venerdì 26 aprile 2024

Perfect Blue

Pâfekuto burû

di Satoshi Kon.

Animazione/Thriller/Psicologico

Giappone 1997
























---CONTIENE SPOILER---

Quando si cerca di pensare ai film anime che più di tutti hanno influenzato l'orizzonte cinematografico, la mente non può che correre subito ai soliti "Ghost in the Shell" e "Akira", visto il forte impatto anche culturale che hanno avuto; eppure, "Perfect Blue" dovrebbe avere un posto speciale in una categoria del genere, visto il modo in cui ha influenzato tanti altri thriller a venire.
Basti vedere come, giusto qualche anno dopo, Darren Aronofsky ne abbia acquistato i diritti solo per "rubarne" un paio di inquadrature da inserire nel suo "Requiem for a Dream" e come sempre lui ne abbia fatto un remake non dichiarato con "Il Cigno Nero".
"Perfect Blue" è praticamente un'opera che a suo modo ha fatto scuola e il cui valore, ancora oggi, viene riconosciuto solo in parte.



Un esordio assoluto per il compianto Satoshi Kon, che prima aveva diretto giusto un episodio della serie OAV tratta da "Le Bizzarre Avventure di JoJo", alla quale aveva lavorato anche come key animator, oltre ad aver assistito Katsuhiro Otomo con la scrittura di "World Apartment Horror" e il bellissimo episodio "Magnetic Rose" dell'antologico "Memories". Esordio alla regia che inizialmente non doveva essere neanche animato: Kon, infatti, decide di portare su schermo l'omonimo romanzo di Yoshikazu Takeuchi come normale live-action, ma il progetto si interrompe a causa della mancanza di fondi.
In suo soccorso arriva così proprio il collega Otomo, che lo mette in contatto con lo studio di animazione Madhouse del trio delle meraviglie Rintaro, Yoshiaki Kawajiri e Osamu Dezaki. Il progetto di adattamento prende così la forma di un lungometraggio anime e il cammino di Kon è segnato nel suo ritornare al medium dell'animazione e al contempo nel divenirne uno degli araldi più riveriti, pur a fronte di una carriera brevissima.
Nella sua opera di adattamento, l'autore decide di allontanarsi in parte dal romanzo e di fare sua la storia, declinandola in modo più intimo, concentrandosi totalmente sulla crisi di identità della sua protagonista Mima Kirigoe e non semplicemente sulla sua persecuzione da parte di un fan ossessivo.
"Perfect Blue" diventa così una sorta di "Persona" declinato (ancora maggiormente) verso l'horror, la storia di una crisi identità di un'aspirante attrice che la porta oltre i limiti della paranoia e dentro una distruzione percettiva totalizzante.



L'input della crisi non viene (almeno inizialmente) dalla confusione tra personalità e ruolo da interpretare, ma si ingenera a causa della pressione psicologica alla quale Mima è sottoposta: idol apprezzata all'interno del trio Cham, decide di cambiare carriera per dimostrare di non essere una semplice bellezza tra palco, ma di avere talento. L'insicurezza causata da questo drastico cambiamento porta un iniziale smarrimento, magnificamente portato in scena dagli stacchi che confondono i paini spazio-temporali.
L'identità viene poi questionata quando un'altra forma di pressione si fa strada, ossia quella dovuta alle aspettative dei fan.




Kon ritrae il mondo dello spettacolo con piglio al solito impietoso e descrive come l'ansia da prestazione degli artisti possa comportare una vera e propria discesa nella pazzia. Mima, di fatto, si dissocia da sé dividendosi in due identità, la vera sé stessa e la sé stessa che crede che il pubblico voglia vedere, perennemente agghindata nel costumino di scena che l'ha resa celebre.
Il tramite di tale dissociazione è per Kon nient'altro che Internet; in anticipo sui tempi anche in questo, ritrae una fanbase "tossica" che vuole imporre ad un'artista ciò che deve fare, sostituendosi ad essa in toto. Da cui il personaggio di Mimania (Mimaniac nella versione italiana), mostruoso stalker la cui personalità viene fagocitata da quello del desiderio.
La idol Mima diventa così una creatura eterea, un'entità incorporea che esiste non solo all'interno della ragazza, ma anche all'interno della psiche di altre persone. Kon non arriva a ritrarre la maschera dell'idol come un essere a sé stante vero e proprio, come un fenomeno che da virtuale arriva ai limiti della realtà, si ferma un passo prima, delineandola come una forma di delirio che accomuna chi riserva aspettative nei confronti della diva, una sorta di transfert che "infetta" altre persone.




Da qui discende quel colpo di scena del terzo atto, ereditato dal romanzo e in parte improbabile, nel quale si scopre come l'altro deus ex machina dei delitti (oltre Mimania) altri non è se non la manager Rumi. Così come Mimania ha riversato sulla ragazza la sua frustrazione sessuale, Rumi vi ha riversato la frustrazione per una carriera sfumata, arrivando non tanto alla manipolazione, quanto ad una forma di sovrapposizione identitaria totalizzante. Che prende le forme, tra le altre cose, anche di un protezionismo ossessivo.
Protezione che si sostanzia tramite la difesa dell'immagine casta della ragazza, di quella sua aura virginale che viene deflorata all'ingresso del mondo della televisione. Sia Rumi che la stessa Mima vivono una dissociazione dovuta al senso di colpa per, letteralmente, essere cresciute, essersi trasformate da pura immagine virtuale dotata di una carnalità anche solo suggerita a vera e propria immagine della sessualità. La scena dello stupro diviene così la chiave di volta con la quale la crisi identitaria si concretizza e il ruolo di Rumi nonché quello di Mimania e della fanbase si sostanzia in quello di un presunto super-io volto a castigare una lascivia negativa solo per via supposta.




