lunedì 27 aprile 2020

La Dolce Vita

di Federico Fellini.

con: Marcello Mastroianni, Anouk Aimée, Anita Ekberg, Alain Cuny, Riccardo Garrone, Annibale Ninchi, Yvonne Ferneaux, Walter Santesso.

Italia, Francia 1960


















Laddove nei suoi primi film Fellini descriveva gli strati più bassi dell'Italia del Secondo Dopoguerra, con "La Dolce Vita" cambia soggetto e stile. Sotto i riflettori sono ora gli "agiati", vip e personalità dell'alta borghesia romana, coloro i quali si sono affermati grazie al boom economico. E, inaugurando una florida collaborazione con Marcello Mastroianni, ne usa lo sguardo e il corpo per creare una parabola ai limiti del religioso sulla perdizione.




La struttura dello script è, come da tradizione, episodica, ma mai come ora è presente un senso di progressione all'interno dei singoli episodi; trait d'union è ovviamente il "cammino" di Marcello, il suo incedere verso uno stato mentale alterato. Non per nulla, il film si apre con lui in uno stato di grazia e introducendo la componente religiosa.
La religione ne "La Dolce Vita" è fenomeno popolare, esternazione fatta di rituali e icone. La prima immagine di tutto il film è anche una delle più potenti: il trasporto aereo di una statua del Cristo, che sorvola la città con Marcello letteralmente al suo fianco, simbolo del suo stato "sacrale" o immacolato. Marcello è sin da ora doppio di Fellini, un Fellini in realtà giovane, appena sceso dal treno de "I Vitelloni", ancora non corrotto da quanto troverà ad attenderlo in città.



Il tema religioso scorre sottopelle anche nell'episodio della diva: Anita Ekberg, la donna che incarna tutte le donne, è visione angelica, che si affaccia su Piazza del Vaticano e arriva persino a battezzare Marcello nella celebre scena della Fontana di Trevi, solo per poi sparire improvvisamente; la grazia, idealmente, si allontana dal protagonista, il quale sarà testimone di uno strano caso di apparizione testimoniata di due bambini, che diverrà una baraonda mondana piuttosto che esperienza intima.




Il cammino distruttivo di Marcello attraversa varie "stazioni" e in ognuna delle quali è testimone della decadenza morale, intesa non in senso moralistico-universale, quanto come mancanza di ogni tipo di idea o ideologia in una società che vive di momenti futili e piaceri effimeri. Tutto ne "La Dolce Vita" è un mero passatempo in una vita dedicata al nulla che porta al nulla, da qui il suicidio di Steiner, unico vero amico di Marcello e unico personaggio che, prima di lui, è cosciente dello stato.




Una vita lieve, o meglio "greve" nella sua vacuità. Il cammino di Marcello, benché progressivo nella sua costante discesa verso uno stato apatico, è casuale, privo di una concatenazione logica effettiva, è un vagare di luogo in luogo per ritornare sempre nella Via Veneto dell'epoca, ossia il centro nevralgico della "dolce vita", quel luogo che per Cabiria era sfavillante, ma che per Marcello è solo il grado zero dell'umanità.




Fino ad arrivare agli ultimi due episodi, idealmente l'uno la continuazione dell'altro, gli unici ad essere logicamente e narrativamente connessi. Troviamo un Marcello visibilmente stanco, esausto della dolce vita e del suo vuoto, che per divertirsi canzona una giovane aspirante attrice, personaggio non molto diverso da quanto fosse lui nei suoi primi giorni nella capitale. Da qui un'immersione nelle macerie della classe aristocratica, ridotta ad una macchietta priva di spessore, sino ad un incontro catartico; il mostro marino, stanco e moribondo, è ideale doppio di Marcello, oramai privato di ogni empatia, prigioniero della depressione apatica, il quale non riesce a sentire le parole di quella ragazzina che per tutto il film è stata simbolo di innocenza: adesso lui si trova su di un piano diverso rispetto a lei, tra i due non può esserci alcuna comprensione.
Del tutto a sé stante è invece l'episodio in cui Marcello accompagna il proprio padre per le vie della Capitale. Costui altri non è che un suo doppio, un uomo venuto in città in cerca di emozioni, ma che realizza la vacuità del piacere giusto quando sta per conquistarlo. La sua è una favole morale della quale il protagonista non riesce, fatalmente, a far tesoro.


