lunedì 27 febbraio 2017

T2 Trainspotting

di Danny Boyle.

con: Ewan McGregor, Jonny Lee Miller, Ewen Bremmer, Robert Carlyle, Anjela Nedyalkova, Kelly MacDonald, Steven Robertson, James Cosmo.

Inghilterra 2017

















Dove li avevamo lasciati? Rent, Sick Boy, Begbie e Spud avevano fatto il colpo della vita: 16 mila sterline per una partita di eroina piovuta dal cielo. Ma all'occasione segue il tradimento, quello di Renton, che sfancula tutti (tranne Spud) e fugge con il malloppo. Fino a 20 anni dopo.
Nel frattempo tutto è cambiato. Danny Boyle si è imborghesito, ha gettato via lo stile grottesco e corrosivo e ha scambiato l'umorismo nerissimo per le favolette a lieto fine, anche a causa della non rosea collaborazione con Alex Garland. Ewan McGregor non ha mantenuto il suo status di giovane promessa, incagliandosi in ruoli ripetitivi o inutili, rompendo il sodalizio con Boyle a causa di "The Beach" (2000) e trasformando la sua carriera in quella di un ottimo interprete, ma non di una vera superstar. Jonny Lee Miller non ha trovato l'affermazione che lasciava presagire, così come John Hodge, il quale non si ripeterà mai più ai livelli degli esordi. Mentre Irvine Welsh ha cercato di bissare il successo ottenuto, anche su schermo, dapprima con "The Acid House", poi regalando due sequel al suo romanzo di culto, "Porno" e "Skagboys", che purtroppo non hanno riscosso i consensi sperati.




E con loro l'intera Generazione X si è arenata sulla spiaggia della vita, crescendo, trasformandosi da massa di giovani esagitati ad armata di adulti insoddisfatti, con la disillusione divenuta rassegnazione e la rabbia priva di fondamento e controllo spentasi sotto la cenere dell'autodistruttivismo inutile. Intorno a loro, le macerie di una società che si è riplasmata nelle forme della massificazione, del perbenismo imposto, dei finti sorrisi e della globalizzazione alienante.
L'idea di un seguito su schermo a quel cult tanto amato stuzzicava da anni la mente degli autori, ma sia Boyle che Hodge si sono sempre dichiarati insoddisfatti delle bozze di adattamento di "Porno"; al punto che, pur di creare una continuazione convincente, hanno deciso di distanziarsi quasi definitivamente dalla fonte narrativa per creare una storia quasi inedita, che desse più spazio ai personaggi ed alla loro evoluzione.
"T2 Trainspotting" finisce così per essere una testimonianza di questo passaggio, di questa crescita decostruttiva, del fallimento loro e dell'intera società con loro. E del rimpianto, della presa di coscienza di quel vuoto interiore che non ha generato nulla e nulla ha portato. E lo fa con stile, senza scadere nelle trappole della retorica o della facile nostalgia, configurandosi come una continuazione quasi perfetta di quella visione lisergica, folle, cinica, graffiante ma non compiaciuta.




Vent'anni dopo. Tutto è uguale, nulla è lo stesso. Sick Boy cerca sempre di sbarcare il lunario come mezza tacca criminale, ora impegnato nel ricatto di facoltosi signori patiti di strap-on, che finiscono puntualmente nella sua rete grazie alla bella Veronika; Spud, dopo una dipendenza da eroina ultratrentennale, si ritrova senza lavoro, senza un soldo e senza poter rivedere Gail, dalla quale ha avuto un figlio ventenne che, per vergogna, lo ignora. Begbie, finito in galera, organizza una rocambolesca fuga e torna nel giro dei piccoli furti, tentando di portarsi dietro un figlio che finora ha intrapreso uno stile di vita del tutto antitetico. E Rent, fuggito con la grana, subisce un principio di infarto che lo porta a riflettere sul passato e a decidere di tornare in quella Edimburgo, per riallacciare i rapporti con la famiglia e con quegli amici ai quali, forse, deve davvero qualcosa in più di una fuga all'inglese.




Una presa di coscienza, quella di Rent, che è anche quella di Danny Boyle. Vent'anni e rotti dopo, trascorsi gli scandali, lo status di cult e di film-manifesto, cosa resta di quell'incredibile esperienza? La coscienza del tempo trascorso, che ora riaffiora a tormentare autore e personaggi, con le immagini del primo film che appaiono e scompaiono dinanzi ai loro occhi come fantasmi, a testimonianza della poca strada che hanno percorso. Così come ritornano gli spettri di quel cinema che tanto ha influito sullo stile, da Scorsese a Ridley Scott passando per De Palma, gli omaggi e le reminiscenze più o meno esplicite prendono una forma precisa.
Nostalgia del passato? Assolutamente no: quella di "T2" è semmai una riflessione amara sul fallimento umano di una generazione di ragazzi vuoti ora cresciuta sino a divenire quella di uomini falliti, privi di un nucleo familiare di riferimento; laddove quello primigeneo è stato rifiutato sin dall'adolescenza, quello neocostituito diventa evanescente, uno spettro che si rincorre costantemente (nel caso di Spud) o che si tenta di agguantare per i propri comodi (Begbie), quando non addirittura una menzogna usata per imbellettare una realtà vacua (Rent).
Sullo sfondo, un mondo alienante, con ragazze slovene vendute come scozzesi negli aeroporti, costumi sessuali spiazzanti ed imbarazzanti ed una riqualificazione gentrificatrice della città che trasforma in spazzatura tutto quello che non riesce a riplasmare in un'immagine piacevole.




