lunedì 26 febbraio 2024

Perfect Days

di Wim Wenders.

con: Koji Yakusho, Tokio Emoto, Arisa Nakano, Miyako Tanaka, Long Mizuma, Soraji Shibuya, Bummei Harada, Min Tanaka.

Giappone, Germania 2023


















Durante la visione di un film come "Perfect Days", torna prepotentemente alla mente la questione mai sopita sulla effettiva sincerità che un autore riversa in una sua opera; per inciso: quanto può essere credibile Wim Wenders con un film del genere?
Perché basta dare anche solo un'occhiata alla sinossi per avere qualche dubbio: il sig. Hirayama (Koji Yakusho) è un sottoproletario della odierna Tokyo. Senza moglie, né figli e giunto ad età avanzata, passa le sue giornate lavorando come addetto alle pulizie nei bagni pubblici e il tempo libero ascoltando vecchie musicassette di Lou Redd e Patti Smith, curando delle piantine, leggendo vecchi libri in formato tascabile o fotografando le foglie degli. Ed è felice, forse.



Una storia che sembra uscita da un indie americano della seconda metà degli anni '00, nel mezzo del movimento mumblecore e agli albori dell'affermazione della "cultura" hipster, con l'esaltazione della semplicità sia umana che materiale, oltre che di quella formale nella messa in scena; e che magari all'epoca sarebbe stata opera di qualche filmmaker ventenne e al suo esordio nel lungometraggio.
Wenders, d'altro canto, ha quasi ottant'anni e oltre cinquant'anni di più che onorata carriera come autore cinematografico. Un uomo che ha avuto tutto, dai premi materiali al riconoscimento effettivo dell'importanza della sua opera filmica già negli anni '70, quando era considerato uno dei tre massimi registi tedeschi (assieme a Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder); e che nel 2011 ha persino firmato un documentario in 3D su Pina Bausch che gli è valso gli allori di tutto il mondo dello spettacolo, oltre che l'onorificenza della presentazione dinanzi ad Angela Merkel, all'epoca primo ministro.
Si può dire quello che si vuole dei suoi film e della sua effettiva caratura come regista, ma non si può negare che abbia avuto una carriera blasonata e importante, che gli è valsa ogni singolo riconoscimento possibile (ad eccezione dell'Oscar, per quel che può valere). Si può quindi credere ad una storia del genere raccontata da una persona simile?




Perché non si capisce davvero cosa un auteur affermato arricchitosi facendo quello che gli piace possa trovare di bello nella vita semplice di Hirayama e nella sua solitudine autoimposta. Le similitudini tra il personaggio e l'autore ci sono: entrambi hanno uno spiccato senso artistico verso le immagini ed entrambi vengono dal lusso. Hirayama è in un certo senso l'alter ego che Wenders vuole farci credere vorrebbe essere, un uomo che ha rinunciato a tutti i privilegi in una sorta di esilio dai rapporti umani, il che, oltre che i dubbi sull'autenticità, fa anche sorgere dubbi sul perché tale personaggio abbia deciso di eliminare ogni rapporto umano.
Nella sottotrama sulla nipote Niko (Arisa Nakano) si intuisce che qualcosa di brutto è accorso con la sua famiglia e che lo ha portato ad isolarsi dal resto del mondo. Wenders non approfondisce nulla in merito, lasciando che sia lo spettatore a farsi una sua idea a riguardo, privando però la narrazione di profondità effettiva. Anche perché guarda sempre al suo personaggio con occhio benevolo.




Hirayama schiva i rapporti umani e si limita a fissare il riflesso del mondo. Le ombre e la luce che filtra le foglie, catturata dall'occhio di una vecchia Olympus a rullino (ancora la feticizzazione del vecchio) sono i suoi veri interessi. Le persone che lo circondano, d'altro canto, sono viste con tanta curiosità quanto con distacco estremo: il sottoposto Takashi (Tokio Emoto) e la sua strampalata love-story con la giovane patita di musica d'antan Baby (Aki Kobayashi), l'anziano barbone che vagabonda per il parco e le strade così come la giovane donna compagna di spuntino al parco o il ragazzino portatore d'handicap sono meteore che ne attraversano la vita e che lui è sempre sul punto di incrociare, solo per poi decidere di allontanarvisi. L'opportunità di stringere rapporti c'è sempre, ma viene evitata; la volontà in apparenza c'è anche, vista la sua buona predisposizione verso il prossimo, l'apertura umana verso chi è in stato di bisogno, ma la solitudine viene sempre preferita. Tanto  che il rapporto più stretto, alla fine, lo stringe con l'anonimo con cui gioca una partita a tris a distanza. Persino quello con la nipote (la cui dinamica non può che portare alla mente quella alla base di "Alice nelle Città") è un episodio isolato che alla fine non ne intacca la vita più di tanto. L'unica eccezione è data dalla scoperta dell'ex marito della padrona del ristorante dove è solito cenare, con cui intesse un rapporto umano dato proprio dalla solitudine e dal rimpianto.
Quella di Hirayama è una solitudine placida, che Wenders decide di colorare con l'ombra del dubbio solo nel finale. Per oltre due ore non fa che esaltarne lo spirito gioviale, descriverne la routine ripetitiva in modo simpatico, guardare ai suoi gesti ripetuti all'infinito con una curiosità invidiosa, intessendo un racconto sempre ai limiti dell'ipocrita e privo di quella drammaticità necessaria a rendere davvero dubbiosa la predilezione del protagonista verso l'isolamento.




