giovedì 30 novembre 2023

Cosmos

di Andrzej Zulawski.

con: Jonathan Genet, Johan Leibérau, Victroia Guerra, Sabine Azéma, Jean-François Balmer, Clémentine Pons, Andy Gillet, Ricardo Pereira, Antònio Simão.

Francia, Portogallo 2015

















Terminato il sodalizio sentimentale e professionale con la moglie e musa Sophie Marceu con "La FIdélité", Zulawski si ritira in parte dalle scene. Devono infatti passare ben 15 anni prima che "Cosmos" arrivi al Festival di Locarno e questi finisce per configurarsi, purtroppo, come la sua ultima opera, un testamento artistico che non raggiunge gli apici del passato, ma incorpora alla perfezione tutti gli stilemi e le ossessioni del grande cineasta polacco, restandone comunque un'ottima testimonianza.




"Cosmos" è un titolo fuorviante, poiché Zulawski incapsula in meno di due ore una perfetta forma del caos. Ma è al contempo un film dove forma e sostanza si inseguono, dove i piani narrativi si fondono e realtà e finzione si confondono, come nel bel finale, nel quale non è dato sapere quale sia la risoluzione effettiva degli eventi; dunque il tranello del titolo è del tutto giustificato. E tutta questa operazione di messa in scena dell'assurdo, nell'assurdo, con l'assurdo e per l'assurdo diviene chiara nel momento in cui si riconosce il nome di Witold Gombrowicz, autore del libro alla base della sceneggiatura, che nelle stesse parole di Zulawski non sapeva come finire le sue storie, tantomeno quale significato avessero.




Lo spunto iniziale è l'unica traccia narrativa comprensibile: i giovani Witold (Jonathan Genet) e Fuchs (Johan Leibérau) fuggono dalla città e dalla misera vita di studenti per rifugiarsi in un bed & breakfast di paese. Qui vengono ospitati da una strana famiglia e Witold si innamora da subito della conturbante figlia Lena (Victoria Guerra), sposata e aspirante attrice.




Un testo che diventa pretesto nel quale far confluire ricordi cinefili, ossessioni antiche, pulsioni moderne, un caleidoscopio di spunti, intuizioni e rimandi che confondono. E' impossibile seguire "Cosmos" poiché è esso stesso la sostanzia propria del cinema di Zulawski, ossia quel delirio febbrile che possiede corpo, anima e mente in modo talmente forte da portare alle convulsioni e al delirio.
Decisamente più facile è orientarsi grazie ai rimandi e alle citazioni. La più esplicita, anche perché richiamata a più riprese dagli stessi personaggi, è quella pasoliniana, di quel "Teorema" che diventa testo sacro. Già dall'incipit è facile vedere nella storia di Gombrowicz un'inversione della premessa del capolavoro di Pasolini, con i due ragazzi che fanno irruzione in una casa della piccola borghesia, dove, anzichè sovvertirne le certezze, finiscono trascinati in un caos che ne ha già fagocitato gli ospiti.
Gli ulteriori riferimenti cinefili sono poi a dir poco ameni, spaziando da Luis Buñel a "Star Wars", ma solo talvolta hanno una forma effettiva, come nel caso degli insetti che fuoriescono dal corpo di uno dei personaggi.




Il testo si fa così indecifrabile, perso nei meandri della contemplazione febbrile del sentimento. Mai come ora Zulawski è riuscito a dare corpo alla totale perdita di raziocinio, all'abbandono di ogni unama logica in favore di una pazzia emotiva che cannibalizza ogni possibile razionalizzazione, anche il più semplice percorso a-logico.
Eppure tale perfezione è anche fatalmente manierista: arrivando alla fine del suo percorso artistico, di fatto aggiunge davvero poco ai suoi deliri più celebri; tanto che gli apici toccati (già un trentennio prima e solo per citarne un paio) da "Femme Publique" e "L'Amour Braque" restano decisamente più memorabili. Complice anche un cast che qui sa decisamente come dare corpo e volto ai personaggi, ma che non ha la forza o la presenza scenica di altri collaboratori del grande regista: Victoria Guerra, pur affascinante, è un'ombra della Marceu, ma anche di Isabelle Adjani, Romy Schneider e Valérie Kaprisky, mentre Jonathan Genet, pur dal volto cadaverico da perfetto deviato, non ha il carisma di un Sam Neill o la presenza scenica di Bouguslaw Linda, Lambert Wilson o Jacques Dutronc.
"Cosmos", semmai, è un'opera più compatta e coerente per la precisione nella quale dà corpo ai desideri smaniosi dei personaggi perdendovisi all'interno, senza mai lasciare che il discente possa capire quanto ciò che accade è vero e quanto è una manifestazione dell'interiorità.