Cosa resta quindi a questo quartetto di scavezzacollo ex tossici prossimi al fallimento definitivo? Nulla, o quasi. Il tentativo di ricostituire una serie di rapporti umani in grado di dare un senso all'esistenza, la ricerca vana ed ossessiva di una rivincita verso il tradimento ed il ritorno a quel nido familiare tanto detestato. Su tutto svetta il rimpianto, con il "Choose Life" tanto amato e citato da quella generazione che ora diventa presa di coscienza ineludibile di quel vuoto opprimente autoinflittosi.
Evoluzione che porta con sé anche la scompaginazione di quello stile acido che aveva reso celebre il primo film. Il punto di vista diviene multiplo, con la voce narrante di Rent che si riaffaccia timidamente in una sola scena. Lo humor nero la fa sempre da padrone, ma Boyle non vuole essere graffiante o acido, quanto melanconico, lasciando che la tristezza dei personaggi trasudi dalle immagini; e riesce a non scadere mai nell'elegiaco, nella nostalgia compiaciuta, in un equilibrio di toni che mancava da anni nel suo cinema.




Tanto che, al netto di un climax in parte poco convincente, "T2" rappresenta una delle opere migliori della sua filmografia. Un sequel che riesce ad aggiungere molto ad un pugno di personaggi che sembrava già aver detto tutto e che come l'originale ben può essere un manifesto della sua generazione. Un manifesto smaccatamente più amaro e meno cinico, ma non per questo meno riuscito.

R.I.P. Bill Paxton


1955-2017




Un fulmine a ciel sereno, una notizia inattesa che spiazza, come al solito, anche quando si tratta di un volto meno noto. Perché Bill Paxton non è mai stato una star, ma il suo viso da perfetto americano, con mascella quadra d'ordinanza, era subito riconoscibile. Ed il suo stile, pur da caratterista, era in realtà variegato, permettendogli di interpretare ruoli che spaziavano dal drammatico al leggero con estrema nonchalance.




"ALIENS- SCONTRO FINALE" (1986)





"NEAR DARK- IL BUIO SI AVVICINA" (1987)




"PREDATOR 2" (1990)




"I TRASGRESSORI" (1992)





"TRUE LIES" (1994)




"SOLDI SPORCHI" (1998)

giovedì 23 febbraio 2017

Trainspotting

di Danny Boyle.

con: Ewan McGregor, Jonny Lee Miller, Kelly MacDonald, Robert Carlyle, Ewen Bremmer, Kevin McKidd, Peter Mullan, Susan Vidler, James Cosmo.

Inghilterra 1996

















Anni '90: boom della generazione X; quella silenziosa "massa" di giovani, giovani adulti e giovinastri cresciuta senza punti di riferimento ora è al potere e porta con sé quel vuoto di valori che strisciava nella sottocultura anni '80, poi sedimentatosi come substrato culturale comune. Il nichilismo è un vanto, la disillusione un valore, l'a-moralità un imperativo morale.
Senza punti di riferimento, senza freni, senza autocontrollo, il cinema underground rifiorisce, riesce ad affacciarsi nei circuiti delle grandi città, permettendo a giovani cineasti di talento di imporsi come nuovi autori nel panorama mondiale con opere che danno forma e voce a quella generazione votata alla vana ricerca di qualcosa. Se in America il Sundance porta alla luce i talenti di cineasti quali Kevin Smith e Quentin Tarantino e fa riscoprire il talento di Jim Jarmusch, in Inghilterra la ripresa delle intuizioni del Free Cinema degli anni '60 riforgia la filmografia nazionale grazie al talento di una generazione di esordienti, la cui strada è stata spianata alla fine del decennio precedente da Stephen Frears (tra gli altri). E tra tutti ad imporsi è Danny Boyle, che al suo secondo lungometraggio dirige l'adattamento del best-seller di Irvine Welsh, scrittore già in quegli anni di culto, inizialmente concepito come un semplice special televisivo contro l'abuso di droga ma presto evolutosi in qualcosa di decisamente diverso. Un film che si sarebbe imposto in brevissimo tempo come un manifesto di quegli anni, di quella generazione, di quel modo di (ri)fare cinema; un film che è cult tra i cult, spaccato generazionale tra gli spaccati generazionali ed esempio di stile e cattiveria mai più raggiunto neanche dai suoi stessi autori: "Trainspotting".




Un film che è provocazione, sradicamento sistematico di ogni tipo di valore condiviso e condivisibile, inno all'autodistruzione, sberleffo sadico ai sistemi morali e materiali e, paradossalmente, in una lucida contraddizione con e da sé stesso, perfetto apologo morale, amarissimo ritratto un pugno di personaggi distrutti da sé stessi, sferzante pugno allo stomaco a quella stessa generazione che vuole infrangere ogni sorta di legame comune e ritratto impietoso dell'autodistruzione indefessa ed orgogliosa, del nichilismo blando e dell'anticonformismo un tanto al chilo.
Due anime che in realtà sono due facce della stessa medaglia, due volti di un Giano Bifronte che si chiama Occidente anni '90, i cui strascichi, vuoi anche per il revival vintage di mode e modi, si accumulano tutt'oggi. Due sguardi che sono uno, si congiungono proprio a causa e per forza di cose dinanzi a quei non-valori, a quella voglia beffarda di distruzione che quella generazione porta(va) con sé e che una volta fissati su schermo è impossibile non biasimare, anche solo in minima parte. Lo sguardo è quindi irriverente, ma anche caustico verso quei personaggi per i quali non dimostra empatia, riducendone a pezzi tutti i difetti ed i tic, a partire dal più distruttivo: l'ossessione per l'eroina, per il "buco facile" e la dipendenza.