Al pari della narrazione, anche la direzione di Fellini si fa più controllata, precisa nei movimenti di macchina così come nella costruzione del fotogramma. Polso fermo prova di come già da adesso il suo stile sia pienamente maturo, pronto per un passo ulteriore verso una personalizzazione del mezzo filmico che lo renderà definitivamente famoso come uno dei massimi fautori della Settima Arte.

lunedì 20 aprile 2020

Bombshell- La Voce dello Scandalo

Bombshell

di Jay Roach.

con: Charlize Theron, Nicole Kidman, Margot Robbie, John Lithgow, Malcolm McDowell, Connie Britton, Stephen Root, Kate McKinnon, Allison Janney.

Usa, Canada 2019
















Con la degenerazione successiva alla fase dello scandalo, è fin troppo facile criticare il movimento #metoo come una caccia alle streghe perpetrata da quell'ala del femminismo moderno che ha abbandonato logica e razionalità in cambio di un estremismo tanto marcato quanto ridicolo. Proprio per questo un film come "Bombshell" risulta essenziale per il suo modo in cui ricapitola i primi episodi che hanno dato il via al movimento; casi in cui la figura maschile è davvero orchesca, mentre la donna, in pieno XXI secolo, è ancora oggettificata come puro strumento sessuale.



Il ritratto impietoso della caduta di Roger Ailes viene cucito addosso a tre donne la cui carriera è stata da lui influenzata. Laddove l'accusa verso la strumentalizzazione del sesso è netta, più sfumato è il ruolo delle tre accusatrici: non viene taciuto l'uso che Gretchen Carlson ha fatto dell'accusa come pura "reazione" alla sua estromissione da Fox News, né come il rapporto di Ailes con Megyn Kelly fosse buono, anche al di là degli episodi di molestie. Viene poi creato il personaggio di Kayla Popsil, interpretato con trasporto da Margot Robbie, feticcio raffigurante diverse figure "secondarie" del network la cui carriera è stata favorita dai rapporti sessuali avuti con il boss. Proprio dal rapporto con questo personaggio immaginario è possibile osservare il modus operandi di un predatore sessuale mellifluo, quasi impaurito dalla mercificazione del corpo femminile, eppure mai pentito delle sue azioni.



La denuncia risulta così forte e, clamorosamente, mai davvero compiaciuta: non c'è volontà di scandalizzare il pubblico, forse perché la fase dello scandalo è già stata ampiamente metabolizzata. L'urgenza, semmai, è nel ritrarre la situazione di subordinazione delle donne nell'ambiente lavorativo conservatore, dove la perfezione fisica è imposta con la violenza e dove, in antitesi agli albori puritani della destra americana, il corpo femminile è usato per attrarre la pancia del pubblico anche in quell'ala conservatrice della società che, teoricamente, dovrebbe trattare le done con più riguardo.




Talvolta lo script prende qualche licenza ironica, come se il pamphlet fosse filtrato dalla sensibilità di un Adam McKay meno caustico, ma senza riuscire ad essere davvero graffiante. Il meglio, semmai, si ha quando viene lasciato campo libero al cast di bionde, una più brava dell'altra nel comporre il quadro dello scandalo e, al contempo, l'umanità ferita dei propri personaggi.




"Bombshell" diviene così una visione necessaria per capire l'importanza del movimento di liberazione femminile. Un film-documento che ci ricorda come spesso basti davvero poco per sovvertire un sistema basato sull'oppressione, anche la semplice collaborazione data dalla comunanza di disgrazie.

giovedì 16 aprile 2020

El Topo

di Alejandro Jodorowsky.

con: Alejandro Jodorowsky, Brontis Jodorowsky, Mara Lorenzio, Héctor Martinez, David Silva, Paula Romo.

Western/Surrealista

Messico 1970
















Con "Fando y Lis", Jodorowsky si è rivelato al mondo come perfetto esponente della corrente surrealista "classica", fortemente influenzata dai padri del movimento, Buñel su tutti. Con "El Topo", d'altro canto, trova una sua dimensione personale nella corrente, tramite la rielaborazione del genere western ibridato con un forte simbolismo esoterico-religioso. Forma di ibridazione che resterà il tratto fondamentale in tutta la sua produzione transmediale, incontrando, ad esempio, la fantascienza nel medium fumettistico così come la commedia dei sessi.
"El Topo" è il più genuino esempio di cult movie dell'epoca che si possa fare: proiettato a ripetizione nei cinema art-house e iniziatore delle cosiddette "proiezioni di mezzanotte", diviene argomento di conversazione presso l'elite artistica di quegli anni, dando lustro al nome del suo autore. Il quale si conferma narratore estremo e affascinante.