I rimandi letterari non sono, tuttavia, pura erudizione, ma anch'essi esternazione del caos interiore del protagonista. La citazione di Dante che apre il film sancisce la discesa agli inferi interiori, gli insetti, ovviamente, il marcio che striscia oltre il visibile, i cadaveri degli animali appesi quel male che sembra ammantare il posto. Tutto ha bene o male senso, almeno nell'immediato, mai nel lungo termine, e da un certo punto di vista va anche bene così.
Pur tuttavia, non ci si può che dispiacere del fatto che la carriera di Zulawski finisca in modo così ordinario. Certo, vedere delle immagini così dinamiche ed un ritmo elevato in un film europeo contemporaneo è certamente spiazzante; ma la sua filmografia aveva già raggiunto l'apice e questa sua ultima e definitiva fatica, purtroppo, non aggiunge nulla.
Meglio ricordarlo, dunque, per i suoi film più belli, riscoprirne quelle opere che ancora oggi risultano originali e sconvolgenti.

mercoledì 29 novembre 2023

When Evil Lurks

Cuando acecha la maldad

di Demiàn Rugna.

con: Ezequiel Rodrìguez, Demiàn Salomòn, Silvina Sabater, Luis Ziembrowski, Marcelo Michinaux, Emilio Vodanovich, Virginia Garòfalo.

Argentina, Usa 2023
















Demiàn Rugna si è fatto un nome tra gli appassionati del cinema horror per essere riuscito a declinare il tema delle possessioni demoniache in maniera originale. Il suo sguardo è crudele e più che ai classici film sugli esorcismi, si rifà a tanto cinema del terrore europeo, dove il gore diventa la coronazione di un orrore strisciante e tangibile. E l'orrore che striscia in "When Evil Lurks" è solo l'apoteosi di questo approccio del tutto personale, che qui giunge a piena maturazione.




Originalità che si sostanzia già nell'ambientazione: nel mondo ritratto, i demoni sono una realtà concreta e da anni flagellano la società, la quale si è adattata a tale situazione; non una semplice metafora sulla Pandemia, quanto, a sua detta, la razionalizzazione della paura del glifosato per le colture e gli effetti negativi che potrebbe comportare.
Un male che si fa malattia, tanto da prendere le forme di un body horror nel quale il corpo del posseduto viene trasfigurato verso il grottesco, con il "marcio" Uriel che diventa una gigantesca pustola infetta sul punto di esplodere. E che, tramite la sua influenza nefasta, contagia qualsiasi cosa gli stia intorno, un'entità deminiaca che si diffonde per via aerea.
In questa specie di post-apocalisse, i fratelli Pedro (Ezequiel Rodrìguez) e Jamie (Demiàn Salomòn) cercano di disfarsi dell'infetto, ma finiscono solo per peggiorare la situazione. 




Un mondo dove le autorità sono imbelli o inesistenti: la Chiesa è collassata, al suo posto è sorta una setta di ammazzademoni (i "Cobra"), poi divenuti agenti statali. Ma lo Stato sembra infischiarsene e dunque sono i singoli a dover fronteggiare l'orrore, cercando per prima cosa di salvaguardare i propri cari.
E Rugna non fa sconti: come nella società sudamericana odierna, le autorità sono inesistenti e il suo diventa un atto d'accusa contro quelle istituzioni che al meglio restano in silenzio dinanzi alla violenza, al peggio contribuiscono a perorarla. E se una visione del genere appare finanche scontata, è quando il suo sguardo si rivolge all'istituzione famigliare che il film diventa davvero dirompente.




La famiglia viene letteralmente fatta a pezzi e i primi ad essere smembrati sono i bambini. La messa in scena non lascia nulla all'immaginazione e mostra in modo diretto infanti trucidati da uomini e belve possedute. E se le immagini di quei corpi martoriati sono a dir poco disturbanti, ancora più spiazzante è quel climax dove i bambini diventano i carnefici, in una ripresa dell'impostazione di quel purtroppo poco ricordato "¿Quién puede matar a un niño?" virata al demoniaco, che riesce davvero a turbare nel profondo.
Il bambino diventa così centro essenziale di tutto l'orrore: vittima inerme e inerte da proteggere, da cui la suspense per la sorte dei figli del protagonista Pedro, ma anche mostro infido, pronto a distruggere qualsiasi cosa incontri nel modo più gratuito. Non per nulla, è con un atto di nascita che la storia giunge al culmine, il preludio ad una nuova vita che significa nuovo male riversato nel mondo.




La visione è quindi tanto affascinante quanto angosciante. La regia riesce perfettamente nell'intento di trasmettere la disperazione dei protagonisti e la loro incontenibile paura, nonché a creare un universo dove la tensione è sempre alta grazie alle regole che lo sostengono: è la paura stessa a generare i mostri, quindi i personaggi non possono mai essere davvero al sicuro. E con loro, anche allo spettatore non viene lasciata tregua. Tanto che, quando la violenza arriva, è liberatoria, segna la fine di un ciclo di tensione, pur preludendo a quello successivo.




La cattiveria estrema rende così "When Evil Lurks" una visione sconvolgente e ammaliante. Tanto che, pur al netto di una recitazione talvolta blanda, un secondo atto troppo lento e dialoghi a volte troppo didascalici, lo si può davvero definire come il miglior horror dell'anno. Con buona pace del pur riuscito "Talk to Me".

venerdì 24 novembre 2023

Thanksgiving: La Morte ti Ringrazierà

Thanksgiving

di Eli Roth.

con: Nell Verlaque, Patrick Dempsey, Gina Gershon, Gabriel Davenport, Karen Cliche, Jalen Thomas Brooke, Milo Manheim, Addison Rae, Tomaso Sanelli.

