mercoledì 25 maggio 2016

1941: Allarme a Hollywood!

1941

di Steven Spielberg.

con: John Belushi,  Bobby DiCicco, Tim Matheson, Warren Oates, Dan Aykroyd, Ned Beatty, Dianne Kay, Toshiro Mifune, Christopher Lee, Slim Pickens, Robert Stack, John Candy, Nancy Allen, Treat Williams, Murray Hamilton, Eddie Deezen, Lorainne Gary, Lionel Stander.

Commedia/Demenziale

Usa 1979












Che cosa hanno in comune Steven Spielberg e John Milius?
Nulla, o quasi.
Il primo è un'acclamato regista di genere divenuto in breve tempo l'imperatore di Hollywood, il secondo uno sceneggiatore straordinario che, passato in cabina di regia, si è imposto come uno dei cineasti più interessanti della sua generazione.
Il primo è il fautore di un cinema disimpegnato, che raramente affronta tematiche scottanti e che quando lo fa talvolta inciampa nelle trappole più semplici, ma nonostante questo, a partire dalla fine degli anni '90, ha deciso di autoproclamarsi come il solo, vero ed unico depositario della conoscenza sulla Seconda Guerra Mondiale ad Hollywood e dintorni, pur non avendo mai indossato una vera uniforme militare in vita sua. Il secondo è un reduce del Vietnam e repubblicano dichiarato, che è riuscito nell'ardua impresa di non farsi mai influenzare in modo definitivo dalla deriva più radicale dei suoi ideali, riuscendo così a dare vita ad opere il cui contenuto sia condivisibile da tutti per giungere a creare, talvolta, dei veri e propri racconti epici senza tempo, anche quando osa l'impossibile.
Unico punto di contatto tra i due era la militanza nella mitica comune di neolaureati dell'UCLA alla fine degli anni '60, luogo di incontro che ospitava personalità del calibro di Scorsese, De Palma e Lucas. Ed è proprio lì che i due si conoscono e pongono le basi per la loro futura collaborazione; che quando arriva, nel 1979, risulta appunto bislacca: Spielberg è il regista più quotato sulla piazza, Milius è un autore riconosciuto, che aveva spiazzato tutti con il suo esordio "Dillinger" (1973), affascinato le platee con lo splendido "Il Vento e il Leone" (1975), commosso con "Un Mercoledì da Leoni" (1978) e che di lì a poco avrebbe visto su schermo "Apocalypse Now" (1979), basato sulla sua più celebre sceneggiatura. Ancora più bislacco è constatare come l'unione di queste due personalità abbia portato alla creazione di una commedia demenziale che prende in giro il patriottismo americano in modo irriverente e talvolta corrosivo: proprio loro, il padre di quel pamphlet pro-eroismo a stelle e strisce di "Salvate il Soldato Ryan" (1999) e il militante del partito conservatore si uniscono per sbeffeggiare paure, paranoie e tic dell'americano media in tempo di guerra, portando in scena uni script del duo Robert Zemeckis-Bob Gale, ossia coloro i quali avrebbero creato quel cultissimo "Ritorno al Futuro" (1985), che dava una visione decisamente più positiva del passato dell'America.
L'esito di questa riunione è una commedia demenziale irresistibile nella sua carica distruttiva e caciariona, un piccolo classico mancato con qualche difetto potenziale




Lo spunto di partenza è la paranoia generatosi a seguito dell'attacco a Pearl Harbor, che nel febbraio del 1942 culminò nella paura di un possibile attacco nipponico. Zemeckis e Gale spostano il tempo al dicembre del '41, ossia pochi giorni dopo l'ingresso in guerra degli Stati Uniti e mettono al centro della narrazione corale la figura reale del generale Stilwell (interpretato da Robert Stack dopo il rifiuto, cocente, di personalità del calibro di John Wayne e Charlton Heston), il quale diviene l'unico sano in un mondo di matti.
La rievocazione del periodo si fa puro sberleffo; la Storia viene lasciata come contorno, l'immaginazione porta a modificare i fatti per creare un episodio mai esistito: un attacco in piena regola da parte dei Giappa, che decidono di punto in bianco di silurare Hollywood per fiaccare lo spirito yankee. Il punto di vista si fa dapprima doppio, con gli americani asserragliati sulla costa e i Nipponici in mare, poi multiplo, seguendo le vicissitudini del folto gruppo di personaggi.






Tema centrale è l'ossessione dell'americano medio per la guerra: ogni personaggio è imbevuto di retorica bellica e agisce biecamente per perseguirla; si parte con lo strambo plotone comandato da Dan Aykroyd, masnada di carristi razzisti e sboccati tra i quali spicca il bullo zotico "Stretch" Stiraski (Treat Williams), si prosegue con il cameo di Warren Oates nei panni del folle generale Maddox, di stanza in California e convinto che il nemico si annidi tra i frutteti di Pomona; ai quali si aggiungono i civili, militanti che si eccitano nella preparazione alla battaglia: Mr.Douglas (Beatty), orgoglioso di piantare una cannoniera nel proprio giardino, lo strambo Angelo Sciola (Stander), italoamericano che organizza le ronde assieme al vecchio bacucco Claude Crumm (Hamilton) e al giovane semi-ritardato Herbie (Deezen), affiancato da uno strambo pupazzo da ventriloquo. Si finisce con i giovani innamorati Wally (Di Cicco) e Betty (Kay), il primo patito di ballo in rotta di collisione sin dall'inizio con Stretch, la seconda angelica ragazza della porta affianco che deve sacrificare la sua virtù per far compagnia ai soldati in partenza; nel frattempo anche il tenente Birkhead (Matheson) tenta di far colpo su di una ragazza: la bellissima Donna Stratton (Allen), segretaria di Stilwell che si eccita solo quando è in volo su di un bombardiere. Su tutti veglia come un angelo custode il vero simbolo del film, il Wild Bill Kelso di John Belushi, pilota dalla carica demenziale irresistibile.
Mentre nel sottomarino, il generale Toshiro Mifune (che questa volta abbandona ogni istrionismo per divenire perfetta macchina da guerra dell'epoca di Tojo) e il contatto Tedesco Christopher Lee perdono la strada per Hollywood e sono costretti a farsi aiutare dallo zoticissimo Hollis Wood (Pickens)







La struttura comica è semplice: l'accumulo totale di gag e situazioni; i quattro autori si divertono ad infarcire il film con ogni trovata possibile e immaginabile pur di esorcizzare il ricordo di un'epoca. Al di là della semplice caratterizzazione dei personaggi e del tempo, a far da padrone è l'umorismo grottesco, che spesso sfocia nel demeziale più puro, dato dalle situazioni semplicemente folli, dove l'idiozia dei singoli personaggi porta a disastri sempre maggiori.
L'umorismo è per lo più slapstick e si rifà alla scuola di Harold Lloyd e Buster Keaton: l'essenziale è la distruzione; la pernacchia ad un mondo fatto di valori deviati all'eccesso si tramuta in gioia del massacro irriverente di quello stesso mondo. La fisicità è imponente: Spielberg dirige quella che è una commedia come un vero e proprio disaster movie, dove le case vengono demolite a suon di mortai, il luna park scambiato per Hollywood fatto a pezzi e dove le strade sono piene di marinai che fanno a botte con i soldati. Il gusto per l'eccesso è incredibile: scenografie perfette fatte saltare in aria ad ogni minuto, risse da bar che si trascinano per interi atti, stazioni di servizio che esplodono fragorosamente. Non c'è limite alla vis distruttiva dell'autore: tutto è permesso, nulla è troppo eccessivo.







