lunedì 28 novembre 2016

Snowden

di Oliver Stone.

con: Joseph Gordon-Levitt, Shailene Woodley, Rhys Ifans, Nicolas Cage, Timothy Olyphant, Melissa Leo, Zachary Quinto, Tom Wilkinson, Scott Eastwood.

Biografico

Francia, Germania, Usa 2016















Se c'è una cosa che lo scandalo Snowden ha insegnato agli occidentali è come la paranoia, anche quella basata sulle cospirazioni più assurde e teoricamente prive di fondamento, può spesso essere un sentimento fondato, veritiero e inevitabile all'interno di una società dove l'informatizzazione ha raggiunto livelli da romanzo cyberpunk. Questo perchè il sistema di sorveglianza globale americano, il famoso ECHELON, tanto discusso da una ventina d'anni a questa parte dai teorici del complotto, si è rivelato, grazie alle informazioni della "talpa" più famosa di sempre, totalmente e semplicemente vero, tramutando in realtà comprovata le ossessioni di milioni di "technonerd" forse troppo spesso inutilmente disprezzati.
D'altro canto la storia di quel giovane consulente che tanto imbarazzo ha destato per l'amministrazione Obama era forse fin troppo semplice per risultare davvero interessante: Snowden, in fondo, altro non è se non un comune ragazzo che, rimasto esterrefatto dal potere manipolativo del sistema informatico imbastito dalla NSA, ha deciso di vuotare il sacco, di rendere pubblico ciò che in parte già si sospettava, ovverosia l'utilizzo manipolativo del potere ottenuto per il tramite delle leggi antiterrorismo post 11/9. Una storia "da manuale", dove finanche le possibili riflessioni morali sono pressocchè scontate e tutto l'interesse si regge sullo scandalo di quelle informazioni per sé stesse, tra l'altro già ampiamente somatizzate dal pubblico.




Ma Oliver Stone non è mai stato tra quei cineasti che si tirano indietro solo a causa della possibile poca originalità di un progetto; il suo senso civico, la sua volontà di scandagliare tutti gli anfratti di un sistema-paese a dir poco complesso per il tramite di un occhio obiettivo, ove possibile, gli ha sempre permesso di creare opere interessanti, quando non addirittura dirompenti. "Snowden" si può iscrivere così in quella parte di filmografia di Stone più attenta ai contenuti che alla forma, dove una messa in scena tutto sommato didascalica è utile a fare il punto della situazione, ad imporsi come memento per il futuro e documento riassuntivo di una realtà ancora cocente, in modo più vivido del semplice documentario, ma sempre e comunque vicino ai fatti.




La travagliata storia di Snowden viene ricostruita con forma episodica, strutturata in flashback a partire dall'incontro con la reporter Laura Poitras, la prima a raccoglierne le testimonianze, poi confluite anche nel documentario "Citizenfour" (2014). La ricostruzione delle tappe formative del protagonista, della sua presa di coscienza sul "male" perpetrato e il suo genio informatico si intrecciano con la caratterizzazione privata: dalla faccia pubblica alla persona privata, Snowden assume una tridimensionalità che scosta la narrazione dalla struttura classica del film di inchiesta per ancorarsi al biografico; ampio spazio viene dedicato alla sua vita sentimentale, al suo stato di salute e, sopratutto, a quello mentale; la paranoia che lo attanaglia dopo la presa di coscienza del "Grande Fratello" si fa specchio di quella di un'intera società dove la privacy non esiste più, della realizzazione della paura orwelliana più grande. Non per nulla, nella finzione, il mentore prende il nome di O'Brien, rimando diretto al capolavoro di Orwell.
La riuscita della ricostruzione del lato umano si deve sopratutto al cast: Joseph Gordon-Levitt si perde totalmente tra i tic e lo sguardo insicuro del suo alter ego, mentre Shailene Woddley lo supporta in modo più naturalistico ma altrettanto efficace. Il dramma umano talvolta prende troppo spazio, allunga in modo non necessario la storia, ma resta comunque importante forse per dare quel minimo di calore utile per non rendere l'esposizione dei fatti si troppo glaciale ed automatica.




Ed è, appunto, nella ricostruzione dello scandalo, dei meccanismi spregiudicati ed ai limiti della follia legalizzata che la narrazione di Stone si fa decisamente solida: senza esagerare nella retorica morale e nei rimandi apocalittico-distopici, riesce con precisione e fermezza a creare lo specchio di un mondo dove non c'è più traccia della distinzione tra pubblico e privato, dove tutti possono essere manipolati grazie alla scia di informazioni lasciate in rete e dove ogni singolo individuo sulla faccia del pianeta può essere dissezionato da un occhio invisibile. Una distopia moderna ancora più crudele di quella immaginata dal grande scrittore, un Grande Fratello al quale la gente si è svenduta per moda ed ignoranza.




Ed è proprio tale risvolto ad essere il fulcro morale del film: non un cyber-thriller, né un pamphlet sulla crudeltà dei "poteri forti", quanto una riflessione catartica sull'assurdità del mondo informatizzato. In tale dimensione, pur fusa con la fiction d'inchiesta ed il ritratto umano, il lavoro di Stone trova piena dignità ed un motivo di esistere ulteriore, quasi un monito allo spettatore meno accorto.

giovedì 24 novembre 2016

Trauma

di Dario Argento.

con: Christopher Rydell, Asia Argento, Piper Laurie, James Russo, Frederic Forrest, Laura Johnson, Domique Serrand, Ira Belgrade, Sharon Barr, Brad Dourif.

Thriller

Italia, Usa 1993


















A sei anni da "Opera" (1987), Dario Argento è ancora l'indiscusso maestro del brivido made in Italy, nonostante il cinema di genere italiano sia già praticamente morto. Forte dei consensi oltreoceano, reduce dal suo film più costoso e dalla collaborazione con l'amico George Romero in "Due Occhi Diabolici" (1990), il regista romano torna in America per creare quella che sarà la pellicola spartiacque nella sua carriera, "Trauma", vero e proprio canto del cigno della sua creatività e passo definitivo verso il baratro.