Horror/Slasher/Grottesco

Usa, Canada, Australia 2023












E' strano accorgersi di come la lunga ombra del "Grindhouse" di Tarantino e Rodriguez arrivi persino al 2023; o, meglio, di come Eli Roth abbia impiegato la bellezza di sedici anni per trasformare il fake trailer di "Thanksgiving" in un lungometraggio. La domanda che sorge spontanea è: ce ne era bisogno? La risposta è più complessa di quanto appare.
Perché va in primis considerato come Eli Roth sia ad oggi la grande promessa mancata del cinema horror americano; o, per dirla meglio, la grande presa per fondelli del cinema horror americano, un ex ragazzo d'oro che ha ottenuto un paio di successi dal nulla agli esordi con "Cabin Fever" e "Hostel" (i quali sono in realtà due pessimi exploit) e che non è mai più riuscito ad ottenere i medesimi consensi. Al punto che dopo il flop di "The Green Inferno" ha effettuato la sua unica escursione al di fuori del genere con quel remake de "Il Giustiziere della Notte" con il quale dimostrava come non avesse capito nulla dell'originale.
Un ritorno alle origini era quindi la mossa migliore da fare e il riprendere un'idea in teoria simpatica era una mossa ancora migliore. Tanto che alla fine, "Thanksgiving" è forse il miglior di Roth... pur avendo tutti i difetti che i suoi film di solito hanno.




"Thanksgiving" altro non è se non l'omaggio di Roth agli slasher di fine anni '70- inizio anni '80, quelli più turpi e che usano l'ambientazione festaiola come giustapposizione all'orrore; e il Giorno del Ringraziamento si pone perfettamente al centro tra Ognissanti e Natale, con l'assassino travestito dal pellegrino John Carver che diventa un'incarnazione generica di tutti i killer mascherati del grande schermo.
Un omaggio del tutto personale, che Roth confeziona con il suo solito occhio dissacrante e votato a unire terrore e umorismo grottesco. Tanto che la prima inquadratura è una amorevole sovversione della soggettiva del killer degli apripista, mentre i protagonisti sono il classico gruppo di stronzetti che tutto il suo cinema ha da sempre presentato.
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi? Più o meno; perché se la caratterizzazione fastidiosa dei personaggi, le svolte sopra le righe nella narrazione e i tragici dialoghi para-tarantiniani ci sono tutti, questa volta il regista riesce ad avere un paio di intuizioni davvero non male che riescono a salvare in parte la visione.




La prima è l'uso del Black Friday come causa scatenante dell'orrore. Il prologo, classico esempio di primo atto che setta lo standard di quello a cui si assisterà, è quanto di più disturbante e cattivo Roth abbia mai girato; e le immagini di un mucchio di consumatori invasati e pronti a uccidere o morire pur di accaparrarsi prodotti inutili dovrebbe ricordare il tono grottesco dell'omonimo episodio di "South Park", se non riportasse invece alla mente le vere immagini dei disordini durante la stagione degli sconti in America, rendendo la visione ancora più disturbante di quanto la cattiveria e gli effetti splatter possano fare.
Un massacro che viene poi trasmesso in diretta dai drogati di social, con le immagini di morti che si fanno acchiappalike perfetti. E il killer che, un anno dopo, trasforma quegli assassini dell'etere in vittime di quel cinismo che hanno sfoggiato con tanta disinvoltura.




Il massacro dei responsabili, carnefici in realtà ben più feroci e apatici di quanto un serial killer mascherato possa essere, diventa catartico persino quando va a colpire quel gruppetto di protagonisti in larga parte anch'essi antipatici. Di questi, Roth concede un minimo di empatia all'atletico Scuba, alla sua bella ragazza bionda Yula e alla final girl di turno (interpretata da quella Nell Verlaque che, per quanto bella, non ha né il fascino, né il carisma necessari per il ruolo), mentre per i "fighi" Evan e Gabby non ha un minimo di riguardo; tanto che il primo fa una delle morti peggiori, mentre nei panni della seconda troviamo quella Addison Rae celebrata oramai più come starlette dei social che come popstar.
E se "Thanksgiving" avesse mantenuto tutte le promesse sarebbe stato non solo il miglior film di Eli Roth, ma anche una rievocazione coraggiosa e memorabile degli anni d'oro dello slasher. Sfortunatamente, così non è stato.




Perché Roth a questo giro è inspiegabilmente pudico sia nel mostrare la violenza che la componente erotica. Per accorgersene, basta confrontare le singole scene del lungometraggio con quelle equivalenti del fake trailer, le quali risultano ben più feroci e coraggiose. 
Il caso più clamoroso è quello della sequenza dell'uccsione della cheerleader che salta sul tappeto a molla, ossia l'immagine più celebre dell'originale, che qui invece risulta annacquata e persino forzata: non viene inserita a dovere nel contesto della storia, tanto che il personaggio è una comparsa che appare e viene uccisa nell'arco di una manciata di secondi, non uno dei personaggi principali, come se Roth l'abbia inclusa per puro obbligo; l'esecuzione è poi di una castità ridicola: laddove nell'originale la ragazza veniva pugnalata nella vagina mentre era a petto nudo, qui viene colpita solo alla schiera e alle braccia, restando sempre coperta. Autocensura dovuta sicuramente ai tempi che corrono, ma anche alle polemiche dovute al trattamento riservato a Vendula Bednarova, l'attrice originale: Roth ha candidamente dichiarato come, all'epoca delle riprese, l'abbia costretta a ripetere le inquadrature più volte per il solo gusto di ammirarne i seni, un atto che definire riprovevole è riduttivo e che forse ora vuole farsi goffamente scusare. 