Renton è un drogato, perso nella spirale di ogni tipo di droga; e come lui lo sono i suoi amici Sick Boy, Spud, Allison ed i loro pusher di fiducia Swanney "Madre Superiora", i quali si riuniscono in un fatiscente monolocale per bucarsi; non c'è un motivo valido per il buco, non è solo lo squallore di una Edimburgo dei quartieri più malfamati; la ricerca dello sballo viene descritta per quella che è: pura evasione, corsa verso il piacere ("prendete l'orgasmo più forte che abbiate mai avuto, moltiplicatelo per mille e neanche allora ci sarete vicino") e fuga da ogni forma di vera responsabilità, perfettamente sintetizzato nell'intro, quello sfotto al "Choose Life" della campagna anti-droga.
Il pubblico del '96 certo era abituato alle immagini forti dei "buchi" già dai tempi di "Christiane F." e giusto qualche anno prima "Pulp Fiction" mostrava in modo esplicito il "rito" dell'eroina; ma in "Trinspotting" c'è di più: il piacere della droga viene ritratto per il tramite del punto di vista unificante di chi lo insegue; il tono usato è grottesco ed ironico e la condanna è si presente, ma filtrata per il tramite dello sguardo di chi vede nell'ago non una dannazione, ma un passatempo; lo "scandalo" è tutto qui e, a ben guardare, neanche tanto euforico; perché la condanna è immediata: basti vedere la sequenza della quasi overdose, dove lo sguardo di Rent sprofonda in una fossa dalla quale riemerge a stento. O, ancora e sopratutto, la sequenza della morte della piccola Dawn, che da sola vale più di mille spot ani-abusi.
Ma è il cinismo beffardo a far da padrone; non per nulla, il punto di vista è sempre quello di Renton, a differenza di quanto accadeva nel romanzo di Welsh, ossia quello del personaggio più distaccato.




Distacco che permette a Boyle l'uso di un tono grottesco, intriso di un'ironia nera corrosiva ed irresistibile; il viaggio nella mente di Rent è allucinato, spiazzante e buffo, un caleidoscopio di immagini distorte e situazioni estreme, che si sostanziano nella sistematica "sfanculazione" delle istituzioni sociali di base; al di là del ritratto a tinte forte della generazione di vuoti a perdere, lo sguardo truce si posa sui nuclei familiari e quelli amicali.
La famiglia in "Trainspotting" è al contempo luogo salvifico ed ipocrita; non c'è differenza tra i giovani drogati e quei genitori distanti, quei cervelli fritti dal tubo catodico e rigonfi di psicofarmaci e cibi-spazzatura, zombizzati da una normalità asfissiante che fa paura quanto l'autodistruzione e che viene ridicolizzata costantemente, letteralmente sommersa dalle feci di chi non la può soffrire. Ma è proprio la famiglia a "salvare" Rent, a condurlo tramite quel sogno allucinato che gli permette di disfarsi dell'eroina e di realizzare pianamente il suo status di vuoto totale.




Una sequenza, quella del sogno da crisi di astinenza, che da sola basta a sconvolgere la mente ed i sensi, un incubo infinito dove il gusto visionario si fonde con quello pop per dar vita all'incubo dell'A.I.D.S. che scaccia l'indole autodistruttiva. E quando Rent si allontana dai suoi amici, ne realizza la pochezza: Sick Boy è un ciarlone, una sorta di pseudo-yuppie innamorato della sua finta sagacia, che colma la propria vacuità con l'apparenza ed una superiorità basata sul nulla e sulla passione per Sean Connery. Begbie, quello "che si fa di gente", è un drogato di adrenalina, un sociopatico in grado solo di combinare casini. Spud e Tommy sono due povere vittime, destinate alla sconfitta perenne e totale, quasi due rifiuti umani votati alla miseria più totale.




Ma non c'è redenzione per Rent; la catarsi è distruzione totale (anche se non indiscriminata), atto supremo di sberleffo con il quale liquida quei compagni oramai palla al piede e si incammina verso un futuro modesto, quella "normalità" tanto aberrata eppure migliore del vuoto pneumatico dato dalla compagnia dei perdenti.
Il rifiuto di ogni valore è così definitivo ed incontrovertibile, eppure mai davvero immorale; nel rifiutare gli eccessi, pur ridicolizzando l'universo di chi "sceglie la vita", Rent realizza l'inutilità dell'autodistruzione; lo scandalo semmai risiede nello strumento adoperato, ossia quell'indole distruttiva che lo porta a tradire e a non provare rimorsi. Di qui, paradosso puro, la natura "morale" del film, che di concerto con le immagini crude e dirette ben potrebbe rappresentare fonte di educazione per quelle giovani generazioni affascinante dagli eccessi.





