sabato 28 settembre 2019

Rambo: Last Blood

di Adrian Grunberg.

con: Sylvester Stallone, Paz Vega, Yvette Monreal, Louis Mandylor, Joaquin Cosio, Sheila Shah, Oscar Jaenada.

Azione

Usa 2019
















A 73 anni, Stallone ha deciso di riportare su schermo il suo secondo personaggio più amato. Il che non deve stupire: nel 2008, in "John Rambo" non solo resuscitava e riusciva a ridargli dignità, ma finiva per riportarlo a casa, in quella patria che lo ha sfruttato e odiato, lasciando intendere come per lui non fosse ancora tempo per rinfoderare pugnale e arco. Nel frattempo, la carriera di Stallone è stata rilanciata più volte: dopo aver fatto un'operazione simile con "Rocky Balboa", ha toccato il successo commerciale grazie alla serie di "The Expendables" e "Creed".
Eppure questo nuovo Rambo non riesce a convincere, non ha l'umanità degli ultimi film dedicati a Rocky, né il coraggio o la forza distruttiva del capitolo precedente. Pur tuttavia, liquidarlo come un film brutto o malriuscito sarebbe al contempo sbagliato.



Sono passati dieci anni da quando Rambo è ritornato in Arizona; qui ha ritrovato qualcosa per la quale vale la pena vivere: una famiglia, composta dalla ranchera Maria (Adriana Barraza) e sua nipote Gabrielle (Yvette Monreal). Il suo PTSD viene inoltre tenuto a bada dagli psicofarmaci, mentre la sua sete di giustizia viene soddisfatta affiancando le autorità locali nelle missioni di soccorso. Tutto sembra andare per il verso giusto, finché Gabrielle non decide di recarsi in Messico per ritrovare quel padre che l'aveva abbandonata anni prima, cadendo nelle grinfie di una gang di trafficanti di schiave.



Una storia che si adagia svogliatamente su di un luogo comune ripreso infinite volte nel cinema action, ricalcato pari pari dalla serie "Taken". La prima metà di "Last Blood" scorre svogliatamente sui binari del già visto, senza riservare sorprese particolari. L'unico tocco di originalità viene concesso dall'uso della violenza: se già nel precedente "John Rambo" Stallone riusciva ad usare un registro in grado di sconvolgere lo spettatore con gli effetti splatter, ridando al suo personaggio quella dimensione sinistra che "Rambo 2- La Vendetta" e "Rambo III" avevo codardamente e disgustosamente eclissato, qui la violenza si fa sadica, insistita, quasi una forma comunicativa per il personaggio, perso com'è nel dolore del presente e negli incubi del passato.



La vera ragion d'essere di questa riesumazione arriva solo a partire dalla fine del secondo atto, nel quale Stallone guida il personaggio a briglia sciolta tra gli eventi. Se in passato John Rambo era un reduce distrutto dal trauma della guerra e nel quarto film era un giustiziere che usava il suo rancore come arma, ora il suo autore decide di alzare il tiro partendo da quest'ultima incarnazione per trasfigurarlo in una vera e propria icona horror, un mostro distrutto dal dolore che si fa pura violenza incarnata, furia disumana che fa letteralmente a pezzi i responsabili del suo lutto.



La regia, affidata all'Adrian Grunberg di "Viaggio in Paradiso", talvolta zoppica, non riesce a restituire il senso di grandezza delle  sequenze più complicate. Per fortuna, il cuore del film sta nelle singole scenedi omicidio, nel quale dimostra un gusto morboso non solo per la violenza, ma anche per coreografia, con le morti che vanno oltre le righe per divenire veri e propri massacri in singolo. Una violenza esplicita, ma mai davvero compiaciuta, cucita com'è su di un personaggio disperato e solo.



Un Rambo mai così umano, capace di soffrire e di perdere persino nei combattimenti. Stallone ha abbandonato la vecchia macchina da guerra repubblicana che aveva creato nel 1985 per ridare spazio all'uomo dietro il soldato del primo e del quarto film, creando una conclusione ideale alla sua avventura. Una conclusione convenzionale quanto si vuole, eppure estremamente calzante.

giovedì 26 settembre 2019

Giù la Testa

di Sergio Leone.

con: Rod Steiger, James Coburn, Romolo Valli, Rick Battaglia, Maria Monti, Franco Graziosi, Antoine Saint-John, David Warbeck.

