martedì 31 ottobre 2023

Donnie Darko

di Richard Kelly.

con: Jake Gyllenhaal, Jena Malone, Mary McDonnell, Drew Barrymore, Noah Wyle, Maggie Gyllenhaal, Holmes Osborne, Katharine Ross, Patrick Swayze, Beth Grant, Daveigh Chase, Patience Cleveland.

Usa 2001
















Il destino di alcuni film è dettato dalle circostanze in cui questi vedono la luce (e il buio della sala) più che dagli elementi che li costituiscono. E' il caso di "Donnie Darko", quel cult ancora indimenticato ed esordio dello sfortunato Richard Kelly passato dall'essere flop subito obliato ad amatissima pellicola di culto non solo grazie alla sua natura di opera radicalmente originale e strana, quanto soprattutto al contesto storico nel quale è stata prodotta. 




La storia, in merito, è affascinante e complessa come quella di molti cult movie. 
Kelly scrive lo script nella seconda metà degli anni '90, appena laureato, e inizialmente altro non è se non una versione estesa del suo corto "Visceral Matter", creato come tesi di laurea e anch'esso strutturato su di una serie di viaggi nel tempo. Script che, fatto girare per gli studios, ottiene l'interesse di Jason Schwartzman, all'epoca star in ascesa grazie al successo di "Rushmore", che porta così Kelly e il produttore e amico Sean McKittrick ad ottenere l'appoggio della Flower Film, piccola casa di produzione co-fondata da Drew Barrymore, all'epoca una delle star più in voga ad Hollywood. 
Ottenuto un piccolo budget, appena avviata la produzione il film perde la sua star, con Schwartzaman che si defila a causa di una sovrapposizione di impegni; perdita che si rivelerà in realtà una benedizione, visto che permette a Kelly di ingaggiare Jake Gyllenhaal, il quale si rivelerà semplicemente perfetto per quel ruolo che gli permetterà di iniziare la sua scalata allo stardom.




Completate le riprese, il film viene presentato al Sundance Film Festival, dove però l'accoglienza è a dir poco fredda, cosa strana visto che a prima vista sembrerebbe un prodotto creato su misura per il tipo di pubblico che solitamente lo frequenta (tanto che se rivisto oggi e contestualizzato in quel 2001, sembra la fusione perfetta tra le pretese artsy del cinema indipendente anni '80 e l'estetica hipster degli anni '00). Su istanza della produzione, Kelly decide così di accorciare il montato finale e inizia a cercare qualcuno in grado di distribuirlo in sala. Cosa che avviene solo grazie all'intercessione di un giovane Christopher Nolan e di sua moglie Emma Thomas, all'epoca forti del successo di "Memento".
Ottenuta la distribuzione, fissata per Halloween 2001, avviene l'impensabile, ossia l'11 Settembre e il resto risulta anche alquanto scontato: il pubblico non vuole saperne nulla di un film su di un adolescente problematico che alla fine muore a causa di un aereo che si schianta contro una casa. Il flop è servito e sembrava che "Donnie Darko" dovesse finire irrimediabilmente nel dimenticatoio, finché qualcosa di strambo non è accaduto.
A circa un anno dall'uscita in patria, arriva in Inghilterra dove invece il successo di pubblico, benché non trascinante, non manca. Sembra finalmente che ci sia effettivamente pubblico per questo bizzarro oggetto d'autore, mix di dramma adolescenziale, love-story e fantascienza post-moderna; grazie così ad una campagna virale ispirata a quella di "The Blair Witch Project", il film torna in sala anche in Usa e soprattutto viene distribuito in DVD dalla Fox, venendo così riscoperto da quel pubblico di riferimento che lo aveva ignorato giusto qualche tempo prima (in Italia arriverà solo nel 2004, grazie alla allora neonata Moviemax).
Così, tra proiezioni di mezzanotte e infinite discussioni sui forum sull'effettivo significato del film, "Donnie Darko" diventa uno dei pochi, veri cult degli anni '00 e i suoi elementi estetici, come l'iconografia di Frank il Coniglio e la colonna sonora, diventano parte integrante della cultura popolare.
A oltre vent'anni di distanza dalla nascita di questo fenomeno, bisogna quindi chiedersi qual è il valore effettivo di "Donnie Darko" e persino quale il suo effettivo significato.




"Donnie Darko" è praticamente due film in uno. E contando che ne esistono due versioni, la theatrical e la director's cut, è praticamente quattro film.
Partendo da quest'ultimo aspetto, è davvero difficile stabilire quale sia la versione superiore e persino quale delle due visioni sia quella effettivamente voluta da Kelly. La theatrical nasce sicuramente come versione di compromesso per la distribuzione, ma a parte un pugno di scene eliminate, non presenta nulla che di fatto non sia stato voluto dal regista. L'uso della musica originale di Michael Andrews e la durata più corta portano ad una fluidità del racconto decisamente maggiore che rende il tutto più godibile, oltre a presentare un'atmosfera onirica decisamente più marcata e affascinante. Di contro, l'esclusione degli inserti su libro "La Filosofia del Viaggio nel Tempo" rende la traccia fantastica ai limiti dell'inintelligibile e finisce persino per alterarne ogni possibile interpretazione da parte dello spettatore che non ha seguito tutte le spiegazioni riportate sul sito ufficiale del film, vera e propria "bibbia" per decodificare tutti i simboli, i simbolismi e i rimandi filosofici sparsi per tutta la durata.
Viceversa, la director's cut, creata praticamente per speculare sul ritrovato successo del film, rende l'elemento fantastico decisamente più comprensibile, anche se non in maniera didascalica e lasciando lo stesso il giusto alone di mistero, ma rende il racconto più farraginoso e l'atmosfera onirica meno pregnante.
In entrambe le versioni, tuttavia, risalta lo stesso la capacità di Kelly di fondere la descrizione del malessere adolescenziale con una storia sci-fi complessa e affascinante, ossia il vero motivo per il quale il film merita di essere amato.




L'ambientazione anni '80 non deve trarre in errore: il personaggio di Donnie è innanzitutto una sorta di archetipo dell'adolescente "problematico", il cui comportamento, le cui paure, insicurezze e incertezze caratterizzano i ragazzi di praticamente ogni era. Al contempo, è la personificazione di quella generazione nata nei primi anni '80, coloro che erano adolescenti all'uscita del film, stretti tra il vuoto della Generazione X e quello degli emo, condannati ad essere troppo sensibili rispetto alla prima e troppo cinici rispetto ai secondi. Ragazzi (ora adulti) nati e cresciuti in un mondo dove la frivolezza ha fagocitato ogni tipo di valore creando un abisso tra i loro bisogni e la ricettività degli adulti. Adulti che nel mondo di "Donnie Darko" sono quasi tutti figure incapaci. 
Si parte dai genitori, con i quali il ragazzo non riesce ad avere un rapporto serio, come quando la madre cerca di capire invano cosa l' attanaglia; genitori che preferiscono così delegare l'effettivo ascolto alla figura della psichiatra (interpretata da una Katherine Ross che decise di tornare a recitare perché colpita dalla profondità dello script), l'unica in grado di recepire paure e insicurezze, ma ovviamente non in grado di fornire l'appoggio affettivo e umano del quale Donnie necessita. Nella director's cut è però presente una scena bella e importante nella quale lui e il padre riescono ad avere finalmente un discorso, nel quale quest'ultimo gli confessa di essere stato anche lui un "adolescente problematico" e di aver capito come, in realtà, fossero gli adulti ad essere davvero problematici.