Creatività già messa a dura prova in "Opera", dove già dava segni di cedimento, ma che qui comincia davvero a scemare. Sebbene viaggi sempre sui binari della decenza, con occasionali trovate davvero azzeccate, la regia di Argento ora vacilla, si perde in un montaggio confusionario, in virtuosismi inutili e persino in manierismi; ad aprire il film è infatti una visione simile a quelle di "Profondo Rosso" (1975): la macchina da presa viaggia tra gli oggetti personali del killer disposti su di una superficie di raso nero; ma i movimenti sono macchinosi ed il montaggio insicuro, causando un effetto quasi parodistico se messo a confronto con l'originale.
I richiami al capolavoro del '75, ad ogni modo, non mancano neanche sul piano strettamente narrativo: anche qui la vicenda prende le mosse a seguito dell'uccisione di una medium che ha captato la "risonanza" di un omicidio; il killer è anche in questo caso mosso da impulsi protettivi, che hanno generato il trauma del titolo; il tema orrorifico della decapitazione, così come il finale, sono anch'essi richiami alla più celebre opera argentiana.
D'altro canto, l'originalità non è mai stata il punto forte del fu maestro: tutti i suoi thriller altro non sono che variazioni più o meno libere del medesimo canovaccio, dove a fare la differenza è l'esecuzione più che la premessa; cosa che qui non avviene.




Da una parte, è come se Argento abbia voluto prosciugare il suo cinema da veri risvolti violenti; per quanto cruenti, gli omicidi in "Trauma" non hanno nulla dell'efferatezza grafica che contraddistingueva quelli dei classici argentiani. Non c'è inventiva nelle coreografie, se si eccettua quella della morte più celebre, dove la testa viene mozzata da un ascensore. Il tutto è condotto con il pilota automatico, senza veri guizzi. L'estro visivo ritorna solo in un paio di sequenze, come in quella dell'ospedale psichiatrico o nel finale, quell'ultima mezz'ora di durata che, riprendendo il topos del "doppio finale", lo amplifica sino a darne piena dignità.




Un tocco di originalità è da ricercare semmai nella costruzione della trama; non tanto sul piano della struttura generale, quanto per l'inclusione di una strana e convincente storia d'amore tra il protagonista e la giovane Asia Argento. Love story disperata, anomala, basata più sulla pietà che sull'attrazione vera e propria e per questo convincente. Peccato solo per la scelta della protagonista femminile: Asia Argento, appena diciottenne, è sicuramente attraente e al contempo credibile come ragazza anoressica e complessata, ma la sua recitazione è improponibile, sopratutto nel doppiaggio, dove dimostra di non avere idea dei concetti di dizione e pronuncia.
Unico neo, sul piano attoriale, in un film dove, stranamente, i grandi attori si sprecano: tolta Piper Laurie, Argento butta alle ortiche i grossi nomi del cast, su tutti Frederic Forrest nei panni del palese red herring e sopratutto Brad Dourif, che entra in scena solo per farsi decapitare.




Il colpo finale lo concede il senso del ridicolo, quasi onnipresente. Lo script può essere definito solo come "incasinato", presentando di volta in volta situazioni improbabili e personaggi inutili. Su tutti, il bambino guardone, che nel finale viene promosso a deus ex machina, interpretato da un infante semplicemente inguardabile. La continuità tra scene in notturna e diurna è a dir poco libera; la trovata di far parlare le teste mozzate azzera ogni sospensione dell'incredulità, sopratutto a causa della sua essenzialità ai fini della storia; l'innesto sovrannaturale è puramente pretestuoso; le visioni lisergiche escogitate sono blande e poco ispirate e, in fin dei conti, inutili ai fini della narrazione. Semplicemente sprecato è il discorso "moraleggiante" sull'anoressia, buttato in mezzo a tutto giusto per dare un minimo di profondità in più ad una pellicola di puro genere.
Ed in un tripudio di superficialità e ridicolo, in cinema di Argento trova così la sua tomba: la fine è iniziata, il periodo d'oro è finito, la mediocrità impera. A venire ci sarà solo una costante discesa qualitativa, emblema del catastrofico destino del cinema italiano.

sabato 19 novembre 2016

Fino all'Ultimo Respiro

A' Boute de Souffle

di Jean-Luc Godard.

con: Jean-Paul Belmondo, Jean Seberg, Daniel Boulanger, Henri-Jaques Huet, Roger Hanin, Jean-Pierre Melville.

Francia 1960
















Se la Nouvelle Vague trova i suoi iniziatori ufficiali in Alain Resnais e François Truffaut già nel 1959, è a partire dal 1960 che si afferma definitivamente nell'immaginario cinematografico ed artistico come opera di ristrutturazione definitiva del linguaggio filmico. Tappa essenziale, questa, che la eleva da semplice variazione sul classicismo ad esatta e totale contrapposizione allo stesso: il "cinema dei papà" è ufficialmente morto, dal suo cadavere fuoriesce una nuova forma estetica, cosciente di sé, della propria natura e dei propri limiti, il cui linguaggio è più ardito, sprezzante, immediato, quasi acido nel suo non conformarsi a nessuna regola predeterminata in passato.
Ed è del tutto normale come il fautore di questo nuovo corso sia Jean-Luc Godard, che da qui, con il suo esordio "A' Boute de Souffle", si impone come il sommo teorico sulla grammatica filmica che il cinema abbia mai conosciuto.






Laddove l'amico e collega François Truffaut era la quintessenza dell'autore, di colui che faceva confluire aspirazioni e passioni del tutto personali all'interno della propria opera, Godard è il pensatore, un artista del tutto incapace di divincolarsi da una forma di metapensiero attraverso la costruzione narrativa: tutta la sua filmografia altro non è se non un gigantesco discorso sul mezzo filmico, talvolta inframezzata da riflessioni politico-sociali, ma sempre e comunque ancorato ad un visione fluida ed ipercosciente del linguaggio, del contenente sul contenuto.