Italia, Spagna 1971


















Salutato già dopo il sui primo successo come un maestro del cinema, Sergio Leone, a fine anni '60, poteva vantare una carriera straordinaria nella Settima Arte. Tuttavia, non c'erano solo sostenitori del suo cinema tra le file di spettatori; molta critica di sinistra si divertiva, di fatto, a etichettarlo come "fascista", visto il cinismo dei suoi personaggi e, sopratutto, la scelta artistica di cimentarsi con un genere, il western, appannaggio quasi esclusivo di quegli americani che, durante le proteste del '68, erano diventati il nemico pubblico n°1.
Uno stigma che Leone non sopportava proprio a causa della sua formazione politica, in realtà affiancata a quella della sinistra extraparlamentare dell'epoca. E forse è stata proprio la necessità di scrollarsi di dosso quel vergognoso epiteto che lo ha portato a dirigere quello che sarà il suo ultimo western, il suo capolavoro più sottovalutato: "Giù la Testa".



Titolo italiano inventato di sana pianta da Leone, sulla scorta della credenza, infondata, che l'inglese "Duck you, sucker!" fosse una frase idiomatica usata nello slang americano. Un titolo più calzante ed evocativo avrebbe potuto essere quello con cui il film è stato distribuito in Francia, ossi "C'Era una volta la Rivoluzione"; poiché "Giù la Testa" è il western-politico definitivo, nel quale Leone fa confluire tutta la sua simpatia per i rivoluzionari, portando al contempo a compimento un discorso sulla forza dell'amicizia virile commovente.
D'altro canto, Leone è chiaro sin dai titoli di testa, che si aprono con una citazione del Libro Rosso di Mao: "La Rivoluzione non si fa nei salotti, non è un ballo di gala"; la visione della lotta di classe adoperata dal grande autore è sporca, cattiva, scevra da ogni vero romanticismo (il quale viene limitato esclusivamente alla definizione dei due personaggi principali). E la prima scena è in tal senso chiara e di perfetta esecuzione: Juan (uno straordinario Rod Steiger), introdotto come un peone sempliciotto, sale a borda di una diligenza in cui i ricchi e eleganti esponenti della classe dirigente si abbuffano voracemente mentre lo riempono di insulti, ai quali risponde con un sorriso volutamente ebete. Lo scherno viene giustapposto alla voracità, l'uso magistrale di un montaggio serrato e di inquadrature strettissime e per questo perfette trasforma il dialogo in un atto simbolico, nel quale il piccolo proletario viene letteralmente divorato dai padroni. Un'ordalia che viene interrotta dalla violenza: la diligenza viene presa d'assalto, i ruoli si invertono, con Juan che diviene carnefice. La rivalsa sull'oppressore viene attuata in modo veloce e spietato, la violenza verbale viene ripagata con quella fisica. Ma quella di Juan non è (ancora) affermazione della dignità di classe mediante l'uso della sovversione violenta dello status quo, quanto una semplice vendetta per l'umiliazione subita. Atteggiamento che cambierà, nel corso del film, grazie all'amicizia con John (James Coburn, elevato allo stato mitologico come avverrà nuovamente poco dopo con "Pat Garrett & Billy the Kid").



John, o "Sean" come era chiamato in Irlanda, è un idealista, un uomo fuggito dalla terra natia nella quale combatteva contro il tirannico Impero Britannico assieme all'IRA e che ora si ritrova a perorare quegli stessi ideali in una terra straniera. Laddove Juan è un personaggio a-morale, che si è escluso volontariamente da una lotta di classe alla quale viene preferita la violenza spicciola ai fini della sopravvivenza, John è una figura quasi intellettuale, che associa la teorizzazione rivoluzionaria all'azione in campo. Una via di mezzo, in pratica, tra un intellettuale e un combattente.
L'amicizia tra i due porta alla crescita interiore di Juan: coartato dapprima con l'inganno (la rapina al Banco Nacional de Mesa Verde, in realtà assalto ad una Bastiglia), Juan arriva un po' alla volta ad assimilare l'ideale rivoluzionario, sin quanto la lotta non arriva a toccarlo personalmente; il massacro della sua famiglia non è momento di svolta, quanto ultimo atto in una trasformazione che era già in corso dal momento in cui è stato acclamato come eroe popolare. Il proposito personale arriva così a confondersi con la volontà di ribalta, sino a fare di Juan un personaggio completo.