Boyle ritrae il tutto con uno stile vivace, frizzante quanto l'interpretazione di Ewan McGregor, perfetta maschera dello sbandato totale. Il riferimento è sicuramente il Free-Cinema, ma anche il cinema metropolitano di Scorsese e Spike Lee, in una fusione che crea un registro nuovo e di sicuro impatto. Dove il montaggio spezza scene ed inquadrature per ricostruirle grazie alla colonna sonora, che mischia agilmente musica classica ad Iggy Pop, dance e Lou Reed, giustapponendo, in modo al solito beffardo, immagini drammatiche a sonorità leggere, per creare un'aura di cinismo ancora più marcato.





Al punto da divenire semplicemente memorabile. Ed il merito di Boyle non sta tanto nell'essere riuscito a dare una forma sgargiante alle pagine di Welsh, quanto nel aver saputo evitare le trappole più ovvie, da quelle dell'autocompiacimento spicciolo a quelle del moralismo sensazionalista, in un equilibrio sempre pressocché perfetto di forma e contenuto. Come solo il buon cinema riesce.

martedì 21 febbraio 2017

Manchester by the Sea

di Kenneth Lonergan.

con: Casey Affleck, Lucas Hedges, Michelle Williams, Kyle Chandler, Gretchen Mol, Matthew Broderick.

Drammatico

Usa 2016
















Piccole navi da pesca solcano acque calme, mentre il gelo d'inverno batte le strade innevate; Manchester sul mare, non quello inglese ovviamente, ma quello della costa est degli Stati Uniti, a pochi chilometri da Boston; avvolta in un silenzio glaciale, immersa nei colori chiari e freddi del lutto, nel silenzio della tristezza; emozioni a cui Kenneth Lonergan dà un corpo essenziale, racchiude in spazi stretti, insegue in silenzio, osserva quasi con discrezione.




Al centro, due personaggi quasi speculari: Lee, quarantenne a pezzi, che trascina la sua vita tra un lavoretto ed una rissa anonima in un bar; e suo nipote Patrick, sedicenne perso nella vita vuota dell'età inquieta; entrambi chiamati a confrontarsi con la scomparsa di Joe, fratello e padre. Due vite, le loro, quasi allo specchio; Lee è un uomo-ragazzo, che fugge dalla vita, ferito dal dramma causato dalla sua vacuità, rincorrendo silenziosamente l'autodistruzione; Patrick evita il dramma, perdendosi in futili amori giovanili, prove della band ed allenamenti di hockey usati per ammazzare il tempo.
L'elaborazione del lutto viene schivata, rifuggita perdendosi nelle faccende ordinarie (la scuola, l'organizzazione del funerale), rielaborata per il solo tramite del subconscio (gli attacchi di panico, i flashback); mentre il ruolo genitoriale di Lee, strappato in passato, diviene peso affrontato in modo goffo, senza mai prendersi la responsabilità.
Lonergan si avvicina ai due personaggi in modo semplice, utilizzando uno stile che non può prescindere dalla scrittura, in parte eredità delle sue radici teatrali, fatta di sovrapposizioni temporali repentine, quasi confuse; chiude i personaggi in inquadrature scarne, immobili, rischiarate dalle fredde luci d'inverno anche negli interni notturni; una ricerca della genuinità della non-emozione, la sua, quasi stoica, che si poggia tutta sulle spalle dei due attori, sull'empatia di un Casey Affleck che quasi riprende il suo personaggi di "Lonesome Jim" (2005) per rileggerlo in chiave drammatica; oltre che sull'acerbezza, sopratutto espressiva, di Lucas Hedges, perfetta per il suo personaggio. E che finisce per colpire nel segno.




Uno stile quasi minimale, ma mai minimalista, attento alle interpretazioni come nella migliore tradizione del mumblecore, ma senza le sue derive più aride e sciocche. Uno sguardo che si fa così meramente contemplativo, totalmente coordinato ai tempi dei personaggi ed ai suoi moti interiori; ma che purtroppo non paga fino in fondo.
La contemplazione del dramma si fa presto ridondante, persa in sequenze. personaggi e piccole sottotrame spesso inutili, che non aggiungono nulla ai personaggi; la catarsi, volutamente blanda, non riesce davvero a convincere, essendo basata su di un episodio davvero troppo modesto rispetto agli altri eventi raccontanti per essere credibile; al punto che l'ultimo atto finisce per essere sconclusionato, arroccato in un finale volutamente aperto, ma vuoto, dove la volontà di non ricercare un punto di uscita si fa svogliatezza facilona, che cozza irrimediabilmente con quanto sviluppato fin prima.
Il che non toglie al dramma di essere credibile, questo è sicuro; ma al contempo gli impedisce di essere davvero doloroso e vivo.



lunedì 20 febbraio 2017

La Sposa in Nero

La mariée était en noir

di François Truffaut.

con: Jeanne Moreau, Michel Bouquet, Jean-Claude Brialy, Charles Denner, Claude Rich, Michael Lonsdale, Alexandra Stewart.

Noir

Francia, Italia 1968













Una donna, rimasta vedova il giorno del suo matrimonio, intraprende il sentiero della vendetta contro i suoi aguzzini. Sembra la sinossi di "Kill Bill" di Tarantino e di fatto lo è, perché "La Sposa in Nero", seconda incursione di Truffaut nei meandri di quel noir tanto amato e citato, fu la base di quell' immensa opera di citazionismo e rielaborazione che è cult di Tarantino. Base che però è già di per sé stessa opera di rielaborazione citazionista, nella quale il grande autore fa convergere l'amore per Hitchcock, la passione per la letteratura di Cornell Woolrich, nonché la sua visione ambigua e contrastata della figura femminile.