La confusione tra identità reale e identità teatrale si sostanzia così nella fusione tra i piani esistenziali. Mima diventa il suo personaggio, il personaggio diventa Mima, le due vite si fondono senza linea di demarcazione alcuna, come avverrà qualche anno dopo anche alla protagonista di "INLAND EMPIRE" di Lynch. E come Lynch, anche Kon si rifà al surrealismo riprendendo lo stratagemma bunelliano dei risvegli, con Mima che confonde realtà. sogno e pura fantasia ritrovandosi costantemente a letto, trovata che avrà fin troppa fortuna in tutti i thriller e gli horror degli anni '00. Qui, Kon sa come dosarla, relegandola all'ultima parte del film e riuscendo a confondere davvero i sensi dello spettatore, che può orientarsi solo a vista in un racconto complesso, ma mai davvero confuso. il quale trova una conclusione perfetta in un epilogo sottilmente ambiguo, nel quale la ritrovata identità della protagonista può non essere quella effettiva, potendo bensì essere una terza "anima" generata a seguito del trauma.




A rivederlo oggi, i limiti produttivi di "Perfect Blue" forse saltano all'occhio più che nel 1997. L'epoca d'oro delle produzioni anime era largamente tramontata e gli studi di animazione non potevano certo contare sui capitali faraonici che venivano loro elargiti nel decennio precedente. La ristrettezza di budget si nota soprattutto nei fondali, decisamente dozzinali rispetto ad altre produzioni cinematografiche Madhouse. Laddove l'animazione brilla è nel dare vita ai movimenti dei personaggi, di una fluidità oggi ancora  incantevole, oltre che nelle loro espressioni vivide.
A rendere la visione eccelsa è poi lo stile di regia di Kon. Di stampo marcatamente cinematografico, si allontana dal mezzo animato per dedicarsi ad una costruzione delle scene figlia di una visione "realistica", dove le inquadrature e i movimenti dei personaggi e della macchina da presa sono basate più sulla ripresa live-action che su quella classica del film animato.
Proprio per tale impostazione di messa in scena, è già da qui che la polemica sull'effettiva necessità dell'animazione inizia a colpire i lavori di Kon. Cosa ha "Perfect Blue" di diverso rispetto ad un normale film "dal vivo"? Nulla ed è anche normale visti i natali di tutta la produzione. Tale critica verrà rivolta anche e soprattutto al successivo "Tokyo Godfathers" e finirà per marchiare l'autore di "pigrizia". E se nel film successivo l'estrema espressività dei personaggi giustifica il ricorso al medium dell'animazione, in questo suo primo film la critica sembrerebbe anche trovare spazio. Se non fosse per un piccolo particolare: "Perfect Blue", alla fin fine, riesce a risaltare proprio a causa della natura di anime.




In un panorama dominato quasi esclusivamente dal fantastico, il lavoro più verosimile di Kon trova una dimensione tutta sua che gli permette di brillare più di quanto avrebbe potuto se fosse stato un canonico thriller con attori in carne e ossa. 
Si potrebbe parlare, di conseguenza, di pura convenienza e forse si avrebbe anche ragione: se "Perfect Blue" fosse stato un semplice j-horror, forse oggi non sarebbe neanche diventato cult. Pur tuttavia, non è solo il lascito a giustificarne la natura animata.
C'è qualcosa di sottilmente inquietante nell'atmosfera che Kon riesce a costruire proprio tramite il mezzo animato e che con la ripresa dal vivo forse non sarebbe riuscito ad ottenere. Al di là delle immagini visionarie che avrebbero richiesto uno sforzo tecnico maggiore, dal vivo le immagini difficilmente sarebbero state così vivide, così espressive anche nel ritrarre personaggi i cui visi sono sempre realistici o ambienti del tutto ordinari. Grazie anche allo stratagemma della patina sfavillante che porta i corpi a generare luce, i fotogrammi di tutto il film raggiungono uno status ipnotico difficile da spiegare. In una ripresa dal vivo, l'uso della patina avrebbe reso la fotografia pacchiana fino all'insopportabile (cosa che avveniva spesso nelle produzioni nipponiche dell'epoca, soprattutto quelle televisive), mentre in animazione tutto porta ad un'estetica sinistra che colpisce i sensi dello spettatore restituendo perfettamente lo smarrimento della protagonista, riuscendo a colpire e convincere come non mai.



A 27 anni dalla sua produzione, "Perfect Blue" è ancora un'esperienza ammaliante. E rivisto oggi, dopo almeno due decenni di thriller psicologici fatti con lo stampino, è curioso vedere come quei cliché fossero già qui presenti, declinati in modo originale ed efficace come non mai.

mercoledì 24 aprile 2024

Rebel Moon- Parte 2: La Sfregiatrice

Rebel Moon- Part 2: the scaregiver

di Zack Snyder.

con: Sofia Boutella, Michiel Huisman, Stuart Martin, Ed Skrein, Djimon Hounsou, Staz Nair, Bae Doona, Fra Fee, Anthony Hopkins, Elise Duffy.

Fantastico/Azione

Usa 2024










C'è davvero poco da dire riguardo a questo "La Sfregiatrice", seconda parte di quel "Rebel Moon" annunciato da Zack Snyder come uno "Star Wars con sesso e violenza", il quale in questa sua prima veste non ha sesso e di violenza ne mostra ben poca, cosa che dovrebbe cambiare con l'ennesima "Snyder's Cut" già annunciata.
Questa continuazione è in tutto e per tutto uguale alla prima, se non per qualche dettaglio che la rende in parte peggiore, come una scrittura ancora più blanda.



Una storia che inizia laddove il primo film terminava; Kora (Sofia Boutella) e i suoi guerrieri tornano al villaggio per organizzare la resistenza contro la Dreadnought del già redivivo Atticus Noble (Ed Skrein).
Snyder cerca davvero di creare un'epica sci-fi fantasy, ma tra cliché e enfasi a caso non ci riesce mai davvero. La scrittura, al solito, è il suo limite insormontabile, con la sospensione dell'incredulità che qui vacilla più che mai: non si crede ad un gruppo di contadini che diventa una forza militare inarrestabile appena prende in mano un fucile, né alla loro capacità di riuscire a tenere testa alle truppe imperiale con granate e moschetti; tanto che ci si chiede anche perché serviva loro il supporto dei sette samurai spaziali. E non si crede a quella scena nella quale le truppe sulle Dreadnaught non si accorgono delle bombe piazzate letteralmente in faccia al motore della nave (che ha un volto, ma non si sa perché); né si riesce a sopportare l'abuso dello stratagemma del deus ex machina, con il robot James che esiste solo per incarnarlo e che non è neanche l'unico di tutto il film.