John è una figura romantica, un uomo perseguitato dal ricordo del tradimento di un suo ex commilitone, in fuga da un passato dal quale non ha però rinnegato gli ideali. Il ruolo dell'intellettuale, nonché dell'anello debole, viene dato al Dr.Villega (un Romolo Valli al solito incredibilmente intenso), anch'egli idealista, ma dalla fibra non adamantina, al quale non resterà che trovare la redenzione con il sacrificio supremo.



Leone dirige il tutto con una mano talmente ferma da divenire plastica. Le variazioni costanti nel ritmo fanno somigliare il film ad una vera e propria sinfonia in immagini. Magistrale in modo in cui dilata i tempi nella prima, lunga, sequenza, solo per poi accellerarli subito dopo. Quasi ogni scena merita di essere annotata in un ideale manuale su come fare cinema e su tutte, svetta ovviamente l'assalto al convoglio, sia per grandezza che per perfetta esecuzione. E su tutto ovviamente svetta llo score di Ennio Morricone, sontuoso e talvolta ironico.



Direzione da manuale che si sposa con un racconto sempre avvincente: ci si innamora davvero dei due protagonisti, ci si appassiona alle loro sventure e si resta ammaliati dinanzi ai loro (piccoli) trionfi. Il cinismo di "Per un Pugno di Dollari" è lontano, Leone si avvicina del tutto alle emozioni dei suoi personaggi, trascinando lo spettatore nel loro mondo. Tanto che nel finale non si può che commuoversi per la loro sorte e gioire amaramente di quella violenza catartica che agisce (volutamente) solo in parte da consolazione.



"Giù la Testa" è l'ennesima prova da maestro di Sergio Leone, una pellicola splendida e coinvolgente, che merita di essere riscoperta e apprezzata per il capolavoro che rappresenta.

lunedì 23 settembre 2019

C'Era una volta a... Hollywood

 Once Upon a Time... in Hollywood

di Quentin Tarantino.

con: Leonardo Di Caprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Al Pacino, Emile Hirsch, Damon Herriman, Margaret Qualley, Timothy Olyphant, Julian Butters, Austin Butler, Bruce Dern, Dakota Fanning, Luke Perry, Kurt Russell, Zoe Bell, Michael Madsen, James Remar, Mike Moh, Nicholas Hammond.

Usa 2019












---CONTIENE SPOILER---

C'è un'inquadratura, nel primo atto di "C'Era una volta a... Hollywood", essenziale per comprendere non solo il film in sé stesso, quanto anche questa fase del cinema di Tarantino, iniziata con "Bastardi senza Gloria" e della quale i successivi "Django Unchained" e "The Hateful Eight" rappresentano più che altro delle variazioni; un'inquadratura che si distacca dal soggetto, in questo caso il Cliff Booth di Brad Pitt, per volare su di un drive-sin, sino ad incunearsi all'interno del fascio di luce di un proiettore, illuminando lo schermo sino da divenire speculare con quella del proiettore in sala che proietta il film sullo schermo. Una sorta di "controsguardo" verso il pubblico in sala, verso la nostra realtà, sulla quale Tarantino proietta la sua visione delle cose, sino a far coincidere le immagini artefatte con quelle reali. Un mix di realtà e finzione, di Storia vera e rielaborazione fantastica dei fatti in chiave strettamente personale, volta a definire la forza narrativa del medium cinematografico. Operazione che trovava in "Bastardi senza Gloria" il primo esempio e con quest'ultima opera la sua ideale continuazione.