L'esito è semplicemente spettacolare: la carica demenziale irreffrenabile riesce perfettamente a connotare il tutto come la perfetta presa in giro di un America folle, stupida, in preda a paure mai del tutto sopite.
Tanto che il flop cocente dell'epoca si spiega benissimo: era inaudito sparare a zero su quella "Grande Generazione" le cui gesta venivano riscoperte e celebrate proprio nel mentre il film usciva nelle sale. Spielberg, Milius e i due Bob avevano osato troppo, tanto che persino la critica non fu accondiscendente questa volta. Più rosea fu invece l'accoglienza nella più intelligente Europa, dove lo spirito goliardico del gruppo fu capito sin da subito, acclamando "1941" come un gioello di quella comicità distruttiva a stelle e strisce che proprio in quegli anni avrebbe raggiunto il suo apice, dapprima con "Animal House", poi con le varie pellicole dei comici del Saturday Night Live, sino all'ultimo classico "Ghostbusters" (1984).







Tanto che l'unico difetto del film è, a conti fatti, di puro rapporto. Ben più distruttivo e feroce avrebbe potuto essere nelle mani di un vero anarchico del calibro di John Landis, molto più pregnante e acido in quelle di autore sensibile come Joe Dante. Spielberg si diverte a dissacrare, ma il suo iato resta sempre contenuto nei limiti della sola barzelletta, senza mai farsi davvero cattivo; tanto che persino il talento del duo Aykroyd-Belushi appare sottoutilizzato se si pensa a quello che avrebbero fatto giusto un anno dopo con "The Blues Brothers" (1980)






Ma a Spielberg va lo stesso riconosciuto il merito di aver saputo imbastire una vera e propria macchina da guerra bel oliata, di non perdersi mai nonostante le lungaggini e di riuscire ad essere spiritoso senza mai scadere nel cattivo gusto. Riuscendo persino a prendersi in giro con quella sequenza d'apertura: parodia inquadratura per inquadratura di quella de "Lo Squalo" (1975) che sfocia nella demenzialità più distruttiva, perfetto biglietto da visita dell'intera pellicola.



domenica 22 maggio 2016

X-Men: Apocalisse

 X-Men: Apocalypse

di Bryan Singer.

con: James McAvoy, Jennifer Lawrence, Oscar Isaac, Michael Fassbender, Nicholas Hoult, Rose Byrne, Evan Peters, Olivia Munn, Sophie Turner, Tye Sheridan, Josh Helman, Kodi Smit-McPhee, Lucas Till, Ben Hardy, Alexandra Shipp, Lana Condor.

Fantastico/Azione/Supereroistico

Usa 2016











---CONTIENE SPOILER---



"Il terzo capitolo è sempre il peggiore!"; è con una battutina d'accatto in una sequenza inutile, rivolta nel film a "Il Ritorno dello Jedi" (1983), che Bryan Singer cerca di giustificare il mediocre lavoro svolto in questo "Apocalisse"; terzo film della trilogia sulle origini degli X-Men iniziata bene con "First Class" (2011) e proseguita dignitosamente con "Giorni di un Futuro Passato" (2014), non ha la compattezza e le trovate del primo, né il fascino del secondo, riuscendo a sprecare ogni potenzialità data dalla storia e sopratutto dai personaggi.






A cominciare ovviamente da quello che da il titolo al film; En Sabah Nur, detto anche "Apocalisse", vera e propria divinità pagana e primo mutante della storia, viene ridotto a semplice cattivo di turno ed introdotto nel mondo degli X-Men filmici in modo goffo; Singer e Simon Kinberg lo riesumano letteralmente dal passato con una scusa ridicola: il sole torna a baciare il marchingegno in cima alla sua piramide; il che solleva il dubbio sul perché abbia dovuto attendere seimila anni per rinascere e non trenta secondi; fatto sta che di buchi la sua storia e la sua caratterizzazione ne hanno a iosa: non si capisce come funzioni la strana tecnologia di cui dispone, né si riesce a comprendere davvero perché voglia distruggere il mondo quando vuole esserne il monarca; in sostanza, il suo arco può essere sintetizzato in: mi sono svegliato male, ora spacco tutto, un pò come accadeva negli adattamenti della Marvel Studios con le loro proprietà, non a caso vero metro di paragone per cattivi mediocri.





Premesse perfettamente controbilanciate dall'esecuzione: l'Apocalisse filmico, al quale neanche Oscar Isaac riesce a dare un vero spessore, viaggia per il mondo ingaggiando i suoi cavalieri, tra i quali spunta anche la new entry Psylocke, che viene caratterizzata solo per il tramite della bellezza mozzafiato di Olivia Munn; il suo viaggio sembra quello di un front man che cerca di riunire una band heavy metal, tanto che la scena della nascita di Arcangelo sembra uscita da un videoclip, con il suo mix di violenza estrema, hard rock d'epoca ed un immaginario che non sfigurerebbe in un film di Shinya Tsukamoto.
Il picco del ridicolo lo si raggiunge quando ci si rende conto che questa divinità onnipotente è il personaggio più basso: in un era in cui con la post produzione in CGI si riesce a trasformare attori alti um metro e novanta in nani, fa specie vedere come non ci si sia voluti sforzare di dare una statura davvero divina al villain principale in un film che vorrebbe essere un kolossal estivo. Ma d'altro canto, del personaggio non sapevano cosa farsene già in sede di script: la sua figura, a metà tra dio distruttore e creatore, avrebbe potuto essere interessante, ma si è deciso di retrocederlo a semplice minaccia da eliminare.