Gli omicidi sono costruiti con il più classico campionario di efferratezze, le quali però vengono inflitte a personaggi privi di carisma e spesso fastidiosi, oltre ad essere virate al grottesco, finendo così per risultare innocue, ma senza mai davvero divertire. L'unica eccezione è la sequenza nella quale uno dei personaggi viene trasformato in un tacchino umano, davvero ben congegnata, unica isola di mestiere in un mare di mediocrità assortite.




Se la decisione di trasformare un progetto che Roth stesso ha inizialmente definito come "talmente offensivo da essere cancellato dalla Storia" in un horroretto tanto simpatico quanto privo di nerbo appare ipocrita, la vera ipocrisia dell'autore si palesa quando si paragona il discorso che qui fa sulle armi da fuoco a quello che faceva nel remake de "Il Giustiziere della Notte"; nel precedente exploit sembrava volesse intessere una seria disanima sulla pericolosità della libera vendita di armi, solo per poi abbandonarla a metà film e chiudere il tutto con una gloriosa sparatoria. In "Thanksgiving" è invece al contempo più coerente e più infido, caratterizzando l'armaiolo di turno come un simpaticone e lasciando che tutta la situazione sia risolta da un suo intervento indiretto in un primo momento e, nel finale, con un colpo di fucile risolutorio, alla faccia del buon gusto.




Alla fine, "Thanksgiving" si profila come un omaggio che non graffia, né stupisce; il più classico film di Eli Roth che si possa immaginare, ma che per lo meno ha il grosso merito di non infastidire quanto gli altri suoi film e che presenta un paio di intuizioni simpatiche e ben sviluppate. Il che, in realtà, non sarebbe neanche poco, se non lasciasse davvero il tempo che trova.

mercoledì 22 novembre 2023

I Tre Moschettieri- D'Artagnan

Les trois mousquetaires: D'Artagnan

di Martin Bourbolon.

con: François Civil, Eva Green, Vincent Cassel, Romain Duris, Pio Marmai, Louis Garrel, Vicky Krieps, Eric Ruf, Lyna Khoudri, Marc Barbé, Jacob fortune-Lloyd, Patrick Mille.

Avventura/Storico

Francia, Belgio, Spagna, Germania 2022









Se si pensa alle trasposizioni filmiche del celeberrimo romanzo di Alexandre Dumas padre, vengono in mente solo ed esclusivamente quelle prodotte a Hollywood, nonostante se ne contino in tutto circa una trentina. I tre moschettieri sono stati, in buona sostanza, sempre e comunque appannaggio delle produzioni americane, le quali non sono mai mancate e alcune delle quali sono tutt'oggi apprezzate, come la simpatica rilettura ironica di Richard Lester negli anni '70, quella stielwuxia-pin di Peter Hyams del 2001, l'avvenutura per ragazzi targata Disney del 1993 e la stramba versione steampunk di Paul W.S.Anderson del 2011.
La mancanza di una trasposizione francese contemporanea e degna di attenzione era ai limiti del vergognoso, per questo i produttori della Pathé hanno deciso di ovviare a tale mancanza facendo le cose in grande: una produzione da oltre 70 milioni di euro che trasposta sullo schermo le prime due storie del ciclo, con due film girati assieme e parti di una trilogia da completare, coronata da un cast praticamente tutto francese (ad eccezione della lussemburghese Vicky Krieps che interpreta la regina e l'inglese Jacob Fortune-Lloyd negli ovvi panni del duca di Buckingham) dove spiccano ovviamente i superdivi Vincent Cassel e Eva Green e con la regia di quel Martin Bourbolon che pur confrontandosi per la prima volta con il cinema di stampo avventuroso ha dalla sua la firma su di un pugno di buoni successi commerciali (in patria).
"I Tre Moschettieri- D'Artagnan" è così un piccolo kolossal ambizioso, che vuole dare una passata di modernità ad una storia che più classica non si può; e che bene o male riesce nel suo intento.


Parte del fascino del libro originale è dato dalla capacità di Dumas di unire il romanzo storico "classico" con un racconto da cappa e spada di stampo popolare. Nella sua revisione del passato, Richelieu è un villain che brama quel potere che il raggiungimento della maggiore età da parte di Luigi XIII gli ha negato, mentre le avventure di D'Artagnan sembrano uscite da un feulettion. Il giovane guascone è poi ispirato alla figura del proprio padre, Thomas Dumas, figlio illegittimo di un nobile e una serva di colore, il quale, riconosciuto, è ben presto divenuto ufficiale dell'esercito; durante le campagne napoleoniche, ha servito l'imperatore e sotto le armi ha stretto una forte amicizia con tre commilitoni, i quali erano inseparabili; il suo coraggio lo ha poi portato a distinguersi in più battaglie, rendendolo molto amato tra le truppe.
Su schermo, D'Artagnan ha il volto di François Civil, che ne restituisce alla perfezione la sbruffonaggine, ma anche la spavalda ingenuità; arrivato a Parigi, nel bel mezzo delle guerre di religione del XVII secolo, aspira a diventare moschettiere come il padre e ne incontra ben presto tre: il nobile Athos (Cassel), il gesuita donnaiolo Aramis (Romain Duris) e l'esuberante Porthos (Pio Marmai). I quattro si trovano presto invischiati non solo nella canonica rivalità con le guardie privati del cardinale, ma anche in un complotto volto a destabilizzare la corona, il quale viene ordito dal porporato assieme alla bellissima e fatale Milady (Eva Green).




