martedì 31 ottobre 2017

Scream- Chi Urla Muore

Scream

di Wes Craven.

con: Neve Campbell, David Arquette, Courtney Cox, Skeet Ulrich, Rose McGowan, Matthew Lilard, Jamie Kennedy, Drew Barrymore, Henry Winkler.

Thriller/Horror/Grottesco

Usa 1996












---CONTIENE SPOILER---


Negli anni '90, il filone slasher, che tanta fortuna aveva portato nelle casse dei produttori americani, perde definitivamente la sua presa sul pubblico; le lunghe e ripetitive saghe di "Halloween", "Venerdì 13" e "Nightmare" si concludono nei primi anni del decennio a causa del calo di consensi anche economici (solo Michael Myers tornerà un'ultima volta al cinema alla fine del decennio e bisognerà aspettare i primi anni del 2000 per vedere "Freddy vs Jason"), mentre autori ed artigiani del cinema del terrore tentano nuove vie per spaventare il pubblico, nuovi registri e situazioni che, tuttavia, non riescono a rinverdire i fasti del genere.
Ma quel filone ormai dato per morto risorgerà inaspettatamente nella seconda parte della decade, riforgiandosi ad una nuova forma; merito (o forse demerito, visto il lascito successivo) dello sceneggiatore Kevin Williamson e del suo script "Scary Movie", vera e propria dissezione dello slasher che la Miramax fa portare su schermo a Wes Craven. Questi, dal canto suo, era reduce da quel "Vampiro a Brooklyn" con il quale aveva tentato, fallendo, di coniugare commedia ed horror sulla falsariga di quanto fatto dal collega John Landis ed era alla ricerca di un nuovo progetto per rilanciare la sua carriera; il suo lavoro su "New Nightmare" lo rende perfetto per tradurre in immagini le intuizioni di Williamson: nasce così "Scream" (il titolo sarà cambiato all'ultimo momento in sede di distribuzione e quello originale finirà, guarda caso, appioppato ad una parodia, ossia alla parodia della parodia) miscuglio tra satira, omaggio e sovversione di tutti i clichè dello slasher, che finirà inavvertitamente per crearne di nuovi.




Si potrebbe dire, forse suscitando un pò di ilarità, come "Scream" sia, di fatto, il "A' Boute de Souffle" del cinema horror americano: una pellicola cosciente di essere un'opera di finzione, il frutto dell'elaborazione di una mente creativa, per di più ancorata ad una serie di luoghi comuni che devono essere rispettati per la riuscita della storia. La cinefilia diviene mantra quasi ossessivo: le "regole per sopravvivere" ad un horror vengono snocciolate dal personaggio di Randy, il nerd che fa da contronarratore per sottolineare la falsità degli eventi; il numero di citazioni ed omaggi sparsi per tutta la durata del film è impressionante: si parte dal primo omicidio, con il corpo di una giovane donna impiccato e sventrato come in "Suspiria" per arrivare alla fine del secondo atto costruito sulla falsariga del "Halloween" di Carpenter, con Randy che urla a Jamie Lee Curtis di stare attento all'assassino alle spalle, mentre dietro di lui c'è Ghostface, in una specie di riflesso per il tramite dello schermo televisivo; molti i cognomi illustri che vengono dati ai personaggi, come Loomis, o la frase ad effetto "sembra di stare in un film di Wes Carpenter"; gustosi anche gli "easter egg", con una comparsata flash di Linda Blair nei panni di una giornalista e dello stesso Wes Craven nei panni di un bidello chiamato Fred, agghindato come Krueger.




Cinefilia che è pura espressione del decennio in cui "Scream" vede la luce; il cinema americano degli anni '90 riscopre il gusto per quel cinema d'autore e per una messa in scena che fa dell'omaggio e della ripresa di canoni estetici e narrativi propri della New Wave il suo imperativo; numi tutelari di Williamson e Craven sono sicuramente Tarantino e, sopratutto, Kevin Smith, il cui "Clerks" appare come poster e VHS in due scene clou.
Certo, il lavoro dei due autori non è scostante, né ha la sottigliezza, il cuore o l'intelligenza di quelli di Godard, Tarantino o Smith. Ed in parte ciò è dovuto anche alle loro stesse intenzioni, votate a creare una riflessione sul genere tramite un film di genere tout court, che può anche essere visto come un normalissimo thriller a tinte splatter, un perfetto esponente, per certi versi, di quel filone che mette alla berlina. Di fatto, Williamson citerà come fonte di ispirazione non tanto il cinema d'autore europeo o americano (più vicino alla formazione di Craven che alla sua), quanto il lavoro svolto da Tom McLaughlin in "Venerdì 13 Parte VI- Jason Vive", il miglior capitolo della serie, concepito ed eseguito come un perfetto mix di commedia ed horror, dove i personaggi talvolta sfondano la quarta parete, hanno coscienza dei cliché della storia di cui sono protagonisti, ma dove quest'ultima non scade mai nel demenziale vero e proprio, nella parodia comica ironica, restando sempre nei territori del horror vero e proprio, pur se con una fortissima vena satirica.




Un thriller che funziona quasi perfettamente sia per costruzione che per messa in scena; sul piano narrativo, nonostante gli infiniti rimandi ai capisaldi dello slasher, il punto di riferimento effettivo è invece più risalente: il Giallo Movie e, in parte, il thrilling alla Hitchcock.
Palesemente ripresa dal Maestro del Brivido è la trovata di uccidere la star nel prologo: Drew Barrymore, all'epoca fidanzatina d'America e punta di diamante durante la campagna promozionale del film, viene liquidata nei primi dieci minuti, mandando all'aria le certezze dello spettatore.
Dal giallo baviano viene invece ripresa l'idea di un killer che perseguita una bella ragazza tramite il telefono, già vista nell'episodio omonimo del mitico "I Tre Volti della Paura"; e del tutto coerente con la logica del giallo classico è l'enfasi posta sull'identità dell'assassino, celata sino all'ultimo atto.
Craven, dal canto suo, si diverte anch'egli a giocare con i nervi e le aspettative dello spettatore infarcendo tutto con una moltitudine impressionante di finti jump-scare e condendo il tutto con una dose elevata di splatter, anche se la censura ha sforbiciato molto del gore vero e proprio inizialmente presente in molte sequenze.




La ripresa dei classici nella costruzione di storia e narrazione viene poi sconquassata dalla distruzione dei luoghi comuni; al di là della pura metareferenzialità, spesso lasciata ai dialoghi ("Non nel mio film!" urla la protagonista Sidney nel finale), è lo scardinamento dei luoghi comuni a giocare un ruolo essenziale; per prima cosa, il killer non ha una maschera vera e propria: il "Ghostface", poi divenuto icona dell'horror, all'epoca delle riprese altro non era che un comunissimo costume da Halloween già venduto regolarmente nei negozi, usato proprio per la sua estrema banalità, contrapposta alla solita iconicità ricercata nell'estetica dei killer nei canonici slasher.
Divertente è anche il modo in cui la canonica costruzione delle scene negli horror viene parodizzata; al suo primo incontro con il killer, Sidney, oltre a non spaventarsi inizialmente, sottolinea la stupidità della stessa scena, affermando quanto sia idiota una sequenza in cui una bella ragazza inseguita da un assassino decida di restare in casa piuttosto che fuggire all'esterno; salvo, una manciata di secondi dopo, finire anch'ella intrappolata in casa, ricalcare quel luogo comune sfottuto fino a poco prima a causa di una serie di eventi imprevisti, come il killer già appostato in casa e la porta d'ingresso bloccata dalla catenella.





Ancora più spiazzante è la caratterizzazione di personaggi e situazioni. I primi sono lontani dai famosi stereotipi anni '80, pur se in parte richiamati per la loro base caratteriale; Sidney, final girl designata, perde la verginità prima del finale, ossia viene privata di quel potere che secondo il cantastorie Randy la renderebbe superiore all'assassino; e nel confronto finale ha un ruolo talmente attivo che la porta persino ad indossare la maschera del killer e a beffarlo con le sue frasi ad effetto; la giornalista Gale, la stronza d'ordinanza, si rivela deus ex machina essenziale; il vicesceriffo Dewy (Linus nell'ottimo adattamento italiano), esponente dell'autorità, è un incapace impotente; Tatum, la migliore amica (interpretata da una Rose McGowan giovanissima e mozzafiato), solitamente la "troietta" del gruppo, è invece un personaggio agguerrito; il nerd Randy, il cui stereotipo viene solitamente massacrato, riesce invece a sopravvivere al massacro, pur non osservando quelle stesse regole che decanta.
In generale, i caratteri dei ragazzi, siano essi protagonisti o comparse, sono perfettamente ricalcati sul cinismo della generazione X: adolescenti che si eccitano con il sangue, che all'indomani dell'omicidio di una loro compagna si divertono ad ipotizzare il modus operandi del killer e che esultano alla notizia dell'assassinio del preside, interpretato da un inedito Henry Winkler.
Con tali caratteri, il rischio di rendere la vicenda fredda, come un puro e divertito esercizio di stile, era dietro l'angolo; fortunatamente, sia Craven che Williamson, affiancati da un cast perfettamente in parte ed affiatato, riescono a schivare il proiettile: ci si riesce davvero ad affezionare a questo strampalato gruppo di fanatici del horror ed alle loro vicende, persino quando hanno il volto da pazzo di Matthew Lilard.