"C'Era una volta a... Hollywood" è in fin dei conti un film semplice, forse persino più semplice de "Le Iene": altro non è se non la  descrizione di tre personaggi che incarnano a loro volta tre dimensioni filmiche ideali. L'anno in cui è ambientato è in tal senso essenziale: è il 1969, la New Wave del cinema americano è già stata inaugurata da "Gangster Story" e troverà in quell'anno il primo picco in "Easy Rider"; Le strade illuminate al neon che ospitano i vecchi edifici anni '50 si riempiono di hippie, di giovani sbandati e piccoli grandi mostri moderni; il vecchio sistema produttivo hollywoodiano sta per collassare e il nuovo sistema, più autoriale, deve ancora trovare piena realizzazione. Il vecchio modo di intendere il cinema trova così spazio solo in televisione. Ed è in televisione che Rick Dalton (Di Caprio) trova una sorta di rifugio. Lui, che è stato una stella solo per il piccolo schermo, ora si trova a fare i conti con una carriera che non è mai decollata, ritrovandosi fuori dal mondo; non riesce a stare al passo con i tempi, ad adattarsi o a cambiare davvero: non comprende il lustro produttivo delle produzioni italiane e si ritrova affiancato da giovani attori forgiatisi con il metodo Strasberg i quali ne sanno molto più di lui sull'arte del recitare, vivendo in una alienazione costante annegata malamente nell'alcool.
Suo doppio è Cliff Booth, stuntman e controfigura, un uomo dall'indole violenta, che paga anch'egli lo scotto di non riuscire a conformarsi, a restare tra le righe e in riga dinanzi al prossimo.
E poi c'è Sharon Tate (Margot Robbie), ossia la nuova leva, diva ancora non sbocciata, donna dall'indole allegra e innocente, presenza angelica che assapora i primi frutti del suo lavoro. Una Sharon Tate che Tarantino tratteggia in modo volutamente piatto, usandola come specchio di quella realtà che deforma sino a piegare alle proprie esigenze; chiare ne sono le intenzioni nella bella scena del cinema, dove la rappresentazione della Tate guarda la vera Tate intrappolata tra i frame di una finzione, gioco di specchi gustoso e riuscito.



Cliff e Sharon sono costantemente ritratti in movimento: siano le passeggiate sulla walk of fame che le scampagnate in auto verso lo Spahn Ranch, i due si muovono in un mondo in movimento, come a seguire il mutare degli eventi; e come sfondo alle immagini, la radio sostituisce la musica, per creare un'immersione ancora più marcata in questo mondo pronto a cambiare pelle. Dalton, d'altro canto, è ritratto quasi sempre seduto, fermo, incapace di seguire la corrente. E Tarantino muove con i suoi personaggi anche la macchina da presa, il punto di vista suo e dello spettatore che diviene anch'esso protagonista in una serie di virtuosismi degni del miglior Brian De Palma, rendendo questa la sua regia più dinamica, persino rispetto a quanto visto in "Kill Bill vol.I".



Lo sguardo di Tarantino disseziona così un personaggio e il mondo che lo circonda. Ricrea e rilegge figure storiche ed eventi reali. Impossibile non citare la scena in cui immagina un incontro tra Bruce Lee e il suo Cliff Booth, una rielaborazione personale della realtà che, modificata a proprio piacimento, anzicchè divenire falsa o posticcia, si fa genuinamente espressiva, una finzione più reale del reale, dove la spavalderia del vero Lee viene gonfiata fino a divenire maschera dello stesso personaggio.



La stessa attitudine viene usata per la rilettura degli eventi reali. Conoscendo bene il suo pubblico, Tarantino decide di spiazzarlo nel profondo usando lo spauracchio della figura di Manson, la cui aurea è presente in tutto il film, ma la cui presenza è effimera: ogni sua azione viene lasciata fuori campo, fino al terzo atto.
Piuttosto, Tarantino prende per mano il pubblico e lo porta all'interno delle vite dei suoi personaggi, facendolo assistere ai piccoli trionfi e alle grandi sconfitte, sino al punto di svolta, sino al terzo atto, controparte di quanto descritto nei due precedenti, chiave di lettura solo parziale di un racconto che trova proprio nella descrizione dei piccoli eventi la sua ragione d'essere.



