei "normali", ma anche una donna di origine jugoslava e persino quei poliziotti "rei" di portare i capelli lunghi.
Xenofobia che si sostanzia nell'esposizione di una serie di pregiudizi davvero risibili: gli Arabi puzzano, sono animali, pensano solo alle donne. Di conseguenza, chi intrattiene una relazione con loro è solo una lussuriosa in cerca di piacere facile. 
Tanto che Emmi e Alì riescono a ritornare nelle grazie di vicini, colleghi e parenti solo quando questi necessitano del loro aiuto materiale, quando la relazione con loro può portare un vantaggio effettivo, in un allargamento del teorema fassbinderiano classico all'intero complesso sociale. O, in modo ancora più squallido, quando le donne si rendono conto dell'avvenenza del "negro", trasformandolo in un puro oggetto sessuale su cui sbavare.
E il biasimo generalizzato e sputato in faccia porta a sua volta ad una forma di paranoia che attanaglia chi ne è vittima.




La paura mangia l'anima: il biasimo porta ad uno stato paranoico perenne, gli sguardi costantemente puntati contro un'immagine considerata come "immorale" finiscono per ferire le persone, distruggerne la psiche prima che i sentimenti. Da cui la crisi coniugale, con Alì che decide di abbandonare momentaneamente Emmi per trovare rifugio nel corpo di Barbara, donna più giovane e attraente, ma il cui amore è prettametne fisico, una consolazione temporanea, oltre che una via di fuga verso gli sguardi accusatori. E se la storia d'amore tra la anziana donna sola e il giovane immigrato ancora più solo non finisce in una tragedia vera e propria, Fassbinder la lascia comunque in sospeso, con una speranza per un futuro migliore; una speranza flebilissima e ai limiti dell'illusione, ma pur sempre una speranza.




La visione sociale di "La Paura mangia l'anima" è magari scontata sino all'ovvio, a tratti persino fino al cliché, ma il paradosso è che ancora oggi risulta drammaticamente veritiera. Che sia merito della sensibilità di Fassbinder o colpa dello squallore umano imperante, alla fin fine conta davvero poco.

venerdì 16 giugno 2023

The Woman King

di Gina Prince-Bythewood.

con: Viola Davis, Lashana Lynch, Thusu Mbedu, John Boyega, Sheila Atim, Hero Fienness Tiffin, Jimmy Odukoya, Masali Baduza, Adreinne Warren, Jayme Lawson, Chioma Antoniette Umeala, Shaina West.

Avventura/Azione

Usa 2022












Il rapporto di Hollywood con la Storia è sempre stato ondivago, per non dire ridicolo. Sin dagli inizi il cinema commerciale (e non) americano ha piegato fatti, situazioni e personaggi reali per meglio servire la narrativa spettacolare, la quale richiede per forza di cose una semplificazione di fatti ed eventi al fine di essere meglio digerita e apprezzata dal grande pubblico. Da sempre, quindi, si è preferito sacrificare la realtà storica in favore dello spettacolo, talvolta con esiti riusciti ("Spartacus", "L'Ultimo Samurai"), talaltra con esiti decisamente più spiazzanti e ridicoli ("Pearl Harbor", "The Conqueror", "Il Patriota").
L'esempio supremo che si può fare in merito è l'ancora oggi indimenticato "Braveheart" di Mel Gibson, dove la vera storia della ribellione scozzese contro la corona inglese nel XIII secolo veniva riletta come un'epica lotta per la libertà contro un popolo oppresso da un tiranno che sembra uscito da un fumetto. Trovata di certo esagerata, ma che non controvertiva i fatti e che ha finito per divenire il paradigma definitivo del rapporto tra spettacolo e cronaca.
In tal senso, "The Woman King" è un film innovativo e epocale, visto che rappresenta un passo in avanti... o indietro a seconda del punto di vista, giacché per la prima volta Hollywood va oltre la mera rilettura apologetica e semplicistica dei fatti per creare una narrazione apertamente revisionista della Storia al fine di creare un prodotto in grado di stuzzicare la pancia di alcune fette di pubblico precise, quello degli Afroamericani, delle femministe e in generale di tutti coloro che si definiscono "woke".
Ovviamente, per comprendere appieno la portata di un tale scempio, bisogna partire dalla realtà storica effettiva così come tramandata da più fonti storiche, comprendendo cosa fosse il regno del Dahomey e quale sia stata davvero la sua guerra contro i coloni francesi.