E non deve stupire come questo suo esordio dietro la macchina da presa rappresenti la sintesi perfetta di tutto questo (infinito) discorso: si parte dal classico, il noir americano, solo per poterlo smontare pezzo per pezzo; dissezionato il "genere", la mano dell'autore penetra in profondità sino a toccare il mezzo, per stravolgerne i topoi: la sceneggiatura (scritta da Truffaut) diviene mero canovaccio, ancora meno importante che ne "I 400 Colpi", al punto che dialoghi ed azioni vengono riscritti giornalmente per meglio adattarsi all'ispirazione del momento; il montaggio perde ogni forma di linearità all'interno della scena e tra le scene: l'uso del jump cut immediato (già sperimentato in alcuni documentari del periodo) spezza la sequenza temporale interna frammentando la scena in singole inquadrature che da sole non hanno senso, il quale torna solo mediante l'opera di raccordo; il naturalismo viene bandito: il cinema è finzione, le immagini sono false, inscenate ad hoc per avere senso; di per sé stesse possono non averne, come singole sillabe all'interno di una frase; è il costrutto che ne segue ad averne, mediante l'opera di (ri)costruzione.





Artificiosità che Godard contrappone alla naturalezza totale della ricostruzione. La sua macchina da presa pedina i personaggi, li segue come se fosse a sua volta lo sguardo di un personaggio invisibile che si muove sulla scena. Insegue i suoi protagonisti i quali si muovono di vita propria, non più manichini mossi dai fili dello script e della messa in scena, quasi perone reali le cui vite vengono riprese da un occhio onnipresente.
Con la prima e più importante conseguenza che concerne il setting: solo location reali; la Parigi di "A' Boute de Souffle" è la vera Parigi del 1960, le persone appaiano nei fotogrammi senza sapere di essere riprese, quelle delle auto e delle vetrini sono immagini rubate ad un tempo ed uno spazio preciso, impresse a fuoco in una pellicola ad imperitura testimonianza del singolo attimo. Il confine tra realtà e finzione, una volta preso coscienza dello stesso, si assottiglia sino quasi a scomparire.






Così come nella forma, anche nella struttura narrativa il noir viene totalmente stravolto, al punto che lo stesso accostamento allo stile risulta fuorviante.
La trama di base, per quanto scarna, è a grandi linee quella di un perfetto esponente del genere: il ladruncolo Michel Poiccard (Belmondo) uccide per noia un poliziotto nelle campagne. Rientrato a Parigi, si diverte con la sua bella compagna Patricia (Jean Seberg) ignaro della caccia all'uomo in corso, finché proprio lei lo tradisce consegnandolo alle autorità.
L'esecuzione del tutto, come ovvio, fa la differenza.






Non ci sono schematismi di sorta, sul piano narrativo; non c'è una vera divisione in atti, solo un mero inizio (nel quale la macchina da presa irrompe nell'auto di Michel, ad azione già cominciata), una parte centrale ed una fine. Tutti i dialoghi (o quasi) sono improvvisati. Al centro di tutto ci sono i due personaggi principali, Michel e Patricia, il loro rapporto amoroso, il loro inseguirsi nelle minuscole stanze dell'appartamento, le passeggiate sugli Champs Eliysee, le camminate per i vicoli parigini, i loro volti ed i loro sguardi. Godard non costruisce nulla in modo esplicito, lascia che i due protagonisti prendano forma definita grazie ai due interpreti, lo statuario Belomndo, che da qui diverrà il divo di punta della Nouvelle Vague e la candida ed eterea Jean Seberg.






Il rapporto tra i due è vago, volutamente liquido, sospeso tra attrazione irresistibile e fredda sopportazione. Il modello di riferimento, quel Bogart che Godard giustappone a Michel, è lontano, confinato in una dimensione ideale del tutto antitetica all'universo del film. Le parole si perdono, i corpi si rincorrono nello spazio dell'inquadratura e tra le scene senza andare (quasi) da nessuna parte.
Non c'è una vera catarsi, non c'è uno scioglimento, tantomeno una morale vera e propria o una tematica ferrea che vada al di là dell'estetica e della narrativa. Il rapporto tra Michel e Patricia vive nell'attimo, nello sguardo, in dialoghi che celano molto più di quello che dicono e che si esprimono più con le immagini associate che con le sole parole. La finzione del cinema viene così ridimensionata e al contempo resa più evidente: possiamo solo osservare queste due creature dimenarsi nel maelstrom dei loro sentimenti, non possiamo chiedere loro di ballare per noi, di essere più partecipi ai loro moti interiori di quanto non vogliano mostrarci. La macchina da presa si fa così puro strumento contemplativo, la teatralità si estingue per lasciar spazio ad una nuova forma narrativa, al contempo conscia e dimentica della propria natura.






A fare da ago della bilancia in questo rapporto tanto vero da sembrare falso, è niente meno che Jean-Pierre Melville, proprio lui, il padre del polar qui nelle vesti di uno scrittore che lancia sentenze sulle donne: "Due cose sono importanti nella vita; per gli uomini, le donne; per le donne, il denaro". Una venialità, la sua, che traduce il cinismo di Godard in parole indimenticabili. Solo uno, in realtà, degli ispiratori che l'autore rievoca per il tramite della sua opera: Bergman, con i suoi primi piani espressivi, ritorna spesso tra le pieghe delle immagini, così come il giovane Laszlò Kovacs, i cui filmati della rivolta di Praga furono di grande impatto per la generazione di Godard.





Distruggendo ogni schema precostituito, "A' Boute de Souffle" si fa così estrema ed estremizzante celebrazione del mezzo filmico, della sua capacità di ritrarre in modo diretto volti e stati d'animo senza necessità di sovrastrutture di sorta, un inno alla spontaneità ed immediatezza di quella grammatica filmica pura che ossessionerà Godard per tutta la sua carriera.
Il suo discorso troverà fama imperitura nei filmmaker a venire: da Fassbinder sino a Tarantino, passando per i giovani Brian De Palma e Francis Ford Coppola, solo per citarne alcuni; tutti i giovani registi si confronteranno, in un modo o nell'altro, con il lascito del primo Godard, aggiungendo o togliendo qualcosa a quanto da lui fatto con il noir e, in genere, con la narrazione per immagini, prova della grandezza di uno dei più seminali capolavori del Cinema.