Nel terzo atto che Tarantino decide di alterare la Storia, in modo similare a quanto fatto in "Bastardi senza Gloria". Appurata la grandezza del cinema e della sua forza di ritrarre e filtrare il reale, dopo aver lasciato avvicinare i personaggi di finzioniecon quelli reali, aver manipolato la realtà dando una propria lettura personale di questi ultimi (la caratterizzazione di Squeaky Fromm, re-immaginata come l'ape regina della Manson Family), Tarantino usa il cinema per vendicare il reale; se in "Bastardi senza Gloria" era la Storia a compiere la propria vendetta contro le ingiustizie del reale, ora è il cinema stesso ad usare il proprio potere per annichilire la realtà, umiliando per prima cosa quegli assassini divenuti vergognosamente famosi per la propria efferatezza (la frase "Io sono il diavolo e sono venuto a compiere il lavoro del diavolo" viene sbeffeggiata e piegata sino a divenire barzelletta) divengono macchiette, inetti idioti fatti letteralmente a pezzi dalla finzione. La Storia viene nuovamente riscritta, re-interpretata e re-immaginata grazie alla forza immaginifica dell'immagine che trionfa nuovamente sulle vergogne del reale.



L'occhio per i personaggi si fa volutamente più semplicistico: qui come non mai i protagonisti nel cinema di Tarantino esistono in funzione del proprio ruolo e all'importanza dell'azione d'ensamble viene preferita la concentrazione quasi esclusiva sul solo Rick Dalton, semplificando in modo forse sin troppo marcato la narrazione; poco male: almeno Di Caprio può andare fiero della sua migliore interpretazione, graffiante, dinamica e, sopratutto, estremamente empatica; performance del tutto complementare con quella di Brad Pitt, mai così fisica e, per questo, perfetta; e persino con il poco screen-time regalatole (che ha ovviamente sollevato le solite sterili polemiche sul presunto maltrattamento delle attrici), Margot Robbie riesce a bucare lo schermo, grazie alla propria innata sensibilità, qui declinata verso il candore più innocente.



"C'Era una volta a... Hollywood" non può di certo vantare la forza dirompente e radicale di "Bastardi senza Gloria" (che continua a restare il vero capolavoro di Tarantino), né la profondità di Django Unchained" o "The Hateful Eight", ma resta lo stesso una prova fulgida nella carriera di un autore ancora in grado di stupire e reinventarsi, restando al contempo saldamente ancorato alla propria personale idea di cinema, che mai come ora, in un contesto di classicismo forzato nel cinema americano e occidentale in genere, risulta originale e moderna.

R.I.P. Sid Haig


1939-2019



E' stato uno dei caratteristi più riconoscibili dell'età d'oro del cinema exploitation americano. Un volto unico, prestato a centinaia di "brutti ceffi" su grande schermo. Mito personale di Rob Zombie, che ne ha fatto uno dei suoi feticci, Sid Haig se ne va lasciandoci le sue energiche performance come lascito. Oltre alla maschera di Captain Spaulding, personaggio letteralmente cucitogli addosso e che gli garantirà un ricordo imperituro.

venerdì 13 settembre 2019

5 è il numero perfetto

 di Igor Tuveri.

con: Toni Servillo, Valeria Golino, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Giovanni Ludeno, Nello Mascia, Lorenzo Lancellotti, Vincenzo Nemolato.

Cinecomic/Noir

Italia, Belgio, Francia 2019















Ce ne è voluto di tempo per trasporre "5 è il numero perfetto" su pellicola; un progetto partito dal almeno due decenni, procrastinato a causa dell'impossibilità di trovare un regista ed un protagonista giusti per adattare la celebre graphic novel di Igort (al secolo Igor Tuveri) al grande schermo. Finché, alla fine, non si è deciso di affidare il tutto allo stesso fumettista, che esordisce così al cinema con una storia scritta e illustrata di suo pugno, la quale diviene ideale storyboard del film.