Una vendetta, quella di Julie Kohler, che ha le fattezze di una Diana furiosa, vergine immolatasi invano all'altare dell'amore, dove la marcia nuziale di Wagner assumer gli echi di un canto funebre; ritrovandosi privata di quel marito che fu suo unico desiderio amoroso e, di conseguenza, donna-bambina che persegue con ostinazione le sue prede; le quali, a loro volta, sono degli scapoli ossessionati dal sesso, che Truffaut si diverte a colorare con le sue stesse passioni, prima fra tutte quella delle gambe.
La contrapposizione è quindi quella della lotta tra sessi, dove però entrambe le parti sono descritte come un coacervo di difetti. Il maschio è futile, perso nelle proprie ossessioni scioviniste e per questo facile preda di chiunque se ne voglia approfittare sbandierando la femminilità come facciata ed arma; ma la donna è anch'essa preda delle proprie pulsioni, con l'omicidio che prende il posto della libido a causa della status virginale. La scelta di Jeanne Moreu appare vincente: il suo volto impassibile e la sua bellezza fredda sono perfette per dar vita ad un personaggio affascinante eppure fallibile.




Nell'intessere il racconto, Truffaut smonta il piano temporale, introducendo la storia in medias res, ossia andando contro i dettami del classicismo proprio del noir, americano e non. La prima parte è volutamente alienante: non ci si può avvicinare a Julie ed al suo passato se non che per poco alla volta, osservando i flashback di quel tragico matrimonio.
Ma nel decostruire la narrazione, personaggi e fatti non riescono ad acquisire il giusto peso; a differenza di quanto accade nei polar di Melville, non si è mai davvero coinvolti dalle gesta della protagonista, non si avverte mai davvero il suo rancore o il suo dolore; non c'è, in sostanza, quell'agitarsi di emozioni e pulsioni al di sotto di una superficie volutamente fredda, come la migliore tradizione del noir francese ha insegnato.




Truffaut si riconferma, si, narratore eccellente e maestro nella direzione degli attori, ma, al pari di quanto accadeva con "Tirate sul Pianista", non riesce a trasformare questa storia di vendetta in un vero esempio di cinema d'autore. Forse sarebbe stato meglio restare più vicino ai canoni del genere piuttosto che optare per una loro rilettura personale. E forse anche per questo, egli stesso finì per rifiutare il film, mossa sicuramente estrema, ma tutto sommato comprensibile.

mercoledì 15 febbraio 2017

Indiana Jones e l'Ultima Crociata

Indiana Jones and the Last Crusade

di Steven Spielberg.

con: Harrison Ford, Sean Connery, Alison Doody, Denholm Elliott, John Rhys-Davis, Julian Glover, River Phoenix.

Avventura/Azione/Commedia

Usa 1989














Nella mente del pubblico americano, l'estate del 1982 è rimasta marchiata a fuoco come la più densa di uscite cinematografiche imperdibili: nel giro di poche settimane videro il buio della sala capolavori quali "La Cosa", "Blade Runner" e "Conan il Barbaro", anche se a vincere la corsa ai botteghini fu "E.T.- L'Extraterreste"
Di certo meno memorabile, ma lo stesso altrettanto densa di uscite fu l'estate del 1989, la cosiddetta "estate dei sequel", che vide l'uscita dei secondi capitoli di alcune tra le pellicole di maggior successo del decennio, quali "Arma Letale 2" "Ghostbusters II" e "Gremlins 2- La Nuova Stirpe", sebbene a trionfare al botteghino alla fine fu una pellicola originale, quel "Batman" di Tim Burton che divenne pilastro della cultura pop in pochissimi giorni. Ma il premio per la pellicola più sorprendente, pienamente ascrivibile alla tematica di quella fatidica estate, non può che andare al terzo capitolo della saga di Indiana Jones, quel "L'Ultima Crociata" che segna la fine (purtroppo solo momentanea) delle avventure dell'archeologo-avventuriero della coppia Lucas/Spielberg e lo fa in grande stile, riprendendo i topoi che ne resero celebre la formula con il primo capitolo ed elevandoli ad un livello ulteriore.




Tornano quindi i nazisti impegnati in una quest per ritrovare un artefatto della cristianità, questa volta il Santo Graal; tornano le ambientazioni desertiche, con la Terra Santa al posto dell'Egitto; tornano anche i personaggi di Sallah (John Rhys-Davis) e Marcus (Denholm Eliott), che si sveste dei panni della figura paterna per divenire un'inaspettatamente riuscita linea comica; questo perché nei panni del vero padre di Indy, Henry Jones Sr., troviamo niente meno che Sean Connery, scelta semplicemente perfetta.
Divenuto oramai una leggenda del Grande Schermo a seguito del suo rilancio, operato qualche anno prima con il cult "Highlander- L'Ultimo Immortale" (1986) e con l'Oscar per il megasuccesso de "Gli Intoccabili" (1987), Connery divora ogni singola inquadratura con una performance ironica, viva ed incredibilmente carismatica; ma si supera ulteriormente grazie alla perfetta alchimia con Harrison Ford: i due danno vita ad una delle coppie più genuinamente brillanti mai apparse su schermo, anche grazie all'ottima scrittura dei loro personaggi.