EXTRA


Ha senso creare il remake di un'opera prettamente personale?
Ovvio che no: tolto l'occhio di Godard, ad "A' Boute de Souffle" resta una storia quasi inesistente e due personaggi che vivono essenzialmente grazie agli interpreti.
Naturalmente questo non ha fermato Hollywood, che nel 1983 sforna "Brathless" (in Italia "All'Ultimo Respiro"), remake firmato dal mestierante Jim McBride ed interpretato da Richard Gere nei panni del novello Poiccard. Il risultato, per quanto ridicolo sulla carta, ha una sua dignità, pur non essendo neanche lontanamente paragonabile all'originale, né per forma, né per profondità.


domenica 13 novembre 2016

In Guerra per Amore

di Pif.

con: Pif, Andrea Di Stefano, Stella Egitto, Miriam Leone, Vincent Riotta, Maurizio Marchetti, Mario Pupella, Orazio Stracuzzi.

Commedia/Storico/Satirico

Italia 2016
















Quando nel 2013 Pif esordì al cinema con "La Mafia Uccide solo d'Estate", forse in pochi si sarebbero aspettati il buon successo di pubblico e sopratutto di critica che avrebbe riscosso. Quel piccolo film, esordio di un reporter e showman il cui pubblico è essenzialmente giovane e cosciente della decadenza del sistema Italia, era riuscito a dimostrare come fosse ancora possibile dirigere una commedia divertente che al contempo riuscisse a far riflettere sulle sorti di questo nostro sciagurato paese, nel perfetto stile che Pif adoperava anche in televisione.
Ottenuto tutto il plauso possibile, era normale per Pif alzare il tiro, creare un'opera seconda più grande ed ambiziosa con la quale portare aventi il discorso, narrativo e civile, iniziato con il suo esordio. Un film, questo "In Guerra per Amore", con il quale si confronta con un'altra realtà scomoda e vergognosa, direttamente connessa ai fatti della Mattanza: la liberazione del Sud dal Nazifascismo con la corrispettiva ripresa di potere delle organizzazioni mafiose. Tema duro ed affrontato a viso aperto, in una pellicola si più grande ed ambiziosa rispetto all'esordio, ma anche decisamente malriuscita, con la quale Pif cade in tutte le trappole possibili date dall'ambientazione storico-geografica, finendo per rientrare, purtroppo, in quella categoria delle opere seconde non all'altezza degli esordi.




Pur prodotto totalmente dalla sola RAI, "In Guerra per Amore" è un film dove i valori produttivi sono di primo livello; le scenografie d'epoca adoperate per ricostruire la New York degli anni '40 e gli interni militari, gli effetti speciali usati per dar vita ai bombardamenti, le sequenze di massa nello Sbarco in Sicilia e i green screen adoperati per la scena dell' asino che vola riescono davvero a creare l'illusione di una pièce d'altri tempi con tutti i crismi; anche quando regista e direttore della fotografia perdono un pò il polso, come quando adoperano un effetto notte che sembra uscito da "Mad Max: Fury Road" totalmente decontestualizzato o quando i panorami siciliani vengono fotografati come una cartolina nonostante il contesto bellico.
Grande sforzo produttivo che permette a Pif di usare una messa in scena più virtuosistica, con la macchina da presa che si prodiga in movimenti ampi, fluidi, talvolta fine a sé stessi, ma sempre esteticamente appaganti, fino a sfociare in una citazione di Robert Capa un pò forzata ma gustosa.
Peccato che questa confezione laccata ed elegante contenga davvero poco.






Sul piano narrativo, Pif imbastisce una trama d'ensamble dal fiato corto. Come in "La Mafia", al centro di tutto c'è sempre il suo alter ego filmico, Arturo Gimmaresi, perso nuovamente in una storia d'amore travagliata sullo sfondo degli eventi storici; interesse amoroso questa volta è la bellissima Miriam Leone, truccata come una bellezza siciliana DOC, i cui splendidi capelli rossi si tingono di un nero corvino per essere più "etnici", ma il cui carattere è piatto: non più una ragazza seria e politicamente impegnata come il personaggio della Capotondi nel precedente film, ma una semplice donna dei suoi tempi, un oggetto conteso dal figlio del boss e dallo sfigato Pif, come nella peggiore tradizione della commedia romantica italiota. Il viaggio in Sicilia è pretesto per chiedere la mano della bella al padre; la guerra e l'amicizia con il "lieutenant" Chiamparino (Di Stefano) dovrebbero rappresentare la presa di coscienza del giovinastro sulla situazione politica e storica, ma il tutto è forzato, tirato avanti a botte di sensazionalismo (i morti ammazzati, stavolta davvero inutili) e lasciando il protagonista sempre sullo sfondo degli eventi.






Davvero tediosa la moltiplicazione dei punti di vista e dei personaggi, con il bambino chicchirichì d'ordinanza derivante dalla peggiore tradizione del cinema di Tornatore (il cui arco narrativo è davvero inutile), la bella e procace vedova ad aggiungere stereotipi ed il duo di simpatici idioti che dovrebbero portare un amaro commento sociale, ma che finiscono solo per aggiungere un'ombra di populismo alle situazioni.
Il commento sociale finisce così neutralizzato, annacquato in dialoghi vacui e colmi di cliché (come quelli sull'ossessione per le apparenze dei siciliani) che non portano da nessuna parte o, peggio, gag da quattro soldi che colpiscono a vuoto, non suscitano mai una vera risata ed anzi talvolta finiscono per infastidire (la gag ricorrente sulla "water", presa di peso da un episodio de "Il Testimone" poteva essere tranquillamente risparmiata).