Anche perché tale racconto è ambientato in una Tokyo dove i rapporti umani sono tutti a rischio, proprio come viene qui mostrato. Non per nulla, quella giapponese è da decenni la società più alienante al mondo, dove si arriva letteralmente a morire di solitudine (come raccontava Kyoshi Kurosawa qualche decennio fa). Sottolineare la bellezza di una vita solitaria in un contesto del genere, mostrandone per altro la piena contezza, non fa che aumentare la dose di ipocrisia.
Perché alla fine è questo che fa Wenders: mostra la solitudine in modo anche sinistro, rivelando come tra le piaghe di una vita del genere ci sia sempre posto per il rimpianto verso un'unione umana e materiale che si è a lungo evitata. Ma descrive il tutto con tono cordiale e accondiscendente, guardando alla felicità data dalle piccole cose in modo estremamente positivo.



A Wenders va quantomeno riconosciuto il mestiere, l'aver saputo raccontare una storia piccola nel migliore dei modi, senza esagerare con le smancerie o con l'idealizzazione coatta della passione per le mode vetuste, nonostante il palese feticismo che dimostra (basti in proposito immaginare di quali orrori il film sarebbe potuto essere foriero se partorito dalla mente di un regista pseudointellettualoide nostrano); così come gli va riconosciuto il merito di sapere come portare in scena la bellezza metropolitana della capitale giapponese. Ma si tratta pur sempre di regista con decenni di carriera sulle spalle e che si era aggirato per le strade di Tokyo con "Tokyo-Ga" già a metà degli anni '80.
Un mestiere che, in definitiva, non salva un'opera davvero poco credibile.

martedì 20 febbraio 2024

Past Lives

di Celine Song.

con: Greta Lee, Teo Yoo, John Magaro, Moon-Seung Ah, Leem Seung-Min, Choi Wong-Young,  Ji Hye Yoon, Ahn Min-Young, Seo Yeon-Woo.

Usa, Corea del Sud 2023


















Il concetto di destino è sopravvalutato. Una persona che vi lascia influenzare non può trovare davvero la felicità. 
"Past Lives" si basa su questo assunto, prendendo una posizione netta, ma dolorosa. E con esso, Celine Song compie un esordio assoluto con una storia che presenta chiari riferimenti autobiografici.



Nora (Greta Lee) lascia la Corea del Sud ancora dodicenne, iniziando una nuova vita in Canada. Dodici anni dopo, riprende i contatti con Hae Sung (Theo Yoo), suo fidanzatino alle scuole medie. Dopo una relazione a distanza che non porta da nessuna parte, decide di sposarsi con lo scrittore Arthur (John Magaro). Altri dodici anni dopo, a New York, Hae Sung decide di farle visita, risvegliando un sentimento sopito.




"In-Yun", ovverosia l'aver vissuto un'infinità di vite assieme per poi viverne una come coppia. Un concetto quasi del tutto equivalente a quello del fato, che in Corea così come in larga parte dell'estremo oriente gioca un ruolo fondamentale nel plasmare le vite delle persone.
Ma la Song vede tale concetto con gli occhi di una occidentale acquisita, una donna realizzatasi professionalmente e artisticamente proprio perché ha abbandonato le sue tradizioni, delle quali conserva un buon ricordo e con le quali ha un buon rapporto, ma che vede come forme culturali più che come dettami spirituali.
Il rapporto di coppia, di conseguenza, è basato sulla libera scelta, non su di una forma di affinità elettiva nata nel passata e che poi si ripresenta nel futuro. L'affinità effettiva e affettiva è di conseguenza qualcosa di diverso, di più fluido e per questo del tutto irrazionale, perché va contro ogni possibile legame pregresso.



La Song riesce nell'impresa di portare su schermo una relazione a distanza credibile senza cadere nel tedioso o nel noioso. Anzi, è fin troppo facile (soprattutto per noi Italiani, popolo di migranti) rivedersi nei due innamorati separati da migliaia di chilometri, uniti solo dai monitor di laptop e smartphone, che risicano ritagli di tempo per vedersi e abbracciarsi solo con gli occhi. La storia di Nora e Hae Sung è così credibile e toccante quando si tratta di dar corpo alla loro lontananza, ma nel resto del racconto la mano dell'autrice si dimostra fallace, forse a causa dell'inesperienza come filmmaker.




La costruzione della storia avrebbe forse beneficiato di una struttura non lineare, con un inizio in medias-res e il ritorno di Hae Sung dal passato, come una sorta di variante della classica commedia americana dove l'ex marito deve riconquistare l'ex moglie di cui è ancora innamorato, virata ovviamente verso la serietà. 
Nella sua linearità, "Past Lives" finisce per mancare di mordente e a tratti anche di coinvolgimento, con una love-story fin troppo trattenuta, dove la tensione romantica e sessuale si avverte davvero solo a tratti. Ci si vorrebbe rifare a tanto cinema romantico orientale moderno, forse proprio a quello dell'insuperato Wong Kar-Wai, ma laddove nel romanticismo del grande autore hongkonghese la tensione (anche sessuale) è sempre avvertibile, la Song non riesce a trovare la giusta messa in scena che riesca davvero a trasmettere lo stato emotivo dei suoi protagonisti, in parte per colpa del classico stile blando di tanto cinema occidentale moderno, in parte a causa di una caratterizzazione dei personaggi tutto sommato piatta, dove i due protagonisti e il "terzo incomodo" non si smuovono più di tanto dai loro ruoli preimpostati, né hanno note di colore effettive che permetta loro di essere qualcosa di più delle figure di un semplice gioco narrativo.