Non va meglio con gli altri personaggi; delle vecchie conoscenze, solo la Raven/Mystica della sempre bellissima e brava Jennifer Lawrence riesce ad essere credibile pur nella sua piattezza; Xavier, Bestia e Havoc servono solo a portare avanti la storia, così come il personaggio della McTaggaert, che ritorna da "First Class". Quicksilver torna come comprimario vero e proprio ed anche qui ruba la scena a tutto e a tutti, ma questa volta la sequenza "di velocità" che lo vede protagonista è talmente sopra le righe da far intuire come l'unico motivo della sua esistenza sia quello di far gasare lo spettatore ridandogli ciò che aveva amato nel precedente film.
In un mare di piattume caratteriale, l'unica eccezione è data dal Magneto di Fassbender, che risulta credibile nelle sue scelte e riesce ad essere empatico grazie al talento del suo interprete.






Dei nuovi arrivati, nonostante gli sforzi, solo Storm riesce ad avere un arco completo, mentre Ciclope, Jean Grey e Nightcrawler, per quanto simpatici, sono anch'essi creati unicamente per essere al servizio della storia.
In genere, si ha la sensazione, guardando al lavoro svolto in sede di scrittura, che la sceneggiatura portata in scena sia solo una bozza scritta in fretta in furia, dove gli autori hanno tirato su alla bene e meglio una storiuccia pretestuosa che gli permettesse di portare in scena il maggior numero di personaggi possibili. Superficialità che per fortuna non si accompagna al ridicolo visto in altri exploit cinefumettistici (su tutti "X-Men: Le Origini- Wolverine"), ma che finisce lo stesso per azzoppare il film.







Superficialità che appare del tutto insostenibile quando si sposta nella messa in scena; a parte la pigrizia nel dare la giusta statura al cattivone, si è spiazzati nel vedere le sequenze finali in esterni ricostruite in uno studio con una fotografia talmente fasulla da farle sembrare uscite da un prodotto televisivo degli anni '90; effetto B-Movie involontario che fa tornare alla mente il primo "X-Men" (2000), il quale almeno ha la scusante di essere stato prodotto 16 anni prima, con un budget molto più basso ed in un periodo nel quale il filone supereroistico non era ancora l'ossessione dei grossi studios.






Il responsabile di tutti questi incredibili e stupidi difetti, in fin dei conti, è Singer; dopo 16 anni di carriera dedicata quasi esclusivamente al cinema commerciale è chiaro come per lui i personaggi nati su carta non possono avere una dignità effettiva su schermo, devono continuare ad essere delle figurine subordinate al divertimento del pubblico e del loro autore; non c'è la volontà di dar loro una vera valenza drammaturgica che non sia puramente circostanziale, né quella di creare una narrazione complessa che possa svilupparne a dovere le potenzialità; tutti difetti ravvisabili anche nei suoi precedenti film sugli uomini X o in "Superman Returns" (2006).
In compenso, per dare un tono falsamente adulto al suo lavoro, decide di infarcirlo con una violenza troppo esplicita per quello che è in fin dei conti un film per ragazzini; oltre che togliendo ogni nota di colore dai costumi, alla faccia di quanto dimostrato da Matthew Vaughn in "First Class" e Tim Miller in "Deadpool".






Tanto che alla fine della proiezione, sono tre gli elementi a restare saldati nella mente, tutti collaterali al film in sé; la prima è la visione di Jennifer Lawrence nell'abito viola con quale entra in scena; la seconda è invece Olivia Munn nei panni fin troppo succinti del suo alter ego; la terza è l'apparizione di Hugh Jackman nei panni di Wolverine, in una rievocazione di "Arma X" che rende finalmente dignità alle origini cupe del personaggio e al capolavoro a fumetti che fu.
Tre corpi, tre immagini che riescono ad esaltare solo grazie ai propri interpreti. Non grazie a Singer o Kinberg.

martedì 17 maggio 2016

Inferno

 di Dario Argento e Mario Bava.

con: Eleonora Giorgi, Daria Nicolodi, Leigh McClusky, Alida Valli, Sacha Pitoeff, Gabriele Lavia, Ania Pieroni.

Horror

Italia 1980
















---CONTIENE SPOILER---

A dieci anni esatti dal suo esordio con "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970), Argento è giustamente riverito come un indiscusso maestro del brivido sia in patria che, forse sopratutto all'estero. I paragoni con i più grandi autori del genere, da Hitchcock a Clouzot, si sprecano, mentre sono, all'epoca, in pochi a fare un paragone con il vero antesignano della sua poetica orrorifica, quel Mario Bava che, vergognosamente, ancora stentava a trovare un effettivo riconoscimento nei salotti buoni della critica.
Tuttavia, il successo planetario di "Suspiria" (1977) permette al maestro romano di ottenere ben 3 milioni di dollari di budget per il suo seguente progetto, in larga parte raccimolati dall'americana 20th Century Fox; budget che gli consente di collaborare proprio con quel Mario Bava al quale tanto deve. "Inferno" diviene così importante per più di un motivo: al di là del fatto di rappresentare un'ulteriore e ancora più marcata escursione nei territori del sovrannaturale, è anche il punto di incontro delle carriere dei due grandi autori, nonché l'ultimo (purtroppo) exploit di Bava, che si spegnerà poco dopo la fine delle riprese.




Bava giunge sul set dell'allievo (accompagnato dal figlio Lamberto, il cui esordio "Demoni" tanto dovrà poi proprio ad Argento) per ricoprire ben quattro ruoli: regista della seconda unità, operatore di macchina, assistente alla fotografia e consulente per gli effetti speciali; in sostanza, i ruoli più importanti per la riuscita del film sono già in mano sua; ma per puro caso, finirà per occuparsi persino della direzione generale: a causa di una malattia che colpisce Argento, si ritrova a dirigere molte delle sequenze principali, con la conseguenza che la paternità dell'opera è da attribuire ad entrambi anche sul piano artistico, non più solo strettamente tecnico.
In pratica: Argento concepisce il progetto alla base del film, Bava finisce per eseguirlo. Malauguratamente, ogni forma di riconoscimento gli verrà negata nel momento in cui  il suo nome non comparirà sui credits, nemmeno per una dedica sui titoli di coda.
Polemiche a parte, "Inferno" rappresenta, in fin dei conti, un'operazione curiosa, ma malriuscita: un horror puro nel quale i due artisti abbandonano tutti riferimenti al loro passato nel "giallo" (fatto salvo il dettaglio "d'autore" dato dai guanti neri dell'assassino) per imbastire una narrazione anomala, volutamente frammentaria quasi sino ai limiti dello schizofrenico, per portare in scena una storia bizzarra e affascinante.