Sull'altro piano narrativo, quello più pregnante, il commento storico, pur appassionato ed attento ai particolari, risulta anch'esso depotenziato dalla mancanza di focus: troppo tempo passato a seguire Arturo e le sue traversie da sfigato, troppo poco passato a vedere la progressiva decadenza sociale italiana, affidata a personaggi anch'essi piatti, come il "nonno fascista" troppo cartoonesco per poter essere preso seriamente. Tutta la ricostruzione, anche quella nelle parti più polemiche e scandalose, è piatta e priva di vero mordente, nonostante sia affidata al personaggio, più riuscito, di Chiamparino, che per la caratterizzazione ed il carisma di Di Stefano avrebbe davvero meritato di essere al centro dell'intera vicenda. Tanto che alla fine, Pif finisce per sparare tutti i suoi proiettili a vuoto, riuscendo a ritrovare un gusto ed una potenza morale solo nel bel finale, con un discorso del "parveneu" che andrebbe fatto vedere a molti odierni politici e demagoghi.
Meglio allora rivedersi il "Lucky Luciano" di Francesco Rosi, dove le medesime tematiche venivano declinate con una sensibilità storico-politica decisamente più adeguata. Nella speranza che, magari, alla sua terza prova da regista, Pif ritrovi la forma e l'ispirazione dell'esordio.

mercoledì 9 novembre 2016

I 400 Colpi

Les Quatre Cents Coups

di François Truffaut.

con: Jean-Pierre Léaud, Claire Maurier, Albert Remy, Gergoe Flamant, Guy Decomble, Patrcik Auffay.

Francia 1959
















Ci sono un sacco di miti, leggende, dicerie ed esagerazioni che circondano un movimento (sempre ammesso che come tale possa essere definito) come la Nouvelle Vague francese. Il primo fra tutti, perorato sopratutto al giorno d'oggi, è la sua portata rivoluzionaria totale, la sua capacità di distruggere ogni singola convenzione preesistente per creare una forma comunicativa nuova e del tutto inedita. Il che è alquanto esagerato, anche se, lo stesso, la capacità rigeneratrice del linguaggio adoperata da autori del calibro di Jean-Luc Godard e Robert Bresson è stata ed è tutt'oggi incredibile.
Ma la Nouvelle Vague non fu, all'epoca, il fulmine a ciel sereno che in molti si immaginano. I (grandissimi) cineasti che ne mossero le fila nei primi anni di attività (principalmente dal 1959 al 1962) si rifacevano ad intuizioni e convenzioni già a loro volta sperimentate a partire dagli anni '40 da alcuni dei più grandi autori che il cinema europeo ed americano avevano conosciuto. Primo fra i quali Roberto Rossellini.




E' nella sua opera che si può avvertire una prima e più profonda frattura con tutte le principali convenzioni estetico-narrative della Settima Arte. Il "caso" è anche il suo film più famoso, quel "Roma Città Aperta" (1945) che oggi come oggi viene ricordato qui in Italia più che altro per i suoi meriti storici, piuttosto che stilistico-estetici. Nelle parole di Godard, non ci fu mai testimonianza più grande della capacità di rinnovare il mezzo filmico, e non poteva che essere così; l'avventura di Rossellini con "Roma" fu del tutto particolare: girato con pochi soldi, iniziato come una serie di cortometraggi che in corso d'opera furono fusi in un lungometraggio e, sopratutto, prodotto in condizioni di semiclandestinità durante l'occupazione nazista, lontano dai teatri di posa di Cinecittà e a zonzo per i quartieri disastrati della capitale.
La frattura fu duplice: da una parte narrativa, con la distruzione di ogni schematismo possibile ed immaginabile, dall'uso del punto di vista multiplo di più personaggi in un racconto di ensamble sino alla negazione di un racconto lineare, al quale viene preferita la frammentarietà espressiva della divisione in episodi. Dall'altra la distruzione della convenzione del cinema dei "Telefoni Bianchi", l'abbandono di storie frivole ricostruite in studio. La macchina da presa viene sguinzagliata a pedinare personaggi più reali del reale, immersi in contesti dal realismo vibrante. Niente più montaggio-assemblaggio classico delle scene, niente più impostazione teatrale nei dialoghi e nella direzione degli attori (pur se provenienti dal mondo della rivista) e al via l'uso di attori non professionisti per avvicinarsi al reale nei limiti del possibile. Il "Neorealismo", pur già anticipato da Visconti con "Ossessione" (1943) trova qui una prima forma compiuta. E l'effetto sui "giovani turchi" francesi è dirompente.




Ma rintracciare la radice della Nouvelle Vague nella sola rinascita del cinema italiano, per quanto esatto, sarebbe lo stesso riduttivo. Sono ancora altre due le influenze che ispireranno i francesi a ripensare la Settima Arte.
La prima è la passione per il cinema americano classico, comune sopratutto a Truffaut, in particolare per lo stile e le intuizioni di Nicholas Ray, Howard Hawks e sopratutto Alfred Hitchcock, i più moderni artisti dell'epoca, il cui stile ricercato ed il controllo totale nella messa in scena contribuì all'elaborazione della cosidetta "politica degli autori".
La seconda è la contrapposizione tra gli esiti artistici del cinema americano e quelli, ben più blandi, del cinema francese, ancora saldamente ancorato alla tradizione para-teatrale e lontanissimo dalle influenze più illustri. Cinema che la nuova leva di autori depreca e vitupera sulle pagine dei "Cahiers du Cinema", rivista sulle cui pagine esordiscono come scrittori Jacques Rivette, Jean-Luc Godard e lo stesso Truffaut, i quali distruggono ogni nuovo film in uscita, esaltano appassionatamente i loro idoli, andando anche oltre ed abbandonando volutamente l'obiettività giornalistica, con vivo piglio cinefilo. Le uniche eccezioni sono rappresentate da quegli artisti francesi che riuscirono ad andare oltre le convenzioni, anticipando le tendenze a venire, primi fra tutti Jean-Pierre Melville e Henri-George Clouzot, che già negli anni '40 avvicinarono la messa in scena a forme moderne e più libere. E sopratutto gli scritti di André Bazin, vero e proprio padre putativo della teoria alla base Nouvelle Vague.