Allo stesso modo, il mondo della scuola è un vero e proprio universo alieno dove nessuno è in grado di dare un indirizzo sensato ai giovani. 
La figura più mostruosa, qui, è quella della professoressa di educazione fisica, la sig.ra Farmer (Beth Grant), la quale impone ai ragazzi la filosofia di vita di un guru, Jim Cunningham (il compianto Patrick Swayze, in un ruolo in realtà lontano dal glamour che lo rece celebre), che limita lo spettro delle emozioni in amore e paura, radicalizzando la visione freudiana di Eros/Thanatos e appiattendo l'esperienza umana su due poli opposti e inconciliabili, creando così solo confusione in chi cerca risposte alla complessità dell'esistenza. Un vero e proprio "anticristo" che Donnie sbugiarda e il cui ruolo di distruttore dei giovani viene centuplicato quando lo si scopre pedofilo irredento.
Al contempo, la sig.ra Farmer è anche la personificazione di quel bigottismo americano (e universale) che non concepisce altre forme di cultura oltre la propria, da cui il rigetto della letteratura di Graham Greene, tacciata come "pornografica" (e con l'autore scambiato per Lorne Greene) perché descrive in modo preciso la violenza e il ribellismo giovanile, sberleffo a quelle campagne d'odio che i mass media lanciavano trent'anni fa come oggi verso tutte quelle forme narrative ritenute a torto come nocive per i giovani. Il fatto poi che lei stessa non si renda conto di come i balletti fatti fare dalle ragazzine che lei stessa patrocina siano più diseducativi di tutta la letteratura possibile, è un contrappunto ironico e graffiante.




Gli unici davvero maturi nel contesto del film sono la professoressa di lettere Pomeroy e quello di fisica Monnotoff (Noah Wyle), suo compagno. La Pomeroy (alla quale Drew Barrymore presta il volto, caricandola di una sottile dose di sensualità) è colei che cerca di stimolare i ragazzi alla riflessione tramite la lettura e forgiandone i rapporti interpersonali (è lei che fa letteralmente incontrare Donnie e Gretchen, avviandone la love-story); non per nulla, viene licenziata con l'accusa di averli sviati. Monitoff è invece in parte figura guida, spiegando a Donnie il funzionamento quantistico dell'universo, in parte tutore che guida gli studenti a comprendere l'effettivo valore delle esperienze, come nella lezione sull'invenzione di Donnie e Gretchen, ma il suo apporto sembra comunque essere in larga parte inutile per le necessità degli alunni.
L'ultima adulta, Roberta Sparrow, detta "Nonna Morte", è quella che in un ideale cammino dell'eroe avrebbe tutorato il protagonista, aiutandolo a compiere l'impresa, ma il suo ruolo attivo finisce per essere minimo, contribuendo solo grazie alle pagine del libro che scrisse e che permette a Donnie di comprendere la situazione surreale in cui si trova a vivere, ma solo in parte e comunque senza riuscire mai davvero a fargli compiere le azioni decisive.




In un tale contesto, in questi anni '80 che Kelly ritrae come un vero e proprio buco nero umano e culturale, i ragazzi sono lasciati a loro stessi, in balia di emozioni, sensazioni, dubbi esistenziali e materiali che così finiscono per schiacciarli; da cui lo status di paranoide di Donnie, ma anche di Gretchen e di Cherita (Jolene Purdy), sorta di suo silenziosa alter-ego.
Donnie, in particole, fulcro e punto di vista quasi del tutto esclusivo del film, da questo punto di vista incarna l'archetipo romantico del pazzo, di colui che ha un grado di coscienza superiore al resto della società omologata a valori falsi e vacui e per questo viene percepito come demente. Diagnosticatogli i sintomi di schizofrenia paranoide, afflitto da sonnambulismo e da quelle visioni che vengono considerate come semplici allucinazioni (inizialmente tutta la narrazione gioca sull'effettiva possibilità che Frank il Coniglio non sia altro che il parto della sua mente, benché tutti gli indizi sul fatto che sia reale siano sempre presenti), Donnie è una sorta di profeta maledetto, una figura cristologica che indica la via della salvezza solo per essere biasimato per i suoi comportamenti. Un ragazzo che si ritrova isolato in sé stesso (magnifica la scena iniziale, con lui che si risveglia nel mezzo del nulla, sorta di risveglio apofatico che ne simboleggia lo status di individuo in un mondo di spettri) e che trova una forma di simpatia solo in quelle figure femminili speculari (Gretchen e Cherita, appunto) anch'esse marchiate dal dramma e alienate dal resto della società.
Laddove il ritratto giovanile è di facile comprensione e rappresenta il tratto per il quale "Donnie Darko" risulta riuscito e soprattutto godibilissimo anche per chi non ne riesce a comprendere la totalità della storia (ossia un buon 99% di chiunque lo abbia visto), la componente fantastica è decisamente ostica e sin troppo complessa, variando anche di significato a seconda della versione del film.



Per comprenderla, occorre innanzitutto comprendere la forma dell'universo del film e la filosofia che la informa, elementi carpibili solo all'interno della director's cut.
L'universo di "Donnie Darko" si basa sulla concezione einsteniana del creato. Il tempo è relativo, connesso allo spazio e alla gravità ed esistono infinite possibilità che si sostanziano in infinite linee temporali; con la differenza, rispetto a quanto visto in molte iterazioni fantastiche anche recenti, che queste coesistono tutte all'interno del medesimo universo, non sono distinte da "spazi tra gli spazi". Pur tuttavia, è possibile bucare il tessuto della realtà tramite uno dei famosi ponti di Einstein-Rosen, i "wormhole" che permettono di muoversi a ritroso nel tempo e attraverso le diverse possibilità del reale. Pur tuttavia, ciò comporta rischi immani.
La vicenda fantastica ha inizio quando un oggetto estraneo, il reattore di un boeing, attraversa un wormhole, evento che non si limita a spostarlo da un regno della possibilità ad un altro, ma finisce per creare un nuovo universo, un universo secondario rispetto a quello "reale" che prende il nome di "universo tangente"; pur tuttavia, l'esistenza di un oggetto alieno all'interno di tale nuovo universo lo rende instabile sul piano materiale, andando a sovraccaricarne la massa fisica (si pensi alla famosa goccia che fa traboccare un vaso già pieno). L'universo tangente collasserà quindi in circa 28 giorni, ossia il conto alla rovescia che Frank rivela a Donnie al loro primo incontro. 
La vera conseguenza di tale singolarità è però persino più apocalittica: l'universo tangente è collegato a quello principale, collassando su sé stesso creerà un buco nero che finirà per inghiottire l'intero piano dell'esistenza, annichilendo letteralmente tutto il creato. Per evitare la distruzione totale e definitiva, il reattore deve quindi essere riportato nell'universo originario prima della scadenza del countdown. Ed è qui che entra in gioco Donnie.