Da "Suspiria" torna il presupposto di base ed elevato a vera e propria mitologia horror: nel mondo esistono tre entità, definite "Tre Madri", che allungano un'ombra nefasta sull'umanità dalle loro tre dimore, site a Friburgo, Roma e New York. Tre streghe dai poteri inenarrabili: Mater Lacrimarum, Mater Suspiriorum e Mater Tenebrarum, le quali altro non sono che le tre facce della Morte, ritratta come un'entità demoniaca.
Se "Suspiria" si caratterizzava come una favola dark costruita in parte come un vero e proprio mystery, che culminava nella scoperta dell'esistenza della prima delle tre sorelle, "Inferno" non segue un percorso lineare nella costruzione narrativa; non c'è un unico personaggio chiamato ad indagare sul mistero, né una serie di rivelazioni che di volta in volta fanno luce sui suoi aspetti. Questo viene in realtà svelato allo spettatore già nella primissima scena, creando una dicotomia tra il suo punto di vista e quello dei personaggi che entreranno in scena.




La sperimentazione in sede di script (opera di Argento e Daria Nicolodi, anch'ella priva di riconoscimento nei titoli) non si ferma alla sola costruzione narrativa; ogni costrizione viene eliminata per tentare di giungere all'orrore più basico; non ci sono veri personaggi, né una storia articolata nel senso convenzionale; tutta la narrazione viene di fatto azzerata in favore della ricerca costante della tensione. Niente più orpelli o pretesti, ciò che conta è lo spavento; e da questo punto di vista, il risultato è pienamente raggiunto: la tensione è costante, data dall'atmosfera opprimente e visionaria che sfocia sovente in jump scare cronometrati al millisecondo o nei climax degli omicidi, sempre più violenti man mano che si procede. La capacità dell'autore di sorprendere è sempre avvertibile: le morti sono al solito ben congegnate ed eseguite alla perfezione, sinergia perfetta tra gli sforzi dei due registi; la creatività viene sempre rilanciata dalla ricerca di nuove situazioni e archetipi orrorifici, come l'inclusione del gatto come forza sinistra e distruttiva, reminiscenza del grande Edgar Alla Poe o, sempre in tema zoofilo, la sequenza dei ratti, perfetto pugno allo stomaco.
A far da collante tra le scene è in fin dei conti unicamente il mistero, in parte ben congegnato, del libro "Le Tre Madri", che perseguita chiunque lo abbia letto. Il punto di riferimento è palese e anche qui di origine letteraria: il mito di Chtulu di Lovecraft, dal quale Argento riprende non tanto le basi mitologiche, quanto appunto la narrazione frammentata, fatta da più personaggi coinvolti in un'unica trama; oltre che i riferimenti all'Abisso, che viene citato con i "buchi" che i protagonisti, di volta in volta attraversano per procedere nella loro indagine.





Il risultato finale è sicuramente originale e di sicuro fascino (al punto che sarà ripreso persino da Lucio Fulci per il suo cult "E tu vivrai nel Terrore- L'Aldilà"), al netto di qualche incongruenza un pò ridicola (se le madri e le loro aiutanti uccidono chiunque venga in possesso del libro che ne rivela i segreti, allora perché decidono di lasciarlo in bella mostra in una biblioteca di Roma che sorge, guarda caso, sopra uno dei loro nascondigli?), ma mostra inevitabilmente il fianco quando si tiene conto del coinvolgimento; i personaggi non hanno spessore, sono solo comparse in un gioco ad incastro che si dipana per poco più di 100 minuti; impossibile, di conseguenza, provare empatia per la loro terribile sorte, al punto che quando la violenza fa capolino si è solo inorriditi, mai davvero scioccati.




Molto più interessante e riuscito è invece il lavoro svolto sul piano estetico. Affidata la messa in scena totalmente a Bava, tornano le sperimentazioni con l'uso dei colori, che, nella sua migliore tradizione, sono irreali, basati sulla giustapposizione tra rossi espressivi a blu pienissimi, per creare un'atmosfera ancora più gotica e opprimente, sebbene lontana dai fasti cromatici visti in "Suspiria".
Atmosfera che viene in parte sciupata dalle musiche di Keith Emerson, scelte direttamente da Argento al posto dei fidi Goblin, che risultano troppo kitsch nelle sonorità e troppo bislacche negli accostamenti tra classica e rock, con un "va pensiero" al sintetizzatore che fa venire voglia di bucarsi i timpani,
Il colpo definitivo allo stile viene però inferto da un finale troppo forzoso, che culmina nella visione della Mater Tenebrarum: una Morte semplicemente ridicola, creata con un costume di qualità talmente scadente che sfigurerebbe persino in un film per ragazzi, figuriamoci in una pellicola di terrore.





Al punto che la visione si fa definitivamente schizofrenica: si passa da momenti di orrore puro magnificamente riusciti a sequenze ridicole, si resta affascinati dal dipanarsi dei bizzarri eventi salvo poi essere delusi dalle incongruenze, si è scioccati dalla perfetta atmosfera ma spiazzati dalle cadute di stile. Colpa, forse, di una voglia di sperimentare troppo sfrenata, che rilancia costantemente sino a sforare nel malriuscito.
A rivederlo oggi, pur questi suoi grossi e inescusabili difetti, "Inferno" acquista tuttavia una forma di valore: è la testimonianza di un altro modo di intendere il cinema, di un'epoca nella quale si riusciva davvero a ricercare nuove forme e registri nel cinema di genere; ed è per questo che resta un film interessante a prescindere dal suo effettivo valore. Oltre che importante a causa dei nomi coinvolti: la testimonianza perfetta della fine di un'epoca e del culmine di un'altra.

martedì 10 maggio 2016

Where to invade next

di Michael Moore.

Docu-Drama

Usa (2015)




















C'è un apsetto importante del lavoro di Michael Moore che bisogna tenere a mente ogni qual volta si guarda uno dei suoi film: i suoi non sono documentari, non nel senso convenzionale del termine almeno.
Nel documentario, il regista di turno usa la macchina da presa per portare su schermo (documentare, appunto) una realtà verso la quale, il più delle volte, non ha un punto di vista e a prescindere dal suo contenuto; ogni giudizio, tesi e costruzione ideologico-narrativa viene meno in favore della scoperta di ciò che l'oggetto è.
Michael Moore, d'altro canto, adopera lo strumento del documentario (inteso come "ripresa di un evento reale") in modo diverso: usa interviste e ricerca audiovisiva come supporto alla tesi che, di volta in volta, vuole dimostrare. Il che non è in sé stesso un male: opere quali "Bowling for Columbine" (2002) e "Sicko" (2007), pur nel rifiuto della semplice ricostruzione fattuale, aiutano a tracciare un quadro completo e comunque veritiero della società yankee della quale Moore vuole sfatare i miti.
Ma con il suo ultimo lavoro, il filmmaker di Flint si dà la fatidica zappa sui piedi; nel contrapporre l'american way of life con quello europeo, finisce per creare della vera e propria disinformazione al fine di dimostrare come l'Europa sia un sorta di "isola felice" contrapposta a quella distopia che sono gli Usa.