"Past Lives" presenta così tutte le ingenuità che un esordio possa avere, ossia un'idea interessante ma non sviluppata appieno, uno stile anonimo, una tematica ben argomentata ma chiusa in un racconto che avrebbe dovuto avere ben altra caratura. Un'opera interessante, a tratti coinvolgente, ma tutto sommato acerba, bella ma non memorabile.

lunedì 19 febbraio 2024

Tiro al Piccione

di Giuliano Montaldo.

con: Jacques Charrier, Eleonora Rossi Drago, Francisco Rabal, Sergio Fantoni, Franco Balducci, Loris Bazzocchi, Silla Bettini, Enzo Cerusico, Gastone Moschin.

Drammatico/Storico

Italia 1961














Dei numi del cinema dell'impegno civile italiano, Montaldo è quello che solitamente viene considerato come minore. Questo perché di certo non aveva la passione sanguigna di Elio Petri, né l'occhio innovatore di Francesco Rosi, tantomeno l'acume di Marco Bellocchio. 
Eppure, non si può davvero liquidare il suo apporto al filone (e al cinema italiano in genere) davvero come minore, vista l'importanza anche solo storica di pellicole quali "Sacco e Vanzetti" e "Girdano Bruno", giusto per citarne un paio. Il suo limite, forse, è stato quello di rivolgere il suo sguardo principalmente al passato, anche solo recente, lasciando che l'attualità trasparisse solo a tratti nella sua opera. Il che la rende sicuramente meno eclatante rispetto a quella dei più illustri colleghi, ma di certo non meno importante.



Già il suo esordio, "Tiro al Piccione" (che arriva dopo le collaborazioni come aiuto regista in "L'Assassino" e "Kapò" di Pontecorvo) si rifà a quella che all'epoca era storia recente, ossia i seicento giorno della Repubblica di Salò, ossia quel famoso passato fascista che neanche quindici anni dopo la caduta del Duce già si voleva dimenticare, già si ignorava coscientemente o meno e che invece lui porta su schermo con impegno e dovizia di particolari.




Dopo l'8 settembre 1943 e l'istituzione della Repubblica di Salò, l'Italia è spaccata in due. Il diciannovenne Marco Laudato (Jacques Charrier) si unisce ai repubblichini per dovere patrio e spirito d'avventura. Tra i camerati troverà il veterano Elia (Francisco Rabal) e il truce Pasquini (Gastone Moschin). 
Dopo aver subito un ferita, incontra l'infermiera Anna (Eleonora Rossi Drago), con la quale intreccia una storia d'amore tormentata.




Una nazione sull'orlo del collasso, un periodo storico oramai al crepuscolo, un popolo diviso. In un tale contesto, Marco è l'esponente di quella generazione nata sotto il fascismo e per questo indottrinata sin dall'infanzia ai suoi mendaci dettami, al culto di una patria grande solo sulla carta e di un leader che si atteggia a guerriero, ma che è costantemente in fuga, lasciando il comando effettivo delle truppe ai Tedeschi che hanno occupato la nazione.
Nella camerata, viene accolto da due personaggi che invece rappresentano i poli opposti di chi le cavolate del fascismo le ha sperimentate sulla propria pelle, ossia i reduci Elia e Pasquini, due volti della stessa medaglia.
Il primo è oramai disilluso: la sequela infinita di infamie e orrori lo ha praticamente distrutto dento, rendendolo immune alla retorica di regime. Un uomo che ha perorato gli orrori in cerca di gloria, ma che ha realizzato come questa sia in realtà inesistente già prima della disfatta dell'8 Settembre.
Il secondo, viceversa, è una sorta di psicopatico, un essere più animale che uomo che invece gioisce della violenza gratuita che ha potuto infliggere ai nemici e che continua a combattere per un puro gusto sadico.
Due estremi il cui ruolo nella storia e nella caratterizzazione del protagonista ricorda quanto poi farà Oliver Stone in "Platoon", ma che qui viene sviluppato in modo più sottile ed efficace, oltre che più armonico con il resto di una narrazione che non si affida esclusivamente alla metafora caratteriale.




Il racconto di Marco è un romanzo di de-formazione, la storia di un giovane affascinato dall'illusione della gloria il quale scopre come questa, di fatto, non può essere trovata all'interno del regime fascista.
Montaldo ritrae in modo diretto la codardia e l'infamia dei Fascisti in primis con la loro sbruffonaggine, in secondo luogo e soprattutto tramite la descrizione degli eccidi perpetrati nei confronti degli stessi italiani, accusati di collaborazionismo con i partigiani. Di fatto, per tutto il film non vediamo mai i repubblichini uccidere un nemico, solo assassinare paesani inermi sospettati di collaborazionismo con la resistenza. La virtù guerriera è così solo una maschera dietro la quale celano una ferocia che sa estrinsecarsi solo contro i deboli, allo stesso modo in cui vent'anni prima eseguivano gli squadrismi per le strade. E che usano nella speranza di poter ottenere una vittoria anche solo temporanea contro un nemico che in cuor loro sanno già aver vinto la guerra.
"Tiro al Piccione" è così un racconto di guerra narrato dalla prospettiva dei vinti, nel momento in cui, pur coscienti di una disfatta ineluttabile, si aggrappano testardamente ai proclami di un leader coraggioso solo nelle parole, codardo nei fatti.