Non si tratta di una "storia segreta", né di una serie di opinioni di pochi e sparuti storici e storiografi magari politicamente allineati a destra (per non chiamarli razzisti), tantomeno di teorie cospirazionistiche riportate solo in isolati forum di presunti illuminati deliranti, quanto di fatti facilmente reperibili persino su Wikipedia e prima ancora insegnati e tramandati nelle università di tutto il mondo, quindi conoscenza comune basata sulla tradizione e su ricerche antropologiche diffuse, oltre che ovviamente su fonti storiche.
Il popolo del Dahomey (stanziato in una parte del territorio dell'attuale Benin) era il più grande popolo schiavista del continente africano. E già questa verità basterebbe a bollare "The Woman King" come un film sbruffonescamente menzogniero. L'apporto del Dahomey al traffico di schiavi verso le Americhe è stato tra i più grossi di tutta l'Africa (si parla di circa il 20% del totale, il che lo porta al di sopra della media di tutti altri stati e singole tribù impegnati nell'economia schiavista) e i popoli che crearono la nazione del Dahomey (nel 1.600 circa) pare fossero dediti non solo alla schiavitù e al traffico umano, ma anche al massacro gratuito degli schiavi: tra le ricorrenze più importanti rientrava l'omicidio di massa di schiavi e prigionieri rimasti invenduti, ritenuto necessario per provare ai rivali la forza del regno; tra loro c'erano anche criminali, ma tale inclusione non rende questo costume meno disumano, tanto che persino i coloni inorridivano dinanzi ad esso. 
La cosa paradossale è che il Dahomey fu fondato dal popolo dei Fon per emanciparsi da quello degli Oyo e che passò i primi anni della sua esistenza a cercare di scrollarsi dal ruolo di vassallo con la forza, l'unica vera "lotta per la libertà" che abbia mai intrapreso.
L'istituzione delle Mino (o "agojie"), le famose "amazzoni" che tanto colpirono l'immaginario europeo durante il Colonialismo, viene descritta dal film come una sorta di isola progressista all'interno di un tempo ed uno spazio arcaici, a sottolinearne l'inclusivismo, trasformandola in una sorta di bandiera per tutta l'operazione. La realtà, ovviamente, è decisamente più prosaica: stando sempre alle fonti comuni, tale corpo militare non fu fondato per mere ragioni progressiste, ma per pura necessità, a causa dell'alto numero di donne nel regno causato proprio dal numero di schiavi e dalla scarsità di uomini, dovuta alle continue lotte con i popoli limitrofi; in particolare alla lotta di espansione del Dahomey verso oriente, nei territori deegli Oyo.
Il Dahomey, di fatto, oltre ad essere un regno caratterizzato da un'economia basata sul commercio di esseri umani, era anche uno dei regni più feroci di tutto il continente. Oltre gli inumerevoli scontri con gli Oyo, entrò in conflitto anche contro gli stessi colonizzatori per un motivo che gli autori del film hanno bellamente ignorato: nel XIX secolo la tratta di schiavi veniva apertamente perseguita dalle moanrchie europee, ma il Dahomey aveva un'economia nella quale la tratta di schiavi era il pilastro portante; lo scontro con gli Europei avviene in primis con la corona inglese, per un fatto altamente vergognoso: l'assedio della città di Abekouta, fondata da ex schiavi fuggiti dai padroni e che i Fon tentavano di riconquistare, usando come forza martellante proprio le Mino. Fortunatamente in tale battaglia il Dahomey fu sconfitto e il suo regno volgeva al tramonto. L'ultimo colpo fu poi inferto dai Francesi, che lo distrussero definitivamente per poi assorbirlo tra le loro colonie. 