Moore viaggia di paese in paese svelando gli aspetti più vividi di ogni sistema di walfare: le mense scolastiche in Francia, il sistema educativo in Finlandia, quello universitario in Slovenia, la legalizzazione delle droghe pesanti in Portogallo e così via. Di ogni società riprende solo ed esclusivamente gli aspetti utili al suo discorso, tralasciando il resto. Il che diviene particolarmente fastidioso nell'episodio ambientato in Italia, che neanche a farlo apposta apre il film.
Tralasciando la visione stereotipata del Bel Paese (donne bellissime, uomini aitanti, sorrisi, abbracci e musica classica), a colpire è il ritratto che ne esce: un luogo dove tutti i lavoratori hanno diritto alle ferie pagate e alla tredicesima. Non viene mai citato il fatto che questi diritti appartengono oramai a minuscole frange della classe lavorativa; il perché è anche presto detto: vengono intervistati solo i dirigenti della Ducati e della Landini di Firenze.




Lo stesso discorso vale per le "visite" negli altri paesi: ogni aspetto viene decontestualizzato e ricontestualizzato a piacimento, distruggendo ogni vera possibilità informativa per creare un ritratto dell'Europa che sembra uscito da un film di propaganda nazista. Nazismo che guardacaso torna nelle forme del ricordo quando Moore atterra in Germania.
Oltre all'esempio italiano, è quello norvegese a far sconcerto: partendo dal presupposto che le carceri sono praticamente degli hotel di lusso per i detenuti, Moore teorizza come sia questo trattamento ad influire positivamente sul bassissimo tasso di criminalità, senza mai ipotizzare come in realtà possa essere il contrario.
Da vera e propria fantapolitica è poi l'ultima tappa del viaggio, in quell'Islanda governata quasi esclusivamente da donne e per questo vista come nazione da seguire come esempio; forse Moore non ha mai sentito parlare di Margaret Tathcer.
Spiace davvero notare come anche una personalità impegnata e per la quale è facile simpatizzare possa prendere dei granchi del genere. "Where to invade Next" è un'opera troppo schematica e manichea, troppo chiusa in sé stessa per risultare anche solo interessante; e che finisce per fuggire, letteralmente, dal reale: peccato mortale per un film a tema che vuole cercare di smuovere le coscienze.

lunedì 9 maggio 2016

Captain America: Civil War

 di Joe & Anthony Russo.

con: Chris Evans, Robert Downey Jr., Scarlett Johansson, Sebastian Stan, Anthony Mackie, Elizabeth Olsen, Jeremy Renner, Paul Bettany, Paul Rudd, William Hurt, Don Cheadle, Chadwick Boseman, Tom Holland, Martin Freeman, Paul Bettany, Daniel Bruhl, Emily VanCamp, John Slattery, Frank Grillo, Marisa Tomei.

Azione/Supereroisitico

Usa 2016












Quando si pensa ai migliori esiti del fumetto americano mainstream, la mente corre, per forza di cose, verso pubblicazioni fatte da casa DC, come "Il Ritorno del Cavaliere Oscuro", l'opera più rappresentativa di Frank Miller, oppure il capolavoro di Moore e Gibbons "Watchmen", oppure, sempre ad opera di Moore, "The Killing Joke"; a serie del calibro del "Sandman" di Gaiman o del mai troppo lodato "Hellblazer"; albi che, sebbene ambientati talvolta nella continuity ufficiale degli universi di Batman, Superman e soci, portavano uno sguardo maturo, adulto, anche su temi semplici come quelli legati al supereroisimo; e che quando affrontavano tematiche mature e scottanti, permettevano agli autori di mostrare una sensibilità che spesso non aveva nulla da invidiare alla migliore letteratura.
Viceversa, quando si pensa agli esiti peggiori, non si può che rivolgersi alla Marvel per rimembrare gli orrori di storie quali "Il Regno", vera e propria parodia del capolavoro di Miller, all'idiozia intrinseca di "One More Day", il "reset" che azzerò vent'anni e passa di storia editoriale dell'Uomo Ragno per compiacere gli opinabili gusti personali di John Romita Jr., le oscenità gratuite di saghe quali "Ultimates 3", dove Tony Stark si diverte a fare sesso con la Vedova Nera dinanzi a tutti gli Avengers, o, peggio, "Ultimatum", dove tutti gli eroi dell'universo Ultimate vengono massacri in un tripudio di violenza gratuita totalmente autocompiaciuta; e questo solo per citare i casi più eclatanti.
I quali, neanche a farlo apposta, si rivelano come sciocchezzuole innocue se paragonate a quell'incredibile affronto al buon gusto, nella storia e nella metafora di fondo, che è la saga di "Civil War".



Scritta principalmente da niente meno che Mark Millar e pubblicata tra la metà del 2006 e i primi mesi del 2007, "Civil War" era, nelle intenzioni degli executives della Casa delle Idee, un'opera ambiziosa e rivoluzionaria: per la prima volta i supereroi erano coinvolti in una vera e propria faida interna che sfociava in una guerra. Alla base di tutto c'è, nella storia, un incidente sanguinoso: il supercriminale Nitro usa i suoi poteri esplosivi contro un giovane gruppo di mutanti, causando collateralmente il massacro di una scuola elementare. Come reazione il governo americano decide di mettere fuori legge tutti i supereroi che non registrano la loro identità presso un apposito registro. Il mondo dei vigilantes si divide così in due fazioni: quella guidata da Iron Man, fedele alla linea di governo, e quella guidata da Capitan America, che invece vuole tutelare i diritti degli eroi.