E' proprio il cast a merita il plauso maggiore: oltre a Civil, ogni attore è perfettamente in parte. Su tutti svetta ovviamente Cassel, che in questa prima parte ha modo di sfoggiare il suo carisma nei panni del personaggio più tormentato, ma anche quello di Eva Green risulta un casting perfetto, nonostante il poco screentime che le venga dedicato. Strana invece la trovata di affidare il ruolo di Richelieu al misconosciuto Eric Ruf, quando invece ad interpretarlo è per tradizione sempre una star o comunque un attore dal sicuro fascino, ma c'è da dire che anche lui funziona a dovere.
La regia di Bourbolon è invece fin troppo pop: al bando ogni forma di classicismo, il cappa e spada qui diventa quello di un episodio di "Game of Thrones" o di un qualunque fantasy degli ultimi dieci anni, con piccoli piani sequenza che seguono i personaggi mentre duellano e montaggio serrato. La visione è sempre chiara e l'azione comprensibile, ma il tutto manca di vera personalità, complice anche una fotografia di stampo para-televisivo.



A saltare all'occhio, semmai, è il tono usato per la narrazione, decisamente cupo. La leggerezza del romanzo cede il passo ad un registro sempre pesante, con la Francia del 1.600 che sembra uscita da un racconto di "Conan il Barbaro" tanto l'aspetto selvaggio e violento è calcato. E' come se il regista avesse in mento proprio i romanzi di George R.R.Martin piuttosto che quelli di Dumas quando ha deciso di costruire le scene. Con l'aggravante che, tono sbagliato a parte, non riesce mai a costruire la giusta tensione quando necessario, né talvolta la giusta enfasi quando serve. 
Alla fine il racconto scorre anche bene, ma si ha la sensazione di un'operazione dove lo spettacolo è stato prediletto all'efficacia, dove i valori produttivi contano più della storia.




Alla fine, questo adattamento sfarzoso e tenebroso bene o male funziona. I buoni valori produttivi e il cast riescono a rendere il tutto divertente e il fascino della storia è ancora oggi immutato. Certo è, tuttavia, che con una regia di miglior mestiere, questo "D'Artagnan" sarebbe stato davvero memorabile.

mercoledì 15 novembre 2023

Mr. Vendetta

Boksuneun naui geot

di Park Chan-Wook.

con: Shin Ha-Kyun, Song Kang-Ho, Bae Doona, Ji Eu-Lim, Bo-Bae Han, Lee Dae-Yeon.

Corea del Sud 2002

















---CONTIENE SPOILER---


Ottenuto un forte riscontro anche internazionale con "Joint Security Area", Park Chan-Wook si ritrova a poter dirigere letteralmente quello che vuole. Inizia così, nei primi anni 2000, quella che sarà conosciuta come la sua magnum opus e che lo trasformerà in uno dei cineasti più riveriti degli ultimi trent'anni, ossia la celebre trilogia della vendetta.
Un trilogia che in realtà non inizia nel migliore dei modi. Benché accolto caldamente dalla critica, "Mr. Vendetta" non è il successo commerciale sperato e, anzi, si rivela ben presto come un piccolo flop. Tanto che la distribuzione internazionale sarà molto limitata (in Italia arriva in primis solo sulle reti satellitari di Tele+ come inedito, per poi giungere direttamente in DVD a seguito del successo di "Oldboy"). Il che è davvero un peccato, visto che si tratta di un primo capitolo formalmente perfetto.




La vendetta è una spirale, o meglio un ciclo infinito. Laddove una persona si arroga la prerogativa di ripagare un torto subito adoperando la violenza, anche chi a sua volta subisce tale violenza si arroga a sua volta la medesima prerogativa. La storia di "Mr. Vendetta" è alla fine questo, nulla più che un complesso di avvenimenti che hanno inizio e fine quando una vittima decide di farsi carnefice.
Ma il primo torto non viene commesso da una persona, bensì da un sistema economico, quello neo-liberista e di stampo para-americano, che in Corea del Sud prevede un diritto alla salute subordinato al censo; solo chi ha i soldi, di conseguenza, può vivere, cosa che porta il giovane sordomuto Ryu (Shin Ha-Kyun) al punto di rottura: sua sorella (Lim Ji-Eun) rischia di morire se non ottiene un trapianto di reni. Truffato da un sedicente gruppo di trafficanti di organi, il giovane ha così una settimana per racimolare i cinque milioni necessari per pagare l'operazione in ospedale; e per trovarli, decide di rapire la figlia del suo ex capo Park Dong-Jing (Song Kang-Ho), il quale lo ha anche licenziato di punto in bianco.




