con: Florence Pugh, Lewis Pullman, Sebastian Stan, David Harbour, Julia-Louis Dreyfus, Wyatt Russell, Olga Kurylenko, Hannah-John Kamen, Geraldine Viswanathan.
Azione/Fantastico
Usa, Australia, Canada 2025
---CONTIENE SPOILER---
I Marvel Studios stanno risalendo la china? Al momento sembrerebbe di si.
Perché di certo Captain America- Brave New World è un film mediocre e insipido, ma decisamente un passo avanti rispetto all'inqualificabile The Marvels; così come Daredevil- Rinascita è l'ombra di quel primo Daredevil televisivo che una decina d'anni fa incantò gli spettatori, ma è sicuramente migliore di tanta spazzatura in streaming targata Marvel vista su Disney+. E persino quel Agatha All Along, da molti deprecato, è un'operazione riuscita e simpatica.
Thunderbolts* sta ricevendo parecchi consensi finanche in quel fandom che un tempo idolatrava qualsiasi cosa avesse il logo della Casa delle Idee, ma che ora ne depreca qualsiasi incarnazione, segnando un primo passo avanti nel ritorno alla forma di una casa di produzione la cui caduta in disgrazia era forse inevitabile. Il che è paradossale se ti tiene conto sia in parte di ciò che effettivamente è l'operazione alla base del film, sia del gruppo di supertizi al quale si ispira.
Il primo gruppo a portare il nome del film, creato da Kurt Busiak nel 1997, era composto da un manipolo di supercriminali che si spacciava per supereroi, guidati da quel Barone Zemo visto anche nel MCU, in un periodo nel quale i Vendicatori e i Fantastici Quattro erano deceduti nell'evento Onslought, lasciando l'universo 616 privo dei suoi eroi più potenti. Dei cattivi che iniziano a "fare giustizia" come mezzo per coprire le proprie malefatte, ma che finiscono per trovare un vero senso di giustizia nelle loro azioni, divenendo, a loro modo, dei buoni. Una trovata intrigante, che però ha avuto poco fortuna, nonostante tra le varie incarnazioni i Thunderbolts siano stati in giro per una quindicina d'anni abbondante.
D'altro canto, la formazione più celebre del gruppo, risalente ai tempi di Marvel Now!, vedeva tra le fila alcuni degli antieroi Marvel più amati, ossia Elektra, il Punitore, Deadpool e Agent Venom, guidati in battaglia dall'Hulk rosso Thunderbolt Ross.
La formazione del film, invece, si rifà alla serie più recente, probabilmente tirata su appositamente per scopi pubblicitari, e vede un gruppo creato letteralmente con gli scarti del MCU: U.S. Agent da The Falcon and the Winter Soldier, quel "Taskmaster-Terminator" visto in Black Widow, Red Guardian, quella Ghost vista la prima e ultima volta nel brutto Ant-Man and The Wasp, Bucky Barnes e Yelena Belova, che assume il ruolo di leader al servizio di Valentina De Fontaine, praticamente nuova Nick Fury, il cui allineamento morale va però dal grigio al nero cupo. Un gruppo di "sfigati", supereroi di riserva in cerca di rivalsa che nel film alla fine diviene praticamente la nuova formazione degli Avengers, da cui l'asterisco del titolo, in un arco narrativo tutto sommato piatto.
Decisamente più interessante è l'inclusione, nei panni dell'antagonista, di Sentry, uno dei personaggi più singolari di tutta la vita editoriale Marvel.
Sentry non è che il Superman della Marvel, visto che ne ha praticamente tutti i superpoteri e persino una grossa S sul costume. Tutto qui? Certo che no.
Il suo creatore è quel Paul Jenkins che, soprattutto grazie alla sua run su Hellblazer, si è imposto come un narratore anticonvenzionale persino quado si cimenta in operazioni più mainstream. E la sua prima miniserie sul Superman Marvel di convenzionale aveva ben poco.
Introdotto come un uomo comune, Sentry è Robert Reynolds, alcolizzato di mezza età che inizia ad avere strani ricordi su di un passato da supereroe e, contemporaneamente, visioni future del ritorno della sua mortale nemesi, una creatura amorfa chiamata Void. Pian piano i superpoteri iniziano a manifestarsi, ma se lui è davvero un superuomo, perché nessuno ha memoria degli eventi che lo hanno visto protagonista?
Reynolds inizia così un viaggio per recuperare i ricordi perduti, incontrando tutti gli eroi dell'universo 616, fino ad una scioccante rivelazione: lui era davvero Sentry e ha combattuto, assieme agli altri eroi, Void in una battaglia che ha causato milioni di morti. Ma il vero colpo di scena in realtà è un altro: Void altro non è che la manifestazione del suo subconscio, quindi più Sentry compie azioni eroiche, più Void ha la possibilità di prendere forma fisica. L'unica soluzione era quindi quella di obliare ogni ricordo riguardo a quegli eventi.