Per comprendere lo squallore intrinseco alla storia di base e alla sua orribile esecuzione, bisogna tenere conto del contesto cinematografico e (per una volta) politico nel quale la saga prende vita.
Era il 2001 quando, sulla scorta del terrore conseguente agli attentati alle Torri Gemelle, l'amministrazione Bush decide di varare il Patriot Act, una norma che rafforza i poteri di controllo delle forze dell'ordine sulla popolazione, restringendo talvolta in maniera totale i diritti di privacy dei cittadini in favore della sicurezza nazionale, con la conseguenza di creare uno stato di paranoia costante tra i cittadini americani e le forze dell'ordine. La violazione dei diritti costituzionali in favore della sicurezza avviene in modo palese, suscitando scandalo ed indignazione e trasformando il governo federale in un vero e proprio stato di polizia, non molto dissimile dal "Grande Fratello" che Orwell descriveva nella sua opera più famosa. Gli oppositori a tale politica, vengono tacciati di collaborazionismo, di essere addirittura simpatizzanti terroristi. In sostanza: il conservatorismo più bigotto e spaventoso finisce per prevaricare il buon senso sul piano sociale e lo stato di diritto su quello giuridico.
"Civil War" prende spunto da questa realtà per imbastire una storia di fantasia, dove la tensione inestinguibile tra diritto e sicurezza divine il tema centrale. Ma gli autori che di volta in volta si cimentano sulla storia principale e su quelle collaterali compiono un errore fatale e imperdonabile: si schierano orgogliosamente con il governo americano, ne riprendono totalmente il punto di vista e divengono insensibili a qualsiasi forma di opposizione, che finiscono sinanche per deridere.
Nel mondo di "Civil War", a differenza di quello reale, esiste il bianco ed il nero; il "bene" è perseguito dal team di Iron Man, che vuole tutelare la sicurezza nazionale; gli oppositori, ritratti come veri e propri rinnegati, sono sempre dipinti in un'accezione negativa, come degli ingenui; mentre le azioni di Iron Man e soci vengono sempre e comunque giustificate, anche quando si arriva ad incarcerare innocenti o uccidere pur di perseguire il proprio scopo, creando, non si sa se in modo cosciente, della vera e propria propaganda reazionaria per il vero governo americano, finendo per indottrinare i giovani lettori ai valori, assoluti e assolutistici, che persegue; propaganda che nei modi, nella forma e nei contenuti ricorda terribilmente quella fascista.




Sul piano narrativo lo squallore più puro lo si raggiunge con la scelta di mettere questi valori in bocca ai personaggi più amati e conosciuti dal pubblico, per garantirne l'assimilazione. Spider-Man, che all'epoca trionfava ai botteghini, si fa portavoce della prima ora della campagna di Iron Man, nella scena più famosa della serie principale (sebbene poi torni sui suoi passi); lo stesso Iron Man era stato scelto all'epoca da Kevin Feige per essere l'apripista dell'universo cinematografico Marvel che, di lì a pochissimo, avrebbe sdoganato la major anche al cinema. Sul fronte dei perdenti, invece, ci sono tutti quei personaggi che vendono poco, come quel Capitan America che, ancora lontano dai successi al box office, sembra essere un fossile del passato, o personaggi minori come Luke Cage o Miss Marvel, per lo più sconosciuti al grande pubblico; i personaggi più amati schierati con Cap sono, guardacaso, proprio quelli dei quali la Marvel non possiede più i diritti di sfruttamento cinematografico, come alcuni tra gli X-Men e i Fantastici Quattro; ossia, personaggi con non le fruttano tanto quanto gli altri e che per questo divengono oggetto di una pubblicità negativa,che in quegli anni sarebbe continuata, su altri media, sino a sfociare in una mera e propria guerra pubblicitaria contro la Sony e la Fox.




Ancora più squallida è la scoperta dell'antefatto alla serie, della vera causa narrativa che ha portato al massacro degli innocenti; in una storia collaterale con protagonista Wolverine, si scopre come tutta la "guerra civile" sia stata organizzata da una sorta di multinazionale malvagia per ottenere gli appalti per la ricostruzione; in sostanza: stereotipi aggiunti al cattivo gusto, per una formula che più indigesta non si potrebbe. O forse si?
Il lettore più navigato già sapeva all'epoca come l'idea di uno scontro interno tra i supereoi divisi per motivi ideologici era già stata usata in casa DC: "Kingdom Come", miniserie in quattro parti del 1996 (ossia dieci anni prima dell'epigono Marvel), immaginava un futuro dove una nuova generazione di eroi, violenta e fuori controllo, causava un massacro di innocenti per il tramite dell'esplosione incontrollata di un supercattivo; episodio che porta i vecchi eroi, capitanati da Superman e Wonder Woman, a riprendere il mantello per combatterli e ristabilire la loro supremazia ed i loro valori, ormai perduti; scontro bilaterale al quale si aggiungono altre due fazioni: una capitanata da Batman, che non vuole sottostare alla "tirannia" del Kryptoniano, ed una dall'arcidemonio Lex Luthor; il tutto splendidamente illustrato da un Alex Ross in ottima forma.
Cattivo gusto, pessima scrittura e derivatività che permettono tranquillamente di etichettare, in sostanza, "Civil War" come il peggiore esito del fumetto mainstream a stelle e strisce e, forse, finanche il peggiore di tutta la storia del fumetto occidentale.




Quando Kevin Feige annunciò in pompa magna la "fase 3" dell'universo cinematografico Marvel, tutti i riflettori furono puntati sul terzo film dedicato a Cap, che portava "Civil War" sul grande schermo; la strategia era ovvia: creare un rivale per contrastare l'imminente "Batman v Superman- Dawn of Justice" della rivale Dc che avesse le stesse premesse: uno scontro tra gli Avengers che andasse oltre il semplice bisticcio al quale il pubblico è ormai abituato.
Il risultato, colpo di scena, è un film che convince più del suo rivale: una pellicola d'azione che porta ad una chiusa definitiva la storyline su Capi iniziata con "Il Primo Vendicatore" (2011) e proseguita con "Winter Soldier" (2014), mettendo al contempo le basi per nuovi film della "fase 3", senza mai perdere di vista i numerosi personaggi, riuscendo persino ad imbastire una trama credibile e ambigua.




Il merito è in parte degli sceneggiatori Markus e McFeely, giù autori dei precedenti film su Steve Rogers, i quali riprendono dal fumetto solo il titolo e le premesse. Al bando i manicheismi patriottici, nel film di "Civil War" le due fazioni sono entrambe, in un modo o nell'altro, nel giusto.
Da un lato c'è lui, Cap (Evans), l'ex simbolo di "giustizia, pace e american way" ormai disilluso dopo il fallimento dello S.H.I.E.L.D. e la perdita del suo vecchio amore Peggy Carter, il quale si fa in quattro per redimere l'amico Bucky (Stan) e a cui il guinzaglio delle nazioni uniti sta stretto: troppo semplice divenire cani del governo, imbrigliarsi in regole che mal si adattano ai giustizieri. Dall'altra c'è un Iron Man (Downey Jr.) inedito; non più il miliardario sbruffone para-berlusconiano, ma un uomo distrutto dai sensi di colpa per la Sokovia, per le vittime collaterali di quell'attività di vigilantes mondiali che ora vede come troppo poco sicura; e va detto che fa un pò ridere il fatto che questa sua ritrovata coscienza non lo porti a recriminare per l'aver creato quella macchina di morte senziente chiamata Ultron nemmeno adesso.