Un racconto che non è però limitato nella sua portata a descrivere un'esperienza individuale, quanto quella collettiva di un intero popolo. Gli inserti con la gente comune sono presenti in praticamente tutte le sequenze, a cominciare dalle prime, che si focalizzano sulla descrizione della quotidianità durante la guerra di chi non riesce neanche a trovare da mangiare.
Su tutte, è però la sottotrama amorosa quella che dà una descrizione precisa della mentalità italiana. Il personaggio di Anna, donna "fassbinderiana" pronta a tutto pur di sopravvivere, seppur davvero innamorata del protagonista, è l'incarnazione non tanto dello spirito di sopravvivenza, quanto dell'indole conformista nostrana; una persona che si schiera sempre con il più forte, pronta a sopportare le angherie di chi vorrebbe approfittarsene, in grado persino di credere nelle ideologie dominante, ma di abbandonarle subito quando serve; da cui il su climax, con la defezione e l'abbandono dell'uniforme fascista (di concerto, guarda caso, con un ufficiale), ritratto preciso di quei "45 Milioni di Antifascisti" che proprio in questo periodo Gianni Oliva racconta in un libro.



La rievocazione storica di un passato (allora) recente si fa catarsi di una nazione che in realtà non vorrà mai affrontare di petto il lascito del Ventennio Fascista. E se oggi quella ideologia fallata e ai limiti del farsesco è tornata nelle stanze del potere, già nel 1961 non mancarono di certo critiche feroci quando il film fu presentato a Venezia: la critica di destra lo stroncò per motivi alquanto ovvi, ossia per il suo essere un ritratto impietoso dell'ideologia; mentre quella di sinistra di certo non sopportava vedere la storia di un fascitello ritratta nelle forme del dramma empatico.
Oltre sessant'anni dopo, "Tiro al Piccione" si disvela come una visione in realtà necessaria proprio perché mette a nudo le menzogne del Fascismo, sia quelle storiche, sia quelle prettamente ideologiche. Certo, a Montaldo può essere già qui rimproverata quella mancanza di vera cattiveria che caratterizzerà molti altri suoi film e che rende la narrazione meno graffiante di quanto avrebbe davvero potuto essere, ma di certo il film risulta lo stesso estremamente efficace.

martedì 13 febbraio 2024

The Marvels

di Nia DaCosta.

con: Brie Larson, Teyonah Parris, Iamn Vellani, Samuel L.Jackson, Zawe Ashton, Gary Lewis, Park Seo-Joon, Zenobia Shroff, Mohan Kapur, Saagar Shaik.

Fantastico

Usa 2023


















---CONTIENE SPOILER---

Con un incasso di appena poco più di 209 milioni a fronte di un budget di oltre 220 e senza contare le parecchie decine di milioni spesi per il marketing, "The Marvels" è il peggior flop della Marvel Studios, l'ultimo in una incessante catena di tonfi per la Disney e l'ennesimo film di supereroi a deludere ai botteghini degli ultimi due anni.
Tuttavia, laddove i flop di casa DC sono parzialmente giustificabili dal futuro reboot di James Gunn del DCU, il fatto che il pubblico abbia iniziato a detestare i film Marvel (o anche semplicemente a riconoscerne il vero valore, si potrebbe dire) è alquanto bizzarro. Effetto forse dovuto alla saturazione di prodotti a tema supereroi, o forse e più probabilmente al poco carisma dei personaggi alla guida dei singoli prodotti. Perché se si escludono Thor (i cui ultimi exploit sono comunque detestati dai fan), Ant-Man (il cui ultimo film, pur non disprezzabile, è invece odiato a sangue da tutti) e la formazione originaria dei Guardiani della Galassia (il cui terzo film è anche l'ultimo), in questa Fase 4 non è rimasto nessuno dei personaggi storici, sostituiti da dei rimpiazzi che non hanno trovato i consensi sperati. L'unica vera eccezione è l'Uomo Ragno, ma in senso lato, visto che non era nel roaster del MCU sin dall'inizio.
La colpa non è forse tanto da cercare nell'etnia o nel sesso dei nuovi supereroi, come piace dire a molti, tantomeno alle singole caratterizzazioni, visto che il principe del MCU, ossia il Tony Stark di Robert Downey jr., era uno stronzo fatto e finito malamente venduto come eroe, quanto nella scrittura dei singoli prodotti, pessima persino per i bassi livelli Marvel.
Perché sicuramente "Avengers: Endgame" non aveva senso, ma "Spider-Man- No Way Home" ne ha persino di meno; e non si può certo continuare a intontire il pubblico all'infinito. Tanto che gli exploit in streaming, al cui confronto quelli cinematografici sembrano usciti dalla penna di Shane Black, sono stati dei flop persino peggiori.
Da questo punto di vista, "The Marvels" è a suo modo un film importante, perché riesce a coniugare la pessima scrittura dei film con le peggiori idee che avrebbero a stento funzionato in un episodio in una serie televisiva.