Ma nonostante la comune passione cinefila, la militanza nei "Cahiers", l'opposizione al "cinema dei papà" e l'amore verso il neorealismo e il cinema americano, gli autori della Nouvelle Vague non presentano, nei fatti, tratti comuni tra loro nella loro filmografia, non nelle tematiche e neanche più di tanto nello stile. Chabrol, Truffaut, Rivette, Resnais, Bresson, Rohmer e Godard, i "padri" del movimento, hanno in comune la voglia di sperimentare (anche sul piano tecnico), una comune matrice politica assimilabile alla sinistra europea e la volontà di avvicinarsi ad una forma filmica sempre "fasulla", spesso cosciente dei propri limiti, ma quantomai vicino alla realtà, ai tempi e ai luoghi dell'epoca, quasi a volerne dare un'istantanea perenne a 24 fotogrammi al secondo. Ognuno di loro declinerà queste esigenze in modo personale e diverso dagli altri.
La Nouvelle Vague non potrebbe, di conseguenza, definirsi come un movimento artistico organizzato: non ha tematiche comuni come il Neorealismo Italiano, né un decalogo compiuto come la futura Dogma '95. E', più che altro, un insieme di giovani autori accomunati dalla volontà iconoclasta, dotati di un talento superlativo e dalla voglia spasmodica di far evolvere il mezzo filmico verso lidi in parte inediti, in modo da garantirne una specificità ancora più marcata rispetto alla matrice teatrale o letteraria e, sopratutto, da sancire la supremazia della figura del regista, visto non solo come "direttore dei lavori", ma come mente creativa in grado di dare unicità alla pellicola.




E' con la Nouvelle Vague che il regista diviene definitivamente ed incontrovertibilmente il centro nevralgico del film; quest'ultimo diviene il frutto totale della sua visione, un parto della sua mente dotato di quella unicità che solo il totale controllo da parte di un'unica mente può garantire. Il regista diviene autore ed artista, "padrone" dell'opera e non più semplice coordinatore delle istanze delle singole maestranze, le quali ora devono dipendere totalmente da lui. La coerenza di visione e la personalità dello stile (mutuate appunto da Hitchcock e Rossellini tra gli altri) divengono imperativi al punto da cambiare totalmente la visione generale non solo del ruolo del "director", ora vero e proprio "miseur en scene", ma dell'opera cinematografica in toto, che diventerà opera artistica attribuibile al suo creatore in modo diretto, mai più filtrato per il tramite di figure quali il produttore, lo sceneggiatore o la star di turno.
Ogni autore, di conseguenza, è un mondo a sé, un "movimento nel movimento" caratterizzato da temi e stili propri, che pur influenzati o ripresi dai maestri contemporanei, fa propri e declina in modo del tutto personale. E se c'è stato un cineasta che può essere visto come "l'iniziatore ufficiale "della Nouvelle Vague, questi non può che essere François Truffaut.




Un autore la cui storia personale è essa stessa perfetto paradigma della Nouvelle Vague. Truffaut nasce critico dei "Cahiers", dove conosce anche i futuri colleghi ed amici, come Rivette e sopratutto l'amato/odiato Godard. Come critico non conosce mezze misure: stronca ogni singolo film francese in uscita, esalta con un furore bellico quelli dell'amatissimo Hitchcock. La distruzione dello status quo parte dalla carta: il cinema francese è vecchio, esausto, incrostato dalla ripetizione dei cliché del passato, dimentico delle conquiste più moderne e del tutto insensibile ai cambiamenti che si sono avuti altrove, in particolare in Italia e in Svezia, con il cinema di Dreyer e Bergman; da cui la definizione di "giovani turchi" per il tono violento e pararivoluzionario con il quale lui e i suoi colleghi coetanei vergavano saggi e recensioni.
La sua penna è una spada con la quale si diverte a punzecchiare registi e produttori; in particolare, il suo disprezzo era rivolto verso il suocero, Ignace Morgenstern, produttore di film che il giovane turco definisce come "modesta spazzatura". Proprio questi continui attacchi rappresentano l'occasione per fare il grande salto da critico a regista: sfidato dallo stesso a dirigere un film che fosse migliore dei suoi, Truffaut decide di trasformare in lungometraggio un'idea per un corto che aveva avuto qualche tempo prima; una storia piccola, in parte basata su eventi autobiografici, che raccontasse le gioie e i dolori dell'essere ragazzini in un mondo di adulti e che gli permettesse di applicare le istanze che meditava e le ispirazioni ricevute dall'amico e collega André Bazin, al quale il film è dedicato: nasce così il capolavoro "I 400 Colpi", apripista ufficiale della nuova visione cinematografica francese (di concerto con l'altrettanto importante, anche se meno apprezzato dal pubblico, "Hiroshima mon Amour" di Alain Resnes, uscito anch'esso nel 1958), trionfatore alla XII edizione del festival di Cannes, pietra miliare del cinema tutto e supremo capolavoro dello stesso Truffaut, che già in questa prima prova trova un equilibrio perfetto e dimostra una mano fermissima, oltre che una passione smodata per la narrazione per immagini.




"I 400 Colpi" (il titolo si rifà ad un'espressione francese meglio traducibile come "fare il diavolo al quattro" o "combinare un gran casino") è un film sulla tarda infanzia, su quell'età pre-adolescenziale nella quale l'infante comincia a sviluppare una coscienza verso il mondo che lo circonda. Un età che Truffaut non idealizza, non concepisce come un eden fatto di bei momenti ammantati di nostalgia, ma come un momento difficile, dove l'essere umano, pur cosciente di sé, non è libero dalle costrizioni della società, affettiva e non.
Una visione, questa, totalmente a misura del suo protagonista, Antoine Doinel, del quale il punto di vista è esclusivo; personaggio basato in parte sulle esperienze di Truffaut e alcuni suoi coetanei, ma assimilato totalmente dal suo interprete, un Jean-Pierre Léud quattordicenne ed al suo esordio, che da qui diverrà uno dei volti principali della Nouvelle Vague.
Lo sguardo di Truffaut è limpido è al contempo smaccatamente a favore del suo protagonista. La sua macchina da presa si libera da ogni convenzione e segue il volto e il corpo di Doinel nei suoi peregrinaggi. La costruzione narrativa è anch'essa priva di compromessi, costruita come una serie di episodi interconnessi tra loro. Il ritratto che ne consegue è di una veridicità incredibile, eppure al contempo incommensurabilmente vivido.