Lo scontro è dato, così, da una vera differenza di vedute su di un bene comune sempre e comunque ambiguo, verso il quale gli autori decidono saggiamente di non prendere mai parte. Persino la rivelazione finale sul "burattinaio" che ha portato alla "guerra civile" tra supereroi, per quanto scontata e forzata, non ne diminuisce la carica, sebbene manchi talvolta della dovuta drammaticità, nonostante il sangue e le ferite, vere ed emotive, riportate dai personaggi (ed in questo il pur malriuscito "Batman v Superman" resta un pezzo avanti).
Dal canto loro i Russo si confermano perfetti esecutori; le loro sequenze d'azione sono, nella prima parte, meno raffinate di quelle viste in "Winter Soldier", afflitte da un abuso del montaggio e dell'otturatore veloce di bayana memoria. Ma quando a scendere in campo sono i superuomini, la loro mano si fa più ferma e regalano lo scontro Marvel per antonomasia: la scazzottata all'aeroporto di Lipsia è una vera gioia per gli occhi, dove tutti i personaggi, comprese le new entries Spider-Man (Holland) e Black Panther (Boseman), sfoggiano i loro poteri in un tripudio di acrobazie ed esplosioni ben condotto. Anche se a rubare a tutti la scena è l'Ant-Man di Paul Rudd, che a suon di battute zittisce persino il logorroico Stark e finisce per trasformarsi in un Giant Man novello kaiju marvelliano.





Puro miracolo è l'essere riusciti a tenere le file di una narrazione a dir poco amena, l'aver dato spazio e caratura all'infinito cast di personaggi e a molte delle loro backstory. Non tutto, va detto, fila liscio; laddove gli autori riescono a dare il giusto peso ad un personaggio non facile e francamente inutile come Black Panther, falliscono nel rendere credibile l'inclusione di Spider-Man, finendo persino per glissare sul come Tony Stark riesca a scoprirne l'identità segreta. Ma si tratta, in fin dei conti, di quisquiglie, sopratutto se si tiene conto del macello che furono le storie collaterali di "Age of Ultron" (2015).





Divertente e, per una volta, coinvolgente, "Civil War" fa dimenticare i disastrosi esiti della sua controparte cartacea e si impone come uno dei migliori exploit della tirannica politica della Marvel Studios; meno raffinato di "Winter Soldier", riesce lo stesso a stupire e a intrattenere.

sabato 7 maggio 2016

Go Go Tales

 di Abel Ferrara.

con: Willem Dafoe, Bob Hoskins, Matthew Modine, Asia Argento, Stefania Rocca, Riccardo Scamarcio, Sylvia Miles, Joe Cortese, Burt Young, Shanyn Leigh, Bianca Balti.

Commedia

Italia, Usa 2007

















Dopo la tribolata lavorazione di "Mary" (2005), Ferrara riesce a trovare i (pochissimi) capitali necessari a portare in scena la sua vecchia idea: creare un piccolo spaccato della vita nella New York più sudicia e disperata, un "Cin Cin con le tette" che gli permetta di ritrovare il vecchio amore per il cinema di genere accompagnato da una nuova coscienza, generatrice di un nuovo sguardo, più ironico, su quell'universo.
"Go Go Tales" è il risultato di questa unione di intenzioni: una pellicola dispersiva, ma simpatica, priva del mordente del suo cinema migliore, eppure gradevole.




Ferrara squadra vite e fortune alterne del suo gruppo di personaggi; l'entusiasta Ray Ruby (Dafoe) è l'anfitrione del "Paradise", locale di go-go dance di second'ordine frequentato da strambi avventori.
Lo sguardo si posa così su più vite, infrangendosi in un montaggio spezzato, che oscilla sui volti dei protagonisti e sugli esili e sensuali corpi delle ballerine. Non tutte le storie riescono però a colpire; alcune sono semplici bozze che non trovano mai vero compimento, come l'attrazione tra Monroe (Asia Argento) ed il fratello di Ray, il sofisticato Johnie (Matthew Modine); o, peggio, quella dell'agguerrita Debby (Stefania Rocca), aspirante sceneggiatrice che entra di punto in bianco nel film senza riuscire a catturare davvero l'attenzione. La colpa è forse da ricercare nella natura televisiva del soggetto: pensato come il pilot di un serial già negli anni '90, lo script finisce per condensare in appena 100 minuti scarsi storie e spunti che sarebbero stati sviluppati nel corso di molteplici episodi.




Più che sulle storie e sui personaggi, il racconto finisce così per poggiare sulle singole sequenze o addirittura sulle singole scene; alcune sono da antologia, come la seduzione di Debby con il produttore; o la "scandalosa" lap dance tra Monroe ed il mastino; altre sono decisamente meno riuscite, come quella con il medico interpretato da Scamarcio: già mal concepita, viene rovinata in tutto dalle scarsissime doti attoriali del sex symbol nostrano, che recita il ruolo del marito cornuto come uno stereotipo privo di dignità.




A farla a padrone è così l'ambiente; il Paradise diviene ideale luogo d'incontro di esistenze al limite del baratro; ognuna delle vite che vi si intrecciano, a partire da quella di Ray, è sull'orlo di un precipizio, sia esso il fallimento economico che la semplice mancanza di prospettive; da questo punto di vista, Ferrara abbandona il suo classico ardore morale e regala una serie di personaggi meno "dannati", più solari di quelli che popolano solitamente il suo cinema; Ray e soci non sono persi nel peccato, né si interrogano su di una possibile redenzione; sono, semplicemente, esseri umani che resistono alle avversità della vita, cercando al contempo di mantenere una propria integrità, data dalle proprie attitudini, dai propri sogni e piccoli ideali. Diviene simpaticamente beffardo, di conseguenza, quel finale dove il riscatto raggiunto viene ridimensionato e Ray si ritrova a dover nuovamente fare i conti con le piccole e grandi necessità della vita dopo aver vinto una forsennata ed ossessiva battaglia contro la fortuna. Lo stesso Paradise, che talvolta viene portato in scena come un piccolo inferno in terra, non riesce mai ad imporsi come un girone delle anime perse, finendo per essere un semplice crogiolo di strani personaggi.




Il resto è puro mestiere: le immagini sono belle, ma non paragonabili ai vertici stilistici del passato, essendo incapaci di colpire davvero l'occhio; e stesso discorso vale per il cast, che pur capitanato da Defoe, Modine e dal compianto Bob Hoskins, non riesce mai davvero ad imporsi in modo potente con le proprie performance, anche a causa del materiale di partenza.
"Go Go Tales" resta così una divagazione leggera e divertita, ma poco incisiva; un ultimo viaggio di Ferrara nei territori della giungla suburbana lontana dai fasti di un tempo, ma non disprezzabile.

mercoledì 4 maggio 2016

Una Storia Vera

 The Straight Story

con: Richard Farnsworth, Sissy Spacek, Harry Dean Stanton, Everett McGill, Jennifer Edwards-Hughes.