Una storia tutto sommato semplice, anzi "semplicemente archetipica": in una Napoli cupa, dove quello del gangster è un mestiere come un altro, il killer prezzolato Peppino Lo Cicero (Servillo) subisce la morte dell'amato figlio Nino (Lorenzo Lancellotti), anch'egli contract killer della Camorra. Con l'aiuto del vecchio amico Totò (Buccirosso) e dell'amante Rita (Valeria Golino), Peppino comincia una vera e propria guerra contro i presunti responsabili dell'omicidio.



Una storia che sembra appunto uscita da un fumetto postmodernista, che riprende i topoi della narrativa gangster e noir anni '30 per riproporli in chiave estremizzata e stilizzata sino all'iperbole.
Su schermo, il lavoro di Igort diviene così simile al "Sin City" di Miller e Rodriguez (con il quale ha in comune anche l'idea di affidare la direzione su schermo al creatore del fumetto) e, sopratutto, al "Dick Tracy" di Warren Beatty.
Ogni elemento della messa in scena viene caricato sino all'iperbole: i personaggi parlano in modo schietto e tagliente e si muovono in modo sinuoso, incastrandosi con le luci e gli elementi scenografici, sino a trasformare il tutto in un vero e proprio fumetto in movimento.



Allo stesso modo, anche i toni della storia divengono iperbolici; primo fra tutti, l'aspetto squisitamente partenopeo, con il forte accento napoletano dei personaggi che diviene parte integrante della caratterizzazione; senza contare gesti e rituali tipicamente associati alla città di Napoli, come l'ossessione per il caffè, quasi un leitmotiv presente in tutto il film; nonché, ovviamente, i nomi dei personaggi.
Così come gli elementi visivi e narrativi, anche l'elemento musicale è gonfiato e quasi cartoonesco, con la colonna sonora perennemente sintonizzata su frequenze che evocano una sensazione di pericolo e violenza latente.


Se il lavoro sull'estetica è certosino e squisito, altrettanto non si può dire sulla direzione, che sconta diversi difetti derivati per lo più dalla poca esperienza di Igort con l'immagine in movimento; troppo statiche sono le sequenze d'azione, con i personaggi sovente fermi in pose plastiche poco dinamiche, che affossano l'andamento adrenalinico che si vorrebbe trasmettere.
Allo stesso modo, anche il ritmo generale del racconto è dilatato sino al punto di trasformare la ricerca dell'atmosfera in semplice noia, tanto da far pesare un minutaggio di certo non esorbitante.
Difetti che però intaccano solo in parte la visione: se si sta al gioco, "5 è il numero perfetto" finisce per divertire; tanto che l'unico vero difetto imputabile a Igort è quello del compiacimento estremo con cui porta in scena il tutto.

lunedì 9 settembre 2019

It- Capitolo Due

It Chapter Two

di Andy Muschietti.

con: Jessica Chastain, James McAvoy, Bill Hader, Bill Skarsgard, Jay Ryan, James Ransone, Isaiah Mustafa, Andy Bean, Teach Grant, Jess Weixler, Xavier Dolan, Peter Bogdanovich, Stephen King.

Horror

Usa 2019











---CONTIENE SPOILER---

Non è stato facile portare sul grande schermo le pagine di quello che è tutt'ora il libro più famoso e amato di Stephen King. Due anni fa, Andreas Muschietti è riuscito in un'impresa complessa e rischiosa, riuscendo a restituire abbastanza bene non solo la storia e i personaggi che King ha elaborato in oltre mille pagine, ma anche quelle atmosfere sinistre e, sopratutto, la tematica del passaggio dall'adolescenza all'età adulta che costituisce il nerbo di molta narrativa dello scrittore di Bangor. Il primo "It" è un horror fluviale nel quale personaggi e situazioni erano condotti in modo abbastanza buono, con troppi jump-scare ed un polso che talvolta tremava nella direzione, ma che vantava anche un'ottima atmosfera ed un occhio per i personaggi, in una trasposizione che sapeva anche quando e come distanziarsi dal materiale di partenza per evitare di venirne imprigionata.
Due anni dopo, Muschietti ci riprova, portando su schermo la "parte adulta" del romanzo, quella continuazione che su carta era alternata alla prima parte, fungendo da specchio degli eventi e degli umori dei singoli personaggi. Una seconda parte che, nelle pagine del libro, era caratterizzata da una narrazione semplice, ma anche estremamente astratta, dove la parte genuinamente sovrannaturale della storia si rifaceva ai miti di Chtulu di Lovecraft senza riuscire a trovare una propria dimensione credibile, scadendo spesso nel ridicolo involontario e nel delirante.
"It- Capitolo Due" riesce però a riprenderne il meglio e a trasportarlo su schermo in modo adeguato, anche se estremamente goffo.