La trovata dello scambio fisico tra personaggi è un cliché ricorrente in praticamente tutti i cartoni animati mai concepiti e nella maggior parte dei serial fantastici e già questo renderebbe il film più simile ad un prodotto televisivo, ma la vicinanza alla scrittura da piccolo schermo è data anche dalla solita storiucola che vede come motore degli eventi un ennesimo mcguffin, in questo caso il bracciale di Kamala Khan, il cui gemello viene ritrovato dalla cattiva di turno sepolto in un asteroide nello spazio profondo. Come mai l'altro sia finito sulla Terra decenni prima è un mistero che va avanti dal primo episodio di "Ms.Marvel". 
La forma televisiva risalta definitivamente quando ci si accorge della struttura "picaresca" della sceneggiatura, con la storia praticamente divisa in una serie di mini-avventure su singoli mondi, come in una serie di episodi autoconclusivi legati insieme da una blanda continuità orizzontale.
E se si tiene conto di come il film duri neanche due ore, ci si chiede se davvero fosse stato inizialmente concepito come una sorta di special da distribuire direttamente in streaming.




Nella pessima, pessima sceneggiatura non manca nessuno dei luoghi comuni del peggior cinema di intrattenimento, con personaggi macchiettistici, ambizioni solo potenziali, spunti interessanti mal sfruttati e il difetto principe di tutte le produzioni Marvel, ossia la più totale mancanza di senso e coerenza.
Lo scambio tra le tre Marvel avviene ovviamente solo quando occorre ed è il buco tutto sommato più prevedibile. Tutta la storia prende le mosse dal fatto che Carol Danvers ha praticamente distrutto il pianeta dei Kree subito dopo gli eventi di "Captain Marvel", ma alla fine tutto poteva essere ripristinato nel giro di due minuti grazie ai suoi poteri, cosa che non fa prima del finale altrimenti non ci sarebbe un film. Ad un certo punto la base spaziale di Nick Fury viene evacuata perché si e per evitare morte certa l'equipaggio deve farsi fagocitare temporaneamente dagli alieni-gatto, ma pur di salvarsi scappano tutti via impauriti (???); il potere dei bracciali è troppo potente per poter essere sopportato dalla cattiva, ma Kamala Khan invece riesce tranquillamente a farlo suo subito, perché altrimenti non ci sarebbe stata una risoluzione; e nel finale, per donare quella inutile drammaticità che invece a torto si ritiene necessaria, Monica Rambeau richiude la fessura interdimensionale sigillandosi in un altro universo quando avrebbe potuto farlo tranquillamente restando nel proprio, altrimenti non poteva ritrovarsi nel mondo degli X-Men nella scena post-titoli.



Tutti buchi che alla fine fanno anche sorridere, visto la sciatteria di tanti altri prodotti Marvel. A urtare è semmai il tono della storia, tutto sommato serio, che risulta fuori luogo e persino ridicolo quando ci si accorge di stare guardando una vera e propria parodia.
Perché il piano di Dar-Benn di rubare l'atmosfera da un altro pianeta è praticamente quello di Mel Brooks in "Balle Spaziali", ma alla Marvel evidentemente questa cosa l'hanno voluta ignorare. I dialoghi sono atroci, ma recitati sempre in modo serissimo. Con in più una performance da parte di Zawe Ashton talmente sopra le righe da divenire subito grottesca.
La CGI sembra quella di una produzione a basso budget, alla faccia degli oltre duecento milioni spese per la produzione; e tocca il fondo negli effetti di volo delle eroine, che fanno rimpiangere quelle del primo film su Superman.
Quando poi si arriva all'episodio in cui le protagoniste giungono su di un pianeta dove tutti ballano e cantano per comunicare e Carol Denvers è praticamente una principessa Disney, si ha davvero la sensazione di assistere ad una parodia scambiata dagli autori per un film d'avventura da prendere sul serio, ad una sequenza scritta per parodizzare la scemenza insita nelle scene di canto dei cartoni Disney, ma che invece viene scambiata come semplicemente umoristica, qualcosa non di cui ridere ma alla cui vista bisogna sorridere. La cosa che fa più ridere è che, come ai tempi di "Spider-Man 3", sembra che ad Hollywood non si sia ancora capita la differenza tra ironico e ridicolo.




Alla fine si è quasi dispiaciuti di un esito così desolante, visto che qualcosina di simpatico in 106 minuti di cretinate assortite ci sarebbe anche. Tipo l'impegno del cast, con Iman Vellani e Teynoh Parris che si divertono un mondo e persino Brie Larson che ha finalmente deciso di smetterla di caratterizzare il suo personaggio come una stitica stizzita. E per lo meno, Nia Da Costa ha avuto la decenza di ammettere di come il film sia stato totalmente concepito dallo studio, di come lei, in pratica, si sia recata sul set solo per dare l'azione e lo stop ad ogni ciak, forse per salvarsi dalle critiche, forse in un moto di onestà intellettuale. Davvero un ottimo spreco di talenti.



Viene poi da ridere quando si ascoltano le dichiarazioni della Larson, ancora convinta che il film abbia floppato a causa dei fan misogini che non accettano supereroi donne. Come se il primo film su Carol Danvers non avesse incassato oltre la bellezza di un miliardo di dollari. Evidentemente è sempre più facile dare la colpa al prossimo piuttosto che ammettere i propri errori.

lunedì 12 febbraio 2024

The Warrior- The Iron Claw

The Iron Claw

di Sean Durkin.

con: Zac Efron, Jeremy Allen White, Lily James, Harris Dickinson, Stanley Simons, Maura Tierney, Holt McCallany, Grady Wilson, Aaron Dean Eisenberg, Chavo Guerrero Jr.