Usa, Francia, Inghilterra 1999




















Il cinema di Lynch ha, fin dal suo esordio, la forma ed il ritmo del sogno; la sua visione altro non è se non la manifestazione di un inconscio personale e collettivo, luogo nel quale si dimenano i demoni ed i desideri di una nazione e di un gruppo di personaggi solo apparentemente eccentrici o sopra le righe.
Ma cosa accade quando il sogno finisce ed i personaggi si risvegliano nel mondo del quale hanno avuto sin d'ora solo una percezione distorta?
Domanda alla quale risponde "The Straight Story", l'opera più anticonvenzionale (in tutti i sensi) del grande autore. Un film che Lynch gira quasi per caso: lo script di John Roach e Mary Sweeney (già sua collaboratrice per "Twin Peaks") era stato acquistato dalla compianta Anne Bancroft, moglie di Mel Brooks, il quale a sua volta già gli affidò "The Elephant Man" (1980). Lynch vi si approccia per la curiosa storia vera alla base: nel 1993, il 73nne Alvin Straight aveva compiuto l'impensabile viaggio dall'Iowa al Wisconsin (circa 500Km) a bordo di uno scassato tagliaerbe della John Deere, per visitare il fratello Lyle. Storia lontana anni luce dalle sue tematiche e che gli permette di dar vita a quella che a sua detta è la sua opera più sperimentale. Oltre che il suo ennesimo capolavoro.




"The Stright Story" è un racconto sulla terza età; non uno spaccato o una riflessione, quanto uno sguardo, lucido e penetrante, su di una stagione della vita all'epoca troppo poco frequentata dal cinema americano.
Quello di Alvin è un cammino lineare, privo di veri ostacoli o fronzoli; un sentiero che si snoda verso un fine: la riappacificazione con il fratello in vista della fine della loro corsa esistenziale. Un cammino che ha il ritmo lento e meditabondo dell'anzianità: false partenze e lungaggini permettono di dipingere  dovere la vita monotona del protagonista, con le sue giornate interminabili, i piccoli drammi e i piaceri convenzionali. Il viaggio in sé perdura per l'arco di due stagioni, ossia dall'estate all'autunno (ricreate girando le scene in ordine cronologico), prima dell'arrivo dell'inverno, del passaggio verso quelle stelle che Alvin mira con curiosità, quell'infinito che lo attende.




Poggiandosi sull'esperienza del compianto Richard Farnsworth, Lynch trova in Alvin la perfetta personificazione della saggezza della terza età; un volto scavato, irsuto, su cui spuntano due profondissimi occhi azzurri che scrutano la strada ancora da percorrere. Una strada che lo porta a confrontarsi con sé stesso, i propri errori, i rimpianti e le poche certezze. Ad ogni tappa, il grande vecchio incontra dei personaggi vividi, talvolta un pò strambi, ma sempre, genuinamente umani.
L'America che Lynch qui ritrae è la più viva e pulsante; il marciume che vi si annida sotto è scacciato dalla forte luce diurna che questa volta ammanta ogni scena. L'orrore non ha spazio sotto il cielo di Alvin e quando prova a manifestarsi anche indirettamente (la tragedia della ragazza in fuga, la rivalità tra i buffi gemelli meccanici, la strana storia dei cervi, unica concessione all'assurdo, che qui ha la forma di un sogno ad occhi aperti), viene puntualmente scacciata dalle sue parole, foriere di quella saggezza che solo una vita lunga può fornire e dinanzi alla quale l'autore prova una sentita reverenza.




Viaggio che cambia lo stesso Alvin; il percorso diviene così una catarsi verso quel passato che sembra tormentarlo; il perdono verso il fratello, tenuto a distanza per più di dieci anni, sorge nel momento della notizia del suo infarto e si solidifica pian piano con i kilometri percorsi. Al contempo, il rimpianto per gli orrori della II Guerra Mondiale che tanto dolore gli hanno causato trovano una catarsi nel racconto con un altro reduce. Una storia, questa, foriera di vero orrore, che Lynch tratteggia in modo sensibile, affidandosi unicamente ai due attori, maneggiando la materia di fondo con una cautela sorprendendte, riuscendo altresì a raggiungere le corde emotive più intime.
Il dramma di Alvin, di fatto, resta sempre celato sotto il suo sguardo profondo; il suo dolore non prende mai una forma davvero catartica o definitiva, come invece avveniva con il John Merrick di "The Elephant Man". Un dolore sopito, inconscio, che sfuma poco a poco sino a quella riappacificazione totale, commovente e necessaria: tra le macerie di una vita fatta a pezzi, Lyle, caduto in disgrazia, può riavvicinarsi al fratello in uno stato di comunione silenziosa e (forse proprio per questo) totale,




Una riappacificazione che Lynch narra in modo diretto, lineare, "straight" proprio come il nome del suo protagonista: non ci sono crescendo, simbolismi, né enfasi sulle varie catarsi. Il ritmo lento smonta ogni forma di sensazionalismo o carica drammaturgica eccessiva per giungere alla più viva e genuina forma narrativa, quasi come "l'anti-dramma" di bressoniana memoria. La ricerca della redenzione ed il perdono divengono così stati automatici della vita, tappe obbligatorie e naturali per quella terza età ritratta. L'ultima stazione prima del viaggio definitivo. E per questo, una volta raggiunta, ineluttabilmente commovente.


EXTRA:



Interprete di circa 89 film, stuntman con 78 partecipazioni a pellicole del calibro di "Butch Cassidy" (1969), "Spartacus" (1960), "I Dieci Comandamenti" (1956) e "1975: Occhi Bianchi sul Pianeta Terra" (1975), Richard Farsworth è stato un caratterista ed un mestierante di grandissimo calibro nell'industria hollywoodiana. Per il suo unico ruolo da protagonista in "The Straight Story" ricevette persino una (meritatissima) candidatura all'Oscar, che lo rese il più anziano attore in corsa nella storia dell'Accademy. Gravemente malato afflitto da un tumore osseo già durante le riprese del film, Farnsworth decise di suicidarsi subito dopo la fine della lavorazione principale, lasciandoci a 80 anni.



"The Straight Story" diviene così anche il suo ideale testamento spirituale. Il quale segna, al contempo anche la fine di altre due carriere, quella di Jack Nance e Everett McGill.




Anch'egli caratterista di lusso ed interprete di quasi tutte le opere di Lynch sino a "Strade Perdute" Nance si spense nel 1996, a soli 53, nonostante la sua apparenza gli facesse dimostrare un'età parecchio più avanzata.





Everett McGill, invece, si è ritirato dopo aver girato il suo cameo nel film. Tra gli interpreti-feticcio di Lynch, McGill ha per lui interpretato "Dune" (1984) e "Twin Peaks". Ritiro durato sino a qualche mese fa: insieme a gran parte del vecchio cast, anche lui tornerà nel revival della serie a partire dal 2017.