Donnie è una sorta di prescelto, definito "il ricettore vivente". Tale ruolo è casuale, così come casuale è il fatto che sia proprio un reattore ad essere l'oggetto transdimensionale (è facile però pensare che nell'universo principale si sia staccato dall'aero che riporta a casa la madre di Donnie nel finale, da cui anche la risoluzione che il ragazzo dà agli eventi, in un loop totalizzante). Il suo ruolo di "agente del destino" gli garantisce dei veri e propri superpoteri, come la telecinesi, che nel finale usa per staccare il reattore dall'aereo in volo e farlo passare attraverso il buco nero che connette l'universo tangente con quello principale, ristabilendo l'equilibrio; il suo status di "supereroe" viene persino sottolineato da Gretchen al loro primo vero incontro.
Laddove Donnie è l'agente, Frank è il deus ex machina, il burattinaio che crea quelle situazioni che portano Donnie a prendere la decisione finale. Ruolo che in realtà ha anche Gretchen. Entrambi sono i "morti manipolati", ma sarebbe meglio definirli come "manipolanti" visto il ruolo attivo che hanno nel forgiare gli eventi, e si contrappongo ai "vivi manipolati", ossia i personaggi viventi il cui destino viene cambiato dai morti per garantire la salvezza dell'universo. Quando poi l'equilibrio viene ristabilito, la realtà ripiega su sé stessa e gli eventi accaduti nell'universo tangente svaniscono, i vivi manipolati dell'universo principale ricevono i ricordi delle loro controparti dell'universo secondario sotto forma di sogni, da cui il montaggio finale.




Frank è il crononauta che in punto di morte riesce a viaggiare a ritroso nel tempo (sempre all'interno dell'universo tangente) per creare quel sentiero che Donnie seguirà. E' lui che gli salva la vita facendolo uscire di casa durante la notte dell'incidiente, che gli sarebbe stato fatale; è sempre lui che lo ispira ad allagare la scuola, evento che porta alla creazione del rapporto con Gretchen. E' sempre lui a rivelargli l'ubicazione della casa di Jim Cunningham, il cui incendio doloso porta la sig.ra Farmer ad abbandonare la gita con il gruppo di ballo, forzando la madre di Donnie ad accompagnarle, lasciando la casa, il che permette a Donnie e Gretchen di unirsi, a Frank (che in via sottile si rivela essere il fidanzato della sorella maggiore di Donnie) di trovarsi a casa di "Nonna Morte" e uccidere Gretchen.
Frank è il manipolatore attivo, mentre Gretchen quello passivo: è lei che dà a Donnie la forza di superare quella sua innata paura di morire da solo, gli regala l'unico vero rapporto umano completo (sia fisico che emotivo) ed è la sua morte che lo porta alla convizione definitiva di salvare l'universo.




L'universo in cui Donnie e gli altri personaggi si muovono (a partire dalla scena del primo incontro con Frank) è quindi quello tangente, ossia un mondo fasullo, da cui il simbolismo che Kelly usa per tutto il film. Il mondo di Donnie è falso e lui ne è in qualche modo cosciente, le persone che incontra non sono che dei riflessi di quelle reali, abitanti dell'universo primario; da cui i simboli carrolliani dello specchio e del coniglio, che Kelly fa totalmente suoi.
Già nei video di auto-aiuto di Cunningham viene affermato come sia necessario guardare sé stessi attraverso (e quindi al di là) dello specchio, poiché l'immagine riflessa in essa è quella reale, mentre quella che si ritiene reale è per forza di cose artefatta. Donnie incontra spesso Frank davanti allo specchio nel quale conserva le medicine (da cui la sottilissim ambiguità secondo cui potrebbe essere il parto della sua mente) e quando cerca di toccarlo è bloccato da una superficie solida e trasparente, come quella di un vetro che li separa, resa ancora più netta dalla contrapposizione tra campi nel montaggio che li impedisce di apparire nella medesima inquadratura fino alla scena del cinema.
Frank è poi il coniglio che porta Donnie in un altro mondo, o, per meglio dire, colui che lo accoglie all'interno di questo nuovo mondo nel quale si ritrova suo malgrado ad esistere, mostrandogli la profondità di questa sua "tana" e indicandogli la via d'uscita.
L'altro parallelo intessuto da Kelly (questo però presente solo nella director's cut) è quello con "La Collina dei Conigli" di Richard Adams. Oltre all'ovvia corrispondenza faunistica, tratteggia il suo proatonista come una sorta di immagine speculare di Quintilio (Fiver in originale), il coniglio afflitto da visioni di morte, il quale riesce a mettere in salvo il suo branco dalla ditruzione del boschetto, ossia del loro mondo. Con la differenza che Quintilio non viene ostracizzato a causa del suo potere.




Altrettanto complesso è la nozione di destino all'interno del mondo del film. In esso coestistono sia il concetto di fato che di libero arbitrio. Gli esseri umani sono guidati da una linea invisibile che seguono durante i loro spostamenti, una specie di linea del destino che parte dal plesso solare e che Donnie è in grado di percepire forse a causa dei poteri dei quali è stato insignito. Pur tuttavia, essa sembra generarsi solo a seguito di una decisione presa spontaneamente, da cui la sua rappresentazione di entità fluida (ricamata, per stessa ammissione del regista, dall' agente dell'entità aliena di "The Abyss"), da cui possibilità di manipolarla, tanto che Frank sembra poterlo fare, mostrando a Donnie il luogo in cui il padre custodisce la pistola che lo porterà alla morte.
Uno dei dialoghi chiave del film riguarda proprio la dicotomia solo apparente tra destino prestabilito e destino mutabile: laddove una persona ha la coscienza del proprio destino, esso diventa malleabile; pur tuttavia, il destino per sua stessa definizione è immutabile, dunque esso può davvero essere mutato? A ciò il film da una risposta positiva, visto che nel finale l'eroe riesce davvero a salvare il mondo. Ma resta un quesito sull'effettiva esistenza di Dio e sul suo ruolo sugli eventi.
In questo è lo stesso Donnie ad essere chiaro, dicendo di credere in Dio e di come egli in realtà non interferisca con gli esseri viventi, prendendo una posizione esplicitamente agnostica.