I personaggi introdotti nel primo film hanno anche uno screen-time adeguato e ora il loro passato viene narrato in modo esplicito. Eppure risultano lo stesso evanescenti, impegnati come sono in scene d'azione prive di nerbo e drammaticità.
Lo stile di Snyder è al solito pacchiano, ma rispetto al primo film almeno non abusa del suo marchio di fabbrica, ossia lo slow-motion selvaggio; in compenso, la costruzione delle inquadrature a tratti è più sciatta, così come lo è nuovamente il montaggio, che se ne infischia di continuità e scavalcamenti di campo.
Il suo gusto per l'enfasi lo stesso raggiunge il culmine nel flashback sulla morte della principessa, che avviene davanti ad un quartetto d'archi con tanto di musica diegetica per rendere il tutto memorabile. Nel senso di memorabilmente pacchiano.




A salvarsi è così nuovamente la sola direzione artistica, con scenografie, costumi e oggetti di scena davvero incantevoli. Il resto è routine nella migliore delle ipotesi, ma addirittura noia nelle peggiori, in un racconto che non riesce davvero mai a coinvolgere, tanto meno a stupire.

martedì 23 aprile 2024

Late Night with the Devil

di Cameron & Colin Cairnes.

con: David Dastmalchian, Laura Gordon, Ian Bliss, Fayssal Bazzi, Ingrid Torelli, Rhys Autieri, Georgina Haig, Josh Quong Tart, Tamala Shelton.

Usa, Australia, Emirati Arabi 2023


















C'è qualcosa di sottilmente inquietante nelle dirette televisive. In quanto telespettatori, sappiamo che quanto avviene sul piccolo schermo è reale, per questo quando succede qualcosa di imprevisto, tutto diviene imprescindibilmente coinvolgente e infinitamente sconvolgente. 
I giovani filmmaker australiani Cameron e Colin Cairnes sono coscienti di tale forma di percezione e decidono di porla alla base del loro terzo lungometraggio. "Late Night with the Devil" è una sorta di omaggio alla forza sconvolgente del tubo catodico, una reminiscenza televisiva che del mezzo riprende gli stilemi per metterli al servizio di un racconto orrorifico raccapricciante, ma anche goffo.




31 Ottobre 1977. Il celebre conduttore Jack Delroy (Dastmalchian), autore e front man del talk show "Night Owls", da sempre coinvolto in una lotta di ascolti con il rivale Johnny Carson, si gioca il tutto per tutto con uno special di Halloween nel quale ospita, tra gli altri, anche la giovane sopravvissuta ad una setta satanica. Cosa che, ovviamente, porterà a conseguenze disastrose.




Come avvenne qualche anno fa con "Antrum", anche i Cairnes optano per il registro del mockumentario: il film altro non è se non un montaggio della registrazione della trasmissione con aggiunte dal dietro le quinte e con un'introduzione para-documentaristica volta ad introdurre il protagonista e il suo show.
L'uso di tale stile è anche di buona fattura, con la maggior parte del film costruita proprio come una puntata del talk. Ma i due registi decidono di restare attaccati allo stilema il giusto: gli intermezzi in bianco e nero che colmano gli spazi pubblicitari, benché girati con camera a mano e in teoria parte del dietro le quinte, sono fin troppo fasulli per risultare davvero parte del finto documentario.  E la disattenzione verso la grammatica è il punto debole che fa crollare tutta l'operazione.




Purtroppo, tutto il sistema del mockumentario si regge totalmente su di un'unica premessa, ossia che quello che si guarda è finto, ma potrebbe essere vero, ingenerando una particolare sospensione dell'incredulità. La cui particolarità, tra le altre cose, consiste proprio nella facilità con cui può crollare.
Vendendo gli inserti in bianco e nero come parte del dietro le quinte, "Late Night" vuole farci credere che ciò che sta accadendo sia vero all'interno del racconto e di come la macchina da presa sia elemento diegetico ad esso. Ma quei controcampi perfetti nei dialoghi rompono l'effettiva credibilità dell'assunto, tirando lo spettatore fuori dal narrato. Tanto che sarebbe stato meglio eliminare quel prologo che svela la natura di quelle immagini, lasciando invece credere a chi osserva la loro natura di fiction, rendendole, paradossalmente, più credibili. Senza contare come nel finale l'intero registro mockumentaristico venga totalmente abbandonato in favore della fiction vera e propria, cosa che avrebbe reso tutto il racconto decisamente più compatto.
Finché il duo di registi decide di tenere il gioco, "Late Night with the Devil" bene o male incanta, restituendo quella sensazione di freschezza che solo la coscienza di una finzione ben orchestrata può restituire. Ma quando si decide di mollare la presa, l'indole convenzionale di tutto l'assunto appiattisce ogni forma di coinvolgimento e divertimento, rendendo questo exploit del tutto privo di mordente.



La storia, in fin dei conti, è risaputa: Jack Delroy ha letteralmente venduto la sua anima per lo showbussiness. Il vero demonio non è quello che appare in scena a gettare scompiglio, ma la fama, l'ambizione di successo che trasforma le persone in mostri poiché ad essa sacrificano quanto di buono hanno. E questa "rivelazione" arriva in realtà già nel prologo, rendendo la rivelazione finale del tutto inefficace.
Nulla di nuovo, nulla di originale, quindi. Tanto che persino la forma mockumentaristica risulta pleonastica, utilizzata solo al fine di dare una personalità ad un horror che, altrimenti, si sarebbe confuso nella folla. E c'è da dire che il ricorso a tale stilema estetico e linguistico, unito alla passione dei due registi per il periodo storico di riferimento, costituiscono la parte migliore di tutta l'opera, nonché la sua vera (parziale) salvezza.