Ancora più originali sono le singole situazioni escogitate quando entra in scena Ghostface, con le vittime che sbeffeggiano il killer con battute sarcastiche gridate in faccia o con lo stesso assassino spesso preso a calci per ritrovarsi di faccia per terra poco prima di commettere gli omicidi. Così come originale è la trovata di avere due persone dietro la maschera, sorta di pernacchia verso il famoso "potere di teletrasporto" che molti assassini degli slasher hanno; o il movente per gli omicidi, in realtà palesemente pretestuoso: Billy ha un motivo anche abbastanza comprensibile per perseguitare la sua ragazza, ma ciò non giustifica l'assassinio degli altri personaggi; mentre Stu è semplicemente un folle, un esaltato che si diverte con il sangue, una sorta di "assassino nato" che permette agli autori di porre al pubblico un interrogativo che all'epoca era scottante: i film dell'orrore possono davvero ispirare le persone alla violenza?
La risposta è un "ni": non è la visione della violenza in sé ad instillare pensieri omicidi; questa rende i folli solo "più creativi"; la violenza, come in "L'Ultima Casa a Sinistra", è un carattere innato nell'essere umano, che non può essere trasmesso tramite la catarsi filmica, solo perfezionata da questa; statuizione che è un vero e proprio dito medio giustamente e trionfalmente alzato verso quei detrattori del genere la cui ossessione perbenista ha causato fin troppi guai a Craven e colleghi. Semplicemente geniale è poi la trovata di far ricoprire il ruolo del "red herring" ad uno dei due assassini, per avere un duplice colpo di scena nel finale.
Gustosamente spiazzante è poi il terzo atto, dove Craven spinge il pedale del grottesco sino ai limiti del paradossale, con i killer in lacrime e la final girl che diviene ella stessa feroce carnefice.




"Scream" riesce nel suo intento dissacratorio e beffardo per un paradosso puro: è una parodia che funziona perfettamente anche come pura pellicola di genere; e di fatto, alla sua uscita saranno davvero in pochi a comprenderne il lato ludico e grottesco.
Con questa nuova coscienza, il filone slasher conoscerà una nuova giovinezza tra la fine degli anni '90 e i primo anni 2000; seconda giovinezza che però non porta ad una nuova stagione d'oro per il cinema dell'orrore americano: tutti i cloni e gli epigoni di "Scream" (compreso quel "So cosa hai fatto" scritto dallo stesso Williamson) non faranno altro che riprenderne la formula e riproporla ad oltranza, finendo per creare nuovi cliché che uccideranno letteralmente il genere. Tutt'oggi, pur con gli sforzi di piccole ma agguerrite case di produzione quali la Blumhouse e di un gruppo di autori dotati, l'horror a stelle e strisce non riesce a raggiungere gli apici qualitativi ed artistici della golden age degli anni'70 e '80, avendo perso quell'intelligenza e quella sensibilità che caratterizzava autori ed opere dell'epoca.
Wes Craven, invece, di qui in poi entrerà nell'ultima fase della sua carriera, la peggiore; non riuscirà più a creare opere all'altezza del suo nome, dirigendo e producendo pellicole di genere a dir poco dimenticabili e fallendo, purtroppo, con l'esperimento de "La Musica del Cuore"; e sempre per paradosso puro, ritroverà in parte la forma perduta dirigendo proprio uno dei seguiti di "Scream", il quarto, approdato nelle sale ben 11 anni dopo il capitolo precedente e, purtroppo, suo ultimo film.

Non Aprite quella Porta 2

The Texas Chainsaw Massacre 2

di Tobe Hooper.

con: Dennis Hopper, Caroline Williams, Jim Siedow, Bill Moseley, Bill Johnson, Lou Perryman.

Grottesco

Usa 1986















Il propizio incontro con Menahem Golan ha consentito a Tobe Hooper di creare uno dei suoi film più singolari e divertenti, quel "Lifeforce" giustamente divenuto un cult. Ma all'epoca della sua uscita, lo stravagante kolossal fu un cocente flop; Hooper dovette così cercare per il suo secondo film con la Cannon un progetto dal sicuro impatto commerciale. E quale migliore opzione se non quella di un sequel al suo capolavoro targato 1974, quel "The Texas Chainsaw Massacre" che negli anni '80 ancora incassava dollari grazie al neonato mercato del Home Video.
"The Texas Chainsaw Massacre 2" esce nei cinema nel 1986, ben 12 anni dopo l'originale; ed è in tutto e per tutto un film ad esso antitetico, che sostituisce l'atmosfera cupa con un grottesco ai limiti del demenziale, la violenza solo suggerita con il gore urlato in faccia e la cattiveria con un umorismo nero talvolta di pessimo gusto.
Un film che definire spiazzante sarebbe riduttivo, che gli stessi appassionati della serie di Leatherface (che di fatto inizia qui piuttosto che con il primo exploit) hanno guardato alla sua uscita e continuano a guardare tutt'oggi con occhio traverso. Perchè questo secondo capitolo della famiglia di cannibali texana è un oggetto strambo, volutamente folle e ancora più volutamente privo di senso alcuno, dove vi è una sola certezza: il talento divertito e mai così irriverente del suo autore.




Divertimento che per Hooper comincia già con il poster del film, che sbeffeggia quello di "The Breakfast Club", con la famiglia di cannibali al posto dei teen-agers finto-problematici; divertimento che si protrae per tutto il film, nonostante tutti i limiti del caso; l'idea originale che lui e lo sceneggiatore del primo film, Kim Henkel, avevano concepito per il sequel era tutt'altra roba: un horror ambientato in una città composta da cannibali, anch'esso dal tono grottesco, ma decisamente più ambizioso, che si sarebbe dovuto intitolare "Beneath the Valley of the Texas Chainsaw", in omaggio al cinema di Russ Meyer. Ma Golan lo ha poi forzato ad un operazione più convenzionale, anche per rientrare in un budget più appetibile. Ed Hooper finisce così per creare un vero e proprio scherzo, un film, ancora una volta, fieramente trash; ma laddove per "Liferforce" il termine può essere inteso nel senso originario, per "The Texas Chainsaw Massacre 2" può solo essere inteso nella sua accezione più negativa: un'opera ridicola, squallida e inutile. Dove però tutto è, nel bene e nel male, voluto dal suo autore.




Perché ad Hooper non interessava davvero girare una copia carbone del suo capolavoro, né un canonico slasher, quindi fa di tutto per cercare una forma di originalità mediante la disintegrazione del registro orrorifico, sino ad un'iperbole deformata dello stesso, dove l'horror vira verso il grottesco ed il macabro cede il posto al ridicolo. Laddove "The Texas Chainsaw Massacre", prima ancora di anticipare i tempi e le mode, era la perfetta incarnazione di quel cinema horror americano anni '70, il suo sequel è il perfetto manifesto di quello anni '80, dove tutto è colorato, esagerato, folle, subordinato all'intrattenimento più puro piuttosto che allo spavento.




Anticonvenzialità e divertimento che sul piano narrativo vengono incarnati dalla scelta dei due protagonisti; al bando teen-agers in calore, al timone ci sono lo sceriffo Lefty, interpretato dal grande Dennis Hopper, e la dj Strech, che ha il volto e le gambe chilometriche della bella Caroline Williams. Proprio Hopper è uno dei punti forti del film: ammetterà negli anni come questo sia stato il suo peggior film (ma lo è davvero?), eppure non si risparmia minimamente in una performance talmente sopra le righe da divenire istantaneamente parodistica; sopratutto laddove si tiene conto di come nello stesso anno avrebbe interpretato il Frank Booth di "Velluto Blu", altro psicopatico perennemente sopra le righe, ma che emana un'aura sinistra, in un'interpretazione a dir poco inquietante.




Hooper a sua volta si diverte a tradire le aspettative del pubblico, relegando Hopper ad un ruolo a dir poco marginale dopo averlo introdotto a pistole spianate come il fratello della protagonista del primo film in cerca di vendetta (storyline che poi sarà ripresa da Rob Zombie nel suo "The Devil's Rejects" e declinata in chiave seria, con esiti decisamente più riusciti ed interessanti), solo per poi tenerlo fuori scena per oltre metà film, farlo apparire nel gran finale ed eliminarlo di punto in bianco, nuovamente fuori scena.