Il sistema economico è il primo carnefice, l'iniquità sociale la prima ferita che dà vita al ciclo. Una ferita che arriva persino sulla carne di Park, con un suo ex operaio che si incide il torso come offerta sacrificale, ferendogli poi la mano destra. Ferita comune in realtà a tutti gli strati sociali: oltre al proletariato di Ryu, tocca anche quella classe media incarnata dal commissario Choi (Lee Dae-Yeon), il cui figlio è da tempo ricoverato, ma le cui cure sono oltre la sua portata.
La regia si sofferma con precisione sul disumanizzante lavoro pesante della classe popolare, sulla sua immolazione per la sopravvivenza, ma anche sul cinismo diffuso all'interno di essa, con il gruppo di "debosciati" vicini di casa di Ryu la cui unica attività è la masturbazione, talmente chiusi in loro stessi da scambiare le urla di dolore della sorella per orgasmi.
Il rapimento di un membro della classe più elevata è così tanto gesto di disperazione, quanto atto di ribellione, il quale però porta con sé tutte le conseguenze possibili. La scoperta del gesto causa la morte della sorella di Ryu, che si suicida, mentre la bambina annega praticamente per caso (viene inizialmente lasciato intuire che possa essere stato a causa delle pietre lanciate dal ragazzo mentalmente handicappato, ma durante l'autopsia si afferma come non ci siano ferite alla testa), il che avvia la seconda vendetta.




Park inizia una ineluttabile ricerca dei colpevoli. E nel frattempo è lo stesso Ryu a iniziare la ricerca di quei trafficanti che gli hanno portato via un rene e ogni effettiva speranza. Il che culmina da un lato nella tortura di Cha (Bea Doona), ragazza di Ryu, dall'altra nel massacro della gang.
Una doppia spirale di sangue dove non esistono buoni e cattivi, solo persone portate oltre il limite, le quali perdono ogni freno inibitore e si fanno assassini privi di rimorso.
Pur tuttavia, la violenza genera violenza e alla fine la distruzione è totale: Ryu viene castigato, con una catarsi che non porta alla riappacificazione, ma ad una comprensione che non include il perdono. Park viene castigato da quei sobillatori amici di Cha, la cui ribellione sociale si consuma in un atto di violenza fine a sé stesso. Ciò che resta alla fine, in quell'ultima inquadratura emblematica, non è che un cumulo di resti umani, spazzatura di carne frutto di una violenza cieca.
Park Chan-Wook qui non condanna l'atto di rivalsa violenta, si limita a descriverne tutte le implicazioni possibili sul piano affettivo: poiché ognuno è libero di vendicarsi, allora ciascuno, quando si arma, deve anche prepararsi a ricevere a sua volta un colpo, in una escalation dove è solo la morte a trionfare. Non una forma di biasimo vero e proprio, quanto un'analisi cinica e laica.




Il distacco verso la tematica prende le forme di uno stile più asciutto rispetto a quello hitchcockiano di "Joint Security Area"; un regia che lavora per sottrazione ed ellissi, con le scene che iniziano e finiscono in modo secco, quasi brutale. I movimenti di macchina sono limitatissimi, le inquadrature strette fino alla claustrofobia, tutto è basato su di un montaggio spezzato, che cuce insieme le scene in modo secco, talvolta apertamente violento. 
La ferocia esplode all'imrpovvso e di rado, ma quando lo fa è inarrestabile, per questo fa male a chi la osserva; se l'uccisione della gang di trafficanti è sopra le righe, quasi un cartoon splatter à la Takashi Miike, il castigo di Ryu è dolorosissimo in quell'immagine sadica richiusa in un'unica inquadratura.
Una freddezza quasi chirurgica che permette all'autore di ibridare i toni, con momenti più leggeri che trovano spazio in una narrazione angusta e tetra in modo del tutto naturale, creando un racconto denso e sfaccettato.




"Mr. Vendetta" apre così le danze dell'omonima trilogia in modo esemplare. Un racconto tanto cinico quanto brutale, un apologo a-morale su di una tematica sempre attuale che viene sviscerata in modo completo già in questo prima, bellissimo, capitolo.

C'è ancora domani

di Paola Cortellesi.

con: Paola Cortellesi, Valeria Mastandrea, Romana Maggiore Vergano, Emanuela Fanelli, Raffaele Vannoli, Francesco Centorame, Alesia Barela, Paola Tiziana Cruciani, Yonv Joseph.

Italia 2023
















---CONTIENE SPOILER---

L'eredità del Neorealismo nel cinema italiano non è solo essenziale, quanto persino insostenibile. Se tutt'oggi le storie "reali" sono all'ordine del giorno nella produzione filmica nazionale, ciò è sicuramente dovuto all'endemica povertà di capitali, che porta a prediligere soggetti leggeri sul piano produttivo, ma anche alla presunzione di potersi confrontare con il lascito di maestri del calibro di Rossellini e De Sica, arrivando al loro livello portando semplicemente in scena storie di vita quotidiana nel modo più semplice possibile. Ossia travisando totalmente quello che il Neorealismo effettivamente fu. Tanto che molto spesso si arriva a dire che forse sarebbe stato meglio per il cinema italiano se esso non fosse mai esistito. E ciò ovviamente a torto.
Paola Cortellesi, dal canto suo, non ha mai avuto particolare fortuna al cinema, dove, come molti suoi colleghi come Fabio De Luigi e Claudio Bisio, non ha mai avuto la fortuna di trovare un copione che ne riuscisse a sfruttare per bene le doti recitative. Al suo esordio da regista, con "C'è ancora domani" riesce invece a stupire, creando una specie di omaggio al Neorealismo che sembra davvero comprenderne l'ossatura e soprattutto un melodramma "verista" a tratti fortemente riuscito, pur se talvolta sapientemente virato al comico.