Impresa ardua scrivere di "El Topo", non tanto e non solo per il suo ricorso a simboli e metafore talvolta sin troppo ermetiche, quanto sopratutto perché la sola parola non rende giustizia alla forza della sua messa in scena. Jodorowsky abbandona la sperimentazione visiva in favore di uno stile pittorico, dove la perfezione di ogni singolo fotogramma ha una forza dirompente. Quanto alla storia e al significato, o ai significati, l'impresa è ancora più ardua.




"El Topo" è la storia del pistolero omonimo, interpretato dallo stesso Jodorowsky e così chiamato perché come la talpa passa la sua vita nel sottosuolo al buio e quando riesce ad arrivare in superficie, la luce del sole lo abbaglia. Si potrebbe pensare ad una metafora sulla ricerca della illuminazione e, da questo punto di vista, almeno metà film pare confermare questa tesi.




Nella prima metà, il pistolero è un Django lisergico (proprio l'autore ammetterà di essersi ispirato al look di Franco Nero nel cult di Corbucci per il costume del personaggio), un pistolero bardato di nero che incrocia il suo cammino con un pugno di bandidos, capitanati da un feroce colonnello. La battaglia contro questo primo manipolo di nemici è il primo passo verso una comprensione superiore: il colonnello, rappresentato come un grasso volitivo che vive con i porci, non è tanto e non solo la personificazione di un potere corrotto, quanto e sopratutto il simbolo dell'apparenza; per sconfiggerlo, El Topo lo sveste dei simboli di bellezza e potere che sfoggia, falsi che ne viziano l'immagine rendendolo migliore di quanto non sia.




Da qui si apre un "secondo atto": dopo aver "vinto" la donna del colonnello, El Topo abbandona il figlio ai frati e si reca nel deserto; qui continua un cammino verso l'illuminazione, forzato dalla donna: dovrà sconfiggere in duello un pugno di pistoleri considerati come maestri. Con lui, un'altra donna, anche lei pistolera di nero vestita.
Il cammino verso la perfezione è per il pistolero un fallimento: pur sconfiggendo gli avversari, fallisce nel carpirne la grandezza e i meriti. Da qui il fallimento e la perdita della sua posizione dominante: la pistolera lo priva del ruolo di maschio, poi lo uccide. Ma la morte porta con sé la lezione: El Topo ha un'illuminazione divina e rinasce come una sorta di profeta.




Salvato e venerato da un popolo reietto che vive nelle caverne, El Topo è ora un uomo comune, quasi un frate che ha il compito di guidare il suo popolo fuori dall'oscurità. Per farlo, comincia a lavorare come saltimbanco in un villaggio, dove tutti gli abitanti sono sottomessi ad una strana religione.
E tra i frati, rispunta il figlio di El Topo, oramai cresciuto e divenuto simile a suo padre. E' egli che smaschera la vacuità del culto del villaggio e che ritrova il padre, divenendone un doppio. Laddove El Topo si è lasciato alle spalle la violenza, suo figlio la riscopre e ne fa uso proprio verso il padre.




Il fine di El Topo viene raggiunto: i reietti tornano in superficie, ma ad attenderli c'è solo la morte. Il cammino di redenzione lo ha portato dapprima a riscoprire sé stesso, in secondo luogo a comprendere la natura violenta dell'uomo. All'ex pistolero non resta che immolarsi, mentre suo figlio, la sua donna e il neonato che questa ha portato in grembo abbandonano la scena verso un destino ignoto.




Questa è una delle possibili letture del film e, per forza di cose, risulta impossibile elencare tutte le implicazioni che ogni singola inquadratura porta con sè. Jodorowsky tocca anche temi quali l'identificazione del gender, l'ossessione per la predominanza sessuale, l'immoralità nascosta sotto la coltre di perbenismo e chi più ne ha più ne metta.
"El Topo" diventa così un caleidoscopio di temi e intuizioni declinate per via simbolica, riorganizzate in modo che il significato sia altro dal significante e dove è la percezione del simbolo ad essere illusoria. L'apparenza nasconde sempre qualcos'altro, un tema o una morale diversa da quanto appare e per decifrarla bisogna affidarsi non tanto all'inconscio, quanto ad una forma di coscienza non immediata, più vicina all'intuizione che al senso. L'immagine si fa così icona sacrale contente tutto il significato che l'autore vuole attribuirle, mutando al contempo dinanzi al singolo spettatore, il quale è invitato a domandarsi costantemente cosa stia effettivamente percependo.