Biografico/Drammatico

Usa, Regno Unito 2023










La storia dei fratelli Von Erich è talmente incredibile che poteva solo essere vera. Una serie di tragedie concatenate tra loro che hanno colpito un quartetto di star del wrestling tra la fine degli anni '70 e la seconda metà degli anni '80 talmente forti da far credere a loro stessi di essere le vittime di una vera e propria maledizione, che già in passato aveva perseguitato l'intera famiglia.
Una storia triste, ma anche tremendamente umana, dove le fatalità si intrecciano con l'intolleranza e la violenza famigliare in modo inscindibile. E che ora giunge al cinema in un dramma imperfetto, ma commovente e graziato anche da un ottimo cast.



Il primogenito Jack jr. muore ancora infante. Il secondogenito Kevin (Zac Efron) non riuscirà mai a divenire la stella che sognava di essere. David (Harris Dickinson) prende il suo posto come frontman nel team di famiglia, ma muore improvvisamente durante un tour in Giappone a 25 anni. Kerry (Jeremy Allen White) è un ex atleta olimpionico la cui carriera è stata stroncata dalla decisione del presidente Carter di non partecipare alle olimpiadi di Mosca del 1979; divenuto wrestler, arriva anche a vincere la cintura, ma perde un piede a causa di un incidente in motocicletta; dopo una dolorosa riabilitazione, torna sul ring, ma l'impossibilità di tornare ai livelli di un tempo lo porta alla depressione e la mancanza dell'appoggio del padre lo porta poi al suicidio, a 33 anni. L'ultimogenito Mike (Stanley Simons), aspirante musicista, partecipa su insistenza del padre ad un incontro di beneficenza in omaggio alle tragedie che hanno colpito i fratelli, ma si lussa una spalla e finisce in coma a seguito dell'operazione; uscito dal coma, perde le capacità di coordinazione motoria e non riesce più a suonare, arrivando anche lui al suicidio ad appena 23 anni.




La storia dei Von Erich viene traslata in modo abbastanza fedele. Le poche libertà vengono prese in merito alla figura di Mike, che in realtà, pur riluttante, ebbe una carriera dignitosa nella lotta e si importunò durante un tour in Israele, era sposato, cristiano rinato e aspirante cameraman (passione che fa capolino in un unico dialogo). I problemi di droga dei fratelli vengono talvolta celati, come nel caso di David, talaltra usati a soli fini drammaturgici, come con la storia di Kerry. Si tende ad imbellettarne in parte le figure, ma la loro tragedia, anche al netto della tossicodipendenza, non appare nella realtà meno commovente di quanto mostrato su schermo.
Quello di Sean Durkin è un lavoro tutto sommato facile e già visto: ricrea tale tragedia usando una duplice chiave di lettura, ossia da un parte il dramma famigliare puro, con l'unione tra fratelli che si sgretola a causa delle vicissitudini, dall'altra un ritratto impietoso di una figura paterna distruttiva.




Il personaggio di Fritz Von Erich viene affidato al solido Holt McCallany, reduce dall'ottimo e purtroppo obliato "Mindhunters", e caratterizzato come un padre-padrone, un uomo ossessionato dalla volontà di trasformare i figli in superstar per rifarsi di una carriera dignitosa, ma che non è mai sfociata nel successo vero e proprio. Un uomo "vecchio stampo", insensibile e orgoglioso, la cui mancanza di empatia finisce per distruggerne la famiglia.
Una virilità distruttiva, la sua, contrapposta a quella di Kevin, il "fratello maggiore" che diventa pur inavvertitamente vero riferimento paterno del gruppo. Un uomo tanto granitico quanto sensibile, per il quale il dolore diventa un veleno che lo porta alle soglie del sadismo: quel climax con l'agognato scontro con Ric Flare viene riletto come il momento nel quale Kevin sta per cedere al suo lato sadico, a quella cattiveria gratuita propria del genitore che riesce a scansare solo all'ultimo momento, salvandosi da un destino di violenza gratuita.




La regia di Durkin è fin troppo flemmatica; risulta efficace nel dar corpo al dramma persino quando decide di utilizzare visioni enfatiche, come il sogno finale di Kevin, che sulla carta sarebbe potuto risultare melenso, ma che su schermo riesce davvero a colpire; pur tuttavia, non dà la giusta fluidità al racconto, che talvolta risulta sin troppo pesante, persino per un dramma cupo del genere.
Il cast, d'altro canto, è ineccepibile. Oltre a McCallany, a brillare è ovviamente Zac Efron, che da anni cerca una forma di legittimazione come interprete e che ora ha un altro buon biglietto da visita dopo "Ted Bundy- Fascino Criminale". Il suo Kevin è massiccio e dolente, un lottatore distrutto dalla vita che usa l'amore verso la famiglia come appiglio contro la depressione, il cui volto granitico (la cui immobilità è il risultato della ricostruzione chirurgica dovuta ad un incidente nel quale Efron si è distrutto la mandibola) fa trasparire perfettamente il suo immenso dolore.



Nonostante qualche imprecisione ed uno stile talvolta impacciato, "The Iron Claw" riesce ad essere toccante, cosa decisiva per la sua riuscita come dramma.

giovedì 8 febbraio 2024

Anatomia di una Caduta

anatomie d'une chute

di Justine Triet.

con: Sandra Hüller, Swann Arlaud, Antoine Reinartz, Milo Machado Graner, Samuel Theis, Jehnny Beth, Saadia Bentaïeb, Camille Rutherford.