Ancora più beffarda è la storyline su Stretch e la sua love-story con Leatherface, un amore a prima vista che comincia con il deforme cannibale che usa la sua motosega-fallo per imbrattare la ragazza con schizzi di birra gelata come se fosse sperma e poi tenta di usare la stessa lama per una penetrazione, in una sequenza che farebbe arrossire persino Lloyd Kaufman. Storia d'amore che permette ad Hooper di infrangere con tono farsesco qualche cliché, come quando il boogeyman decide di risparmiare la vita all'amata o quando questa, da lui inseguita con intenti omicidi, si ferma per chiedergli di risolvere la cosa a parole; questo quando non gli permette addirittura di creare sequenze volutamente trash, come il ballo tra i due a metà film.




La new entry nel cast dei mostri, Chop Top, fratello gemello dell'Autostoppista (che invece appare come cadavere per tutto il film), interpretato da un giovane Bill Moseley, è un personaggio talmente sopra le righe (per merito anche del make-up volutamente eccessivo) da divenire subito cartoonesco, impossibile da prendere sul serio persino nel finale, dove insegue la protagonista per sgozzarla, o quando usa il suo rasoio su sé stesso, non riuscendo ad essere mai minaccioso.
Lo stesso Leatherface non è più il mostruoso gigante ritardato di un tempo, quanto uno strambo assassino che si diverte a saltellare con la sua amata motosega per spaventare le vittime; non ha più quella presenza minacciosa che lo aveva caratterizzato in passato, né la violenta goffaggine che lo rendeva disturbante; è, semplicemente, una maschera assassina ora privata dei tratti caratteriali essenziali e dell'aura malefica, proprio come di lì a poco sarebbe avvenuto con il Fred Krueger di Craven.




Tutto in questo seguito è l'esatto opposto dell'originale; il Texas in cui la vicenda ambientata non è una landa desertica bruciata dal sole, ma una verde vallata; la fotografia dai colori slavati e sgranata cede il passo a cromatismi gotici, in cui Hooper reitera il suo amore per l'estetica baviana, creando un'atmosfera quasi onirica; le scenografie macabre sono sostituite da composizioni cadaveriche da luna park, dove spicca l'omaggio al "Dr. Stranamore" di Kubrick, con uno scheletro che cavalca una bomba. Oltre metà del film è ambientato nel covo della famiglia Sawyer, ricavato proprio dentro un parco divertimenti in disuso, i cui ambienti sono talmente carichi di dettagli e giochi di luci al punto di essere più carnevaleschi del baraccone de "Il Tunnel dell'Orrore". Ed è persino inutile dire come per tutto il film non si riesce mai ad avere paura, fatto salvo un unico jump-scare al solito ottimamente congegnato.
Ma Hooper non si limita a dirigere una semplice commedia splatter: arriva sinanche a parodizzare il primo film nell'ultimo atto, dove l'indimenticabile sequenza della cena viene ricreata in modo caricaturale, con tanto di apparizione del Nonno.




Ogni scena, ogni dialogo e persino molte inquadrature vengono dilatate nel ritmo, trascinate sino al punto dell'esasperazione per aumentare il tono grottesco; che letteralmente esplode nel finale.
Non si può certo rimanere freddi di fronte al duello a colpi di motosega tra Leatherface e Dennis Hopper o davanti alla risoluzione affidata all'esplosione di una granata come in un cartoon di Bugs Bunny; o a quell'epilogo, anch'esso parodia, con Stretch che danza agitando la motosega. Tutto è pompato a mille, urlato sguaiatamente dritto in faccia, in uno spettacolo goliardico solo apparentemente fuori controllo.




Ed alla fine ci si ritrova semplicemente basiti quando ci si accorge si aver assistito ad una beffa, ad uno scherzo d'autore, un puro film spazzatura che serve solo a raccattare denaro.
Ma pur sempre un film spazzatura dove il talento del suo autore trasuda da ogni scena, vuoi per l'abilità di costruire una parodia talmente folle da spiazzare nel profondo, vuoi per la sua capacità di declinare un soggetto già portato in scena in chiave del tutto opposta al passato, tenendo sempre salde le redini dello spettacolo.
Uno spettacolo di grana grossa, che non concede le emozioni genuine del miglior cinema di Hooper, troppo sgangherato persino per essere preso in considerazione come una parodia vera e propria; eppure, se si riesce a stare al gioco, ci si potrebbe persino divertire nell'assistere ad un tale delirio d'autore.
Un delirio che resterà, purtroppo, la sua ultima opera interessante: a cominciare dal successivo "Invaders from Mars", ultima collaborazione con la Cannon, Hooper si perderà in progetti sempre più anonimi ed incolori, sino alla fine della sua carriera, finita malauguratamente in un sussulto, nel puro ricordo dei fasti del passato, senza nemmeno un botto finale. Il che è a dir poco un peccato.

lunedì 30 ottobre 2017

Nightmare- Nuovo Incubo

Wes Craven's New Nightmare

di Wes Craven.

con: Heather Langekamp, Miko Hughes, Robert Englund, John Saxon, Tracy Middendorf, Wes Craven.

Usa 1994


















Dieci anni dopo la sua uscita nelle sale, "Nightmare", ossia la creatura più famosa e amata di Wes Craven, non è più ciò che il suo autore aveva concepito; da quella favola horror archetipica che era in partenza, la successiva serie di film ha trasformato la storia di Fred Krueger e dei ragazzi di Elm Street in una sorta di fantasy macabro, dove lo spauracchio per antonomasia è divenuto una sorta di anti-eroe dalla battuta pronta; quel Krueger nato come "uomo nero" definitivo si è invece imposto nell'immaginario collettivo come icona pop dal sorriso beffardo, finendo per non spaventare più nessuno; ed allo stesso modo, i film che lo hanno visto protagonista si sono progressivamente arenati nella ripetizione di cliché, sino a quel "Freddy's Dead- The Final Nightmare", sesto capitolo di una bruttezza sfiancante, dove persino gli effetti speciali, solitamente di buona fattura, lasciano parecchio a desiderare.




Ma pur avendo "ucciso" la sua gallina dalle uova d'oro, il produttore Bob Shaye sapeva che il decimo anniversario dall'uscita in sala di quel primo, piccolo e fortunatissimo film sarebbe stata una ghiotta occasione per rivendere al pubblico l'icona Krueger. E per farlo, opta per una soluzione inedita: richiama a bordo Wes Craven, dopo averlo estromesso dalla serie facendo rimaneggiare completamente lo script da lui creato per "Nightmare 3- I Guerrieri del Sogno", lasciandogli questa volta piena autonomia.
Craven, dal canto suo, non è interessato a dirigere l'ennesimo slasher, filone che nei primi anni '90 stava scomparendo, dopo aver totalmente esaurito la sua carica già nella seconda metà degli anni '80; decide così di cogliere l'occasione per creare un'opera inedita e spiazzante, un metafilm che rifletta sul successo della sua creatura, restando al contempo un godibilissimo horror; sin dal titolo, "Wes Craven's New Nightmare" è l'esemplificazione della visione di un autore, che ponendosi nuovamente al centro dell'operazione produttiva, la fa propria e la usa per portare avanti un discorso prettamente personale, una riflessione un pò superficiale sulla forza manipolatrice del cinema, ma allo stesso tempo convincente.




Nell'abbattere la quarta parete, facendo fuoriuscire il suo baubau nel mondo "reale", Craven riscopre la sua formazione letteraria e si rifà ad un concetto risalente alla cultura ellenica: le storie dell'orrore sono necessarie ad esorcizzare il male inconscio dell'essere umano; dandogli una forma concreta, riconoscibile, persino vendibile (per tutto il primo atto vengono inserite in molte inquadrature pezzi di vero merchandise su Freddy), il male viene intrappolato entro una figura che, come un agnello sacrificale, può essere annientata tramite la catarsi. Non per nulla, nel finale, Heather e Dylan usano lo stratagemma di Hansel e Gretel per uccidere il mostro, ossia riportano in scena una favola classica, una delle incarnazioni del terrore più influenti sul genere horror e che lo stesso Craven ha usato come calco per il primo film della serie.
Ma una volta che questo "contenitore" si esaurisce, quando l'icona viene dismessa o bandita (nei dialoghi, interpretando sé stesso, Craven fa un affondo ai detrattori ed alla censura, che di lì a pochissimo avrebbero causato la morte del cinema dell'orrore americano), questo male riprende potere, può liberarsi nel mondo e mietere le proprie vittime.
Il Krueger di "Nuovo Incubo" è infatti l'archetipo del male che, libero dalla sua prigione, può perseguitare i suoi carcerieri, coloro che ne gli avevano sottratto il potere, ossia il regista e gli attori.