Laddove la forma dell'universo è tanto complessa quanto flessibile e lo script riesca ad elaborare una trama che fa della costruzione dell'azione un crescendo di eventi che si dovrebbero incastrare alla perfezione, restano lo stesso un paio di elementi quantomeno ambigui.
Il primo riguarda il termine "cellar door", la porta della cantina, interpretato da Donnie come quella dello scantinato della casa di Nonna Morte, luogo nel quale gli eventi finali prendono piede e da dove inizia a delinearsi il cammino che lo porterà alla decisione finale. Tale termine appare praticamente in modo casuale, scritto dalla sig.ra Pomeroy sulla lavagna, decisione di scrittura alquanto stramba se si pensa alla sua estrema importanza, tanto che sarebbe stato più sensato se fosse stato Frank a sussurrarglielo.
Il secondo riguarda la decisione finale di Donnie di restare nel proprio letto una volta lanciato il propulsore attraverso il wormhole, cosa che avrebbe potuto evitare data la coscienza degli eventi traslatagli dall'universo tangente (è sancito esplicitamente come l'agente ritenga anche i ricordi creatisi nell'universo secondario), forse indice della sua maturazione come persona, del superamento della sua paura di morire da solo. Il tutto però non è chiaro ed è forse dovuto allo stile di scrittura ottuso di Kelly, figlio anche della sua poca esperienza come filmmker.




Questa è però la spiegazione degli eventi rinvenibile della director's cut; nella theatrical cut, invece, la traccia sovrannaturale assume dei connotati diversi, più vaghi perché rimessi totalmente all'interpretazione dello spettatore e per questo in senso lato meno oggettivi e più rivolti all'interiorità del protagonista.
Lasciando fuori da montaggio gli estratti del libro, in questa versione non ci sono riferimenti all'universo tangente e alla relativa scissione da quello primario. L'universo, per quel che è dato capire allo spettatore, è uno solo e di conseguenza tutta la storia cambia radicalmente.
Frank, qui, torna indietro nel tempo non per salvare il mondo reale, ma il "mondo emotivo" di Donnie, il quale "finisce" con la morte di Gretchen. La singolarità che si vede nel finale non è il buco nero che fa collassare gli universi, ma il wormhole che collega due punti nel tempo. Il reattore non si stacca grazie ai poteri di Donnie, ma viene da esso semplicemente risucchiato, anche se fuori scena; e sempre fuori scena, Donnie decide di tornare indietro nel tempo e morire nella sua stanza per salvare la vita della ragazza. Il montaggio finale con i volti dei personaggi indica così le vite che il ragazzo ha o avrebbe toccato e quindi cambiato in un modo nell'altro.




La bellezza di "Donnie Darko" risiede nel suo fascino, dato dal mood che la regia di Kelly riesce ad evocare. Sin dalle prime battute, entriamo in una realtà sospesa, come un sogno dal quale Donnie non riesce a svegliarsi persino quando vive ancora nell'universo primario. All'epoca della sua riscoperta, Kelly citò come fonti di ispirazione il primo cinema di Peter Weir e quello di Terry Gilliam, influenze facilmente riscontrabili: a tratti il mondo di Donnie sembra davvero quello di "Picnic a Hanging Rock", solo traslato negli anni '80, mentre Gilliam viene omaggiato apertamente nella visione onirica dell'ufficio nel mare, che potrebbe essere tranquillamente inserita in "Brazil".
Eppure, l'inlufenza più avvertibile è anche quella che l'autore è più restio a citare, ossia quella del cinema di David Lynch. Come lui, anche Kelly riesce a rendere oggettiva l'interiorità del protagonista, con tutta la narrazione che potrebbe essere davvero la pura messa in scena del suo subconscio. E' singolare in merito notare come "Donnie Darko" sia praticamente coevo a quel "Mulholland Drive" del quale ha in parte in comune la struttura, con una prima parte dove viene presentato un mistero ed una seconda dove questo viene via via disvelato.




Il difetto del film? La sua natura di opera prima; Kelly ha voluto dire troppo, aggiungere troppi elementi, girare troppe scene. La sua visione originaria, vicina a quanto poi confluito nella director's cut, è fin troppo pregna di elementi e dettagli. Paradossalmente, la theatrical, pur criptica e diversa nella sostanza, riesce ad essere di più agevole visione e persino più fascinosa. Nella director's cut è poi anche forzata l'inclusione dei superpoteri che il protagonista non usa praticamente mai e che esistono solo per facilitare la risoluzione degli eventi.
Quanto all'eredità del film, va detto che, a oltre vent'anni dalla sua ascesa a cult, è ancora fortemente presente nell'immaginario collettivo. Kelly, dal canto suo, ha avuto una carriera purtroppo breve, con soli altri due film all'attivo. E la promessa di un sequel del suo cult che vada a sostituire quel "S.Darko" che altro non è se non una brutta copia d'accatto.

Bubba Ho-Tep- Il Re è qui

Bubba Ho-Tep

di Don Coscarelli.

con: Bruce Campbell, Ossie Davis, Bob Ivy, Ella Joyce, Heidi Marnhout, Lenny Pennell, Reggie Bannister, Daniel Roebuck, Daniel Schwiger, Harrison Young, Cean Okada.

Fantastico

Usa 2002















Quanti cult movies sono effettivamente nati nel corso della prima decade del XXI secolo?
In effetti davvero pochi. Certo, all'interno del cinema di genere mainstream non sono mancati grossi successi commerciali che hanno dato vita a serie infinite i cui elementi sono diventati popolari, come quella di "Saw" o di "Paranormal Activity", ma quanti film sono riusciti davvero a fare breccia nel cuore degli spettatori e ad essere "venerati" come accadeva nei decenni precedenti?
Se ci sforza, se ne possono trovare giusto due, ossia il bizzarro e affascinante "Donnie Darko" di Richard Kelly e lo strampalato e amabile "Bubba Ho-Tep" di Don Coscarelli.




"Bubba Ho-Tep" è un progetto che nasce praticamente per caso, con Coscarelli che trova una raccolta di racconti di John R.Lansdale in una libreria di Los Angeles e resta colpito dalla sinossi di uno di essi: Elvis Presley combatte contro una mummia egiziana in un ospizio del Texas.
Ottenuti i relativi diritti, avvia la produzione e sempre per puro caso riesce a portare a bordo Bruce Campbell, che qualche anno prima doveva prendere parte al quarto capitolo di "Phantasm".
A produzione finita, il film esce in sala, ma ottiene vero riscontro solo grazie all'uscita in home-video, imponendosi all'attenzione del pubblico proprio grazie alla stramberia della sua storia.