Drammatico

Francia 2023














Che cos'è la verità? E' un concetto effettivo o dipende davvero da un dato punto di vista?
In un mondo dove ognuno può effettivamente dire la propria, dove chiunque ha pari accesso ai mezzi di informazione in modo attivo e non semplicemente passivo, una forma di verità oggettiva può non esistere, soprattutto in riguardo a quei fatti di cui non si ha testimonianza diretta. Si è giunti così ad un concetto di "post-verità", secondo il quale non conta più ciò che accade davvero, ma ciò che si decide sia davvero accaduto.
"Anatomia di una Caduta" è una riflessione su questo, ossia sulla fluidità del concetto di vero. Intesse una riflessione con uno strumento narrativo abusato al cinema, ossia quello del dramma giudiziario, tanto che alla mente non possono che arrivare altri classici sull'argomento, in primis l'ancora influente "Rashomon". Eppure, l'esito dell'opera di Justine Triet non è del tutto convincente.




Non esiste verità in "Anatomia di una Caduta"; a differenza di molti altri drammi giudiziari, alla fine non c'è nessun colpo di scena che chiarifica l'accaduto. Tutto viene lasciato in sospeso: non è dato sapere se Sandra Voyter (Sandra Hüller) è colpevole o se il marito Samuel (Samuel Theis) si è effettivamente suicidato. Il punto non è ciò che è accaduto, ma ciò che si vuole credere, partendo comunque dal presupposto che la testimonianza del piccolo Daniel (Milo Machado Graner) è comunque fallata, creata ad hoc per costituire un alibi o per dimostrare la vera innocenza della madre.
Non ci viene mostrato l'accaduto in modo diretto, neanche in modo suggerito, solo tramite le ricostruzione fatte in tribunale. Come spettatori, non sappiamo cosa sia accaduto e non possiamo di conseguenza giudicare nulla.




Ogni affermazione fatta durante la ricostruzione degli eventi viene subito questionata. Ogni teoria è al contempo valida e invalida, vera e falsa. Il meccanismo di costante antitesi sussiste anche grazie all'ambientazione geografica: nel sistema giudiziario francese è possibile escutere contemporaneamente testi, periti e imputato, lasciando correre un costante botta&risposta senza che nessuno possa mai davvero avere l'ultima parola.
Su di un piano strettamente drammaturgico, tale costruzione funziona e trova persino una ragion d'essere su di uno più smaccatamente giuridico. Nei processi, di fatto, non si ricerca mai davvero la verità assoluta dei fatti, si cerca solo di capire se, sulla base delle prove assunte, si possa condannare o meno l'imputato. Ovverosia, già nelle aule di tribunale, già nella realtà effettiva al di là dello schermo, è impossibile davvero capire cosa e quale sia la verità dei fatti di volta in volta contestati.
Se tale assunto traspare perfettamente per tutta la durata del film, la Triet talvolta si dimostra fatalmente indecisa su che significato dargli effettivamente.


Poiché una volta appurato che, letteralmente, la verità è inconoscibile, "Anatomia di una Caduta" inizia a girare in tondo, a ripresentare costantemente lo stesso assunto. Quando dovrebbe traslarlo nel mondo dei media, si dimostra piuttosto e stranamente timido: i giornalisti sono una presenza effettiva nei processo, ma volatile, la questione di una possibile manipolazione dei fatti viene anche messa sul tavolo, ma mai davvero approfondita o anche solo enfatizzata a dovere.
Allo stesso modo, quando deve affrontare il tema della violenza in famiglia, il film si dimostra ancora più timido, lasciandola non solo fuori campo, ma anche fuori da qualsiasi discussione.




Così come il personaggio del romanzo di Sandra e Samuel si trova a vivere in una doppia realtà e noi come spettatori ci ritroviamo ad assistere ad un avvenimento dalla doppia natura, anche il film vuole essere al contempo un saggio sulla fallacia della percezione del reale e sulla crisi del rapporto di una coppia di intellettuali, senza però mai riuscire a trovare una dimensione effettiva, né un valore che vada oltre la semplice attestazione di intenti.
Il lavoro della Triet è così corretto su di un piano puramente filosofico, ma debole su quello effettivamente drammatico. Nella messa in scena, la blandezza stilistica tipica di tanto cinema odierno trova persino la sua ragione d'essere, con un costante uso della camera a mano volto a restituire un senso voyeuristico degli eventi, ma alla fine nulla lascia davvero il segno. 
Tanto che persino la vittoria ottentuta a Cannes risulta eccessiva.

lunedì 5 febbraio 2024

The Holdovers- Lezioni di Vita

The Holdovers

di Alexander Payne.

con: Paul Giamatti, Dominic Sessa, Da'Vine Joy Randolph, Carrie Preston, Brady Hepner, Ian Dolley, Michael Provost, Jim Kaplan, Naheem Garcia, Andrew Garrman.

Usa 2023















Si parla spesso, negli ultimi anni, di come il cinema americano abbia perso la sua capacità di parlare delle persone, di creare ritratti umani credibili o anche solo riusciti, preferendo spesso l'esagerazione o l'idealizzazione; o, anche, di come non riesca a creare storie con dei valori effettivi, sostituendo a questi un cinismo facile e comodo o, peggio, scadendo nel melenso, quando ci prova.
Alexander Payne, quest'anno, decide di ricordarci di come sia ancora oggi possibile fare un film con un vero "cuore umano", dove i personaggi siano credibili e empatici, non semplici macchiette usate per dare un qualche messaggio.