Il progetto di "The Woman King" parte dall'attrice Maria Bello, che decide di dare spazio ad Hollywood alla lotta del popolo africano contro i coloni europei. Intenzione a dir poco encomiabile, che rende la scelta di narrare in tal modo la storia del Dahomey ancora più sconcertante. 
Progetto che resta nel classico limbo produttivo per anni, finché due eventi non convincono TSG e Sony a prenderlo in carico: in primis il successo di "Black Panther", in secondo luogo la vergognosa uccisione di George Floyd e la nascita del movimenti Black Lives Matter. D'un tratto, in pratica, Hollywood scopre l'inclusivismo può non essere una semplice battaglia morale, quanto anche una scusa per portare la gente al cinema. "The Woman King" è il prodotto perfetto in tal senso, parlando di una coraggiosa guerriera africana che difende il suo popolo dalle angherie degli invasori bianchi. E se già l'opera di ribaltamento storico è in sé stessa vomitevole, il tono usato per tutto il film lo rende del tutto insopportabile.




Tono che è quello di un'apologia assolutoria. La natura di schiavisti del popolo del Dahomey viene ammessa, ma trattata in modo ambiguo: si, i Fon erano schiavisti, ma cercavano di superare la dipendenza economica dalla tratta umana e nel finale decidono di diventare i paladini della libertà. I rivali Oyo da ex padroni e popolo minacciato dalle mire espansionistiche dei Fon come avveniva nel XIX secolo, diventano dei supercattivi, dei mostri che ne invadono le terre spalleggiati dai bianchi, cosicché loro divengono vittime di un'aggressione ingiustificata e razzista. La ferocia delle Agojie è così sempre giustificata, mentre ogni forma di effettiva e reale responsabilità morale viene ignorata. Non per nulla, il film si apre con le Mino che attaccano un piccolo avamposto nemico facendone a pezzi gli occupanti, ma poi il film aggiusta subito il tiro dicendo che erano lì per liberare un gruppo di schiavi. 
La menzogna storica è dunque subito ben servita: i Dahomey diventano dei liberatori, un popolo che ha realizzato l'ingiustizia della sottomissione altrui (praticamente dal nulla, tra l'altro) e che si batte contro i veri schiavisti.
Menzogna che poi continua ad essere perorata anche per il tramite dei singoli personaggi.




Altra menzogna riguarda poi la figura di re Ghezo, interpretato da John Boyega. Sovrano che qui viene ritratto come progressista e illuminato, tanto che alla fine rinuncia allo schiavismo e incorona la protagonista Nanisca come "Donna Re" per affiancarlo nel governo della nazione; descrizione che non potrebbe essere più lontana dalla realtà, ovviamente
Ghezo non abolì il commercio di schiavi, anzi ne rafforzò l'uso alleandosi proprio con un occidentale, il portoghese Francisco Felix De Sousa. Un'alleanza florida, visto che il Dahomey prosperò ulteriormente, al punto che De Sousa divenne un vero e proprio idolo del popolo, tanto che ancora oggi è presente una statua in suo onore in Benin. Fu sempre lui a intraprendere una nuova campagna di espansione verso oriente, occupando i territori degli Oyo che non erano stati reclamati dai suoi predecessori. Per di più, espanse anche il commercio di schiavi, portando le razzie del Dahomey verso nuovi territori. Infine, fu proprio lui a cingere d'assedio Abekouta.
E questo oltre al fatto che l'istituto della "donna re" è basato unicamente su di una leggenda del luogo, non esisteva davvero.




Se anche si riuscisse a soprassedere all'opera di revisionismo forzato, "The Woman King" resterebbe un film a dir poco mediocre.
La regia di Gina Prince-Bythewood, già autrice del tutto sommato insulso "The Old Guard", è blanda e priva di inventiva; le scene di battaglia vengono girate nel modo più convenzionale possibile, con il duello dei singoli personaggi che sostituisce sempre lo scontro di massa, come avviene praticamente in tutti i kolossal hollywoodiani dopo la lezione data da Branagh nel suo "Enrico V" e che qui non ha motivo di esistere data la facilità con cui si possono moltiplicare digitalmente le comparse. E anche nelle sequenze dialogiche e drammatiche, manca di polso, facendo scadere il tutto nella noia più pura.