La storia è la più classica parabola di emancipazione che si possa immaginare, con una donna sottomessa ad un marito violento e infame e madre di tre figli pestiferi, di cui la figlia maggiore sembra già avviata a percorrere la sua stessa strada, mentre deve subire anche le angherie di un suocero insopportabile, il tutto sullo sfondo della Roma di fine anni '40, con gli Americani e i loro checkpoint e il referendum sulla scelta tra monarchia e repubblica.
Quello che rende "C'è ancora domani" memorabile è l'esecuzione.




Alla Cortellesi non interessa fare un film neorealista tout-court, né un omaggio cinefilo puro e semplice, quindi declina una storia di violenza domestica partendo dall'estetica neorealista per poi virare i toni verso la leggerezza: ogni volta che l'infame Ivano alza le mani su Delia, l'atto violento viene sostituito da un balletto, un musical nel quale le botte diventano danza, ma dove le ferite restano, anche se celate, metafora di quella vergogna privata che si nasconde agli occhi di tutti, innanzitutto ai propri. Una trovata davvero simpatica, che non rende le sequenze meno efficaci perché comunque contestualizzate a dovere nella storia; e che si presenta come un vero e proprio sberleffo a quel "cinema delle grida", quella messa in scena delle crisi amorose e famigliari che il cinema italiano degli ultimi 20-30 anni ha troppe volte semplificato in attori che urlano a squarciagola, creando imbarazzo più che disturbo.
Tono che poi viene alleggerito ulteriormente dallo humor, con battute sagaci e talvolta irresistibili, che avvicinano tutto il film, più che al Neorealismo originario, a quel "Neorealismo Rosa" che ne prese il posto già negli anni '50. E come nei migliori esempi del filone, il tutto risulta leggero, ma mai superficiale, con un'attenzione verso la materia di partenza sempre alta.




L'intento provocatorio non si sostanzia solo nella scelta di portare in scena una storia di violenza domestica e di sottomissione della figura femminile e neanche nel tono irriverente con la quale la si porta in scena, ma per lo più nella decisione, quantomai benvenuta, di porgere uno sguardo al passato italiano per una volta cattivo e corrosivo. Quell'immaginario post-neorealista del "come eravamo" che fa apparire il Secondo Dopoguerra come una sorta di paradiso in Terra dove tutto era più bello, in nome di un'idealizzazione feticistica che non sta né in cielo nè in terra, qui viene passato al tritacarne. La Roma di fine anni '40 è letteralmente una fogna a cielo aperto, la vita del proletariato viene ritratta in modo cinico e a tratti caustico, tanto che una delle prime immagini è quella di un cane che urina sulla casa della protagonista. Allo stesso modo, quasi tutti i personaggi sono sgradevoli, persino quel nonno il quale viene sovente ritratto nella tradizione come un vecchietto arzillo e simpatico, ma che qui è un insopportabile vecchio strozzino morto di fame. 
Un ritratto impietoso, cattivo, corrosivo e per questo più vero di quanto anni di imbellettamento fasullo hanno voluto farci credere.




L'occhio della Cortellesi è sempre attento, il suo rigore morale sempre alto. Il dito è puntato contro la violenza di genere, ma ha l'obiettività di non generalizzare, rendendo il suo atto d'accusa condivisibile prima ancora che veritiero. E, inutile dirlo, il setting passato altro non è se non uno specchio deformato di una società italiana che in ottant'anni non è mai cambiata, tanto che lo stile riflette tale lettura metaforica con una giustapposizione tra immagini in bianco e nero e musica moderna. Il risultato è uno stile post-moderno che però non si limita alle sole scelte estetiche, ma anche al linguaggio filmico, con movimenti di macchina precisi e un montaggio azzardato (talvolta fin troppo, con alcuni scavalcamenti di campo un po' indigesti), appaiato ad una costruzione dell'inquadratura che, come da tradizione, adopera principalmente campi medi e lunghi piuttosto che i canonici primi piani; con la conseguenza che "C'è ancora domani" è uno dei pochi film realmente post-modernisti italiani moderni. 
Ottima anche la direzione del cast: su tutti svetta Valerio Mastandrea, la cui sua usuale vis "scazzata" calza a pennello ad un personaggio nel quale riesce a sottolineare la sgradevolezza, tanto che forse questa è la sua migliore interpretazione in assoluto.
Una mano ferma, un'idea di cinema chiara e un grosso coraggio sono i grandi meriti che la Cortellesi dimostra di avere in questa sua prima prova alla regia. Tre elementi importantissimi e inusuali che rendono questo suo esordio da filmmaker estremamente riuscito e coraggioso. E che per questo rendono la scelta di quel finale decisamente indecifrabile.




L'idea che l'emancipazione femminile sia passata attraverso il diritto al voto è veritiera e sacrosanta, ma ridurre tutta l'emancipazione femminile alla partecipazione politica è semplicemente falso. 
Quella del diritto al voto è stata sicuramente una conquista epocale, ma non ha comportato un effettivo miglioramento della situazione sociale delle donne, almeno in Italia, tanto che episodi di violenza, segregazione e, in generale, subordinazione della figura femminile, sembra persino inutile dirlo, sono tutt'oggi all'ordine del giorno. Usare tale conquista come simbolo di affermazione umana è una metafora prettamente populista e non ha senso neanche se inserita nel contesto della storia che la Cortellesi racconta, tanto che chiudere un racconto del genere con una mera conquista politica è quasi contradditorio. 
Un finale del genere avrebbe avuto senso in un vero film di epoca neorealista e anche lì fino ad un certo punto; in una pellicola moderna risulta semplicemente ingenuo e troppo conciliatorio in una storia che invece avrebbe dovuto raggiungere l'apice del coraggio proprio nel finale, magari con una fuga da una situazione famigliare insostenibile. La scelta di un'opzione conciliatoria è così codarda prima ancora che effettivamente populista, dovuta forse per non dare un messaggio troppo dirompente al pubblico. E sul piano populista, finisce persino per ricordare l'altrettanto ridicolo finale di quel "Novecento" di Bertolucci, il quale però trovava un senso nella natura para-propagandistica dell'opera; qui, invece, non c'è davvero effettiva giustificazione alcuna.