Inverno 1970. Alla Barton, scuola superiore privata per i rampolli delle ricche famiglie yankee, non tutti tornano a casa per le vacanze natalizie. Il professor Paul Hunham (Giamatti), insegnate di storia antica, passa come al solito le feste al campus dietro ai suoi libri. La capo-cuoca Mary (Da'Vine Joy Randolph) decide di non raggiungere la famiglia della sorella minore in ossequio al lutto per la scomparsa del figlio Curtis. Mentre lo studente Angus Tully (Dominic Sessa) si ritrova bloccato a scuola dopo che la madre, da poco risposatasi, cancella la vacanza organizzata in precedenza a causa degli impegni del neo-marito.



"Hodovers", ovverosia residui, pezzi di qualcosa lasciati indietro perché inutili. I tre protagonisti sono residui di un qualcosa che hanno avuto, perso o che non sono riusciti ad avere e si ritrovano ora isolati non solo fisicamente, abbandonati a loro stessi non solo all'interno di un istituto tagliato fuori dal mondo, ma soprattutto emotivamente.
Quel qualcosa è una famiglia e le relazioni affettive che essa comporta, istituzione che, in un modo o nell'altro, è a loro aliena. Tutti e tre sono genitori mancati o figli orfani. Paul surroga la mancanza di una relazione con la cultura, la quale diventa così un'ossessione per colmare un vuoto interiore che dice di non avere, ma che è in realtà avvertibile, con tale discrasia simboleggiata dal suo strabismo. Mary non ha ancora elaborato la morte del figlio, ucciso in Vietnam non ancora ventenne. Mentre Angus soffre per lo sgretolamento del suo nucleo famigliare, tematica centrale di tutta la storia.




E' la fine dei rapporti famigliari che porta alla crisi interiore (e esteriore) dei personaggi: il rapporto genitore-figlio, in particolare, quando reciso, distrugge il singolo. 
Anche gli altri studenti della Barton soffrono a causa di un ménage famigliare talvolta non idilliaco, come quello della promessa sportiva Jason, in lotta con il padre per il suo look para-hippie, o quello del coreano in trasferta Park, distrutto dalla lontananza forzata.
Per Angus la situazione è più complessa. Adolescente, ossia bloccato in quell'età dove la figura genitoriale è, volente o nolente, essenziale, si ritrova senza un padre e con una madre che lo ha letteralmente abbandonato a sé. Da cui la sua spasmodica ricerca di una figura affettiva che trova (anche se solo alla fine) in Paul.




Paul, dal canto suo, è un uomo senza legami e dei quali apparentemente neanche sente la necessità. A differenza degli altri due protagonisti, si è costruito un ideale Eden nel quale sguazza compiaciuto della sua superiorità intellettuale sul prossimo. Non un cinico, quanto un uomo deluso dalla vita (l'incidente che lo ha portato ad essere cacciato da scuola in gioventù) che ha deciso di non coltivare rapporti umani che siano tali a causa di quel dolore ancora avvertibile, anestetizzato con litri di Jim Bean. Tanto che persino quella redenzione finale non è una forma di ripensamento, quanto un atto di coerenza verso la missione intellettuale e lavorativa. Con lui, Payne non vuole raccontarne la trasformazione da "orso" a uomo, quanto descriverne l'indole a suo modo empatica, la quale nasconde un'anima pulsante già quando sotterrata dallo sprezzo verso il prossimo. Il suo rapporto con Angus diventa così quello di un mentore, non di un padre, che ne capisce le necessità e decide di aiutarlo non per aiutare se stesso, quanto una persona dalle grandi potenzialità.
La storia di Mary, d'altro canto, avrebbe forse necessitato più spazio. Il suo è un semplice racconto di lutto, l'elaborazione della perdita del primo e unico figlio la quale passa per tutti gli stadi possibili, compreso il rigetto momentaneo di un nuovo amore. Nulla di nuovo, né di particolarmente profondo, ma tale parte della narrazione riesce lo stesso a convincere grazie alla scrittura e alla buona performance di Da'Vine Joy Randolph.
Ed a convincere in generale è soprattutto il tono usato nella narrazione: non si ricerca mai l'effetto drammatico ad ogni costo, non si scade mai nel melò puro, anzi, come nel miglior cinema umanista, si lavora spesso di sottrazione, lasciando che le scene risultino efficaci grazie alla sottigliezza di scrittura e alle interpretazioni.




Come Bogdanovich in "Paper Moon", anche Payne opta per una messa in scena che riprenda i crismi del cinema dell'epoca in cui si svolge la storia, soprattutto nell'estetica. L'apertura del film con i loghi d'antan delle case di produzione genera già da sé un'atmosfera retrò, acuita poi dall'uso del filtro pellicola, che fa sembrare tutto il film girato in analogico, tanto che la scelta di girarlo di digitale appare persino stramba. L'uso di obiettivi zoom e panoramiche permette un'ottima ricostruzione dell'effetto vintage, ma fortunatamente la regia non si appiattisce mai sulla pura exploitation, sulla ricerca di un'estetica datata per il solo gusto di. 
L'attenzione di Payne è in realtà perennemente rivolta ai personaggi, alla storia più che al racconto, tanto che alla fine tale scelta estetico-stilistica finisce davvero per risultare gustosa e non pedante. Soprattutto, alla fine sembra quasi voler stabilire una dichiarazione politica con un rimando a quel periodo storico nel quale il cinema americano era davvero lo specchio della gente comune.




"The Holdovers" è così un dramma intimista riuscito ed empatico, che riesce davvero a comunicare una sensazione di gentilezza portando in scena dei drammi credibili. Come il miglior cinema umanista sa fare, forse ancora oggi.