L'influenza maggiore, al di là di quelle dichiarate, è quella dello special inglese "Ghostwatch", vero e proprio scherzo televisivo che nel 1992 causò attacchi di panico in tutta la Gran Bretagna. Da tale episodio, i Cairnes creano un bello spaccato dell'America degli anni '70, del "panico satanista", di quella sensazione di paura che serpeggiava tra le famiglie, impaurite da un male assoluto che per la prima volta poteva celarsi nella villetta affianco.
Le parole del narratore iniziale sembrano descrivere la visione che si cela dietro la creazione di "Cannibal Holocaust", ossia la capacità della televisione di portare nelle case tutta la violenza del mondo, ma anche quelle facce amichevoli pronte a confortare lo spettatore. "Night Owls" diventa così il coacervo di due forze opposte, una trasmissione con la quale rilassarsi e perdere al contempo ogni forma di pace interiore o esteriore, la portavoce di una tranquillità totale e di un orrore indicibile.




Il lavoro dei Cairnes è così sublime quando cerca di mimare il passato per riproporre uno stile televisivo e una ricostruzione storica ricreati con passione, ma si dimostra sin troppo indeciso sulla direzione da far prendere al racconto, creando un ibrido indigesto che nel finale vanifica quanto di buono fatto in precedenza.

lunedì 22 aprile 2024

Civil War

 di Alex Garland.

con: Kirsten Dunst, Wagner Moura, Caileey Spaeny, Stephen McKinley Henderson, Jesse Plemons, Nick Hofferman, Jefferson White, Nelson Lee, Evan Lai.

Fantastico/Drammatico

Usa, Regno Unito 2024
















---CONTIENE SPOILER---

6 Gennaio 2021: la destra extraparlamentare americana compie un assalto a Capitol Hill, Washington D.C. in supporto all'ex presidente Donald Trump, sconcertato per la mancata rielezione. Per la prima volta dai tempi della Guerra di Secessione, una frangia della popolazione americana si ribella violentemente contro il governo democraticamente eletto e cerca di rovesciarlo. Per la popolazione è uno shock: scene di protesta del genere sembravano essere appannaggio di stati esteri, non della prima e più vecchia democrazia moderna.
Un episodio che altro non è stato se non il culmine di quella "guerra culturale" che da una decina d'anni impazza non tanto per le strade e le piazze, quanto sui social e su Internet in generale, combattuta a suon di tweet e reel su TikTok, dove ciascuno risponde in modo sempre più violento e radicale alle prese di posizione socio-ideologiche di turno. Il tutto esasperato dalla figura politica di Donald Trump, vero e proprio burattinaio che ha manipolato ad hoc la frangia più intollerante del suo elettorato per contestare ed eventualmente detronizzare il neo-eletto presidente Joe Biden.
E' l'inizio di una nuova forma di coscienza, in realtà per l'intero Occidente: i dissapori tornano a manifestarsi in modo violento dopo quasi cinquant'anni dalla fine delle proteste controculturali.
Alex Garland, dal canto suo, è un inglese che in Usa ha trovato il successo e che grazie al beneplacito di Hollywood è riuscito ad imporsi come un autore a livello mondiale. Un autore al quale gli stilemi del cinema woke e le derive più estreme della relativa filosofia sono sempre andate a genio, tanto che giusto qualche tempo aveva firmato l'intransigente "Men". La visione di Capitol Hill è uno shock anche per lui e inizia a riflettere sugli effetti che un episodio del genere può comportare.
"Civil War" è il risultato di tale riflessione, una piccola distopia fantapolitica, forse profetica, che immagina un'escalation verso una guerra interna al territorio americano. Non certo il primo film ad immaginare una nuova guerra civile americana, visto che arriva quasi trent'anni dopo "La Seconda Guerra Civile Americana" di Joe Dante; ma laddove questi immaginava un episodio del genere nelle forme della commedia nera, in tempi decisamente più civili, Garland opta per un dramma di guerra realistico e crea una pellicola interessante, anche se ingiustificatamente monca.



"Civil War" è soprattutto un film dalle due anime complementari. Da un lato c'è la visione fantapolitica e distopica, dall'altra c'è la disanima del ruolo dei reporter di guerra e della moralità sottesa (o meno) alle loro azioni.
Quest'ultima traccia è in realtà predominante e rappresenta anche l'aspetto più riuscito del film, il quale è tutto basato su di una premessa presto detta: durante gli ultimi giorni della guerra civile che ha dilaniato l'America, la fotoreporter veterana Lee (Kirsten Dunst), assieme al collega giornalista Joel (Wagner Moura) e all'anziano reporter Sammy (Stephen McKinley Handerson) parte da New York verso la blindatissima Washington D.C. per cercare di intervistare il Presidente (Nick Hofferman). A loro si unisce, all'ultimo, la fotografa novizia Jessie (Cailee Spaeny), in cerca di gloria personale e professionale.



Quale deve essere il limite del fotografo in una zona di guerra? E, di fatto, questo limite esiste davvero? Esiste, poi, una sua possibile complicità negli eventi?
Domande scottanti che esistono fin da quando esiste lo strumento fotografico stesso. Se il compito di un giornalista è narrare gli eventi, allora non devono esserci limiti, non si può distogliere lo sguardo verso l'orrore della guerra con la scusa di un ritrovato senso morale. Ma, al contempo, è impossibile non trasformare le immagini di vera morte in un esercizio voyeuristico, riprendere un corpo martoriato al fine di instillare una data sensazione allo spettatore, fosse anche il semplicemente sgomento. E, di conseguenza, è impossibile non trasformare quella morte in un trofeo personale attraverso il quale ottenere una forma di riconoscimento di prestigio.
Garland pone tali quesiti allo spettatore per il tramite dei propri personaggi, di quelle due donne agli antipodi; Lee è l'esperta, una donna che ha girato il globo documentato ogni tipo di nefandezza e che ora si ritrova in un fronte interno che la dilania nel profondo: lo stress della morte e del pericolo costante si fa insopportabile poiché non ci si può mai davvero abituare alla violenza. Jessie, d'altro canto, non ha il pelo sullo stomaco e deve imparare a mediare la propria coscienza con la realtà, ad usare il filtro della macchina fotografica per schermarsi da ciò che la circonda.
Due facce della stessa medaglia, due donne che sono un'unica persona ripresa in due fasi diverse della sua esistenza. E che nel finale divengono un tutt'uno, con un sacrificio della più matura che esce così dal suo ruolo passivo per divenire non più mero occhio degli eventi, non più organo sensoriale dotato di coscienza, mentre la più giovane eredita tale ruolo, diventa un nuovo testimone silenzioso. E Garland ha l'intelligenza di non cercare risposte a quesiti dalla pesantezza schiacciante, lasciando che sia sempre lo spettatore a decidere quanto ci sia di effettivamente immorale nelle azioni di un gruppo di testimoni dell'orrore, proprio come un giornalista dovrebbe fare.