Jodorowsky riesce così a creare una narrazione dalla potenza inusitata che travolge i sensi e l'intelletto, creando un surrealismo simbolico del tutto personale, diverso da quello di "Fando y Lis" eppure ad esso strettamente correlato. Un'evoluzione del quale questo suo western è solo la fase centrale, trovando piena maturità nel successivo "La Montagna Sacra". E anche comecapitolo a sé, "El Topo" resta un'oscura e affascinante opera surrealista.



EXTRA

L'idea di un seguito delle avventure del pistolero-monaco è stata spesso accarezzata da Jodorowsky nel corso dei decenni. Nel 2016 decide di darle forma con il medium fumettistico: "I Figli di El Topo" è la continuazione ufficiale del film del 1970, con protagonisti i due figli del pistolero, due opposti inconciliabili eppure più simili di quanto si possa credere.


martedì 14 aprile 2020

The Hunt

di Craig Zobel.

con: Betty Gilpin, Hilary Swank, Emma Roberts, Ethan Suplee, Ike Barinholtz, Wayne Duvall, Amy Madigan.

Thriller/Grottesco

Usa 2020

















---CONTIENE SPOILER---

Strano constatare come tutte le polemiche che la promozione di "The Hunt" abbia generato si siano disciolte come neve al sole quando questo è stato effettivamente distribuito; forse non tanto perché il film in se stesso non sia scomodo (e lo è, ma solo fino ad un certo punto, per via di una paternità ambigua), quanto per l'estrema attualità delle tematiche che porta in scena; tolta la storia di base, mutuata da quel "La Pericolosa Partita" del 1924, adattato con successo persino da John Woo in "Senza Tregua", sono la caratterizzazione dei personaggi e i dialoghi ad avere un effetto dirompente. Sebbene si tratti pur sempre della storia della classe dirigente che si diverte a divorare i propri sottoposti, la novità è insita nello schieramento politico rappresentato, ossia l'estrema sinistra americana.



Il gioco al rialzo che i radical chic da salotto e i leoni di Internet hanno avviato da una decina di anni a questa parte trova piena rappresentazione: i cacciatori sono tutti ricchi leftist in cerca di facili emozioni, che si divertono a cacciare chiunque non condivida le loro opinioni. L'esercito di Snowflake facilmente indignabili diviene classe armata in grado di distruggere una persona per i suoi tweet o perché nata in Mississipi in condizioni di povertà. La follia di tanta propaganda democratica viene smascherata trasformando gli oltranzisti liberal nella loro nemesi, ossia copie di quei repubblicani assetati di sangue e pazzi per le armi che vedono il prossimo unicamente come carne da macello da sfruttare per il proprio tornaconto.




Zobel tiene bene le redini della regia, sa quando spiazzare e quando alzare il tiro del grottesco. La metafora arriva forte e urlata ma non appare mai davvero compiaciuta: se i liberal sono delle bestie, le prede, tutti gun entusiast simil pro Trump non sono mai davvero esaltati o vittimizzati; sono semplicemente idioti che si sono ritrovati vittime di un gioco più grande di loro, tutti schiavi dei sentimenti del basso ventre al punto di non poterli davvero distinguere da quella classe sinistrorsa che li vuole morti; unica eccezione è data da quella che diviene la protagonista e motore della storia, ossia Crystal, alla quale la bellissima Betty Gilpin riesce a infondere una carica ferina quasi tangibile. E' lei l'unica "buona" in una caccia tra idioti e viziati, zotici e snob.
E dal risultato ottenuto su schermo, "The Hunt" potrebbe ben qualificarsi come un perfetto spaccato non solo della decadenza morale e materiale della sinistra americana, quanto sopratutto del caos ideologico che affligge la politica extraparlamentare americana tutta; se non fosse per un piccolo-grande neo.