Il gioco di rimandi al primo film è semplicemente sublime; Craven ricrea alcune delle sequenze più celebri, come l'uccisione antigravitazionale di Tina o la lingua che fuoriesce dalla cornetta del telefono; e, sopratutto, l'incipit, con la costruzione del guanto, aggiornato ad una sorta di artiglio cibernetico, che sfocia nello sfondamento della quarta parete, nella rivelazione di come tutte quelle immagini altro non siano che una fantasia e, ancora dopo, un sogno, ossia pura forma filmica.
Allo stesso modo, gioca con l'iconografia della sua creatura ed il suo lascito; la sua prima apparizione è quella del suo interprete Robert Englund, che durante un'intervista si presenta con il make-up ed il look dei precedenti film; ma quando il nuovo Krueger entra in scena, il suo aspetto è diverso, più minaccioso di quello visto nei vari sequel (sopratutto di quello, orrendo, di "Freddy's Dead"), con un cappello verde, un guanto dove gli artigli sembrano un esoscheletro che fuoriesce dalla mano piuttosto che un accessorio (uguale a quello ritratto nell'artwork della locandina dell'originale), un lungo cappotto nero (che in realtà doveva già essere parte del costume del primo film) e pantaloni in cuoio; oltre il costume, anche il make-up è più marcato: il volto del mostro è letteralmente scarnificato più che bruciato, come se qualcosa al suo interno stesse cercando di uscire. E adesso Krueger non fa più commenti ironici, né freddure, è tornato l'orco cinico ed inarrestabile delle origini.




Nell'inscenare il gioco di specchi tra realtà e finzione, Craven cuce addosso ad Heather Langekamp il ruolo che aveva nel film originale, quello di forza distruttrice del male; e lo fa caratterizzando il suo non-personaggio con i tratti della stessa attrice; Heather è perseguitata da uno stalker, proprio come successa alla vera Langekamp a seguito della sua partecipazione alla sit-com "Just the Ten of Us", ed è sposata con un tecnico degli SFX; Krueger, proprio come l'orco delle favole, vuole uccidere il suo bambino, ossia compiere quella stessa azione che caratterizza il suo personaggio nel film; in sostanza, l'attrice diviene archetipo contro un'archetipo divenuto personaggio.




Lo scontro finale permette a Craven di sfogare la sua vena visionaria, tenuta a bada per praticamente tutto il film; crea questa volta un mondo onirico che poggia sull'immaginario del teatro classico, con rimandi visivi a quella cultura greca alla base dell'idea del film. Purtroppo, è proprio nella risoluzione degli eventi che la su visione trova un limite.
L'uccisione del mostro è semplice uccisione del villain, eseguita tra l'altro in modo alquanto blando e prevedibile; il racconto, nel finale, ripiega su sé stesso, perde in parte la sua valenza metanarrativa e si fa smaccatamente classico, persino in quell'epilogo dove l'esorcismo definitivo deriva dalla lettura della sceneggiatura del film. In sostanza, Craven finisce per fare un puro horror tramite la metanarrazione piuttosto che sviscerare lo strumento filmico mediante il registro horror.




Limite che comunque non intacca il valore di un film prepotentemente scostante, che fa dell'imprevedibilità la sua forza e dello straniamento dato dalla metareferenzialità la sua originalità. "New Nightmare" non è un capolavoro, con una scrittura più profonda e coraggiosa ben avrebbe potuto esserlo; ma anche così resta un film originale ed interessante.

venerdì 27 ottobre 2017

Space Vampires

Lifeforce

di Tobe Hooper.

con: Steven Railsack, Mathilda May, Peter Finch, Patrick Stewart, Frank Finlay, Michael Gothard, Aubrey Morris, Nicholas Ball.

Fantastico/Horror/Catastrofico

Usa, Inghilterra 1985














L'esperienza con il tirannico Spielberg è stata a dir poco deleteria per il povero Tobe Hooper; benché in successive interviste egli stesso specifichi come i lavori sul set di "Poltergeist" siano stati più tranquilli di quanto si possa credere e che lui avesse più controllo di quanto si possa immaginare (maledizione compresa), è chiaro, a giudicare dal prodotto finito, come l'ingerenza di Spielberg sia stata pressoché totale. Ed è inutile continuare a sottolineare come la stessa cosa sia avvenuta, in precedenza, sui set di "Eaten Alive" e "The Dark", abbandonati da Hooper per disperazione. Ma la svolta sarebbe arrivata proprio all'indomani della collaborazione, pur fruttuosa, con il Re Mida di Hollywood; ed aveva la forma della mitica Cannon Films.




La Cannon, ossia croce e delizia di ogni appassionato di B-Movies; capitanata dal dinamico duo di cugini Menahem Golan e Yoram Globus, questa piccola ma integerrima casa di produzione indipendente si era ritagliata un posticino di quasi-prestigio a L.A. negli anni '80, producendo soft-core in costume, horror di serie B, sequel su sequel de "Il Giustiziere della Notte", strampalati action movies con Chuck Norris ed avviando la moda ultratrash dei film con ninja bianchi.
Ma nel 1985, Menahem Golan, vera mente dietro la Cannon e dotato di un'ambizione incredibile, decide di fare il colpaccio: investire i proventi dati dalle piccole produzioni in veri e propri kolossal e pellicole d'autore; ecco dunque Golan portare dalla sua autori del calibro di John Cassavetes, Roberto Rossellini (il quale affermerà in seguito come Golan sia stato il miglior produttore che abbia mai conosciuto) e finanche Jean-Luc Godard, ai quali consente di dirigere le proprie opere in totale autonomia, pur contando su budget ristretti.
Per quel che riguarda le grandi produzioni, la Cannon punta davvero in grande: acquisisce i diritti di sfruttamento del franchise di Superman dai fratelli Salkind, quelli dell'Uomo Ragno dalla Marvel e di "He-Man and the Masters of the Universe" dalla Mattel; in sostanza, la Cannon, a metà degli anni '80, cercava di divenire ciò che la Miramax e la New Line sarebbero diventate nel decennio successivo, ossia un ex casa di produzione di pellicole exploitation evolutasi in major. Purtroppo, nulla andò secondo i piani.
"Superman IV" e "I Dominatori dell'Universo" si rivelarono dei cocentissimi flop al botteghino, anche a causa della pessima gestione del budget da parte del duo di produttori; il che porterà la Cannon al fallimento nei primi anni '90.
Ma per Tobe Hooper, la collaborazione con Golan sarà più che propizia; ottenuto un contratto per tre film, con buoni budget e sopratutto la piena libertà artistica, il compianto autore riesce così a creare quelle che saranno le sue ultime pellicole davvero degne di nota, per un motivo o per l'altro: lo stralunato "The Texas Chainsaw Massacre part II", il nostalgico ma poco riuscito remake di "Invaders from Mars" e, sopratutto e prima di questi, quell'incredibile amalgama di generi e situazioni che è "Lifeforce", vero e proprio "kolossal extravaganza" costato 25 milioni di dollari, una delle produzioni più grandi di tutta la storia della Cannon, che purtroppo si rivela anch'esso come un incredibile flop di cassetta, ma che nel corso degli anni è giustamente riuscito a divenire un'amatissima pellicola di culto.




Affidata la sceneggiatura al compianto Dan O'Bannon, che riprende solo formalmente il romanzo "Space Vampires" di Colin Wilson (benché il titolo italiano possa far pensare ad una trasposizione vera e propria), Hooper si diverte a fondere in poco meno di due ore di film fantascienza classica, fantahorror post "Alien", thriller, poliziesco, horror splatter, reminiscenze sul mito del vampiro ed i B-Movie anni '50 e cinema catastrofico, condendo il tutto con una massiccia dose di erotismo.
La trama escogitata da O'Bannon gli permette infatti di sbizzarrirsi: durante una spedizione spaziale inglese, incaricata di osservare il passaggio della Cometa di Halley, un gruppo di astronauti capitanati dal Colonnello Carlsen (Railsbeck) si imbatte in un misterioso vascello alieno, a bordo del quale rinvengono, ibernate, tre forme di vita umanoidi, dalle fattezze a dir poco sensuali.
Dopo un incidente, lo shuttle di Carlsen torna sulla Terra, portando con sé anche i visitatori; dei tre, la prima a risvegliarsi è la donna, che con il suo aspetto conturbante mesmerizza chiunque le capiti a tiro; sfortunatamente, si tratta di una sorta di "vampiro alieno", una creatura che risucchia le energie vitali dei partner sessuali (anche solo tramite un bacio), che finiscono per divenire dei cadaveri semicoscienti; libera per l'Inghilterra, la "space girl" comincia a mietere vittime; sulle sue tracce si mettono, oltre Carlsen (il quale ha sviluppato con lei una sorta di connessione psichica), anche il colonnello Caine (Firth), gli scienziati Fallada (Finley) e Bukovsky (Gothard) ed il rappresentante del Parlamento sir Heseltine (Morris). La "caccia all'aliena" culmina in un finale catastrofico, con Londra messa a ferro e fuoco dai vampiri spaziali.




Di tutti i "generi" amalgamati, Hooper si rivela perfetto artigiano; l'incipit, da hard sci-fi che poi sconfina nel fantastico, è una sequenza a dir poco visionaria: scenografie che rivaleggiano davvero con le visioni di Scott, dove l'astronave aliena sembra essa stessa un essere vivente, una sorta di mostro gotico venuto dallo spazio profondo, un'entità viva anche se inerte, i cui interni sembrano organici e pulsanti.
L'erotismo, componente essenziale nello sviluppo della trama, è cucito addosso alla bellissima diciannovenne Mathilda May, le cui forme prorompenti graziano l'occhio dello spettatore in ogni singola scena in cui appare; impossibile restare freddi dinanzi alla sua bellezza carnale eppure quasi angelica, un mix perfetto di eros e thanatos che eccita e turba.