Lo script vergato anche da Maria Bello certo non aiuta, presentando tutti i cliché possibili e immaginabili, tra i quali una storia d'amore "impossibile" (ovviamente solo sulla carta), dialoghi al solito risibili, con gli Africani del XIX secolo che parlano come giovinastri americani del XXI, personaggi tagliati con l'accetta (cosa ovviamente dovuta viste le intenzioni propagandistiche) e una sottotrama su di una recluta delle mino che sembra uscita direttamente da "Top Gun".
Se c'è una cosa buona in tutto questo cumulo di immondizia ideologica e piattezza filmica, è la sola prova di Viola Davis, che intraprende una trasformazione fisica per calarsi nei panni della protagonista Nanisca, stupendo per la sua dedizione. In compenso e a suo contrario, Lashana Lynch caratterizza la sua Izogie come il personaggio di una parodia, scadendo nell'overacting più inutile e urticante.




L'altra menzogna alla base di tutto il progetto, anch'essa rivoltante, inescusabile e solo in apparenza più sottile, riguarda l'essenza stessa del film, il suo essere un'epica contro il Colonialismo in Africa da vendere al pubblico Afroamericano; ci vuole poco però per accorgersi dell'ipocrisia malcelata, data dal fatto che si vende come eroico un popolo responsabile della sofferenza degli antenati di quella stessa gente che dovrebbe adorarlo, dato che molti degli schiavi in Nord America furono vittime delle razzie e delle compravendite perorate proprio dal Dahomey.




Non è forse un caso che "The Woman King" sia arrivato in sala poco prima dell'uscita in streaming di un prodotto analogo, l'altrettanto sconcertante "Queen Cleopatra": se il primo è una revisione storica, il secondo è una vera e propria fan-fiction usata a fini di appropriazione culturale da parte di quella classe di pseudo-intellettuali che puntano costantemente il dito quando sono gli altri ad "impadronirsi" di una cultura altrui. Ed entrambi sono figli della nuova classe creativa di Hollywood, quella del woke sfrontato e ottuso che preferisce la provocazione vacua alla profondità intellettuale, la propaganda politica da discount al racconto efficace, la polemica spicciola al posto dell'empatia. E che qui crea il precedente più pericolo che si possa immagine, il quale si spera resti ignorato e mai ripreso da nessuno.

giovedì 15 giugno 2023

R.I.P. Glenda Jackson


 1936 - 2023


Resterà per sempre famosa come una delle attrici-feticcio di Ken Russell, con il quale ha creato alcune delle pellicole più provocatorie e liberatorie degli anni '60. Ma Glenda Jackson non si è limitata ad influenzare la società per il solo tramite dell'arte, rientrando in quella categoria di attori che hanno anche preso parte alla politica: dal 1992 al 2015 è stata membro del parlamento inglese, dimostrazione definitiva della sua passione, intelligenza e versatilità.

mercoledì 14 giugno 2023

Rapito

di Marco Bellocchio.

con: Leonardo Maltese, Fabrizio Gifuni, Barbara Ronchi, Filippo Timi, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Corrado Invernizzi, Paolo Calabresi.

Storico

Italia, Francia, Germania 2023















A inizio carriera, Marco Bellocchio era famoso come il supremo distruttore delle istituzioni italiane, avendo fatto a pezzi quella famigliare nel suo esordio "I Pugni in Tasca" (e anni dopo in "L'Ora di Religione- Il Sorriso di mia madre"), nonché quella militare, più avanti, con "Marcia Trionfale". Eppure quando decise di confrontarsi con quella ecclesiastica nel capolavoro "Nel Nome del Padre", il suo sguardo critico non era rivolto tanto all'istituzione in sé stessa, la quale, anzi, ne usciva tutto sommato a testa alta, quanto verso le estremizzazioni della dottrina e del costume religioso.
Le cose cambiano circa cinquant'anni dopo con "Rapito", dove il grande regista rievoca un episodio scomodo della storia della Chiesa ad oggi quasi dimenticato, quello del vero e proprio sequestro di Edgardo Mortara, bambino ebreo strappato alla famiglia a soli sei anni e costretto ad accettare la religione cattolica.