Se il curriculum di Zobel rende credibile la sua presa di posizione, altrettanto non si può dire per Damon Lindelof, qui in veste di sceneggiatore, il quale ha firmato anche lo script di quella serie televisiva tratta da "Watchmen" la quale potrebbe essere presa come compendio di tutti i luoghi comuni della narrativa liberal esistenti. Serie che riprende i personaggi di Alan Moore imbastardendoli fino al midollo e calandoli in un contesto dove la distinzione tra buoni e cattivi è nettissima. Abbiamo così un universo dove tutti i maschi bianchi sono razzisti, cattivi o pazzi, il Dr. Manhattan diventa nero perché si e si innamora di una donna solo perché questa è afroamericana, Adrain Veidt, ossia il milionario bianco, diventa un rimbambito ambulante, il senatore repubblicano è cattivissimo e si esprime a frasi fatte e quel Hooded Justice che nei fumetti era un bianco simpatizzante nazista, viene riletto come un nero che si finge bianco per sopravvivere e viene persino sfruttato sessualmente dal solito maschio bianco volitivo e menefreghista.




Lindelof, in sostanza, prima prende una posizione da snowflake convinto solo per poi creare il perfetto contrappasso verso quella fetta di popolazione della quale egli stesso dovrebbe far parte. Non si capisce, di conseguenza, dove sia la sincerità: se il suo "Watchmen" pur non essendo riuscito aveva una forte coerenza interna, questa viene meno nel momento in cui lo si collega con "The Hunt". Forse Lindelof odia quegli ideali che la sinistra extraparlamentare usa come armi verso la classe dirigente e che lui è costretto a riprendere solo per compiacere pubblico e produttori; forse è anche convinto che quegli stessi liberal siano tanto infami quanto la classe dirigente di cui fanno comunque parte. O forse e più probabilmente, egli non è altro che un perfetto mercenario, in grado di scrivere tutto e il contrario di tutto purché sia ben pagato.




Impossibile quindi dire se "The Hunt" sia sincero o meno; di certo la realtà che critica è veritiera e la metafora che porta in scena è potente persino al netto del registro grottesco che ne stempera in parte gli estremi. Ma dinanzi alla firma di Lindelof è sempre meglio prendere i risultati con i guanti.

giovedì 9 aprile 2020

Le Notti di Cabiria

di Federico Fellini.

con: Giulietta Masina, François Pèrier, Franca Marzi, Ennio Girolami, Dorian Gray, Aldo Silvani, Amedeo Nazzari.

Drammatico

Italia, Francia 1957
















---CONTIENE SPOILER---

La prima parte della filmografia di Fellini, quella creata in antitesi ai dettami del Neorealismo, trova un epilogo ne "Le Notti di Cabiria", ultima opera con la quale il geniale autore scandaglia gli strati più bassi della società italiana. Un Fellini che si potrebbe quasi definire "verista" nella sua costante ricerca di un'autenticità che sia al contempo poetica, quasi romantico nell'inseguire umori e emozioni.
E "Cabiria" rappresenta l'ennesimo picco per Fellini, un altro capolavoro dalla forza espressiva dirompente e straziante.



Maria, detta "Cabiria" (Giulietta Masina), è una prostituta che si muove nella periferia romana alla costante ricerca di un riscatto; incontrerà sul suo cammino un divo volitivo e disilluso (Amedeo Nazzari, che interpreta praticamente se stesso) e un uomo, Oscar (François Pèrier) che dice di essersi innamorato di lei.




Per la sceneggiatura, Fellini si affida al rodato duo Flainao-Pinelli e, per la prima volta, riceve il contributo anche di un giovane Pier Paolo Pasolini. L'influenza che "Cabiria" avrà sul futuro autore di "Accattone" è incommensurabile: è come se Fellini gli avesse mostrato tenendolo per mano come ritrarre la periferia romana. Un periferia che la fa da protagonista, con le sue strade sterrate, le capanne usate per case con lo sfondo dei palazzoni del boom edilizio, il lungomare di Ostia e tutti quei luoghi frequentati dai poveracci, coloro che sono rimasti lontani dal benessere che in quegli anni si stava sviluppando. Il tocco di Fellini, qui, è quantomai leggero, non imbastisce fantasmagorie di sorta, non da spazio alla fantasia o al sogno, raccontando la storia della piccola passeggiatrice in modo diretto, quasi prosaico, anticipando persino alcuni elementi del melodramma all'italiana.