27 anni dopo, i Perdenti sono ormai diventati uomini di successo. Bill (McAvoy) è divenuto uno scrittore horror affermato, i cui libri sono però flagellati da happy ending snobbati dal pubblico, in particolare dal regista che ne dirige gli adattamenti (Peter Bogdanovich, in un cameo delizioso); Beverly (Jessica Chastain) è divenuta una stilista di grido, che però ha finito per sposare quello che è in tutto e per tutto un doppio del suo violento padre; Richie (Bill Hader) è uno stand-up comedian adorato dal pubblico; Eddie (James Ransone) il titolare di una catena di noleggio limousine che ha anch'egli sposato un doppio dell'opprimente madre (interpretata da Molly Atkinson, che nel primo film dava appunto il volto alla genitrice); Ben (Jay Ryan) ha perso i chili di troppo e conduce una vita agiata come architetto; Stan (Andy Bean) è un uomo sposato e ben piazzato. Ma tutto cambia quando, a seguito dell'omicidio del giovane omosessuale Adrian Mellon (Xavier Dolan, anch'egli in un bel cameo) in quel di Derry, Mike (Isaiah Mustafa) assiste al ritorno di Pennywise e decide di richiamare i vecchi amici per prestare fede al giuramento fatto anni prima.



Contrariamente a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, la narrazione non è lineare, ma alternata con i flashback dell'adolescenza, che gettano nuova luce sul rapporto amicale del gruppo. Le dinamiche tra personaggi trovano nuova linfa vitale, sopratutto quella tra Eddie e Richie, la quale, nel finale, si scopre essere, in modo sottile ma evidente, come un'attrazione amorosa. I personaggi, scissi su due piani temporali, sono così chiamati a confrontarsi sui cambiamenti che hanno subito e sulle paure che hanno (o, meglio, non hanno) assimilato.
Per i Perdenti arriva così il momento della catarsi, ossia della scoperta di sé stessi mediante il confronto con un passato rimosso, come in una sorta di "Il Grande Freddo" virato all'horror. E ognuno di loro scopre nuovi tasselli sulla propria personalità, siano essi l'affetto verso quella figura paterna terribile eppure allo stesso tempo affettuosa, il rimorso per non aver saputo proteggere i propri familiari o per la morte dei propri amici. Lo script, questa volta curato dal solo Gary Dauberman, si rivela efficace nella costruzione di ogni singolo arco caratteriale, rendendo una storia forse fin troppo lunga, allo stesso tempo avvincente, pur scontando qualche incongruenza (quando dovrebbe essere ambientato il flashback di Ben a scuola?).
Il tocco finale viene dato dal cast, con tutti gli attori in forma e in parte; e su tutti, svettano Ransone e Hader, che divorano ogni scena in cui appaiono.



Anche il modo in cui viene rielaborato il lungo confronto finale risulta credibile; il rito di Chud, che chiudeva il cerchio nel romanzo, così come descritto da King non avrebbe potuto mai funzionare in immagini; Muschietti ha così deciso di trasformarlo in un rituale tribale piuttosto che in un combattimento lisergico e, al contempo, ha saputo gestire meglio la mitologia lovecraftiana alla base del racconto, che ora non appare più né scialba, nè fuori luogo.
Peccato però che ad un'attenta opera di adattamento in sede di script non corrisponda una regia altrettanto ispirata.