Se Indiana Jones è come al solito un avventuriero scavezzacollo interessato solo alla gloria della caccia al tesoro, suo padre è un personaggio più scafato, più attento alle ripercussioni anche morali che le proprie azioni hanno sul mondo; la sua è una vera e propria guerra contro quel male assoluto incarnato dal Nazismo, una vera e propria crociata contro l'oscurità che attanaglia il mondo, in una giustapposizione di vedute e caratteri semplicemente perfetta.
Non da meno, comunque, il resto del cast, con un Denholm Eliott il cui Marcus Brody è una spalla comica il cui humor semplice, dovuto al carattere naif e stralunato, coglie sempre nel segno; la parte dell'interesse amoroso viene affidato alla giovane e bellissima Alison Doody, il cui personaggio è decisamente più complesso di quelli visti in precedenza: doppiogiochista, ma non meschina, in grado quasi di redimersi, eppure dedita all'affermazione personale sino alla morte, anch'ella contrappeso al personaggio di Indiana Jones, di cui finisce per rappresentare il lato più distruttivo. Sorprendente anche il cameo del compianto River Phoenix, protagonista del rutilante incipit nei panni della versione più giovane, ma già affiatata del protagonista.




Azione rutilante che Spielberg conduce con mano ormai sicurissima; gli stunt sempre più incredibili si moltiplicano e si susseguono ad un ritmo forsennato; il cambio di ambientazione nella prima del film, con Venezia che apre le danze degli inseguimenti, avvicina la saga ad uno dei modelli di riferimento, ossia i film di James Bond, dove le location esotiche si moltiplicano ad ogni film; e vedere il vero James Bond interagire con il suo figlio più riuscito è semplicemente impagabile.





A differenza di quanto visto in precedenza, Spielberg spoglia l'azione dei risvolti più cruenti e cupi e vi inietta dosi sempre più marcate di umorismo; il modello diverrà la base per tutte le future pellicole d'avventura, che finiranno con il prendersi sempre meno sul serio sino a diventare delle parodie vere e proprie, ma qui l'equilibrio è ancora perfetto: si ride e ci si emoziona dinanzi alle rocambolesche avventure dei due Jones, in un crescendo di azione che porta ad un finale anticlimatico, eppure perfettamente riuscito e soddisfacente.




Finale che chiude alla perfezione le avventure dell'esploratore armato di frusta, divenuto oramai un mito, un personaggio immortale fissatosi indelebilmente nella memoria collettiva; che se ne va con un duplice congedo: il primo irresistibilmente ironico, quel "He choose poorly" che riassume perfettamente lo spirito del film; il secondo più epico, con la cavalcata degli eroi verso il tramonto, verso la pura leggenda.
Peccato che, due decenni dopo, Spielberg e Lucas decideranno di far concludere quella cavalcata in modo tutt'altro che memorabile.






EXTRA

Quella di Indiana Jones era stata inizialmente concepita come una trilogia ed è riuscita ad attraversare tutto un decennio durante il quale il cinema di intrattenimento americano ha raggiunto nuovi apici qualitativi, imponendosi come metro di paragone per molte successive produzioni; i piani per un quarto capitolo, tuttavia, non mancarono già all'indomani dell'uscita de "L'Ultima Crociata", il cui successo travolgente poteva ben ancora essere sfruttato.
Tutti i possibili progetti vennero però cassati da Lucas, che si disse insoddisfatto di tutti gli script proposti. Tra questi spicca quello scritto da Frank Darabont, "Indiana Jones and the Fate of Atlantis", che pur rimanendo saldamente ancorato allo spirito della saga, vi introdusse un forte elemento fantascientifico. La sceneggiatura era talmente buona che, pur con disappunto di Lucas, venne riutilizzata dalla Lucas Arts per dar vita all'omonimo videogame, per anni (ed in parte tutt'oggi) considerato come la continuazione ufficiale delle avventure dell'archeologo armato di frusta e fedora.





Ma anche prima dell'orrendo "Il Regno del Teschio di Cristallo", Indiana Jones vide un'altra incarnazione audiovisiva, questa volta per il piccolo schermo, con la serie "Le Avventure del Giovane Indiana Jones".




Durata per 3 stagioni e trasmessa dalla ABC dal 1992 al 1996, la serie ha carattere antologico e vede un giovane Indiana Jones (interpretato da Sean Patrick Flanery a causa della prematura scomparsa di River Phoenix) impegnato non tanto nella canonica caccia al tesoro, quanto in vere e proprie avventure che ne formeranno il duro carattere, sempre immerse in location e contesti geo-politici diversi. Ogni episodio seguiva un canovaccio scritto da Lucas e facente parte di una densa cronologia di eventi che aveva ideato come ideale background del personaggio.





Oltre ad una piccola partecipazione di Harrison Ford nei panni del Jones cinquantenne in un episodio, un terzo attore vestiva regolarmente i panni di Indy: George Hall appariva all'inizio ed alla fine di ogni episodio nei panni di un Jones 93enne.




Sfortunatamente, tutte le parti con Hall sono state rimosse dalle edizioni home-video, in una mossa simile alla "specializzazione" della saga di "Star Wars" che ha però finito per togliere parte del fascino della serie.

lunedì 13 febbraio 2017

Hell or High Water

di David Mackenzie.

con: Chris Pine, Ben Foster, Jeff Bridges, Gil Birmigham, Willaim Sterchi, Buck Taylor, Katy Mixon, Amber Midthinder.