La storia di Cabiria si struttura, come da tradizione, in modo episodico; comincia e finisce allo stesso modo, con un uomo che la deruba e la lascia a morire, in un cerchio ideale che è sinonimo del girone nel quale è intrappolata, quello di una vita agra, fatta di delusioni e espedienti. In mezzo, una vera e propria Via Crucis che la vede umiliata, commossa, ingannata e innamorata.
Il tema della Fede fa capolino nell'episodio del pellegrinaggio alla Madonna, nel quale Fellini immortala un rito popolare che ha davvero poco a che fare con la preghiera; tra strilloni e bancarelle, Cabiria trova una possibile ancora di salvezza nella "Grazia", la quale però resta sospesa, immateriale e per questo quasi inutile, non concedendo nessuna certezza.



Prima di ritrovare la fede, Cabiria visita l'ultimo strato della società, ossia i reietti che vivono nelle grotte, persone le quali non possono vantare neanche quel poco che lei ha; non una casa, non degli abiti decenti, solo la carità di una misteriosa anima pia che illumina di speranza la vita della protagonista.
Il percorso intrapreso è in teoria ascendente: Cabiria parte dal non avere nulla su cui contare, scampata com'è all'ennesima delusione; poco alla volta troverà qualcosa negli incontri che si susseguono nelle sue "notti", fino a trovare la speranza nella figura di Oscar.



Un salvatore estemporaneo, un uomo piccolo come lei, il quale si dice innamorato; un amore, vero o presunto che sia, che è riscatto sociale, passaporto verso il benessere non solo materiale, ma anche mentale, via di fuga dalla periferia verso quella Roma la quale, per lei, esiste solo per passeggiare.
La forza di Fellini sta nel descrivere in modo vivido un personaggio che non si arrende alle difficoltà, cosciente della propria miseria eppure mai sopraffatto da questa; Cabiria risponde alle sventure sorridendo e continuando ad andare avanti, come simboleggiato nel commovente finale: nulla può abbatterla, la sua ricerca per un domani migliore continua anche quando viene ridotta alla miseria più totale.



Una favola amara, quella di Cabiria, più diretta e secca de "La Strada", meno pessimistica de "Il Bidone" e sempre coinvolgente e efficace.


EXTRA

Primo film di Fellini ad essere stato oggetto di remake; nel 1969, Bob Fosse porta su schermo il suo musical "Sweet Charity- Una Ragazza che voleva essere amata", con Shirley McLaine nei panni che furono della Masina, Sammy Davis Jr. e Ricardo Montalban.

lunedì 6 aprile 2020

Black Christmas

 di Sophia Takal.

con: Imogen Poots, Aleyse Shannon, Lily Donoghue, Brittany O'Grady, Cary Elwes, Caleb Eberhardt, Madeline Adams.

Thriller

Usa, Nuova Zelanda 2019















---CONTIENE SPOILER---

In principio fu "Black Christmas" di Bob Clark, piccolo thriller canadese che si rifaceva in parte ai Giallo Movies nostrani per creare quella formula che poi Carpenter avrebbe perfezionato sino a divenire lo Slasher. Un cult che si credeva perduto e che assume davvero tale status a seguito della sua riscoperta alla fine degli anni '90, quando viene nuovamente editato per il mercato home-video.
Il thriller di Clark vende talmente bene che nel 2006 spunta un primo remake, il quale non può certo dirsi riuscito, ma che azzecca quantomeno la formula di "belle ragazze perseguitate da un killer misterioso in un campus universitario durante le feste di Natale", oltre ad essere graziato da una bella fotografia.
Arriva per ultimo il secondo remake, che Jason Blum mette in cantiere con la sua solita formula di low-budget da poter vendere bene in tutto il mondo. Peccato che abbia commesso un errore fatale: affidare regia e sceneggiatura a Sophia Takal, regista politicamente impegnata alla quale il film di Clark, lo slasher e le "regole della tensione" non interessano neanche per sbaglio e che preferisce trasformare quello che doveva essere un film di genere con un sottotesto femminista in un pistolotto malriuscito e indigesto sul girl power.



Va innanzitutto ricordato come lo slasher sia e sia sempre stato il filone femminista per antonomasia, dove è la donna a distruggere il male incarnato in un uomo che usa un simbolo fallico per uccidere. Cosa che era chiara, su tutti, a Amy Jones e Rita Mae Brown, ferventi femministe che nel 1983 sfornano, per Roger Corman, il piccolo cult "Slumber Party Massacre", che con i suoi simbolismi e metafore riesce davvero ad essere un'apologia sulla forza femminile, pur restando sempre calato nei meccanismi del cinema di genere; non un capolavoro, sia chiaro, ma una pellicola onesta con lo spettatore che riusciva a trasmettere un messaggio femminista dirompente. Vien da chiedersi perché Blum non abbia deciso di rifare questo piuttosto che il cult di Clark e la risposta più probabile risiede nella vendibilità del titolo.