La narrazione fantapolitica, d'altro canto, mostra tutti i limiti di scrittura, di inventiva e persino di caratura morale che il cinema di Garland ha sempre avuto. Questo perché, in primo luogo, è la stessa premessa alla guerra a non trovare mai nessuna spiegazione, neanche in modo indiretto.
Il mondo di "Civil War" non è il nostro mondo e contrariamente a quanto si potrebbe pensare entrando in sala, la guerra non è scoppiata a causa del semplice inasprirsi delle opposizioni tra destra e sinistra estreme. 
Si parla delle responsabilità del Presidente, un uomo definito "la belva", ma tali responsabilità non vengono mai chiarite, solo accennate quando si dice che abbia avuto tre mandati e sciolto l'FBI; i motivi di questi due eventi, in teoria catastrofici, non vengono mai chiariti. Di conseguenza, la secessione non trova vera giustificazione agli occhi dello spettatore e le tre fazioni in lotta risultano persino nebulose. Laddove è facile capire gli interessi delle truppe governative, decisamente ambigui sono quelli della WF, la confederazione nata dall'unione tra Texas e California, mentre del tutto evanescente è il ruolo dei miliziani Steelers di Pittsburgh, che di fatto appaiono solo in una sequenza, nella quale, tra l'atro, non è dato capire se siano in lotta contro la WF o contro il governo.




L'idea di creare un fronte unito tra due Stati agli antipodi come California e Texas è spiazzante e, non ricevendo contestualizzazione alcuna, finisce per confondere. Garland, intervistato in proposito, ha affermato come tale scelta narrativa sia volta a testimoniare la necessità di superare le differenze ideologiche quando ci si oppone ad un leader corrotto, ma, per l'appunto, non chiarifica mai cosa il suo leader abbia fatto di talmente bestiale da far cessare la rivalità tra uno Stato in cui l'ideologia dominate è ai limiti dell'anarchia e uno dove, invece, l'ideologia dominante è quasi di stampo fascista.
Ne consegue la totale impossibilità di discernere gli eventi, di capire a cosa si sta davvero assistendo e perché. Il ruolo dello spettatore, di conseguenza, diviene simile a quello del giornalista di guerra, il quale non deve avere ideologie o bandiere ma solo registrare gli eventi. Con la differenza che assistendo ad uno spettacolo di fiction, si arriva allo spaesamento totale e si finisce davvero per non capire l'effettiva drammaticità di quanto a cui si assiste.



Drammaticità che risulta anche stranamente pacata. Non siamo certo di fronte alla brutalità di tanto cinema di guerra, moderno o meno moderno che sia. Eppure, le atrocità che Garland mostra riescono in parte a risaltare perché, con una scelta davvero spiazzante, decide di affidarle non tanto alle truppe governative, quanto alle WF. 
Si resta così sconcertati nel vedere soldati in uniforme dai capelli colorati e le unghia laccate perpetrare quelle nefandezze solitamente associate ad una forma di mascolinità "tossica", come tanto di moda va da dire negli ultimi anni. Il perché, poi, di tale scelta è nuovamente misterioso. Forse Garland è cosciente di come la violenza sia pur sempre violenza, a prescindere da chi la perpetri e del perché. O forse vuole proprio rimarcare che i modi e gli strumenti usati da quella sinistra mossa dai migliori intenti possa tranquillamente sfociare nell'orrore, non è dato sapere di preciso.
La mancanza di giustificazioni al conflitto porta anche a tale ambiguità, forse voluta, forse no, la cui unica certezza in merito è l'incertezza dominante nella mente dell'autore, che evidentemente vuole porsi al di sopra di tutto e di tutti, nonostante negli anni passati si sia sempre apertamente schierato con l'estrema sinistra americana e i suoi eccessi. Tanto che alla fine sembra quasi che non voglia dare input sulla base del conflitto per evitare di offendere qualcuno, piuttosto che per pura pigrizia.




"Civil War" resta così un saggio riuscito solo in parte e solo nella sua parte di più facile accettazione. Gli elementi più scomodi vengono tirati in ballo, ma mai approfonditi, mai chiarificati, mai trattati con la serietà necessaria per risultare davvero convincenti.
Alla fine, restano solo, per l'appunto, le immagini, quella visione della presa di D.C. che riesce davvero a colpire nel profondo anche se non si è americani. E che si spera, non si riveli come profetica.

mercoledì 17 aprile 2024

Una Bella Grinta

di Giuliano Montaldo.

con: Renato Salvatori, Norma Bengell, Nino Segurini, Marina Malfatti, Dino Fontanesi, Raffaele Triggia, Iginio Marchesini, Gino Agostini, Brenno Baratella.

Drammatico

Italia 1965

















Ottenuta (nel bene e nel male) l'attenzione di critica e pubblico con "Tiro al Piccione", Giuliano Montaldo si ritrova per qualche motivo a dirigere pellicole exploitation per un paio d'anni. E' in tale periodo che firma con lo pseudonimo di Elio Montesi il documentario pruriginoso "Nudi per Vivere", così come un episodio del piccante "Extraconiugale".
Dovrà attendere fino al 1965 prima di potersi dedicare ad un'opera congeniale, quando dirige "Una Bella Grinta", dramma umano e lavorativo che lo porta a confrontarsi con gli effetti dell'allora imperante boom economico.