Doinel è un ragazzo terribile: costantemente ripreso per i cattivi comportamenti, allergico allo studio, prova interesse solo per la letteratura o per il cinema (note biografiche dell'autore); ma è al contempo una vittima (ma mai vittimizzato nella visione di Truffaut) di un mondo insensibile, quel mondo di adulti dove le famiglie sono disastrate e lontane dal mondo dei ragazzi, così come i professori si divertono unicamente ad umiliarli. L'unico punto di riferimento effettivo resta così l'amico coetaneo René, la cui situazione familiare non è poi tanto diversa.
Una famiglia, quella di Doinel, caratterizzata da una madre dispotica ed un padre pappamolle, visto più come un compagno cresciuto che come una figura autoritaria. E' la madre a tenere le redini del nucleo familiare: perennemente arrabbiata, fedigrafa e priva di affetto vero verso il figlio, è la prima figura di "femme fatale" che il cinema di Truffaut conosce, basata anch'essa sulle reminiscenze giovanili dell'autore.




Al di là della famiglia, l'istituzione scolastica, vero e proprio "carcere" privo di sbarre nel quale gli alunni sono confinati, costretti alle umiliazioni di un maestro insensibile e compiaciuto. Oltre, la città, la Parigi bellissima eppure fredda, nel quale Antoine e René si divertono a perdersi per le lunghe strade, perennemente alla ricerca di una forma di riscatto, di emancipazione impossibile verso la dipendenza dalle istituzioni.
Quella di Antoine è una vita difficile, logora da affetti, lontana dall'inserimento nel seno di un mondo che non comprende e che non lo accoglie (si scoprirà nel finale la sua natura di "indesiderato"). Non resta dunque che la fuga forzata o il rinchiudersi in sé stessi, in un abbandono totale di quei falsi punti di riferimento, che si traduce nel rigetto delle convenzioni sociali, da cui l'etichetta di "ragazzino terribile".





Ma il ritratto di questa infanzia difficile è leggero, quasi scanzonato, seppur celante una malinconia tangibile. Lo sguardo di Truffaut si fa complice, mai giudice, persino quando Antoine viene portato nel riformatorio o quando scruta, con curiosità ed un pò di paura, l'altro sesso.
L'ultimo atto, in teoria il più drammatico, viene dipinto con sequenze brevi ed incisive: la prigionia vera, contrapposta a quella ideale di natura scolastica con la quale il film si apre, per quanto pressante, non è opprimente. La catarsi si ha non tanto nella fuga, pur essenziale, quanto nella confessione, la magnifica sequenza del colloquio con la psichiatra nella quale il protagonista, da oggetto della visione, si fa definitivamente soggetto, confessandosi quasi direttamente allo spettatore. Tanto che la riacquisita libertà successiva si fa quasi tappa obbligata: l'ennesima fuga, più disperata perché più cosciente di sé, che si conclude con il fotogramma più famoso della Storia del Cinema, quel fermo immagine che sfondando la quarta la parete fa prendere coscienza allo spettatore e all'opera stessa della comunanza di sguardi (ideali e fisici) avutasi sino a quel momento, nei 95 minuti di durata. Uno sguardo perso, quello di un giovane ormai privo di ogni riferimento, che non sa cosa farsene della libertà e per questo si volta indietro, verso quel mondo che lo rifiuta e che rifiuta, quasi in un circolo eterno.




Sguardo limpido e leggero che Truffaut cristallizza grazie ad una macchina da presa totalmente libera, con la quale segue il suo protagonista in panoramiche ampie, o vi si avvicina negli strettissimi interni. La macchina da presa si fa viva, quasi un personaggio chiamato a testimoniare gli eventi del protagonista, lontana dalle convenzioni del classicismo, della "regia invisibile" che fino ad allora imperava. Le regole, le convenzioni ed i tabù vengono abbandonati: storia e stile si intrecciano e lo spettatore diviene partecipe della narrazione grazie sopratutto all'uso delle soggettive e delle pseudosoggettive. Ponendo in primo piano lo sguardo dei personaggi, Truffaut abbatte la parete filmica ben prima di quell'ultima inquadratura, avvicina lo sguardo e le parole al suo pubblico, rafforzando ed al contempo assottigliando la finzione della messa in scena. Come nel Neorealismo di Rossellini (in particolare quello di "Germania Anno Zero", che già presentava una storia di giovani uomini con piglio verosimile), i personaggi non sono mai stati così vivi, così vicini a chi gli osserva eppure così magnificamente persi nel loro mondo.
Vicinanza al reale e lontananza dagli schematismi dovuta anche al particolare uso della scrittura. Ingaggiato lo sceneggiatore televisivo Michel Moussy per ridefinire storia e dialoghi, Truffaut lascia molta della messa in scena all'improvvisazione, dirigendo Léud e gli altri attori in modo indiretto. Lo script diviene così spunto, non più strada da seguire, lasciando che personaggi e situazioni si adattino al momento, alle esigenze degli interpreti, delle location e dell'ispirazione dell'autore.




Il "nuovo cinema" trova così un battesimo ufficiale, un riconoscimento totale e definitivo. La Nouvelle Vague apre ufficialmente i battenti e Truffaut inaugura una florida carriera.
Nulla sarà più come prima.

venerdì 4 novembre 2016

L'Impero del Sole

Empire of the Sun

di Steven Spielberg.

con: Christian Bale, John Malkovich, Miranda Richardson, Joe Pantoliano, Nigel Havers, Leslie Phillips, Masato Ibu, Ben Stiller.

