con: Jacques Charrier, Eleonora Rossi Drago, Francisco Rabal, Sergio Fantoni, Franco Balducci, Loris Bazzocchi, Silla Bettini, Enzo Cerusico, Gastone Moschin.
Drammatico/Storico
Italia 1961
Dei numi del cinema dell'impegno civile italiano, Montaldo è quello che solitamente viene considerato come minore. Questo perché di certo non aveva la passione sanguigna di Elio Petri, né l'occhio innovatore di Francesco Rosi, tantomeno l'acume di Marco Bellocchio.
Eppure, non si può davvero liquidare il suo apporto al filone (e al cinema italiano in genere) davvero come minore, vista l'importanza anche solo storica di pellicole quali "Sacco e Vanzetti" e "Girdano Bruno", giusto per citarne un paio. Il suo limite, forse, è stato quello di rivolgere il suo sguardo principalmente al passato, anche solo recente, lasciando che l'attualità trasparisse solo a tratti nella sua opera. Il che la rende sicuramente meno eclatante rispetto a quella dei più illustri colleghi, ma di certo non meno importante.
Già il suo esordio, "Tiro al Piccione" (che arriva dopo le collaborazioni come aiuto regista in "L'Assassino" e "Kapò" di Pontecorvo) si rifà a quella che all'epoca era storia recente, ossia i seicento giorno della Repubblica di Salò, ossia quel famoso passato fascista che neanche quindici anni dopo la caduta del Duce già si voleva dimenticare, già si ignorava coscientemente o meno e che invece lui porta su schermo con impegno e dovizia di particolari.
Dopo l'8 settembre 1943 e l'istituzione della Repubblica di Salò, l'Italia è spaccata in due. Il diciannovenne Marco Laudato (Jacques Charrier) si unisce ai repubblichini per dovere patrio e spirito d'avventura. Tra i camerati troverà il veterano Elia (Francisco Rabal) e il truce Pasquini (Gastone Moschin).
Dopo aver subito un ferita, incontra l'infermiera Anna (Eleonora Rossi Drago), con la quale intreccia una storia d'amore tormentata.
Una nazione sull'orlo del collasso, un periodo storico oramai al crepuscolo, un popolo diviso. In un tale contesto, Marco è l'esponente di quella generazione nata sotto il fascismo e per questo indottrinata sin dall'infanzia ai suoi mendaci dettami, al culto di una patria grande solo sulla carta e di un leader che si atteggia a guerriero, ma che è costantemente in fuga, lasciando il comando effettivo delle truppe ai Tedeschi che hanno occupato la nazione.
Nella camerata, viene accolto da due personaggi che invece rappresentano i poli opposti di chi le cavolate del fascismo le ha sperimentate sulla propria pelle, ossia i reduci Elia e Pasquini, due volti della stessa medaglia.
Il primo è oramai disilluso: la sequela infinita di infamie e orrori lo ha praticamente distrutto dento, rendendolo immune alla retorica di regime. Un uomo che ha perorato gli orrori in cerca di gloria, ma che ha realizzato come questa sia in realtà inesistente già prima della disfatta dell'8 Settembre.
Il secondo, viceversa, è una sorta di psicopatico, un essere più animale che uomo che invece gioisce della violenza gratuita che ha potuto infliggere ai nemici e che continua a combattere per un puro gusto sadico.
Due estremi il cui ruolo nella storia e nella caratterizzazione del protagonista ricorda quanto poi farà Oliver Stone in "Platoon", ma che qui viene sviluppato in modo più sottile ed efficace, oltre che più armonico con il resto di una narrazione che non si affida esclusivamente alla metafora caratteriale.
Il racconto di Marco è un romanzo di de-formazione, la storia di un giovane affascinato dall'illusione della gloria il quale scopre come questa, di fatto, non può essere trovata all'interno del regime fascista.
Montaldo ritrae in modo diretto la codardia e l'infamia dei Fascisti in primis con la loro sbruffonaggine, in secondo luogo e soprattutto tramite la descrizione degli eccidi perpetrati nei confronti degli stessi italiani, accusati di collaborazionismo con i partigiani. Di fatto, per tutto il film non vediamo mai i repubblichini uccidere un nemico, solo assassinare paesani inermi sospettati di collaborazionismo con la resistenza. La virtù guerriera è così solo una maschera dietro la quale celano una ferocia che sa estrinsecarsi solo contro i deboli, allo stesso modo in cui vent'anni prima eseguivano gli squadrismi per le strade. E che usano nella speranza di poter ottenere una vittoria anche solo temporanea contro un nemico che in cuor loro sanno già aver vinto la guerra.
"Tiro al Piccione" è così un racconto di guerra narrato dalla prospettiva dei vinti, nel momento in cui, pur coscienti di una disfatta ineluttabile, si aggrappano testardamente ai proclami di un leader coraggioso solo nelle parole, codardo nei fatti.
Un racconto che non è però limitato nella sua portata a descrivere un'esperienza individuale, quanto quella collettiva di un intero popolo. Gli inserti con la gente comune sono presenti in praticamente tutte le sequenze, a cominciare dalle prime, che si focalizzano sulla descrizione della quotidianità durante la guerra di chi non riesce neanche a trovare da mangiare.
Su tutte, è però la sottotrama amorosa quella che dà una descrizione precisa della mentalità italiana. Il personaggio di Anna, donna "fassbinderiana" pronta a tutto pur di sopravvivere, seppur davvero innamorata del protagonista, è l'incarnazione non tanto dello spirito di sopravvivenza, quanto dell'indole conformista nostrana; una persona che si schiera sempre con il più forte, pronta a sopportare le angherie di chi vorrebbe approfittarsene, in grado persino di credere nelle ideologie dominante, ma di abbandonarle subito quando serve; da cui il su climax, con la defezione e l'abbandono dell'uniforme fascista (di concerto, guarda caso, con un ufficiale), ritratto preciso di quei "45 Milioni di Antifascisti" che proprio in questo periodo Gianni Oliva racconta in un libro.
La rievocazione storica di un passato (allora) recente si fa catarsi di una nazione che in realtà non vorrà mai affrontare di petto il lascito del Ventennio Fascista. E se oggi quella ideologia fallata e ai limiti del farsesco è tornata nelle stanze del potere, già nel 1961 non mancarono di certo critiche feroci quando il film fu presentato a Venezia: la critica di destra lo stroncò per motivi alquanto ovvi, ossia per il suo essere un ritratto impietoso dell'ideologia; mentre quella di sinistra di certo non sopportava vedere la storia di un fascitello ritratta nelle forme del dramma empatico.
Oltre sessant'anni dopo, "Tiro al Piccione" si disvela come una visione in realtà necessaria proprio perché mette a nudo le menzogne del Fascismo, sia quelle storiche, sia quelle prettamente ideologiche. Certo, a Montaldo può essere già qui rimproverata quella mancanza di vera cattiveria che caratterizzerà molti altri suoi film e che rende la narrazione meno graffiante di quanto avrebbe davvero potuto essere, ma di certo il film risulta lo stesso estremamente efficace.
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