Mentre la componente più spiccatamente horror è suddivisa a sua volta in due sottocategorie; nei flashback assistiamo al collasso dell'equipaggio dello shuttle, in una variazione del classico della "casa infestata" come in "Alien", dove però a far da padrone è l'atmosfera onirica e morbosa, data dalla presenza della Space Girl e della sua malia irresistibile, piuttosto che da quella di un mostro sanguinario.
Sulla Terra, l'orrore è quello fisico dei corpi martoriati dall'erotismo cannibale, trasformati in ghoul urlanti che si disintegrano al contatto, animati grazie ad effetti pratici forse troppo ambiziosi per l'epoca, che risultano purtroppo palesemente finti, ma che riescono lo stesso ad incutere una forma di timore grazie al sound design e all'uso, al solito magistrale, che Hooper fa dei jump-scare.





La parte poliziesca, che occupa circa tutta la parte centrale, è affidata totalmente alla maestria del gruppo di attori e consente ad Hooper di confrontarsi con un genere a lungo inseguito; la progressione, pur lineare, porta ad un paio di colpi di scena ben congegnati e sopratutto ad una scena scult, ma lo stesso divertente e riuscita, in cui Steven Railsback copula con Mathilda May... mentre quest'ultima  si trova nel corpo di Patrick Stewart.





E nell'ultimo atto, tutto esplode, in un modo o nell'altro; il grosso budget consente ad Hooper di creare sequenze di distruzione incredibili, graziate anche dai bellissimi effetti ottici, tutt'oggi incredibili. Sfortunatamente, laddove il tocco del regista trionfa, quello di O'Bannon vacilla.
La ripresa di una mitologia gotica e terrena è fuori luogo, inserita a forza nella storia per avere un mezzo di risoluzione, una specie di deus ex machina che viene fuori dal nulla e senza preavviso alcuno, una vera e propria pistola di Chechov che però non appare mai negli atti precedenti. Così come forzato è il colpo di scena riguardante uno dei "buoni", che decide di punto in bianco di tradire tutti, senza peraltro nemmeno riuscire ad incidere in modo significativo sugli eventi. Ancora più fuori luogo è poi il finale, dove la risoluzione di tutto viene affidata ad una rivelazione che, letteralmente, non sta né cielo nè in terra.




Caduta di tono finale che però non toglie un grammo al godimento; Hooper riesce sempre a tenere alta l'asticella dello spettacolo, a rilanciare costantemente con situazioni sempre divertenti, dimostrando una padronanza totale di tutti i registri tirati in gioco. Il suo è una sorta di vero e proprio "trash d'autore", dove l'epiteto è tutto fuorché dispregiativo: come nella letteratura trash delle origini, riprende stili e generi che il cinema mainstream ha quasi del tutto dismesso, per elevarli ad un livello successivo, a puro spettacolo di intrattenimento magnificamente divertente. Prova del suo innato ed innegabile talento.

giovedì 26 ottobre 2017

Thor: Ragnarok

di Taika Waiti.

con: Chris Hemsworth, Tom Hiddleston, Cate Blanchett, Mark Ruffalo, Jeff Goldblum, Tessa Thompson, Idris Elba, Benedict Cumberbatch, Karl Urban, Anthony Hopkins.

Fantastico

Usa 2017

















"Thor: Ragnarok" sembrava essere uno di quei film destinati a fallire; fin dal rilascio del primo trailer, quelle immagini ipercinetiche e kitsch condite dal solito umorismo made in Marvel Studios, facevano presagire un risultato a dir poco trash, che riprendeva quell'immaginario anni '80 stile "Guardiani della Galassia" aumentandone esponenzialmente i caratteri, senza avere il minimo controllo su storia e messa in scena.
Eppure, per una qualche stramba ed inaspettata congiunzione astrale, una volta in sala ci si accorge di come si sia verificato un piccolo miracolo: questo terzo capitolo delle avventure del dio del tuono di Jack Kirby non solo riesce a divertire, ma anche a non scivolare praticamente mai nel ridicolo involontario.



Ridicolo che, davvero, viene schivato per un soffio; perché quelle scenografie e quei costumi colorati e pacchiani, che sembrano usciti dal "Flash Gordon" di De Laurentiis piuttosto che da una produzione odierna ispirata alle tavole visionarie e colorate di Kirby, potevano davvero non funzionare su schermo, sopratutto se appaiate ad una storia basica e alle battutine da quarta elementare tipiche del MCU.
Eppure tutto resta in equilibrio; Waiti, di origine neozelandese e proveniente dal cinema indie più puro, riesce sempre a tenere in mano le redini della messa in scena; il suo stile colorato e dinamico colpisce per fantasia, donando al mondo di Thor e soci quella carica visionaria, pur para-cartoonesca, che davvero mancava. E pur se di grana grossissima, l'umorismo non è mai tedioso, le battute raramente risultano forzate e fuori posto, sono spesso godibilissime.



Equilibrio che si mantiene anche quando la narrazione si prende più sul serio, quando viene iniettata una dose di dramma familiare in quella che è a tutti gli effetti una semplice avventura cosmica. Il cammino di Thor, di suo fratello Loki, della redenta Valkyria e di un ritrovato Hulk, benché ultralineare e privo di sorprese, non scade nel pretenzioso. Ciò, come sempre, anche quando il rischio risata di pancia è dietro l'angolo, con un simil-villain interpretato da un gigionissimo Jeff Goldblum, che invece regge bene ogni volta che entra in scena, risultando dannatamente irresistibile; e con una Valkyria interpretata da Tessa Thompson che, pur bellissima ed affiatata, resta pur sempre un'afroamericana chiamata ad interpretare un'eroina in origine dai lineamenti nordici; il che, assieme al Heimdall, il dio dalla pelle diafana, interpretato da Idris Elba, poteva essere davvero indigesto, scadere nel politicamente corretto d'accatto, ma che, ancora per puro miracolo, riesce a non infrangere la sospensione dell'incredulità.



Persino i villain, per una volta, sono credibili; la Hela di Cate Blanchett, agghindata in uno stile simil punk-goth che ne esalta ancora di più l'innata sensualità, ha un pretesto credibile per spaccare tutto, a differenza di quanto accadeva con il Malekith di "Thor: The Dark World"; mentre del tutto inaspettato è l'arco narrativo completo del personaggio di Karl Urban, che aggiunge un tocco di profondità ad un personaggio che sembrava introdotto solo per motivi squisitamente umoristici.
E a Waiti va inoltre riconosciuto il merito di aver finalmente inserito una colonna sonora in un film Marvel che non fosse diretto da James Gunn; anche qui ispirato dal suo lavoro sul suo gruppo di guappi spaziali, usa uno score synth molto retrò che ben si sposa con le immagini barocche; e, ancora meglio, usa la mitica "The Immigrant Song" dei Led Zeppelin come tema per il protagonista, creando una spassosa sinergia.



Pur se figlio di una visione altrui, "Thor: Ragnarok" resta un buon esempio di film di intrattenimento ben riuscito; privo di pretese, ma non privo di stile, riesce a far passare 130 minuti di divertimento senza mai tediare; il che, per un film di Kevin Feige, è davvero tanto.

mercoledì 25 ottobre 2017

La Casa Nera

The People under the stairs

di Wes Craven.

con: Brandon Adams, Everett McGill, Wendy Robie, A.J. Langer, Ving Rhames, Sean Whalen, Bill Cobbs.

Horror

Usa 1991
















---CONTIENE SPOILER---


Il 3 Marzo 1991, la polizia di Los Angeles diviene protagonista di un caso destinato a scioccare l'intera opinione pubblica americana; il tassista afroamericano Rodney King, segnalato per eccesso di velocità, per paura di vedere revocata la propria licenza, tenta di fuggire dal controllo, scatenando un lungo inseguimento che si conclude con la resa di questi; ma una volta uscito dal veicolo, disarmato e senza intenzioni ostili, King viene pestato a sangue dagli agenti. Poco più di un anno dopo, i protagonisti del pestaggio vengono processati e, nonostante le prove audiovisive ne dimostrano la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, si ritrovano tutti assolti. La reazione della comunità nera di L.A. è durissima: una rivolta durata oltre tre giorni, durante il quale la città viene messa a ferro e fuoco, che causa circa una sessantina di vittime.
Un anno prima, quasi a preconizzare tale evento, esce nei cinema "The People under the Stairs", una delle pellicole più curiose di Wes Craven, che si chiude proprio con la rivolta della comunità nera del ghetto di Los Angeles contro i dispotici proprietari terrieri bianchi.