Nella scalcinata casa di riposo per anziani "Shady Rest", in Texas, è ricoverato Sebastian Haff  (Campbell), sosia di Elvis da anni confinato a letto dopo una caduta dal palco. Solo che, a quanto pare, non è un semplice imitatore, ma proprio il vero Elvis Presley, che anni prima ha deciso di scambiarsi di ruolo con il vero Haff per disintossicarsi ed elaborare la separazione da Priscilla. Sfortuna ha voluto che tutti i documenti a riguardo siano andati distrutti e il povero Re sia rimasto bloccato dentro questo suo sfigato alter ego.
Haff non è però l'unico residente importante di Shady Rest, visto che vi alloggia anche John Fitzgerald "Jack" Kennedy (Ossie Davis), il quale, dopo l'attentato di Dallas, vi è stato recluso dalla CIA e solo dopo averlo... trasformato in un afroamericano.
I due vegliardi non sono neanche gli ospiti più singolari, visto che da qualche notte, tra i corridoi, sembra aggirarsi una mummia egizia (Bob Ivy) che risucchia l'energia vitale degli ospiti... dal deretano.




A leggerla così, la storia sembra quella di un film di serie Z, magari una produzione della Troma, di quelli che fanno dell'assurdità dell'assunto e della pazzia della messa in scena il loro forte. E "Bubba Ho-Tep" ben avrebbe potuto essere uno di quei filmini da strapazzo che fanno della simpatia il loro unico punto di forza, se la mente dietro il tutto non fosse stata quella di Coscarelli. Il quale, in un certo senso, lo rende persino più strambo, perché nel portare in scena una storia folle, l'autore fonde il registro del faceto più spinto ad una forma di malinconia tangibile.
Il suo "Bubba Ho-Tep" è in un certo senso una versione senile del primo "Phantasm": entrambi trattano il tema della morte, ma laddove quest'ultimo lo faceva tramite lo sguardo di un ragazzino, il primo lo fa con quello di un anziano.




Shady Rest, letteralmente "cupo riposo", è un posto dove i miti americani vanno a morire, una specie di mausoleo dove non conta che i residenti ancora respirino e mangino, visto che è solo il loro corpo a vivere, la loro anima è morta già prima che la mummia la digerisca.
Tutti i ricoverati sono dei morti viventi i cui anni migliori sono andati, come il compagno di stanza di Haff, Bull, i cui giorni di soldato onorato al valore e focoso amante sono ridotti ad una fotografia sgualcita e mangiucchiata dal tempo pronta ad essere gettata nei rifiuti da una figlia ingrata. Così come quelli di Elvis, non più Re del Rock, non più superstar e neanche più toro da monta, è un anziano bloccato nel letto che non riesce neanche ad avere un'erezione da vent'anni e che vive credendo fermante che le uniche cose che contino nella vita siano, letteralmente, il cibo, la merda e il sesso.




L'ospizio come tomba della grandezza, quindi, sepolcro di quelle icone che hanno segnato l'America (tra cui compare persino il Lone Ranger, ridotto ad un vecchietto armato di pistole giocattolo). O forse quegli uomini non sono vere icone, ma solo persone comuni che credono di essere tali: è possibile che Haff sia solo vittima di un'allucinazione dovuta ad un lungo coma e che Jack sia solo un mitomane autoconvintosi di essere JFK dopo un'operazione al cervello (così come Kemosabe possa essere semplicemente un signor nessuno che l'Alzheimer ha fatto regredire all'infanzia). Il punto non è ciò che costoro siano davvero stati, ma quello che sono disposti a fare pur di dimostrare di essere ancora vivi.




La lotta contro il redivivo faraone acquisito texano diventa battaglia per la vita, per dimostrare di essere ancora in grado di contare qualcosa prima ancora che per la salvaguardia della stessa. Il corpo di Haff (letteralmente) si risveglia dopo il combattimento contro lo scarabeo gigante (la cui coreografia slapstick è un omaggio che Coscarelli fa all'amico Sam Raimi e alla serie di "The Evil Dead") e ritrova una ragione di vita, anche se inizialmente riluttante.
Una battaglia portata in scena con la giusta dose di humor: Haff è pur sempre una caricatura, un personaggio ridicolo anche quando rischia la vita. E in genere, l'umorismo talvolta pecoreccio non manca, come la storia delle anime risucchiate dal culo o le parolacce che la mummia vomita in faccia ai nemici. Eppure, Coscarelli riesce sempre a tenere la storia nei limiti della serietà con un vero e proprio salto mortale: prende una trama volutamente ridicola, la piega totalmente verso il serio e solo dopo vi inserisce elementi umoristici.




La bellezza di "Bubba Ho-Tep" risiede proprio in questa capacità di unire due opposti senza sbavare il tono del racconto e soprattutto senza mai scadere nel pretenzioso. Ci si riesce ad appassionare alla scombinata avventura di Sebastiana Haff e del suo amico Jack e si finisce per provare pura empatia per questo duo di derelitti che cercano di dimostrare per primi a loro stessi di avere ancora gli artigli affilati.
Il merito è non solo della bravura di Coscarelli come regista, ma anche degli interpreti: Bruce Campbell crea un Elvis sfatto irresistibile, una caricatura amara che potrebbe quasi essere una versione invecchiata del mitico Ash, mentre il compianto Ossie Davis si diverte un mondo nei panni del suo JFK nero, tratteggiato con un piglio sardonico che non ne oscura mai l'innata tristezza.




"Bubba Ho-Tep" riesce così nell'impresa impossibile di far sbellicare dalle risate e coinvolgere, sorridere e intristire, far ridere non si sé, ma con sé e al contempo far provare una forte empatia. Un'opera tanto folle quanto accorata.

lunedì 30 ottobre 2023

Phantasm: Ravager

di David Hartman.

con: Reggie Bannister, A.Michael Baldwin, Angus Scrimm, Dawn Cody, Gloria Lynn Henry, Stephen Jurtas, Kathy Lester, Bill Thornbury, Daniel Roebuck, Jon Johannsen, Cean Okada.

Fantastico

Usa 2016
















Dopo il flop di "Oblivion", la serie di "Phantasm" era praticamente finita. Il fatto che "Ravager" esista è in realtà dovuto ad una serie di circostanze praticamente fortuite.
Questo perché Don Coscarelli si era lasciato alle spalle le gesta del Tall Man, Mike e Reggie alla fine del secolo e, assodata l'impossibilità di creare la conclusione adatta, era andato oltre e diretto il bel cult "Bubba Ho-Tep". Il creatore di questo quinto capitolo è di fatto David Hartman, "phan" della prima ora e collaboratore di Coscarelli come addetto agli effetti ottici negli ultimi anni.
"Ravager" nasce come webseries nella quale Hartman dà vita ad una serie di racconti che ruotano attorno al personaggio di Reggie e solo nel corso del tempo si evolve in un film vero e proprio, anche grazie all'intervento di Coscarelli in persona, che pur collaborando in (minima) parte allo script lascia che il tutto sia opera del suo protetto. Il quale, riprendendo alcuni elementi di "Phantasm 1999" crea una sorta di capitolo conclusivo che in realtà non conclude nulla e si sostanzia più che altro come un grosso fan-film.