Come thriller, "Black Christmas" non funziona per niente. Ogni qual volta la Takal prova a costruire la tensione, lo fa in modo talmente blando e poco originale da divenire subito prevedibile, al punto di sfociare nel ridicolo involontario; i jump-scare sono tutti fuori luogo e usati quando manca la voglia di gestire il cliamx; e quando si arriva a saccheggiare la famosa scena dell'ospedale de "L'Esorcista III", si scade incontrovertibilmente nel tedioso. E non basta qualche inquadratura ispirata per salvare una regia che davvero non sa muoversi tra i meccanismi della tensione.




Ma, come accennato, alla Takal urge piuttosto creare un'apologia radical-femminista, quindi decide di rileggere la trama dell'originale in chiave progressista; nel mondo di questo nuovo "Black Christmas", tutti gli uomini che vivono normalmente la propria mascolinità sono dei mostri, stupratori e assassini assetati di sangue, per di più controllati dalla volontà di un vecchio e misogino patriarca; la trovata geniale è poi quella di battezzare la confraternita assassina come "DKO", perché la sottigliezza è per gli stupidi. Vien da ridere, poi, quando vengono introdotte delle figure maschili positive, giusto due: il primo, Landon, è un personaggio totalmente asessuato con un volto da povero sfigato, costantemente subordinato ai personaggi femminili; il secondo, Nate, ha una trasformazione in maschio demens dopo aver assaggiato la birra; che sia il luppolo la vera causa della degenerazione del cromosoma XY?




Le donne, dal canto loro, sono tutte belle, sante e intelligenti; il personaggio di Kris, la classica spalla afroamericana, è il perfetto modello di femminista odierna, che porta avanti la battaglia per far studiare all'università anche le opere di scrittori afroamericani, omosessuali, transgender e donne e poco importa se in passato la cultura fosse appannaggio della sola classe alto borghese o se non esistono scrittori afroamericani transgender degni di essere annoverati tra i classici: chiunque contraddica il suo modo di pensare è subito etichettato come retrogrado decerebrato. In una pellicola intelligente, questo personaggio verrebbe usato per smussare le pretese più futili e inconsistenti del progressismo da campus per creare una parabola intelligente su come aggiustare le storture ancora presenti in un modo in cui il multiculturalismo è divenuto una realtà urgente; qui, al contrario, è proprio il personaggio di Kris che serve per contraddire chiunque non condivida il pensiero ultra-liberal, il quale è sempre, categoricamente, il maschio bianco eterosessuale.




Il fondo, ad ogni modo, lo si tocca già nel primo atto, quando la protagonista Riley reagisce allo stupro subito cantando una canzoncina con le amiche dinanzi ai DKO; perché denunciare la cosa alle autorità, accusare formalmente il proprio assalitore dinanzi a giudice e giuria e vederlo condannato a 20 anni di galera è troppo poco, l'umiliazione di un gruppo di pupe in abiti sexy è decisamente una punizione più adeguata. Il che, tra l'altro, finisce per ricordare lo strafalcione fatto da Jennifer Kent.
Quando nel finale, la Takal porta in scena la vendetta delle vittime, il ridicolo trionfa, tra amazzoni che entrano in scena come in un film di Tarantino da discount e la donna che ha osato sottomettersi al fallo che viene tradita e eliminata in modo crudo, senza alcuna empatia da parte di chi racconta.




In un mondo ideale, questo "Black Christmas" sarebbe potuto non esistere; la Takal avrebbe diretto per Blum un nuovo remake di "Non violentate Jennifer", come era originariamente nei suoi piani e la storia di Riley e le sue compagne sarebbe stato un rape e revenge degno di questo nome, dove il peccato viene castigato in modo feroce eppure giusto. Purtroppo, ci è dovuto toccare questo finto thriller esangue, sbagliato e compiaciuto.
Un thriller solo nel nome che acquista una forma di valore come testimonianza dell'inconsistenza ed incoerenza di tanto femminismo da campus, professato da quelle figlie dell'alta borghesia americana troppo stupide e codarde per affrontare di petto i veri problemi che l'essere donna comporta nella società odierna, sopratutto in quei luoghi del mondo dove l'essere donna è ancora considerato sinonimo di subordinazione. Ma si sa, l'esasperazione autoreferenziale e polemica vende sempre meglio dell'intelligenza.

sabato 4 aprile 2020

First Love

Hatsukoi

di Takashi Miike.

con: Sakurako Konishi, Masataka Kubota, Nao Omori, Takahiro Miura, Becky, Jun Murakami, Shota Sometani.