Così come in "Nightmare", anche questa volta Craven struttura la storia come una sorta di favola nera; protagonista è ora un bambino, Poindexter (Brandon Adams), detto "Grullo", come la carta dei tarocchi che ne segna il destino nella prima sequenza; Grullo, piccolo ma pieno di risorse, sogna di diventare medico, ma ogni sua ambizione è castrata da una realtà fatta di fame e miseria: costretto a vivere in una crackhouse con una madre malata di cancro, impossibilitata a sostenere le spese mediche necessarie per l'operazione e con un esercito di figli e nipoti a carico; l'ultima stoccata arriva con la minaccia di sfratto: i padroni di casa, speculatori indefessi, vogliono abbattere l'immobile per far spazio ad una nuova e più redditizia costruzione.
Uno spiraglio di luce arriva sottoforma di un furto: Leroy (Ving Rhames) coinvolge Grullo in una rapina ai danni di quegli stessi padroni, che vivono arroccati in una gigantesca e tetra magione, isolati dal mondo, custodendo un vero e proprio tesoro. Ma una volta giunti all'interno della casa, i due si renderanno conto di essere prigionieri di una trappola mortale.




Prima ancora di essere una perfetta metafora sullo sfruttamento, "The People under the Stairs" è un perfetto meccanismo di intrattenimento, nel quale Craven fonde un registro orrorifico raccapricciante, oltre che allegorico, con una dose di umorismo nero talmente elevata da far somigliare il tutto, a tratti, ad una sorta di cartone animato ultraviolento. Un tentativo, quello di far convivere tante anime diverse in un unico racconto, già riuscitogli perfettamente in "Il Serpente e l'Arcobaleno", ma che giusto un paio di anni prima non era riuscito a replicare nel flop "Sotto Shock" e che qui trova un equilibrio più o meno stabile.
L'esecuzione di alcune sequenze è magistrale: l'uso della steadycam per seguire le fughe dei personaggi attraverso i cunicoli della magione imprime una dinamicità incredibile ad ogni scena; la tensione è alta, anche se più che sulla paura o la suspanse in sé, Craven gioca questa volta con un orrore più diretto, dato dal pericolo di una morte truce ed immediata, da un orco questa volta prettamente terreno ed infuriato, che si diverte a massacrare chiunque gli capiti a tiro.




I villain, i due mostri, sono nuovamente creature fin troppo umane, rese demoniache dal vizio, in questo caso una cupidigia deviata che li ha trasformati in sadici reclusi, probabilmente incestuosi (si scopre circa a metà film la loro parentela uterina) e sopratutto cannibali. I due coniugi, Papi e Mami, o "Man" e "Woman", hanno il volto di una celeberrima coppia, Everett McGill e Wendy Robie, ossia Big Ed e Nadine Hurley di "Twin Peaks", e qui sono entrambi corrosi dalla follia. Due ricchi che succhiano letteralmente soldi dal ghetto nero per accumularli in un deposito alla Zio Paperone, dove il denaro esiste per il denaro, una forma di onanismo pecuniario; due orchi che rapiscono i bambini in cerca dell'erede perfetto, ossia un figlio usato anch'esso come una res, un oggetto da custodire gelosamente e distruggere quando mostra segni di individualità, quando vede, dice o sente cose che non dovrebbe conoscere.




La metafora sociale è presto servita: i due bianchi sono gli schiavisti, che vivono in un contesto domestico fermo ai tempi della segregazione, come una singolarità che dai primi anni '90 retrocede di oltre cinquant'anni nel passato. Le persone del ghetto, così come i giovani rapiti e sottomessi, sono la massa che viene cannibalizzata per la sussistenza di una classe dirigente post-reaganiana ormai assuefatta ad ogni tipo di privilegio e che sfoga con la violenza tutti i suoi istinti.
Una massa che alla fine trova la forza di ribellarsi, grazie alla forza di un bambino, un pollicino che sfugge agli orchi proprio grazie alla sua sfrontatezza di "grullo", per divenire esempio che porta i sottomessi a massacrare i carcerieri: i ragazzi reclusi, ridotti a veri e propri morti viventi, si vendicano della propria "madre" e ritrovano la libertà; e che, in un secondo momento, distrugge il giogo dei padroni sulla comunità, ridando a questa quel capitale ingiustamente sottrattole.




L'umorismo, più che stemperare la tensione, serve a deformare ulteriormente personaggi e situazioni, virando tutto verso un grottesco malato; come l'uso del costume sadomaso di Papi, talmente sopra le righe da non essere inquietante, ma lo stesso disturbante; o le folli corse tra le intercapedini ed i condotti di aerazione ricoperte di trappole, passaggi segreti e trabocchetti, marchio di fabbrica dell'autore che qui diviene definitivamente parte integrante della storia e che spesso culminano in una violenza cartoonesca, per quanto viscerale.




Ed è forse l'abuso del registro comico a castrare in parte le intenzioni di Craven; si resta fin troppo spiazzati dalle gag, dalle espressioni stralunate di Everett McGill che riceve botte in testa o dalle battute stile macho di Grullo; per quanto simpatico, il tono strampalato porta ad un allontanamento della materia narrata a tratti troppo marcato.
Ma al di là di tale freddezza, Craven riesce lo stesso ad intessere una storia che intrattiene e che riesce davvero ad imporsi come ottima metafora sociale, prova di come il suo talento sia ancora forte, nonostante l'altalenante esito della sua carriera.

lunedì 23 ottobre 2017

It

di Andy Muschietti.

con: Bill Skarsgaard, Jaeden Lieberher, Sophia Lillis, Finn Wolfhard, Jeremy Ray Taylor, Wyatt Oleff, Jack Dylan Grazer, Chosen Jacobs, Nicholas Hamilton.

Horror

Usa 2017

















---CONTIENE SPOILER---


Nella sua oramai ultraquarantennale carriera, Stephen King ha scritto circa 50 romanzi (più altri 7 con lo pseudonimo di Richard Bachman), una decina di raccolte di racconti, un pugno di ebook e circa 6 saggi sul mestiere di scrivere. Si può dire tranquillamente che abbia scritto anche troppo.
Il che è anche più vero quando, messi da parte i meri numeri, si tiene conto della qualità dei suoi libri. Gli esordi sfavillanti sono intoccabili, la qualità delle sue storie è sempre stata medio-alta (persino nella lunga serie de "La Torre Nera"), almeno fino ai primi anni 2000; dopodicché, complice anche i postumi per il terribile incidente che lo colpì nell'estate del 1999, le sue storie sono divenute spesso ridondanti, quando non insipide, inutili o semplicemente brutte, come nei casi di "L'Acchiappasogni" e "Doctor Sleep".
Eppure, non si può negare come esista un gruppo di romanzi di King che ogni amante dell'orrore dovrebbe leggere; ed anzi, forse tutti dovrebbero leggere; sono questi il mitico "Le Notti di Salem", "L'Ombra dello Scorpione" (che ben potrebbe ambire al titolo di suo miglior romanzo e capolavoro tout court) ed ovviamente quella che forse la sua opera più famosa e per certi versi rappresentativa: "It".




Scritto tra il 1980 ed il 1985, "It" è l'horror definitivo di King, nel quale confluiscono la sua passione per i mostri, quella per lo spaccato umano di una comunità affetta da un "male" di origine sovrannaturale, la descrizione del passaggio dall'infanzia all'adolescenza (già splendidamente descritto in "The Body", racconto alla base di "Stand by Me- Ricordo di un'estate"), l'omaggio agli orrori cosmici di H.P. Lovecraft ed uno spiccato senso per la tensione. Il tutto in un racconto magmatico di circa 1300 pagine, scritto in un periodo caotico della sua vita, durante il quale la dipendenza da alcool e cocaina raggiunse il suo culmine.
Si può dire con un pò di malizia come la mole di personaggi, descrizioni e sottotrame presenti nel libro possono essere solo il frutto di un delirio. E forse si sarebbe in ragione: la passione di King per l'accumulo di personaggi e situazioni è in "It" a tratti sfiancante; davvero troppe le pagine dedicate agli "interludi", utili ad ampliare lo spettro della narrazione riportando episodi del passato dell'immaginaria cittadina di Derry, dove spesso per molte pagine (a volte anche più di 50) la narrazione principale si interrompe per concentrarsi su quella di fatti che a stento si ricollegano al gruppo di protagonisti ed alle loro azioni. Così come è delirante l'ossessione per la caratterizzazione estrema di ogni singolo personaggio che viene presentato: ogni comparsa ha un suo arco narrativo, talvolta del tutto inutile ai fini della trama, usato per creare tensione o, ancora, per allargare artificialmente la grandezza della tela sulla quale la storia viene impressa.