Bellocchio parte dal particolare per creare un affresco storico impietoso. Gli anni in cui la vicenda di Mortara si svolge sono essenziali, ossia l'inizio della seconda metà del XIX secolo, con il Risorgimento in piena avanzata. La vergognosa azione della Chiesa, iniziata dall'Inquisizione e perorata con fervore da Pio IX diventa così una forma di sfoggio di potenza da parte di un'istituzione al tramonto.
La fine dello Stato Pontificio è ormai prossima, la riunificazione della Penisola in corso. E il rapimento del bambino diviene monito verso quegli oppositori e critici che però si ritorce contro la stessa Chiesa. Mortara stesso diventa suo malgrado la pedina in un gioco di potere dove l'apparenza è tutto e la sostanza è nulla, contando più la manifestazione del potere che il potere stesso.




Il racconto intreccia abilmente i due piani narrativi, quello privato e quello pubblico, alternando la storia di Edgardo e della sua famiglia con quella di Pio IX.
La storia della famiglia Mortara è la cronaca di una battaglia contro un'istituzione bieca che persegue i propri interessi a scapito di tutti; nonché quella di una persecuzione religiosa vera e propria, immersa nell'antisemitismo atavico, che si fa ingiustizia sociale a causa della natura di stato confessionale dello Stato Pontificio, il quale diventa così istituzione totale e totalitaria in grado di epurare di ogni diritto dei singoli per perseguire i propri scopi; e Bellocchio pone l'accento sull'arretratezza anche solo concettuale di un sistema del genere, immerso in un '800 i cui echi di modernità provenienti dall'estero sono centellinati ma assordanti, che rendono la Chiesa un ultimo baluardo di un ancien régime del tuttp anacronistico.




Dal punto di vista di Pio IX, la storia di "Rapito" è quella di una battaglia personale prima ancora che istituzionale di un uomo contro una modernità che ne rifiuta gli ideali. Una battaglia in teoria tragica, nei fatti tragicomica, con il papa caratterizzato come uno sbruffone delirante afflitto da malcelati sensi di colpa che prendono la forma di inserti onirici e visioni tanto cupe quanto grottesche.
Quello di Edgardo è poi un racconto privato e introspettivo diviso in due atti quasi antitetici. In primis, è la storia di un bambino costretto ad entrare in un mondo alieno, rapito, per l'appunto, per il solo fine di essere usato come simbolo della forza del potere. Tramite il suo sguardo innocente, Bellocchio torna a criticare il culto della morte proprio della dottrina cattolica, ritraendo un Cristo moribondo privo di ogni divina beltà, liberato dalla bontà e innocenza del piccolo protagonista, il quale è chiamato a comprendere prima ancora che assimilare usi, costumi e dottrine che non conosce, né sembra condividere. Ma che dimostra una forma di empatia maggiore di quella dei suoi "buoni aguzzini" quando libera il Cristo dalla croce, sia come forme di pietà, sia come dimostrazione del fatto che il popolo ebraico non sia costituito da assassini.
Nella seconda parte, opposta e complementare, Edgardo è un giovane uomo dalla psiche divisa prima ancora che dall'animo distrutto; un individuo plagiato dal potere (è divenuto prete), la vittima di una vera e propria setta che lo ha indottrinato a seguire meccanicamente i propri dogmi annientandone la personalità primigenea, che riemerge solo a sprazzi e con violenza, come nell'iconica scena della schizofrenia durante il trasferimento della salma del papa.




Con dalla sua un budget di certo non esaltante, Bellocchio è chiamato a fare quel che può per portare in scena in modo credibile l'incalzare del Risorgimento e riesce clamorosamente ad evitare ogni ostacolo. Le sequenze della rivolta di Bologna e della presa di Porta Pia, create con giusto un pugno di comparse e inquadrature ricercate ad hoc per farle sembrare più grandi di quello che sono, riescono davvero a restituire tutta la drammaticità della situazione pur mostrando pochissimo, piccola lezione di cinema che molti cineasti dovrebbero imparare (Mario Martone su tutti).




"Rapito" è così un apologo riuscito sulla brutalità del potere intrecciato ad una interessante analisi psicologica del rapporto tra carnefice e vittima. Un'opera scomoda e forte, mai conciliatoria né compiaciuta, dimostrazione di come Bellocchio, anche se ultraottantenne, abbia ancora talento e grinta da vendere.