Yakuza-Eiga/Drammatico

Giappone 2019














E' dai tempi di "Harakiri", del 2011, che Takashi Miike sembra prigioniero di una spirale di mediocrità; la sua filmografia recente, oltre ad avere una densità quantitativa decisamente inferiore rispetto al passato, non presenta titoli davvero memorabili; basti pensare al malriuscito "Yakuza Apocalypse" o alla piatta trasposizione di "Diamond is Unbreakable"; se si escludono i soli "Il Canone del Male", "L'Immortale" e "As the Gods Will", si può parlare davvero di un periodo di magra per il grande filmmaker nipponico.
Periodo che per fortuna sembra essere giunto al termine: con "First Love" Miike azzecca un divertente e riuscito ritorno alle origini, allo Yakuza-Eiga che ha tanto frequentato nel corso della sua lunga carriera e che dimostra nuovamente di saper padroneggiare alla perfezione.



Un racconto yakuza che si mischia con il melodramma romantico, quello di "First Love", dove un gruppo di individui finisce per incontrarsi e scontrarsi sino alle estreme conseguenze. Primi fra tutti, i due giovani "innamorati": Monica (Sakurako Konishi), nome da strada di una giovane ragazza costretta a prostituirsi, e Leo (Masataka Kubota), giovane pugile di belle speranze a cui è stato disgraziatamente diagnosticato un tumore al cervello. Oltre loro, un circolo di assassini e corrotti capitanati da Kase (Shota Sometani), yakuza doppiogiochista che ordisce un piano assieme allo sbirro corrotto Otomo (Nao Omori, che torna a lavorare con Miike a quasi 20 anni di distanza dal cultissimo "Ichi the Killer") per derubare Yasu e Julie (Takahiro Miura e Becky), aguzzini di Monica e affiliati al suo stesso clan.



Un pugno di vite che si incontrano e si scontrano durante 24 ore nelle quali tutto è possibile; non c'è un destino preciso a guidarne le azioni, anzi chi pretende di leggere il futuro, come il chiromante da strada incontrato da Leo, finisce solo per sbagliare. A tirare le fila dei personaggi sembra essere il solo caso, che fa incontrare per pura coincidenza Monica e Leo, che disfà il piano, teoricamente perfetto, di Kase, che salva da morte certa Julie affinché si vendichi e che alla fine riunisce tutti sotto lo stesso tetto per un massacro risolutivo.




Una lotta disperata per la sopravvivenza, dove tutti i giocatori finiscono nel tritacarne della violenza e dove a scamparla sono solo i più fortunati. Le uniche forze salvifiche sembrano essere l'onore e l'amore, dove quest'ultimo è però anche motore di distruzione, con la vendetta di Julie, la quale viene trasfigurata in un personaggio caricaturale, quasi un mostro da slasher movie assetato di sangue.
Lotta dalla quale chi sopravvive ritorna alla piena vita, rinasce come una persona nuova, più forte e integra di prima, pronta a riassaporare quella vita che in precedenza sembrava stesse perdendo.




Miike controlla alla perfezione il racconto, sa quando andare per il sottile e quando premere l'acceleratore del grottesco; parte dal dramma umano e dall'intrigo mafioso per poi impennare verso l'horror e lo spatter, caricando quest'ultimo, come al solito, fino all'estremo, sfociando nel parossistico più incontrollabile ma mai davvero gratuito, proprio come aveva sempre fatto in passato. E, come in "Big Bang Love- Juvenile A" e "Happiness of the Katakuris", inserisce una sequenza animata altrimenti "impossibile", aumentando il tasso di spettacolarità del racconto.




"First Love", al pari del fato dei suoi personaggi, finisce così per rappresentare un ritorno alla piena forma per Miike, un racconto dove sobrietà ed esagerazione sono perfettamente dosati, efficace e estremamente divertente.