Ancora più evidente, è il delirio dato dalla ripresa di una mitologia para-lovecraftiana, che però non ha un grammo del fascino dei racconti dello scrittore di Providence. Una volta giunti all'ultimo (duplice) atto, la creatura di "It" si rivela come un essere cosmico, giunto nella nostra dimensione da un'altra (da qui il collegamento con la serie de "La Torre Nera", dove un essere a lui simile, chiamato "Dandelo", appariva poco prima del finale) con lo scopo di divorare il nostro mondo, ma chissà per quale motivo si accontenta di cenare solo con la cittadina di Derry; un essere che si risveglia ogni 27 anni circa per mangiare, appunto, carne umana, in particolare quella dei bambini, poiché la paura rende più saporita la carne degli uomini e i bambini sono più facili da spaventare. Un essere di puro male, al quale si contrappone un altro essere, presente ancora prima del Big Bang: una tartaruga cosmica (Maturin, la guardiana del Vettore su cui Roland ed il suo ka-tet si incamminano) che è invece puro bene.
Mitologia ad un passo del ridicolo, un pò per i riferimenti faunistici, un pò per la mancanza di una vera visionarietà, una vera "vena di follia" che la renda davvero affascinante. Follia che però viene riversata nello scontro tra i ragazzi/adulti con l'entità malvagia, talmente delirante da sembrare uscito da un film horror psichedelico anni '70. Senza contare come, ad un certo punto, King decida di affossare tono e stile descrivendo una delle scene di maggior cattivo gusto che si possa immaginare: un'orgia tra pre-adolescenti in una fogna.
E' dunque "It" un romanzo sopravvaluto? Uno scritto in realtà mediocre che deve la sua fortuna solo al nome del suo autore? Assolutamente no.





Tolta la rivelazione sulla vera identità del mostro, la cosmogonia e l'inutile (e a dir poco vomitevole) scena dell' "orgia preadolescenziale" che fa da improponibile catarsi, la storia di Pennywise il Clown ed il gruppo dei Perdenti è a dir poco affascinate; e lo stile magmatico ma fluido della scrittura di King riesce a rendere la lettura avvincente, oltre che dannatamente disturbante.
Al di là dell'orrore che racconta, al suo nocciolo, "It" è la storia di un gruppo di ragazzi chiamati a divenire anzitempo uomini, a confrontarsi con un male la cui natura è sicuramente sovrannaturale, ma le cui azioni sono dannatamente terrene: un assassino di bambini, un uccisore di quell'innocenza che loro stessi devono perdere per sopravvivere. Un confronto, questo, che i ragazzini vincono trovando quel coraggio necessario ad affrontare le loro paure (Pennywise assume le forme della paura più inconscia di ciascuno di loro); coraggio che si materializza tramite la forza della fede in sé stessi: il potere di It risiede nella convinzione del suo potere (lo stesso termine "it" si riferisce ad una paura ed irrazionale verso qualcosa di oscuro, di ignoto, che non ha una forma precisa ma che è lo stesso avvertibile nella propria mente), cosicché l'unica vera arma da usare contro di lui viene data dalla distruzione di quella paura che incute tramite la fiducia in sé stessi, nei propri compagni e nella ridicolizzazione di quel male che, una volta spogliato di quella sua carica intimidatoria, non ha più potere alcuno.
Affrontato faccia a faccia quel male supremo, i ragazzi divengono uomini, coscienti di quel male che affligge l'intera città (società) in cui sono cresciuti. E 27 anni dopo, da adulti, sono chiamati a affrontare nuovamente quel passato rimosso, a riprendere coscienza di un episodio fondamentale per la loro formazione, a riguadagnare quella coscienza del male che li aveva resi adulti da una nuova angolazione, per poter definitivamente chiudere i conti con la propria infanzia.




La descrizione dei sette protagonisti è certosina, complessa e perfettamente riuscita. Bill Denbrough, fratello del piccolo Georgie, ossia la prima vittima del mostro che viene mostrata nel racconto, è un protagonista affascinante, un ragazzetto comune (poi adulto in realtà insicuro) che però viene idealizzato dai suoi compagni e che per questo riesce ad avere la forza di opporsi agli eventi orrorifici di cui è suo malgrado protagonista; allo stesso modo affascinanti sono Ben Hanscom, il "ciccione" dal cuore grande e dal cervello fino, la maschiaccia Beverly Marsh, il realtà dolce ed amorevole, ma anche dura come una roccia; Richie Tozier, il buffone la cui forza d'animo è però essenziale; Eddie Kaspbrak, in apparenza il più debole, ma anche lui dotato di una volontà ferrea; poi Mike Hanlon, ragazzo di colore in una cittadina di soli bianchi la cui caparbietà è pari solo alla sua intelligenza; e Stan Uris, il vero anello debole, che pur annegando nella paura riesce a combatterla e sconfiggerla.
Magnifica è anche la descrizione (ancora, talvolta fin troppo accurata) di una cittadina, Derry appunto, ormai totalmente asservita al Male, dove la violenza e la sopraffazione sono superate solo dal conformismo, dallo spirito menefreghista che porta gli abitanti ad ignorare i fatti orribili che ciclicamente avvengono per le sue strade e a rintanarsi vigliaccamente nelle proprie case.
Perfettamente riuscita è l'atmosfera malata che avvolge gli eventi, dove un sentimento costante di paura attanaglia i personaggi e con loro il lettore; in un mondo dove il confine tra realtà ed allucinazione è labilissimo, dove la fantasia e la forza d'animo sono le uniche armi per contrastare il mostro, il lettore è costantemente chiamato a domandarsi quanto di quello che viene narrato sia vero, quanto sia frutto della "malia" di It; assistendo sempre ad immagini, descritte sin nei minimi particolari, nelle quali King fa confluire tutto il suo gusto per la cattiveria e per lo splatter, rese ancora più disturbanti a causa dell'età infantile delle vittime.
Un racconto dove la situazione orrorifica presentata di volta in volta non è mai uguale a quanto visto in precedenza; King, d'altro canto, è sempre stato chiaro sulle intenzioni alla base del romanzo: riunire in un unico racconto tutti i suoi mostri preferiti, basati sulle sue esperienze al cinema; ecco dunque It abbandonare le vesti di clown quando deve uccidere per assumere le forme, ben più spaventevoli agli occhi dei personaggi, di un licantropo, della mummia, di un vampiro con lamette al posto delle fauci, del mostro di Frankenstein e della creatura della Laguna Nera; ma, anche al di là dei riferimenti filmici, le fattezze, ben più inquietanti, di un barbone sifilitico, di una mefistofelica strega di Hansel e Gretel e di uno stormo di sanguisughe volanti, in una varietà sempre fresca e spiazzante.
Il successo ed il blasone del romanzo sono quindi più che meritati: tolte alcune lungaggini e cadute di stile, "It" è davvero un piccolo capolavoro di narrativa di genere.




Nonostante lo status di best-seller già conquistato negli anni '80, la notorietà della creatura di King è però dovuta, guarda caso, ad una sua prima trasposizione audiovisiva, che come da tradizione ha dato ulteriore lustro al romanzo; caso strano per l'epoca, questa prima trasposizione di "It" non è stata un'opera destinata alle sale cinematografiche, bensì una miniserie televisiva prodotta dalla Warner Bros. Television; scelta forse dovuta alla mole del romanzo, che meglio si adattava ai tempi di trasmissione: due episodi di 90 minuti circa ciascuno. E nonostante lo scarso budget, i limiti dovuti alla censura televisiva dell'epoca (i tempi dell'eros spinto e dello splatter gettati in faccia allo spettatore di "Game of Thrones" erano lontani anni luce, sopratutto quando si tiene conto che l'emittente che ospitava la serie non era via cavo) e alle ristrettezze di visione proprie delle produzioni televisive dell'epoca, la miniserie di "It" resta un adattamento riuscito e molto fedele alla fonte letteraria, invecchiato persino meglio di quanto si possa pensare.




Merito, anzitutto, della regia di Tommy Lee Wallece (ma inizialmente al timone dell'opera doveva esserci niente meno che George A.Romero), il quale, proveniente dal mondo del cinema, imprime alla narrazione televisiva quella dinamicità che all'epoca mancava; movimenti di macchina fluidi, ritmo incalzante e, sopratutto, una fotografia curatissima, che cita persino il gotico baviano classico nella fase finale; Wallace riesce a creare un'atmosfera da incubo pur ambientando tutto il racconto in pieno giorno e trova in Tim Curry un Pennywise semplicemente perfetto. L'istrionismo del grande attore britannico si colora di una luce sinistra, apertamente inquietante: il suo ghigno satanico, la sua voce melliflua, i suoi lineamenti mostruosi si sposano perfettamente con un make-up che è invece "classico", laddove non ricerca un'iconografia strettamente orrorifica; Pennywise inquieta proprio a causa della sua apparenza da clown "normale", sotto la quale Curry riesce a far emergere con livore una carica disturbante a dir poco prorompente.




Non è da meno il resto del cast, tra i quali figurano volti noti della televisione e del cinema quali il compianto John Ritter nei panni di Ben Hanscom da adulto, la bellissima Annette O'Toole in quelli di Beverly Marsh, Olivia Hussey ed un giovanissimo Seth Green semplicemente perfetto nei panni di Richie "boccaccia" Tozier. Senza contare un altro compianto interprete, Joanthan Brandis, il vero "bambino prodigio" degli anni '90, poi suicidatosi a soli 27 anni nel 2003, il quale interpreta il giovane Bill Danbrough con un trasporto eccezionale.