Avevamo lasciato Reggie nel deserto, mentre attraversava un portale per inseguire il Tall Man. 18 anni dopo, lo ritroviamo sempre nel deserto, uscito da quel portale e vagando alla cieca. Fin qui, Hartman riprende uno dei leitmotiv della serie instillando una forte consequenzialità tra capitoli, ma in poco tempo opta per una soluzione inedita, ossia la fusione dei piani temporali.
Seguiamo così Reggie prima attraverso il deserto, poi in un mondo post-apocalittico invaso dagli sgherri di Tall Man e soprattutto... in un manicomio nel quale è ricoverato. Una trovata che dovrebbe aumentare il tasso di ambiguità della storia, ma finisce solo per essere inutile e pretenziosa nel suo voler far credere allo spettatore che l'intera serie sia il frutto del delirio di un anziano. E se il primo "Phantasm" riusciva a fondere perfettamente le suggestioni psicologiche con il racconto fantastico per creare una favola dark, "Ravager" opta per una scrittura facilona e interseca i piani narrativi in modo netto. Con l'aggravante di non riuscire mai a creare la giusta atmosfera, tantomeno la giusta tensione, facendo ricorso, anche qui in modo facile, ai più canonici jump-scare da discount. Il tutto reso ancora più indigesto da una regia piatta e priva di inventiva, con una messa in scena dove talvolta persino la continuità tra inquadrature viene a mancare.




Gli scarsi valori produttivi rendono poi la visione del tutto piatta; il budget miserevole, a quanto pare poco più di centomila dollari, ossia meno della metà di quello del primo film, è del tutto inadeguato per dare vita alle visioni di un mondo devastato dalle sfere giganti, ma anche per creare semplici effetti splatter credibili, spesso costruiti con la più economica CGI che si possa immaginare.
In generale, tutto il look del film è economico, con esterni girati quasi tutti con camera a mano e una luce naturale che talvolta brucia le immagini, avvicinando la visione a quella di un film amatoriale vero e proprio. L'unica sequenza nella quale i giusti fondi sono stati profusi è il montaggio dell'attacco in larga scala delle sfere, che riesce davvero ad essere bello e credibile. Peccato che duri giusto una manciata di secondi.




Laddove pecca in polso per la messa in scena, Hartman eccede al contrario in entusiasmo, reintroducendo tutti i luoghi comuni della serie, in una sarabanda infinita. C'è la storia d'amore "sfigata" tra Reggie e una bella donna, una scena ambientata ai tempi della Guerra di Secessione (qui del tutto inutile) e addirittura una dove Reggie suona la chitarra davanti ad un camino in pietra. Sui titoli di coda riappare finanche Rocky e a metà film persino la donna con l'abito color lavanda, assente praticamente dal 1979. Presenze che fanno certo la gioia dei fan e che sono pensate per loro e da uno di loro; il quale, però, dimentica ciò che i fan vogliono davvero, ossia un film decente.




Tutto quello che alla fine resta è una serie di scene che fanno progredire la storia generale di pochissimo e che talvolta si contraddicono tra di loro, come nella sequenza in cui il Tall Man propone a Reggie di alterare gli eventi nel passato per salvare la sua famiglia, solo per scaraventarlo immediatamente nel mausoleo del terzo film, dove viene attaccato dai nani e persino dalla donna dall'abito lavanda, che a quanto pare adesso non è neanche più un suo alter-ego.
In un prodotto così scadente, c'è però qualcosa da lodare a gran voce, ossia l'impegno di Angus Scrimm: all'epoca delle riprese aveva quasi novant'anni e sarebbe scomparso poco dopo l'uscita del film; pur dovendosi far sostituire da una controfigura per molti movimenti, riesce ad infondere nel suo Tall Man l'usuale piglio sinistro, prova del suo infinito amore verso il personaggio e di un talento troppo poco celebrato. 




"Ravager" è, purtroppo, nulla più che una continuazione indegna di una serie che doveva terminare con il quarto capitolo. Vedere una conclusione del genere ingenera tristezza e fa davvero riflettere su come il cinema low-budget si sia involuto rispetto a cinquant'anni fa. Colpa di una regia scarsa e di ambizioni sin troppo grandi sorrette da un talento troppo piccolo.

venerdì 27 ottobre 2023

Scuola di Mostri

The monster squad

di Fred Dekker.

con: Andre Gower, Duncan Regehr, Robby Kiger,Brent Chalem, Tom Noonan, Stephen Macht, Leonardo Cimino, Brent Chalem, Ryan Lambert, Michael Faustino, Ashley Bank, Mary Ellen Trainor, Stan Shaw, Lisa Fuller, Michael McKay, Jason Hervey.

Commedia/Horror

Usa 1987












La definizione di "cult movie" è quantomai fluida e il titolo viene spesso attaccato a film che non potrebbero neanche essere considerati tali. Quella più canonica tende a definire "cult" un film che alla sua uscita non fu capito, ignorato o entrambe le cose, ma che nel corso del tempo è stato rivalutato e, prima ancora, amato alla follia da un piccolo e agguerrito numero di fan.
Se si accede a questa più pura declinazione del significato, allora "The Monster Squad" potrebbe davvero essere il cult movie per antonomasia, per certi versi anche più di "Blade Runner", di "The Rocky Horror Picture Show" e del "Dune" di Lynch. Questo perché non solo fu un flop sanguinante alla sua uscita in sala, ma anche e soprattutto perché i fan sono ancora oggi tutto sommato pochi: in pochi lo hanno davvero visto nonostante la riscoperta avvenuta a metà degli anni 2000, con la conseguenza che la sua fanbase è decisamente più esigua (per quanto non esigua in sé stessa) rispetto a quella di altri film cult. E come sempre, la storia della produzione, della morte e della rinascita del film è già di per sé stessa degna di essere raccontata.




L'idea comune è che sia nato come epigono de "I Goonies", con il cinema horror classico che "supplisce" quello d'avventura. Il che è in realtà sbagliato: sebbene possa rientrare tranquillamente nel filone dei film per ragazzi anni '80 post "E.T.", l'idea di questo monster-mash definitivo arriva a Fred Dekker già nei primi anni '80, ossia quando l'amatissimo film di Richard Donner e Steven Spielberg non è ancora uscito.
Iniziato il college, Dekker conosce quello che diventerà presto suo collega e migliore amico, ossia il mitico Shane Black. Durante una conversazione, gli rivela il suo sogno di creare una sorta di "piccole canaglie contro i mostri della Universal", nata sia sulla scorta della nostalgia per quel cinema con il quale è cresciuto, sia notando una cosa alquanto strana: rivedendo "Abbott and Costello meets Frankenstein" si era reso conto di come il mostro fosse più spaventoso quando appaiato ad un duo di comici, perché nei suoi film in solitaria era più che altro una figura tragica. Black trova l'idea geniale e i due iniziano a tirare su uno script.
Nel frattempo inizia la produzione di "Night of the Creeps" e Dekker sviluppa con l'amico un singolare metodo di collaborazione: i due lavorano in solitaria, a distanza, e ad ogni lettura del copione ciascuno aggiunge o modifica uno o più elementi, finché si arriva alla stesura definitiva.