Jenkins crea così non solo un classico eroe tormentato, ma anche una intrigante declinazione sulla necessaria coesistenza tra bene e male e sulla tematica della malattia mentale, in una delle miniserie più interessanti della Marvel post 2000. Nonché quello che è praticamente uno degli ultimi supereroi originali sfornati dalla Casa delle Idee, visto che da lì a poco si sarebbero limitati a cambiare l'identità segreta degli eroi classici.
Sentry viene poi bene o male incluso nel roaster principale degli eroi e la sua origin story rimodulata per adattarsi meglio all'universo Marvel, con tanto di collegamento al progetto del Super Soldato: i poteri gli sono stati infatti concessi da una variante della formula che aveva creato Capitan America, grazie ad un serio che aveva ingerito durante una crisi di astinenza, portando avanti la sua caratterizzazione di eroe afflitto dalla tossicodipendenza.
La seconda serie di Sentry compie poi un'operazione ardita, ma che alla fine paga, ossia includere persino Paul Jenkins come personaggio: in una simpatica mossa metatestuale, si scopre come la prima miniserie altro non fosse che un fumetto pubblicato nell'universo 616. Il vero Sentry si era messo in contatto telepatico con Jenkins e aveva ispirato quella storia, la quale è stata rielaborata dall'autore. La differenza sta nel fatto che il legame tra Sentry e Void è meno forte di quanto visto in precedenza, quindi Reynolds ora può usare più liberamente, combattendo al fianco degli eroi classici. Anche se, in un ulteriore ribaltamento, finisce per diventare il braccio armato di Norman Osborne nella miniserie Regno Oscuro, portando il caos nel mondo, culminando in una delle vignette più iconiche della storia Marvel, nella quale apre in due il dio Ares.
Thunderbolts*, inteso come film, appare essere un'operazione derivativa. Inutile girarci attorno: questo non è altro che il Suicide Squad del MCU, con un gruppo di reietti quasi tutti privi di veri superpoteri chiamati a combattere una minaccia sovrannaturale e soverchiante per conto di una dirigente dei servizi segreti (qui anche imprenditrice) dalla moralità dubbia, in una storia immersa in un tono sarcastico e abrasivo. Forti però sono anche altre due influenze, ossia quella di The Boys per il modo in cui Sentry viene reinventato, divenendo praticamente un supereroe costruito ad hoc da un'azienda privata per scopi militari; oltre che l'influenza dell'ancora sottovalutato Legion per il modo in cui la psiche tormentata di Reynolds, qui ribattezzato con il diminutivo Bob, prende forma.
Ed è anche bene mettere in chiaro un'altra e più ovvia cosa: nonostante il film si chiami Thunderbolts, i Thunderbolts non sono il vero perno della narrazione.
Sebbene lo script tenti di mettere al centro di tutto i superproblemi di Yelena, di suo padre Alexei, del "Capitan America scartato" John Walker e persino di quella Ghost che anche qui lascia il tempo che trova, è Bob ad essere non solo il vero motore degli eventi, ma anche il vero centro emotivo di tutto il film. Se i Thunderbolts finiscono per essere delle macchiette in un film che serve praticamente solo a riunirli, con la conseguenza che tutta la prima parte risulta a tratti raffazzonata e quasi noiosa, per fortuna il modo in cui il personaggio di Sentry viene trasposto finisce per salvare il film e renderlo davvero interessante.
Bob ha innanzitutto il volto perfetto di Lewis Pullman, che riesce a comunicarne magnificamente la fragilità e le insicurezze. Void viene poi reinterpretato come non più una semplice manifestazione del subconscio del personaggio, ma come il coacervo di tutti i sentimenti negativi che reprime, una forza astratta che divora qualsiasi cosa si trovi innanzi per trasportarla in una dimensione altra nella quale ciascuno è chiamato a confrontare i propri timori e quel dolore rimosso che solitamente si cerca di seppellire nel profondo.
Tale manifestazione prende le mosse non solo dalla depressione che affligge lui così come Yelena, che qui diventa forza empatica e salvifica, ma anche dal disturbo dissociativo che ha sviluppato a causa dei traumi infantili. Una tematica brutale, che il film riesce a maneggiare tutto sommato a dovere, declinandola con la giusta sensibilità, senza scadere nel pedante, né nel patetico. E, soprattutto, dando una morale tutto sommato giusta, soprattutto per il giovane punto di riferimento del pubblico: il dolore si supera solo aprendosi al prossimo.
Per il resto, questo Thunderbolts* è giusto un simpatico film d'azione, condotto con mano altalenante da un regista, Jake Schreirer, praticamente al secondo lungometraggio e che si è fatto le ossa con i videoclip e le serie in streaming (tra le quali spuntano episodi dei simpatici Al Nuovo Gusto di Ciliegia e Star Wars- The Skeleton Crew); una regia di buon mestiere, soprattutto nel dar vita alle scene d'azione e alle visioni, che paradossalmente incespica nei momenti più rilassati, i quali durano troppo e ben avrebbero potuto essere sfoltiti in sede di montaggio.
Un nuovo exploit che è solo l'ennesimo tassello nell'ennesimo mosaico Marvel. Nulla di memorabile ma tutto sommato ben condotto, per questo meglio di quanto visto ultimamente.
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