Una miniserie che ha davvero fatto la storia della cultura popolare e non solo; a seguito della sua prima trasmissione in prima serata nel 1990 (in Italia arrivò un paio di anni dopo, trasmessa sempre in prime time da Canale 5, riscuotendo equanime successo), i casi di coulorofobia infantile si sono centuplicati: la fobia dei clown è divenuta una vera e propria epidemia presso i giovanissimi spettatori che hanno inavvertitamente deciso di guardare un prodotto a loro non destinato; persino qui in Italia, un'intera generazione, quella nata nella seconda metà degli anni '80, ha cominciato a soffrire di fobia dei pagliacci dopo aver visto Tim Curry in azione sul piccolo schermo.
Ma, ancora di più, è stato grazie a questo primo exploit se Pennywise è riuscito a divenire, in pochissimo tempo, una delle maschere horror più famose, apprezzate ed immediatamente riconoscibili, al pari di Freddy Krueger, Jason Voorhees e Michael Myers.




Nonostante la lunga durata, la miniserie si prende alcune libertà con il testo originario. Alcuni personaggi hanno diversi background: Ben è ora un orfano di padre, che viene avvicinato da It sotto le spoglie del defunto genitore; Stan Uris è un boy-scout... ebreo, se mai una cosa del genere sia possibile; Eddie, qui soprannominato "spaghetti" da Richie, sempre sottomesso all'ingombrante figura materna, anche da adulto vi resta legato e persino vergine. Molte sottotrame sono state eliminate, come quelle sul passato di Derry o su Patrick Hockstedder; così come lo scontro con It è semplicemente fisico: il "rito di Chud" che porta Billy e Richie ad incontrare la vera entità che si cela dietro il corpo aracniforme non trova equivalente su schermo, a causa dell'estrema complessità visiva nella messa in scena che avrebbe richiesto, troppo per una produzione televisiva dal budget medio.
Nota dolente sono, immancabilmente, gli effetti visivi; invecchiati malissimo, pur se curati dalla mitica Fantasy II che già aveva lavorato al "Termiantor" di Cameron, si compongono di scarnissime animazioni passo-uno, fuori tempo massimo e, a causa del budget ristretto, davvero poco convincenti.
Eppure, se si riesce ad andare al di là dei limiti tecnici, ancora oggi la carica visionaria ed orrorifica di questa piccola miniserie è apprezzabilissima; il che la rende una visione, se non propriamente obbligatoria, quanto meno piacevole.




Ed in un periodo in cui ad Hollywood ogni brand ed ogni pellicola cult viene "rigenerata" per poter essere rivenduta al pubblico, una nuova trasposizione di "It" era solo una questione di tempo.
I progetti per un adattamento cinematografico vero e proprio iniziarono già verso il 2010, ma solo un paio d'anni fa il film è entrato in fase produttiva vera e propria. Al timone era stato inizialmente scelto Cary Fukanaga, che, reduce dal successo della prima stagione di "True Detective", aveva cominciato la pre-produzione compiendo una scelta di cast inedita e spiazzante: il giovane Will Poulter come Pennywise, sostituto a sorpresa della favorita Tilda Swinton (e resta l'amaro in bocca se si pensa a cosa avrebbe potuto fare un'attrice del suo calibro in un ruolo del genere).
Ma a causa di vicissitudini produttive, dovute principalmente al budget stanziato, il film ha perso non solo il suo autore, ma anche il suo protagonista, sostituiti da Andreas Muschietti e da Bill Skarsgaard.
Il tocco di Muschietti. qui al suo secondo lungometraggio dopo "La Madre", sembra però essere stato in parte propizio: è stata sua l'idea di creare un film che adattasse solo la prima parte del romanzo, quella con i protagonisti ancora pre-adolescenti, che condensasse tutta la narrazione che riguarda la prima parte della storia, lasciando il resto ad un ipotetico seguito. Così come sua è stata l'idea, vincente, di aggiornare il tempo della storia, che passa dalla fine degli anni '50 alla fine degli anni '80; scelta probabilmente dettata dalla moda del revival post "Stranger Things" e "Super 8" (acuita dalla presenza di Finn Wolfhard nei panni di Richie), che tuttavia si rivela azzeccata. Meno felice è tuttavia la riuscita generale del film, che pur giocando bene con il materiale di partenza finisce per sprecare più di un'occasione.



L'opera di adattamento, innanzitutto, è alquanto bislacca. Le linee generali della storia, tutti i personaggi più importanti, così come le tematiche e le scene clou sono rimaste pressocché intatte; torna l'iconica scena della pioggia di sangue nel bagno di Bev, alla quale viene aggiunto il dettaglio dei capelli posseduti che cercano di strozzarla; così come l'incipit è una trasposizione quasi parola per parola del primo incontro tra Pennywise e Georgie. Ma, al di là del decennio in cui viene ambientata, il resto della trama si discosta molto dalle pagine di King.
Non ci sono riferimenti alla natura "lovecraftiana" di Pennywise, né viene detto esplicitamente come sia la forza dell'immaginazione a distruggerlo (non si capisce, di conseguenza, come faccia Bill a ferirlo con una pistola scarica), tantomeno riferimenti espliciti alla Tartaruga; la natura mutaforme del mostro viene enfatizzata ancora meno che nella miniserie del '90, anche se fa la sua comparsa l'incarnazione del barbone sifilitico che perseguita Eddie; viene inoltre aggiunta un'altra incarnazione, inedita, quella della donna di un quadro stilizzato che perseguita Stan; dei mostri "classici", invece, non c'è quasi traccia, esclusa una fugace apparizione della Mummia nel finale.
Alcuni passaggi della storia sono stati eliminati, nonostante la lunga durata, altri semplificati; non c'è più la sequenza del cinema con la conseguente lotta con i bulli, nè tutta la parte dedicata alle escursioni nei barren.



Anche la caratterizzazione dei personaggi è stata in parte stravolta; Bill, Eddie, Richie e Bev sono bene o male gli stessi che apparivano nel romanzo e nella miniserie; ma, non si capisce per quale motivo, Ben sia divenuto lo studioso che spiega tutta la storia di Derry e dell'influenza nefasta di Pennywise; di conseguenza, il personaggio di Mike, ora orfano che lavora in un mattatoio, è un vero e proprio foglio bianco, privo di peso e di una vera caratterizzazione, una sorta di "token black guy" messo nel gruppo tanto per.
Diverse sono anche le fobie di alcuni dei Perdenti. Richie soffre ora di coulorofobia, con tanto di omaggio seminascosto, in una sua visione, al Pennywise di Tim Curry; Mike rivede l'incendio che ha ucciso i genitori, mentre Stan è perseguitato dalla visione del quadro.
Anche il personaggio di Bill ha un arco diverso; sempre leader suo malgrado e membro più coraggioso del gruppo, è ossessionato dal ritrovare il fratellino, che crede ancora in vita, piuttosto che vendicarsi di chi lo ha ucciso; più stretto e romantico è anche il suo rapporto con Bev, a discapito del povero Ben.



Differenze a parte, a non funzionare del tutto nell'adattamento è l'arco evolutivo dei personaggi; se Bill, Ben e Bev riescono davvero a crescere e ad affrontare le loro paure confrontandosi con il Clown, gli altri Perdenti fanno quasi da spalla, con tanto di linea comica spezzatensione cucita addosso a Richie. L'ensamble funziona solo in parte e l'aver alleggerito i toni non sempre paga: il costante spezzare la tensione stempera troppo l'atmosfera in teoria cupa ed opprimente.
Per cercare lo spavento, Muschietti opta per la via più semplice e ricorre costantemente ai jump-scare, rendendo presto prevedibile l'entrata in scena del mostro e poco iusciti quando basati sui semplici primi piani delle creature; ma, prevedibilità a parte, molti si rivelano azzeccati; la bella fotografia e l'uso di scenografie ed location aride e desolate, sottolineate da una colonna sonora d'antan azzeccatissima, riescono lo stesso a creare una buona atmosfera, sempre sottilmente inquietante.



La parte del leone, alla fine, la fa però lui, Pennywise, che Bill Skarsgaard interpreta con piglio molto meno istrionico rispetto a Curry. Non più un Freddy Krueger dal naso rosso, il clown assassino è ora una creatura sottilmente inquietante, che fa dei tic e della voce buffa un perfetto strumento di spavento; azzeccato anche il suo design, che si rifà ai clown sette-ottocenteschi, più inquietanti di quello moderni, così come la trovata di dotarlo di fauci disumane, che lo rendono ancora più mostruoso.



Nonostante la lunga durata, l' "It" di Muschietti riesce a non annoiare; le cadute di stile non mancano e storia e personaggi avrebbero potuto rendere meglio in un lungometraggio. Ma anche così, questo adattamento parziale del fluviale romanzo di King resta un piccolo horror divertente, anche se un pò goffo.