Drammatico/Storico

Usa 1987













La svolta "seriosa" non giovò alla carriera di Spielberg; benché accolto con fervore ai festival americani e con favore dal pubblico, "Il Colore Viola" (1984) è tra gli esiti peggiori del suo cinema e, all'epoca, gli garantì anche forti accuse di razzismo. Sarebbe stato lecito, di conseguenza, aspettarsi un ritorno al cinema di genere, alle atmosfere spensierate de "I Predatori dell'Arca Perduta", il cui secondo sequel aspettava di entrare in produzione. Eppure Spielberg riuscì di nuovo a stupire tutti, avvicinandosi ad un progetto ambizioso e complesso, una storia sull'infanzia decisamente più vicina alle sue corde, ma lontana anni luce dalla leggerezza di "E.T." (1982): "L'Impero del Sole".
Pellicola oggi (vergognosamente) quasi dimenticata, mai citata tra i suoi film migliori, né ricordata con particolare entusiasmo dai fans; oblio forse dovuto al mezzo flop che rappresentò all'epoca: poco più di 66 milioni di dollari di incasso globale a fronte di un budget di oltre 35, oltre che sei nomination agli Oscar e nessuna statuetta, battuto in ogni categoria dal coevo "L'Ultimo Imperatore" di Bertolucci. Oblio che non rende giustizia ad un film tra i migliori e più scostanti dell'autore.




Perché "L'Impero del Sole" è sicuramente un film sull'infanzia e la pre-adolescenza diretto ad altezza di bambino come d'abitudine nel cinema spielberghiano; è una pellicola di guerra vista dagli occhi di un pre-adolescente che non può contare sulla bellezza visionaria de "L'Infanzia di Ivan" (1962), né sulla crudezza ammaliante di "Và e Vedi" (1985), ma che riesce lo stesso a creare un perfetto arco decostruttivo in grado di rappresentare con efficacia l'orrore della guerra.
Basato sul romanzo omonimo ed autobiografico di J.G.Ballard, racconta la vicenda reale (ma in parte romanzata) della sua sopravvivenza nella Cina occupata dalle truppe giapponesi dal 1941 al 1945. Quattro anni di guerra che coincidono con il passaggio dall'infanzia all'età adolescenziale, la fine di un età e l'inizio di una nuova, in un'odissea sinistra, apocalittica, ma filtrata sempre dall'immaginazione del suo giovane protagonista. Personaggio che ha il volto e le movenze di un Christian Bale dodicenne al suo esordio sul Grande Schermo; e mai esordio potè essere più folgorante: il suo Jamie urla, piange, grida, ride sguaiatamente, in una performance incredibilmente espressiva, perfetta avvisaglia della sua futura carriera.




Attorno a lui, un mondo allo sfacelo, un inferno che non ha tanto il volto orientale dell'invasore nipponico, quanto quello più astratto ed inquietante della guerra in sé, del conflitto inteso come violenza spicciola e fine di ogni certezza. Il cammino di Jamie è quello di un ragazzo dell'alta borghesia, un pò viziato, che si ritrova di punto in bianco in una giungla umana costellata di loschi individui. Ma i concetti di "bene" e "male" sono ora fluidi, di difficile interpretazione. Venuta meno la figura genitoriale, Jamie si ritrova dipendente da un truffatore, il Basie di John Malkovich, personaggio solo in apparenza a-morale, ma nei fatti del tutto immorale: ladro che diviene bandito, che cerca di vendere il ragazzo già dopo il loro primo incontro. Basie è un personaggio ambivalente: unico appiglio del giovane in un mondo adulto e violento e al contempo minaccia per la sua stessa incolumità, sempre pronto ad utilizzarlo per i propri comodi, eppure unico vero punto di riferimento durante gli anni di prigionia, unico adulto sul quale un bambino può riporre sentimenti di affetto o orgoglio.




L'orrore della guerra filtrato dagli occhi dell'infanzia trasforma la Cina dell'occupazione nipponica in una sorta di favola sinistra. La violenza, anche quella subita dal piccolo protagonista, non viene mai celata né addolcita, ma il suo viaggio è sempre immerso nello stupore di chi si trova davanti ad un sogno che ha preso vita. La fascinazione di Jamie per la strumentazione bellica (il suo sogno è quello di divenire aviatore) lo aiuta a sopportare le parti più cupe della prigionia, come il bombardamento del campo, in un inno alla forza e alla resistenza degli infanti. Ma questo solo sul piano più esterno.
In profondità, l'orrore quotidiano lacera poco a poco la sua mente, sfalda la sua psiche che comincia a perdere pezzi un pò alla volta.
La follia è distruzione dell'innocenza, che attraversa almeno due tappe essenziali. La prima, più orrenda dal punto di vista di un adulto, è la morte della signora Victor (Miranda Richardson), che avviene contemporaneamente al bombardamento nucleare; la fine della guerra coincide con la presa di coscienza della fine dell'innocenza: l'Era Atomica, l'orrore per una distruzione mai vista prima, è il primo passo in un nuovo mondo ed in una nuova fase della vita individuale. La seconda è la catarsi definitiva: la morte del giovane pilota giapponese, in parte doppleganger di Jamie, ucciso da quella figura paragenitoriale che lo aveva abbandonato. E' da questo momento che il bambino diviene giovane uomo: il punto di non ritorno è passato, l'infanzia è finita, l'orrore si è consumato definitivamente e non può più essere filtrato o rielaborato da uno sguardo innocente.




Ma "L'Impero del Sole" è anomalo anche sul piano della messa in scena, almeno per gli standard spielberghiani. La sua visione qui si fa più ampia, sempre ad altezza di bambino, ma attenta anche e costantemente al contesto; le scene di massa divengono parte integrante della narrazione: è la calca a far da protagonista delle sequenze narrative più importanti, come la fuga da Shangai o la marcia verso l'entroterra. La mano di Spielberg è salda, le sequenze di massa divengono puro spettacolo, quasi un omaggio al cinema di David Lean, che avrebbe dovuto inizialmente dirigere il film.
Uno spettacolo che questa volta riesce sempre ad andare di pari passo con il contenuto, per creare un equilibrio perfetto, allora inedito per l'autore e che raramente si ripeterà a questi livelli.