Una svolta inaspettata, scusabile se si pensa alla poca esperienza come autrice della Cortellesi. Che per il resto, fortunatamente, crea un'opera sentita, sincera e forte. Tanto che il grosso successo commerciale per una volta è davvero meritato.

lunedì 13 novembre 2023

The Killer

di David Fincher.

con: Michael Fassbender, Tilda Swinton, Arliss Howard, Charles Parnell, Kerry O'Malley, Sophie Charlotte, Emiliano Pernìa, Gabriel Polanco, Sala Baker, Endre Hules, Monique Ganderton,

Usa 2023















Perché ancora oggi l'impostazione del polar classico (quello alla Melville, per intenderci) continua ad affascinare?
Semplice: perché riesce a portare al centro dell'attenzione di un racconto di genere tutti i difetti del protagonista di turno, criminale o tutore dell'ordine che sia.
Se il noir americano è spesso un racconto morale e il gangster movie una tragedia in abiti più o meno moderni, il polar è lo studio di un personaggio e di tutti suoi limiti interiori; il che, appaiato ad una struttura che ne lascia i sentimenti celati sotto una superficie fredda, se eseguito a regola d'arte riesce ad aumentare il coinvolgimento che storie del genere possono avere.
"The Killer" è in tal senso il più classico polar che si possa immaginare. E con esso, Fincher crea un omaggio praticamente perfetto alla tradizione. Persino troppo perfetto.




Il protagonista, senza nome come norma impone, ha il volto e il corpo di un ritrovato Michael Fassbender, lontano dagli schermi dai tempi del flop di "L'Uomo di Neve", ed è la quintessenza dell'assassino di pietra: non solo glaciale, ma metodico sino all'ossessione, non più un semplice chirurgo dell'omicidio, quanto un vero e proprio burocrate chiamato ad eseguire un lavoro alla perfezione. Esecuzione che per lui è un esercizio fisico misto tra concentrazione assoluta e assoluta astrazione, con una serie di regole ripettue a mo' di mantra che lo portano a non provare la minima empatia per nulla.
Sempre come tradizione vuole, il suo ultimo incarico, pur pianificato nei minimi dettagli, fallisce e lui si ritrova a doversi vendicare dei suoi mandati, oltre che di quei colleghi che, incaricati di ucciderlo, ne hanno invece ferito la compagna.





Con un occhio a Melville e con alcune similitudini di quel "Vendicami" con il quale già Johnnie To dichiarava il suo amore per il modello di riferimento, Fincher adatta l'ominima graphic novel francese in modo certosino e con tutto l'armamentario proprio del suo cinema: atmosfere notturne, anche se questa volta meno opprimenti di quanto ci si possa aspettare, ottima direzione del cast e un uso della messa in scena classico nel midollo.
Il viaggio del killer in cerca di vendetta si fa così studio di un personaggio metodico il cui metodo lo porta al fallimento, che cerca disperatamente di restare freddo anche quando questo suo carattere ha tutti i buoni motivi per cedere e che dovrebbe realizzare i propri limiti, oltre che la sua inconsistenza e incoerenza filosofica, ma non tutto fila liscio.




La realizzazione finale di essere un puro strumento, un membro della massa sfruttata dai potenti, è scontata e per lo spettatore arriva già nei primissimi istanti del film. La collisione con i bersagli, in teoria idealmente opposti del protagonista, è meccanica e non riesce davvero a colpire, come se a Fincher non interessasse davvero questo aspetto del racconto, che sulla carta è invece essenziale per la riuscita della storia.
Sembra invece prediligere il puro omaggio cinefilo, il semplice inanellamento di tutti i luoghi comuni che il genere possa contare. E in "The Killer" c'è davvero tutto, con in più una voce-pensiero che riesce anche a trasmettere il giusto senso di paranoia del protagonista verso uno spettatore che è invece chiamato a restare freddo quanto lui.
La freddezza è da questo punto di vista perfetta e totale: non si riesce davvero ad empatizzare né per l'assassino, nè per le vittime, tantomeno per il giochino referenziale dell'autore. Tutto scorre in maniera precisa, senza vere sbavature, ma anche senza guizzi, rendendo la visione non semplicemente gelida, quanto fatalmente insipida. Se la grandezza dei migliori polar sta nella capacità di coinvolgere nel profondo pur presentando un racconto asciuttissimo, "The Killer" non riesce a raggiungere l'equilibrio necessario e sprofonda irrimediabilmente in una piattezza a tratti esasperante.




Fincher può così davvero andare fiero di aver realizzato un perfetto pensierino al modello di riferimento, ma "The Killer" alla fine non colpisce su nessun piano, restando chiuso nella pura contemplazione di un passato che in confronto appare più apprezzabile al giorno d'oggi.