Western/Noir

Usa 2016

















Western e classicismo, western è classicismo, forse; perché come ogni "genere" che si rispetti, anche il western, ossia il più cinematografico tra i tanti, è sempre stato in grado di adattarsi al mutamento dei costumi e della sensibilità di autori e spettatori. Ed "Hell or High Water" rappresenta in un certo senso la prova di questa malleabilità, arrivando in parte ad invertire il tradizionale concetto di buoni e cattivi nel canonico caper ad ambientazione western. Non per nulla, la storia esce dalla mente di quel Taylor Sheridan nato come attore ma il cui talento è meglio espresso dai suoi script, tra i quali figurano anche quel "Sicario" che tanto ha a che spartire che questa storia di sangue e sopravvivenza.




Perchè di una storia classica pur sempre si tratta; da un lato ci sono i fratelli Toby (Chris Pine, inspiratissimo) e Tanner Howard (Ben Foster, al solito camaleontico e per una volta squisitamente sopra le righe), rapinatori di banche di quel Texas sempre fermo nei suoi paesaggi immensi; e dall'altro i ranger Marcus (Jeff Bridges) e Alberto (Gil Birmigham), mezzo comanche e mezzo messicano. Ma i tempi non sono più quelli della grande rapina al treno o delle sparatorie tra indiani e cowboy, né quelli del crepuscolo delle leggende del West: ora a farla da padrone è la speculazione finanziaria che ha lasciato un deserto di disperati alle sue spalle, come nuovi colonizzatori che hanno tolto le terre all'uomo bianco. Ecco dunque che i rapinatori lo sono per forza, pesati da debiti gonfiati ad arte dal vero cattivo, quel direttore infingardo, grassoccio e codardo, perfetta incarnazione dell'estrema banalità del male moderno; ai quali gli antieroi giocano il più truce dei tiri: ripagarlo con i soldi che gli hanno sottratto.




I buoni, invece, gli sceriffi che pattugliano le desolate strade delle midland texane sono tutori dell'ordine vecchi e disillusi, che credono solo nel loro lavoro, non nell'ordine; non esiste un ideale da proteggere dinanzi alla coscienza della fine dei valori, solo una forma di cameratismo spicciolo che porta alla personalizzazione del lavoro; il sangue scorre così per necessità più che per rancore e la legge da far rispettare è solo un lavoro come un altro, tanto che nessuno crede più in essa, di certo non i comuni cittadini, quelle comparse che attraversano la strada degli Howard e dei loro inseguitori, anche loro impegnati in una sopravvivenza forse ben più disperata di quella dei coloni.




Sullo sfondo lui, il grande Texas, i cui paesaggi sono inquinati da cartelloni pubblicitari che martellano l'occhio promettendo soldi, strozzinaggio legalizzando beffardo ed inevitabile. Texas ancora saldamente legato alla violenza atavica, dove chiunque tira il grilletto per farsi giustizia da sé, persino i tutori dell'ordine più assennati. E lo script di Sheridan si guarda bene dal prendere parte, mette l'odio "immortale" al centro della scena lasciando che i suoi personaggi si insinuino sempre in quella zona grigia fatta solo di anti-eroi e disperati allo sbaraglio.
La regia dello scozzese MacKenzie, per quanto pulita, è di puro mestiere, non sempre sottolinea a dovere la bellezza della scrittura e le sue implicazioni anche simboliche. Laddove lui inciampa, per fortuna intervengono gli attori, tutti rigorosamente in parte e tutti perfettamente calati nei loro personaggi, persino Jeff Bridges, di certo non nuovo al ruolo dello sceriffo anziano e violento.




E pur se non memorabile, "Hell or High Water" rappresenta forse il primo tassello di un nuovo corso del western, sempre uguale eppure sempre diverso, ma sempre attento a saper cogliere l'anima di un'epoca.

giovedì 9 febbraio 2017

Moonlight

di Barry Jenkins.

con: Mahershala Alì, Jaden Piner,  Ashton Sanders, Jharel Jerome, Naomie Harris, Duan Sanderson, Janelle Monàe, Alex R.Hibbert.

Drammatico

Usa 2016
















Con una decisione spiazzante, nel dicembre scorso la direzione dei BAFTA ha annunciato una nuova regola: potranno essere premiati solo quei film che trattano temi riguardanti le minoranze etniche o i conflitti sociali, che hanno attori o membri della troupe appartenenti a minoranze o che,in qualsiasi altro modo, propagandano la multiculturalità. Decisione che sembra voler andare in due direzioni: da un lato essere più inclusivi verso opere e temi d'attualità, dall'altro evitare uno scandalo simile all' "OscarSoWhite" che tanto fece infuriare i ben pensanti la scorsa stagione.
Ma nei fatti in cosa si traduce questa regola? Semplice: solo pellicole che hanno determinati standard, di certo non qualitativi, potranno ricevere uno degli agognati "Oscar britannici"; con la conseguenza che l'inclusività finisce per tarpare le ali a pellicole ed autori meritevoli e la presunta apertura mentale alle spalle di una decisione del genere finisce per forza di cose per essere percepita come una forma di bigottismo falso progressista, la classica "doccia per la coscienza" che società occidentale, in più occasioni, utilizza ipocritamente per lavarsi via i veri scandali del passato.
Non deve quindi stupire se ai successivi Golden Globes a far strage di premi siano stati, oltre a "La La Land", pellicole come "Moonlight" e "Barriere", che sbattono in faccia allo spettatore i drammi degli afroamericani e degli omosessuali ammassando per accumulo temi e drammi (la prima) o riproponendo tutti i cliché del caso (la seconda); fa più rabbia, semmai, lo snobbismo verso quel "Silence" che porta anch'esso in scena un dramma epocale e sempre attuale, quello della segregazione e della persecuzione e lo fa con una lucidità ed una crudezza inusitata; forse per i bigotti del buonsenso un asiatico non vale quanto un afroamericano e più che all'effettiva qualità di un opera bisogna davvero badare al colore della pelle di chi la dirige o interpreta. Situazione ancora più squallida se si tiene conto di come "Moonloght" sia quasi un film manifesto di un cinema ipocrita e vuoto, finto moralista, finto progressista e finto autoriale, il cui autore, Barry Jenkins, sarà pur spinto dalle migliori intenzioni, ma finisce per fare un clamoroso buco nell'acqua.