Ettore Zambrini (Rentato Salvatori) è un piccolo imprenditore del settore tessile con grandi aspirazioni. Strozzato dai debiti regressi, è pur pronto a farne di nuovi per espandere la sua attività. Nel frattempo, la moglie Luciana (Norma Bengell), da cui si era separato qualche tempo prima, sembra volersi riavvicinare, ma continuando al contempo una relazione extraconiugale...




Due tracce narrative eterogenee: da una parte lo spaccato del mondo della piccola imprenditoria, dall'altra il melodramma della gelosia, talvolta declinato come un noir.
Montaldo usa due storyline per creare un unico ritratto, quello di un uomo caparbio, "grintoso", che non si arrende davanti a nulla pur di arrivare al successo. Non un arrivista in senso stretto, quanto il tipico italiano volenteroso di espandere i propri averi e orizzonti, volendo al contempo mantenere i rapporti famigliari.
Zambrini, in tal senso, è una figura riuscita, quasi empatica visto anche il carisma di Salvatori: un uomo che viene dal nulla e che vuole una fetta della ricchezza che in Italia si sta finalmente generando. La rivalità in amore diventa così una metafora delle pressioni sociali e economiche che è costretto a sopportare.
Pressioni che hanno la forma degli strozzini, quei ricchi "dai capelli bianchi" pronti ad approfittarsi del parvenu per spennarlo selvaggiamente. Il rivale, viceversa, è un giovane, un ragazzo che che come il protagonista ha una sana voglia di vivere.
Montaldo non patteggia per Zambrini, ne descrive la lotta e il trionfo con distacco cinico, limitandosi a dipingerne le gesta per lasciare al pubblico ogni giudizio. Un personaggio che in ultima analisi è negativo, ma la cui storia è senz'altro drammatica.



La commistione narrativa talvolta funziona, talaltra meno. Di certo la mano dell'autore riesce a dar vita a sequenze interessanti, come quella dell'inseguimento per i vicoli di Bologna, reminiscenza di tanto cinema di genere americano e non. Ma l'insistere in una storia di tradimento e crimine finisce per l'ingolfare il ritmo a tratti in modo troppo marcato; tanto che la descrizione della rivalità con gli altri imprenditori e di quelle figure volitive resta davvero la parte più riuscita di tutto il film.
"Una Bella Grinta" mostra quindi il lato di un'ambizione non sorretta da un'esecuzione adeguata, ma rimane lo stesso un'operazione convincente. Montaldo tenterà di replicarla decenni dopo con "L'Industriale", aggiornando storia e personaggi all'Italia del XXI secolo, con esiti questa volta disastrosi.

lunedì 15 aprile 2024

Ghostbusters- Minaccia Glaciale

Ghostbusters: Frozen Empire.

di Gil Kenan.

con: McKenna Grace, Paul Rudd, Dan Aykroyd, Emily Alyn Lind, Ernie Hudson, Carrie Coon, Kumali Nanijani, Finn Wolfhard, Annie Potts, Celeste O'Connor, James Acaster, Logan Kim, Bill Murray, Patton Oswalt, William Atherton.

Fantastico/Commedia

Usa, Canada, Regno Unito













Se questo "Minaccia Glaciale" esiste, è solo grazie al budget esiguo del precedente "Legacy", che, costato appena 75 milioni, ne ha incassati poco più di 200, generando un profitto in realtà solo sperato.
Non un successo da strapparsi i capelli, né un tonfo che ha generato perdite come il reboot; un buon incasso che ha permesso agli spazzini sovrannaturali di Dan Aykroyd e Harold Ramis di tornare in pista come franchise. Il perché, poi, quel film piccolo ma simpatico non abbia riscosso tutto questo plauso è anche facile da capire, ossia il suo voler essere unicamente una forma di resurrezione di quel mondo e di quei personaggi, oramai prossimi all'oblio. 
L'attesa per un nuovo film che desse finalmente un qualcosa di nuovo da fare a quei personaggi era quindi alta, visto anche che la sua uscita coincide con il quarantesimo anniversario del primo film, con il trentacinquesimo del secondo e a dieci anni dalla scomparsa di Ramis; ma "Minaccia Glaciale" riesce ad essere tanto convincente quanto deludente.




Gil Kenan ha esternato chiaramente le sue intenzioni fin dall'inizio, ossia voler creare un lungo episodio di "The Real Ghostbusters", un film che sapesse riprendere in pieno l'atmosfera del celebre cartoon per declinare al meglio le potenzialità del franchise. Da questo punto di vista, il suo lavoro è tutto sommato riuscito: ci sono il senso di mistero e l'atmosfera sinistra che caratterizzavano i migliori episodi della serie, ma anche il senso dell'umorismo basilare ma simpatico, che purtroppo sostituisce l'irresistibile sarcasmo dei vecchi film, scelta poco condivisibile perché toglie parte di personalità al tutto.
La storia è tutto sommato ben congegnata: c'è un "villain of the week" in apparenza invincibile, Garracka, un nuovo dio malvagio che vuole distruggere il mondo; ma c'è anche la storia della crescita personale del personaggio di Phoebe Spengler, vera protagonista del film. Due tracce che si integrano bene a vicenda, ma è stranamente la seconda ad essere la più interessante.




La polemica sulla decisione di rendere Phoebe omosessuale è al solito sterile e in parte anche infondata. Certo, è facile per un adulto vedere nel suo rapporto con il fantasma di Melody una forma di attrazione totale, ma, vuoi anche per semplici motivi di target (si tratta pur sempre di un film tirato su anche per vendere balocchi ai bambini), questa love-story resta volutamente ambigua, caratterizzandosi talvolta come una semplice storia di amicizia, come il rapporto tra due anime gemelle accomunate dal fatto di essere alienate, la prima perché vista come una bambina nonostante il quoziente intellettivo elevato, la seconda perché... morta. Non tanto una storia di attrazione fisica (o "fisica/ectoplasmatica", se si può dire), quanto quella di una comunione umana tra spiriti affini che non include necessariamente (pur non escludendola, ovviamente) l'omosessualità. Storylne riuscita e intrigante, vuoi per l'esecuzione, vuoi per la caratterizzazione estremamente ambigua di Melody (che potrebbe essere un'assassina in cerca di redenzione), ma anche grazie alle due ottime attrici, con McKenna Grace che si dimostra nuovamente come una delle giovani performer più dotate di Hollywood.