Forse per rifarsi al modello di Sam Raimi nella trilogia di "Evil Dead", Muschietti decide di introdurre elementi comici nei passaggi di tensione, non riuscendo però mai a controllare il tutto. Passaggi in teoria spaventosi si coprono così di ridicolo involontario anche quando vogliono essere umoristici; in particolare, le scene con Eddie sono afflitte da un cambio di tono sin troppo repentino, tanto da rasentare l'idiozia: non si sa davvero come sentirsi nel suo confronto con l'ex bullo Henry La regia non controlla mai il tono finendo per rompere il giocattolo con cui si diverte, regalando allo spettatore emozioni contrastanti sino all'ironia più spicciola.



Tanto che alla fine, più che all'adattamento di un'opera di King, sembra di assistere ad uno strambo episodio di "The Real Ghostbusters", con il Club dei Perdenti al posto degli Acchiappafantasmi tanto è l'umorismo sopra le righe.
Il che è un vero peccato: l'idea alla base del racconto è comunque forte e condotta in modo deciso e riuscito; con un'attenzione maggiore alla coerenza stilistica, questo "Capitolo Due" ben avrebbe potuto rappresentare una rielaborazione fedele e riuscita e, prima ancora, un'opera affascinante.

lunedì 2 settembre 2019

Caos Calmo

 di Antonello Grimaldi.

con: Nanni Moretti, Valeria Golino, Isabella Ferrari, Roman Polanski, Alessandro Gassman, Blu Yoshimi, Silvio Orlando, Hippolyute Girardot, Kasia Smitniak.

Drammatico

Italia, Inghilterra 2008
















Una perdita che colpisce all'improvviso, una vita, interiore quanto esteriore, che crolla su sè stessa, alla costante ricerca di un nuovo centro di equilibrio. In queste poche parole è riassumibile "Caos Calmo", la cui costruzione ed incipit riportano alla mente un'altra opera di Moretti, ossia "La Stanza del Figlio"; e se lì l'assenza era data dalla progenie, qui è invece data dal coniuge, personaggio fantasma che non vediamo mai davvero in scena ma la cui perdita sconvolge tutto.
Moretti, ritagliatosi il ruolo di protagonista e co-sceneggiatore, lascia l'onere della regia ad Antonello Grimaldi, ma il risultato è purtroppo castrato da uno sviluppo narrativo troppo chiuso in sé stesso.




Il caos del titolo è, ovviamente, quello emozionale, riprodotto non attraverso la violenta furia interiore, ma tramite l'assenza totale di empatia verso la propria e l'altrui esistenza. Pietro Paladini si distacca da tutti gli aspetti non essenziali della sua vita, dal lavoro, dal rapporto di colleganza, dagli affetti non necessari, che divengono così corpi morti che gli ruotano attorno, senza riuscire mai ad intaccarne lo stoicismo. Unica eccezione è l'affetto della figlia, che diviene l'unico appiglio in un mondo oramai privo di significato.




Se il soggetto è intrigante, lo sviluppo è del tutto piatto. Non c'è una vera catarsi nella vicenda, la risoluzione è sterile e non colpisce davvero. Allo stesso modo, i drammi e gli orrori che circondano il protagonista, sulla carta ai limiti del grottesco, finiscono per essere inconsistenti: dalla moglie del collega con la sindrome di Tourette a Valeria Golino rimasta incinta dell'amante, passando per il solito Silvio Orlando ritratto come sempre nei panni dell'insicuro, ora alle prese con una grossa fusione aziendale e con il contorno di una Kasia Smutniak che fa la bella a spasso, i piccoli-grandi drammi di questi piccoli-grandi personaggi non hanno la minima consistenza, non intaccano l'emozione dello spettatore al pari di come non intaccano quella del protagonista.




Il dramma diviene così una parata di sketch talvolta priva di continuità, dove l'unica enfasi è riservata alla scena di sesso tra Moretti e Isabella Ferrari, in teoria liberatoria e provocante, nella pratica solo semplice pornografia d'autore.
Fortunatamente, Antonello Grimaldi ha un occhio più attento per la costruzione delle scene e usa volentieri crane e dolly per enfatizzare il momento. La piattezza stilistica tipica del cinema di Moretti viene così in parte arginata.



Stile a parte, "Caos Calmo" è l'inconsistenza fatta narrazione, un dramma che vuole essere umano e crudo ma finisce solo per essere insipido e vuoto.