I modelli di riferimento sono aulici: la crisi identitaria che cela l'omosessualità di Fassbinder incontra la violenza dei ghetti di John Singleton e del primo Spike Lee. Lo spaccato di vita vuole farsi racconto morale, seguendo tre fasi della vita del protagonista, Chiron; personaggio afflitto da ogni tipo di problema sociale ed esistenziale possibile ed immaginabile: omosessuale (forse per natura, forse per scelta), perseguitato dai bulli sin dall'infanzia, vittima della violenza durante l'adolescenza, sottomesso da una madre tossicodipendente e destinato a diventare anch'egli un'anima persa nella vita da strada.
Le disgrazie, i drammi e le sconfitte si accumulano, ma anzicchè trasformare il racconto in un dolente dramma umano come nella tradizione del cineasta tedesco o in un saggio pop ed espressivo come in quello dei figli della blaxploitation degli anni '90, la narrazione si accascia su tutti i cliché del cinema indie, sia drammaturgici che estetici. Il distacco verso la materia è come al solito d'obbligo, la freddezza chirurgica congela ogni singola scena e a farla da padrone sono inquadrature para-oggettive asfittiche, fatte di nuche e schiene che si muovono su schermo, in una ricerca del rigore a tratti ridicola, sfrontatamente portata avanti per celare le radici teatrali dello script





La teatralità della scrittura, però, portata in scena senza alcun piglio espressivo finisce per schiacciare caratterizzazioni e personaggi, tutti rigorosamente stereotipati; il patrigno che viene dalla strada ma saggio, l'amico traditore, il bullo sboccato, la madre oppressiva, tutti i personaggi finiscono per essere caricature semoventi che affossano ogni possibile profondità.
Non che a Jenkins paia interessare, tant'è che tutti i drammi e le tematiche vengono usate come mero pretesto narrativo. Non c'è la volontà di entrare davvero nel mondo del personaggio, di comprenderne le emozioni ed i pensieri, quanto quello di ritrarlo in modo completo, ma piatto. Tanto che alla fine, persino la catarsi appare scontata, prevedibile e del tutto inutile vista la totale mancanza di empatia non-generatasi nel corso delle 2 ore di durata, troppe e troppo lente. Non a caso, l'unica scena riuscita, l'unica che si ferma davvero nella mente, è quella del dialogo sulla parola "faggot", unica concessione al sentimento che in parte riesce a trasmettere l'inquietitudine del protagonista.





Perché oltre che fiacco, il racconto è prevedibile, manca di vera originalità, peccato mortale in una storia raccontata volutamente con piglio anestetico. Non resta nulla del dramma, non c'è emozione né convinzione, solo immagini vuote che si agitano sullo schermo, alla faccia delle tematiche essenziali che Jenkins decide di affrontare.
La mancanza di verve non gli impedisce, per paradosso puro, di scomodare anche nella messa in scena riferimenti colti; quando quell'ultima inquadratura si palesa come una pretenziosa ripresa del cinema di Truffaut, si capisce come questo cinema falso sperimentatore che vampirizza il vero cinema d'autore europeo ed americano che fu non può che essere bollato come parodistico, oltre che incredibilmente vuoto. Non c'è rielaborazione dei modelli dati, come avveniva ai tempi della New Wave, né il gusto per un vero postmodernismo colto: quel che conta è tirare su la posta, puntare in alto senza avere la voglia di impegnarsi davvero nell'esplorare i temi trattati, né nel dar loro una completa e convincente forma filmica.





Quel che resta è solo una sorta di delirio vacuo che vorrebbe essere cinema d'autore, che gira a vuoto per tutta la sua durata, impaurito da sé stesso e dalle implicazioni che potrebbe avere.
Il successo di critica è però ben spiegato: oltre che ad usare uno stile abusato comunemente associato al cinema d'essai e per questo automaticamente efficace (sulla carta), "Moonlight" butta in faccia allo spettatore tutti quei temi finto taboo che alla critica ignorante finto-colta e allo spettatore che cerca di darsi un tono piace guardare; e lo fa senza correre rischi, non offendendo né spiazzando nessuno. Il modo in cui tratta tali tematiche, tanto, non fa testo, l'importante è sbandierarle, usarle come facciata; ecco a voi la nuova frontiera dell'Oscar-Bait.