La storyline principale sul ritorno di Garracka, demone del ghiaccio sumero intrappolato per millenni nel mcguffin d'ordinanza, alla fin fine funziona, ma mostra tutti i limiti che un film come "Frozen Empire" possa avere. In primis, la durata limitata che non permette a tutti i personaggi di brillare.
Le new entry riescono tutto sommato ad avere i loro momenti. Lo scanzonato acchiappademoni di Kumali Nanijani riesce a strappare i giusti sorrisi e si spera possa avere un ruolo più rilevante nel futuro della serie. Mentre il tecno-nerd Lars Pinfield, omaggio all'Egon Spengler del cartone con i suoi capelli biondi antigravità, avrebbe davvero meritato più spazio, con il suo carattere strafottente e, almeno lui, sarcastico. Così come più spazio avrebbe meritato il topo di biblioteca di Patton Oswalt, che si accontenta di un glorificato cameo.




I protagonisti di "Legacy", Phoebe a parte, sono anch'essi relegati ad un ruolo di contorno. Finn Wolfhard si limita a dare la caccia ad un ritrovato Slimer, Carrie Coon fa la mamma-chioccia e null'altro, mentre Celeste O'Connor è in giro giusto quando serve. Persino Paul Rudd si limita a fare il padre surrogato, in una sottotrama che avrebbe meritato più spazio per colpire davvero. Va un po' meglio al personaggio di Podcast, che almeno riesce ad essere una buona spalla.
Della vecchia guardia, l'unico ad avere un ruolo davvero rilevante è lo Stanz di Dan Aykroyd, che diventa il vero mentore del gruppo e a tratti forza trainante degli eventi. Mentre Zeddmore, che pur sembrava dovesse avere un ruolo più marcato, si limita a fare la voce della ragione, restando di nuovo sotto-utilizzato. Così come è fin troppo poco lo screentime dedicato a Annie Potts e alla sua Janine, qui come non mai simile alla sua controparte cartoonesca. Bill Murray, in compenso, appare in due scene e fa il suo dovere, il che è anche troppo se si pensa a come non voglia avere nulla a che fare con il personaggio di Venkman da oltre trent'anni.
L'impossibilità di dare qualcosa da fare ad un cast così vasto e composito deflagra totalmente nel finale, con i personaggi che vengono letteralmente bloccati sul posto per mancanza di idee più che per altro.




Per quanto la fonte di ispirazione sia il rutilante cartoon, il ritmo di "Minaccia Glaciale" è alquanto blando e tutto lo script è basato sui dialoghi piuttosto che sull'azione. Keenan dirige le scene d'azione in modo dignitoso, ma queste sono praticamente relegate solo all'incipit e all'ultimo atto.
Per tutto il film, gli acchiappafantasmi non acchiappano fantasmi, restano nella caserma o nel laboratorio e si limitano a investigare sul caso, con gli zaini protonici praticamente chiusi nell'armadio. Scelta forse dettata da ragioni economiche: un budget di "soli" cento milioni oggi è troppo poco per dar vita ad un film del genere, il quale deve così ripiegare su di una costruzione più convenzionale. Con la conseguenza che tutto il potenziale spettacolare resta relegato a pochissimi momenti




Simpatico quanto si vuole, ma "Minaccia Glaciale" resta un filmino che non riesce a fruttare al massimo il potenziale dei personaggi e delle situazioni. Non brutto, ma troppo piatto.

mercoledì 10 aprile 2024

Le Mani sulla Città

di Francesco Rosi.

con: Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Marcello Cannavale, Dante Di Pinto, Alberto Conocchia, Carlo Fermariello, Terenzio Cordova, Alberto Amato.

Italia, Francia 1963



















E' ampiamente diffusa l'opinione secondo la quale un film "vecchio" che affronti le problematiche civili e politiche di un dato tempo sia inevitabilmente datato (a maggior ragione, poi, se è addirittura in bianco e nero) e la sua visione, di conseguenza, sia inutile. 
E' anche per questo che alla fine della (ri)visione di "Le Mani sulla Città" ci si sente scossi nel profondo, scioccati dal fatto che problemi, vizi, scandali e vere e proprie sciagure che Rosi descriveva e ascriveva all'Italia di oltre sessant'anni fa siano ancora tranquillamente identificabili (magari anche con nome e cognome) nell'Italia odierna.
Colpa di un sistema-paese privo di direzione e di nerbo, di una popolazione che spesso idolatra i vizi e chi se ne fa portavoce, di un paese privo di vere ideologie, idee e bandiere, con un popolo sempre pronto a farsi manipolare all'occorrenza e di una classe dirigente da sempre impegnata unicamente a riempirsi le tasche a scapito di tutto e di tutti. Colpa, altresì, della persistenza del mito dell'arrivismo, che ha portato e porta tutt'oggi con sé solo brutture e ingiustizie. Tutto questo esisteva già nel 1963 e "Le Mani sulla Città" non fa che metterlo nero su bianco, in splendide immagini.
Per Rosi, dopotutto, un film del genere è poco più di un'evoluzione del precedente "Salvatore Giuliano": laddove con quest'ultimo ricostruiva il passato (allora) recente, ora volge il suo sguardo direttamente sul presente e su quei guai che attanagliano la politica e il sistema civile.