Ottenuto lo script, questo viene fatto girare per gli studios; il primo è ovviamente la Universal, la quale però lo respinge ammettendo di non voler creare un nuovo film nel suo universo condiviso, che aveva già chiuso i battenti decenni prima (cosa strana a sentirsi, oggi come oggi). La conseguenza più immediata fu che in fase di produzione il design dei mostri dovette essere alterato per evitare di infrangere il copyright da essa detenuta, forzatura che alla lunga giocherà a vantaggio del film. L'unica casa interessata, alla fine, è la Columbia-TriStar, a caccia di un piccolo film da poter vendere bene durante l'estate. Ottenuti i capitali, la produzione ha così inizio, ma questa volta Dekker non ha proprio la completa libertà ottenuta sul set del suo esordio.
Il produttore Jonathan Zimbert gli affianca il veterano Peter Hyams, ufficialmente in veste di produttore esecutivo, in realtà aiuto regista e sorta di deus ex machina durante le riprese, il quale arriva addirittura a minacciare a Dekker il licenziamento. Il suo stile di regia è infatti poco ortodosso a causa della sua poca esperienza e si correva il rischio che il girato risultasse insufficiente una volta giunti in sala di montaggio. Dekker, dal canto suo, capisce come tali forzature siano in realtà essenziali e ne segue le direttive, con la conseguenza che alla fine "The Monster Squad" risulta decisamente meglio diretto rispetto a "Night of the Creeps", la cui costruzione delle scene, in confronto, appare palesemente più spartana.



A film finito, inizia la compagna pubblicitaria e con essa le prime vere grane, nel senso che di campagna pubblicitaria non si può davvero parlare: la distribuzione si limita a creare un brutto teaser poster con i manifesti da ricercato di Dracula e della mummia, il cui design è peraltro diverso da quello mostrato nel film e che per di più non viene neanche distribuito a dovere. Con la conseguenza che al botteghino fu un bagno di sangue: a fronte di un budget di circa dodici milioni, il film ne incassa neanche due in patria e neanche quattro nel resto del mondo. Non ha giovato, inoltre, la pessima idea di distribuirlo a neanche due settimane dall'esordio in sala di "Ragazzi Perduti", il quale ne ha praticamente rubato il pubblico.
La carriera di Dekker subisce così un primo arresto ed è costretto a virare al circuito televisivo, dove per fortuna trova rifugio in "Tales of the Crypt", collaborando proprio con il Richard Donner di "Ragazzi Perduti" e dove dirigerà alcuni degli episodi più riusciti. Il flop colossale di "RoboCop 3", qualche anno, dopo le darà malauguratamente il colpo di grazia.



La riscoperta del film inizia già alla fine degli anni '80, grazie ai ripetuti passaggi su HBO e all'uscita su formato VHS e Laserdisc (in Italia viene trasmesso su Italia 1 nell'autunno del 1991 in prima serata e poi replicato nei pomeriggi del fine settimana per giusto un pugno di volte). Ma è nel 2006 che le cose cambiano totalmente: all'Alamo Drafthouse originale viene organizzata una proiezione commemorativa dopo che una coppia di collezionisti aveva recuperato una copia in 35mm. L'evento è inaspettatamente un successo: invitato lì, Dekker si commuove scoprendo come questo suo atto d'amore verso il cinema horror classico che credeva nessuno conoscesse ha in realtà raggiunto lo status di cult. Nello stesso anno, i fan chiedono l'edizione in DVD del film, la quale arriva poco dopo ad opera della Lionsgate e diventa il titolo di catalogo più venduto dell'anno, oltre a vincere persino un premio per la cura profusa nella sua produzione.
Una vera e propria odissea che ha portato un titolo di nicchia, ignorato da tutti, a divenire una pellicola di culto tra le più amate. E il fatto che Dekker abbia dovuto subire questa vera e propria ordalia è un  peccato capitale bello e buono, visto che, a suo modo e nel suo piccolo, "The Monster Squad" è un film semplicemente brillante. 




Se c'è una pellicola degli anni '80 simile a quella firmata da Dekker, essa non è tanto il cult del duo Donner e Spielberg quanto "Ghostbusters": anche "The Monster Squad" coniuga commedia e horror, dove gli elementi di quest'ultimo genere sono però sempre e comunque declinati in maniera seria; la minaccia sovrannaturale è tangibile e pericolosa e il gruppetto della "squadra anti-mostri" è così più simile agli scienziati scaccia-spettri che ai ragazzi di Goon Docks (tanto che persino il poster originale fa un riferimento al cult di Ivan Reitman e soci).
I mostri sono quelli "classici", ossia Dracula, la mummia. l'uomo-lupo, il mostro della laguna nera e quello di Frankenstein, ma lo script ne da un rilettura in parte moderna. Se tutto il gruppo ripresenta bene o male tutti gli archetipi stabiliti al cinema a partire da una cinquantina d'anni prima, con il mostro di Frankenstein in particolare che diventa apertamente buono come intuito da James Whale già nel primo film, è Dracula a presentare le maggiori differenze rispetto alla tradizione, configurandosi come una lettura del tutto originale.
Il conte-vampiro elegante e dai modi regali è sicuramente presente anche qui, ma già il fatto che ad interpretarlo ci sia Duncan Regehr con la sua fisicità imponente ed i lineamenti nordici dona al personaggio un'aura di unicità, incrementata dalla caratterizzazione effettiva: non più un gentiluomo dal cuore demoniaco, ma un vero e proprio sociopatico che non si fa scrupoli nel cercare di uccidere un gruppo di bambini o a dare della troia ad una infante.




L'opera di redesign sulle maschere della tradizione orrorifica qui eseguita dal compianto Stan Winston ed il suo studio è semplicemente incredibile. 
L'uomo-lupo è simile a quello di Lon Chaney Jr., ma il colore argenteo del pelo richiama anche quello interpretato da Oliver Reed ne "L'Implacabile Condanna" della Hammer, mentre il muso canino ad esso apposto finisce per donargli un look del tutto originale.
Semplicemente perfetto è poi il costume di Gillman, ossia la creatura marina, ricreato con una tuta che ricopre l'intero corpo dell'interprete ed una maschera animatronica per riportarne le espressioni, combinazione che riesce davvero a rendere il mostro vivo e credibile, tanto che la medesima combinazione sarà usata decenni dopo dallo stesso team per la creatura di "La Forma dell'Acqua" di Del Toro.
Ottimo anche il lavoro svolto sul mostro di Frankenstein, simile a quello di Boris Karloff eppure dotato di una sua personalità, anche grazie alla bella performance di Tom Noonan, che sa donargli la giusta carica di empatia (e pensare che giusto un anno prima era stato il freddo Dente di Fata in "Manhunter" rende la sua interpretazione ancora più sorprendente).
Il design più originale di tutti, per quanto possa non sembrare, è però quello della mummia, che abbandona la fisicità impotente che Karloff gli aveva imposto in origine per divenire una sorta di non-morto rinsecchito e dal volto zombificato tanto piccolo quanto inquietante.




Sebbene il film sia uscito all'interno di un periodo nel quale i gruppi di giovani teenager imperversano nei film, i ragazzini creati da Dekker e Black risaltano per la loro genuinità, a partire dal linguaggio colorito che adoperano: le imprecazioni e le parolacce si sprecano e, in generale, la forma dei loro dialoghi rispecchia perfettamente il linguaggio dei dodicenni di allora come di oggi, rendendo la visione quantomai fresca. Inutile enumerare le battute più memorabili, tra le quali di certo svetta la mitica "L'uomo-lupo ha le palle!"; la versione italiana in questo caso è però graziata da un'altra espressione di culto, non presente in quella originale, ossia la fantastica: "Ci vediamo, dieci piani di morbidezza!" esclaamata da Rudy dopo aver "srotolato" la mummia.
La caratterizzazione dei ragazzi tende poi a conformarsi ad una visione "verosimile": riescono a credere alla minaccia sovrannaturale solo quando ne hanno davvero le prove e passano il tempo a parlare di film e a spiare le ragazze, cosa che, inutile dirlo, chiunque alla loro età faceva (o avrebbe fatto).
Proprio come fa con i suoi personaggi, il film tratta anche i suoi giovani spettatori in modo serio: non cerca di conciliarne le aspettative, né si trattiene dal volerli davvero spaventare, facendo ricorso persino alla violenza esplicita quando necessario, configurandosi anche qui come un qualcosa di singolare (e se confrontato al cinema per ragazzi di oggi, persino inedito).




La scrittura del duo di autori riesce poi anche nel non facile compito di inserire riferimenti meta-testuali all'interno di un racconto che si prende sul serio e che non vuole funzionare come una parodia e ciò riesce a causa della sottigliezza con la quale vengono calati nel contesto. L'esempio più avvertibile è il sorpannome del personaggio di Horace (interpretato dal compianto Brent Chalem, scomparso a soli 22 anni per una polmonite), detto semplicemente "fat kid", ossia l'immancabile amico ciccione presente in tutte le combricole di "piccole canaglie" mai apparse su schermo (anche se nella versione italiana diventa il più semplice "rotolo", vanificando ogni riferimento ultraneo rispetto alla storia). Allo stesso modo, il personaggio della sorella di Patrick è accreditato semplicemente come "Patrick's sister" nonostante lo screentime dedicatole, in virtù al suo status di membro esterno della "squadra anti-mostri".
Ma la "meta-inclusione" più dirompente e folle è quella che avviene nel finale, con quella risoluzione degli eventi che definire inaspettata è davvero poco: Abraham Van Helsing, che avevamo lasciato nella Transilvania del XIX secolo nel prologo, entra in scena di punto in bianco e sconfigge Dracula, ammiccando a Sean e al pubblico, senza soluzione di continuità alcuna. Perché? Semplice: perché secondo il canone non scritto di tutti i film sul conte vampiro, è solo la sua nemesi a poterlo davvero sconfiggere.




Ma Dekker non vuole davvero creare un semplice compendio di omaggi e strizzatine d'occhio, quanto uno spettacolo in grado di ammaliare chiunque e di essere sempre plausibile. L'attenzione rivolta ai personaggi si sostanzia così in un contesto umano e famigliare credibile che fa da contorno alla vicenda sovrannaturale; la sottotrama sulla crisi matrimoniale dei genitori di Sean e Phoebe (accorciata, tra l'altro, in sede di montaggio) aiuta a rendere i personaggi più credibili e a suggerire come la passione del ragazzino per gli orrori fantatici sia dovuta alla sua volontà di sfuggire ai dispiaceri quotidiani. Così come la figura dell' "abominevole uomo tedesco" (interpretato con piglio divertito dal sempre simpatico Leonardo Cimino), sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, inserisce in un contesto leggero e fantasioso una nota di quell'orrore fin troppo reale in grado di spaventare chiunque.




In generale, l'occhio e la mano di Dekker riescono perfettamente nell'intento di creare uno spettacolo che intrattiene alla perfezione per tutta la sua durata; le parti comiche riescono a far davvero ridire persino da adulti, mentre quelle orrorifiche riescono a trasmettere la giusta tensione, con un paio di scene davvero da antologia, come la comparsa della mummia nell'armadio di Eugene, vera e propria lezione su come coniugare commedia e thriller in un'unica inquadratura, o ogni singola scena in cui il Dracula di Regehr è presente, nelle quali riesce a trasmettere un senso di angoscia spesso tangibile anche quando la sua interpretazione va sopra le righe.
Senza poi dover menzioanre la componente squisitamente spettacolare, con un ultimo atto dove il confronto tra i mostri e i ragazzi diventa pirotecnico, gli ottimi SFX di Winston e persino quell'orecchiabile montaggio a metà film, eseguito sulle note di "Rock until you drop", il cui testo è tanto dozzinale e ridicolo quanto il ritmo è travolgente.




Con il suo mix di serietà e metareferenzialità e prima ancora di commedia e horror, oltre che di intuizioni moderne e nostalgia per i classici. "The Mosnter Squad" funziona meglio di molti altri exploit del cinema per ragazzi degli anni '80; forse persino più de "I Goonies", grazie al genuino entusiasmo del suo regista, davvero innamorato di ciò che sta creando.
Non solo, quindi, il suo status di cult acquisito di recente è più che meritato, ma meriterebbe di persino essere preso più in considerazione dai quei cultori del filone che fin troppo spesso tendono a dimenticarlo o a liquidarlo come un prodotto derivativo.




EXTRA

Proprio come "Ghostbusters", anche "The Monster Squad" condivide il titolo con un dimenticato telefilm degli anni '70.




Trasmessa dalla NBC tra il 1976 e il 1977, questa stramba serie per bambini racconta di un ragazzo che accidentalmente dà vita alle statue di cera di Dracula, dell'uomo-lupo e del mostro di Frankenstein grazie... alle vibrazioni elettromagnetiche del suo computer.


Nel 2018, André Gower, che nel film interpreta il protagonista Sean, ha diretto il documentario "Wolfman's got nards", che ripercorre il processo di riscoperta del film e mostra il rapporto di Dekker, oramai ritiratosi dalle scene, con l'amore dei fan per quello che considera il suo miglior film.