In cosa è invecchiato il film di Rosi? Sicuramente in quel discorso finale tenuto dal consigliere De Angelis, riguardante l'imminente presa di coscienza del corpo elettorale che porterà con sé lo spodestamento dei corrotti dai palazzi del potere. Rosi, ovviamente, non poteva immagine come, nel corso di pochi anni, l'anticultura prima e la fine delle ideologie poi avrebbero invece portato ad un'anestesia totale del popolo, che oggi più che mai è un puro suddito di quei centri di potere che governano la democrazia.
"Le Mani sulla Città" è in fondo null'altro che un'analisi lucida e spietata di tali centri di potere, di come essi si dimenino all''interno sia dei palazzi che nelle strade per affermare sé stessi a scapito e a prescindere dal resto.
Tutta la vicenda ruota intorno al confronto tra due figure essenziali: da un lato, Edoardo Nottola, consigliere comunale ed esponente di spicco del partito di maggioranza, nonché e soprattutto grosso imprenditore edilizio il cui business si impenna grazie agli aiuti di Stato; dall'altro il consigliere De Angelis, politico di sinistra e ingegnere civile che invece porta avanti un'inchiesta riguardante un crollo avvenuto in uno dei cantieri di Nottola, che violava tutte le norme in merito. Il primo ha il volto di un magnifico Rod Steiger americano di nascita, ma perfettamente credibile nei panni del napoletano rampante, il secondo di quel Salvo Randone vero e proprio volto cardine del cinema impegnato nostrano. Lo scontro disvela, ovviamente, tutta l'ipocrisia sottesa all'apparato politico e amministrativo.




Il tema è quello del conflitto di interesse e di come la speculazione economica (già ai tempi del Boom) abbia finito per far fagocitare la politica dalle logiche industriali. Un conflitto che, anche se non detto esplicitamente, è connaturato al sistema democratico: Nottola è un politico ruspante che aspira a diventare assessore al fine di poter aver carta bianca con la propria azienda, il sistema gli permette di scalare la politica e questa viene da lui utilizzata per puri fini speculativi. L'immoralità sottesa a tali azioni è palese e conosciuta da tutti, ma tollerata perché un grosso imprenditore porta con sé grandi batterie di voti. E a farne le spese sono le persone comuni, uccise dalla mancata osservazione delle norme di sicurezza, sfruttate come forza elettorale prima ancora che come forza lavoro e cacciata dalle case al fine di permettere alle nuove costruzioni di poter fiorire. Nottola si vende a loro come un salvatore, come un uomo del popolo che modernizza la città abbattendo le "catapecchie" che tanto squallore portano, vincendone facilmente le simpatie.
La corruzione spicciola, quella usata dai "pezzi grossi" per carpire le simpatie degli elettori viene ritratta da Rosi in una scena ancora oggi agghiacciante, quella in cui il sindaco di Napoli elargisce banconote ad un gruppo di cittadini affamati all'interno della casa comunale, esclamando come questo sia il vero cuore della democrazia.




De Angelis, di converso, è implacabile nella sua ricerca delle responsabilità e si scontra subito con il famoso "muro di gomma" di una burocrazia dove non esistono vere responsabilità, dove i danni avvengono di punto in bianco e nessuno paga per morti e feriti. L'inchiesta, tanto è vero, altro non è se non un buco nell'acqua, uno scandalo del tutto momentaneo che non sortisce effetti alcuni, se non un mutamento temporaneo nelle dinamiche di partito.
Nottola, di fatto, è costretto a cambiare alleanze, a trovare nuovi supporter per le sue speculazioni, solo per poi riappacificarsi con i referenti originari, in un girotondo dove, come sempre, tutto cambia senza che nulla cambi davvero. Non per nulla, il film si apre con la sua proposta di costruire nuove palazzine modificando il piano regolatore e si chiude con l'avvio dei lavori nello stesso sito, con il crollo già dimenticato e le fanfare pronte a fargli festa.
In tale ottica, la figura più sordida non è neanche quella dell'imprenditore arrivista e menefreghista, quanto quella del capo partito, un vecchio interessato solo a mantenere lo scranno dentro il comune, perennemente seguito da una squinzietta trattata come un animale da compagnia, immagine a dir poco profetica del politico-tipico della Seconda e Terza Repubblica.




Rosi ambienta questa storia di speculazione e scandali nella natia Napoli, scelta in realtà non scontata. Benché già all'epoca simbolo del malcostume, la città di Partenope è in realtà null'altro che un'ambientazione neutra, un mero simbolo di qualsiasi altra città italiana dell'epoca il cui volto veniva deturpato dalla riqualificazione edilizia. Non per nulla, le immagini che aprono il film potrebbero tranquillamente appartenere a Roma, Milano o Palermo, con i casermoni che spuntano come metastasi in ogni angolo, mentre le baracche della povera gente resistono come sfregi solo in apparenza peggiori, marchio di una popolazione la cui miseria viene doppiamente sfruttata.
Il suo stile di messa in scena qui si fa più secco, ai limiti del documentaristico. Non c'è la ricerca del colpo d'occhio nelle immagini, né di un'estetica pittorica, quanto la volontà di ritrarre gli eventi nel modo più naturalistico possibile (ancora più che nelle blasonate pellicole neorealiste), alla ricerca di una veridicità tale che a tratti sembra infrangere il limite della finzione per farsi puramente veritiera, incredibilmente reale.




A rivederlo oggi, "Le Mani sulla Città" fa più spavento di quanto potesse fare oltre sessant'anni fa. Espressioni come "conflitto di interessi" e "questione morale", che pur fino ad una ventina d'anni fa erano dei tormentoni nei discorsi dei politici anche di destra, ora sono sparite dal vocabolario comune. Personaggi come Nottoli hanno raggiunti i vertici supremi della politica e nessuno si scandalizza più dei famosi "inciuci" tra partiti, tantomeno di quelle Tangentopoli che a scadenza regolare vengono scoperte. Mentre ogni tre mesi un'alluvione causa un'emergenza umanitaria e abitativa e si fatica a far fronte alla ricostruzione di interi paesi, nulla si fa per un'eventuale messa in sicurezza delle abitazioni e delle città, a rischio crollo sia a causa della situazione idrogeologica della nazione che dei postumi della perenne speculazione edilizia portata avanti anche grazie ai capitali riciclati della criminalità organizzata.
Nulla è cambiato, nulla è diverso, tutto continua a svolgersi come allora. Rosi aveva messo in immagini scandali e malaffare avvertendoci di come un sistema del genere crei solo danni, ma nessuno gli ha dato ascolto, perché non interessato a porvi rimedio. E oggi, quella scritta che chiude il film appare ancora tristemente veritiera.