lunedì 31 luglio 2023

Shin Masked Rider

Shin Kamen Raidâ

di Hideaki Anno.

con: Sosuke Ikematsu, Minami Hamabe, Shinya Tsukamoto, Mirai Moriyama, Tatsuko Emoto, Toru Tezuka, Suzuki Matsuo, Toru Nakamura, Ken Yasuda.

Fantastico/Azione

Giappone 2023













Tra un film di "Evangelion" e l'altro, Hideaki Anno si è anche affermato come il filmmaker dei "rilanci" dei classici della cultura popolare nipponica. Già con il bel "Shin Godzilla" è riuscito a riportare in auge il Re dei Kaiju e con il successivo "Shin Ultraman" (da lui però solo scritto) ha modernizzato una delle icone pop più amate di sempre nel Sol Levante, creando le basi di quel "Shin Japan Heroes Universe" che sembra voler rivaleggiare con le produzioni cinematografiche in serie americane.
"Shin Kamen Raidâ" è così il classico "passo dovuto" che lo porta a confrontarsi con un'icona dalla portata incredibile: il figlio più famoso di quel Shotaro Ishinomori la cui importanza storica come mangaka è seconda solo al "dio" Osamu Tezuka, nonché l'iniziatore del fenomeno dei tokusatsu.



Un tokusatsu, quel "Kamen Rider" iniziato nel 1971 e che tra interruzioni, riprese, remake e rifacimenti vari è in corso tutt'oggi (è del 2022 l'ultima serie, "Kamen Rider: Black Sun"). E sebbene in Giappone goda di fama imperitura, non è mai riuscito ad affermarsi in Occidente; cosa strana, visto che Haim Saban, sulla scia del successo dei "Power Rangers", ne ha creato una versione ad hoc verso la metà degli anni '90, la quale non ha però riscosso il successo sperato e ha fermato ogni possibile affermazione del personaggio al di fuori del Sol Levante.
Kamen Rider è praticamente l'apripista dei "Super Sentai" vari, nonché l'archetipo del supereroe giapponese, che con il suo stile camp ed esagerato ha dato vita a praticamente tutti gli eroi in casco e tutina venuti dopo.
Anno, da regista di anime e filmmaker facente parte di quella prima generazione di otaku passati dietro la macchina da presa in entrambi i campi, opta per un lavoro del tutto antitetico rispetto a quanto fatto con "Shin Godzilla": laddove lì riprendeva il modello classico e lo modernizzava, con "Shin Kamen Raidâ" riporta alla pari il modello di riferimento, modernizzandolo il meno possibile.
Sia in fase di scrittura che di messa in scena, il tono sciocco e camp del serial originale ritorna prepotente.



In meno di 120 minuti di durata effettiva, Anno condensa quella che potrebbe essere la storia di un'intera stagione televisiva. Si parte con la genesi del "Cavaliere Mascherato" o "Cavalletta Aug", mutante ibrido uomo-insetto creato dall'associazione SHOCKER, società segreta che ha come fine la realizzazione della felicità umana, la quale non è ovviamente quella che potrebbe pensare.
Il Rider è qui una nuova incarnazione dell'originale Takeshi Hongo (Sosuke Ikematsu), il quale viene liberato dal giogo dell'organizzazione dal suo stesso creatore, lo scienziato Hiroshi Midorikawa (un simpatico cameo di Shinya Tsukaoto, qui nelle vesti di un fautore di reali forme di body-horror). Coadiuvato dalla di lei figlia Ruriko (Minami Hamabe), Hongo si unisce ad un organizzazione governativa per combattere SHOCKER, duellando di volta in volta con gli altri super-soldati del gruppo.




L'incipit dell'eroe e la mitologia alla base del tutto vengono gettati in faccia allo spettatore nei primissimi minuti, il tutto nel modo più didascalico possibile. La scrittura è volutamente scialba e diretta, con una costruzione della vicenda che riprende la formula del "mostro settimanale" e costruisce tutta la storia come una serie di incontri tra Kamen Rider e il cattivo di turno, eliminato in pochi minuti. Tutti i personaggi secondari hanno di conseguenza una caratterizzazione ai limiti dell'inesistente, salvo tre eccezioni, ossia Vespa-Aug (Nanase Nishino), ex amica di Ruriko, il villain principale Ichiro (Mirai Moriyama) e Hayato Ichimonji (Tasuko Emoto), il Kamen Rider numero 2, che da metà film affianca Hongo. E per pura coerenza stilistica, Anno inserisce anche uno spettacolare buco di trama quando fa sparire per praticamente tutto il film il villain iniziale, l'intelligenza artificiale I e il suo "corpo" androide K, che si riaffacciano solo nel finale.




Contro una costruzione naif della storia, il tono e le tematiche trattate sono del tutto seriose; si parte dal body-horror, con la trasformazione "henshin" che tramuta Hongo e gli altri Aug in mostruosità vere e proprie sotto i costumi sgargianti; si passa per il dramma della solitudine e la ricerca di un senso di giustizia in un mondo freddo e violento e si arriva alla lotta per la ricerca della felicità e il significato della medesima.
Lo scarto tra contenente e contenuto è poi acuito da una messa in scena che abbraccia pianamente il camp della tradizione, con montaggio velocissimo, eroi e cattivi in pose teatrali che combattono per le campagnie o sullo sfondo della periferia industriale, personaggi che entrano e escono dalle inquadrature senza soluzione di continuità e una CGI orgogliosamente vetusta, che sembra uscita da una produzione giapponese dei primi anni 2000 piuttosto che da una contemporanea. L'unico tocco di originalità viene dato dal ricorso agli inserti splatter, con il sangue che scorre copioso durante i combattimenti. Per il resto, sembra di assistere ad una sorta di "Kyashan- La Rinascita" meno esteticamente feroce, ma ugualmente dinamico e indaffarato nel restituire un'estetica e uno stile estranei ad una messa in scena filmica vera e propria.
Anno riesce lo stesso ad inserire una nota di regia del tutto personale e anti-nostalgica con l'uso della camera a mano; esempio supremo è il combattimento finale, dove la macchina da presa segue lo scontro con il villain Ichiro in maniera para-documentaristica, scartando definitivamente dall'omaggio alla tradizione.



Il risultato è volutamente scostante, una sorta di omaggio sentito al passato che va oltre la semplice nostalgia  per ridargli corpo in maniera diretta. Con la conseguenza più ovvia che lo spettatore meno avezzo a tale tipo di operazioni ben può trovare il tutto inutilmente ridicolo.
Oltre che al sottovalutato adattamento di Kyashan ad opera di Kazuaki Kiriya, la mente non può che correre ad un altro omaggio al tokusatsu, il bel "Zebraman" di Takashi Miike, verso il quale il lavoro di Anno si distingue per la volontà di non voler cambiare, di non voler dare un effettivo significato ulteriore al materiale di base, di non volerlo semplicemente omaggiare, bensì riportarlo in auge nel modo più diretto possibile.
"Shin Kamen Raidâ" è così pura pop-art cinematografica, un'operazione che parte dalla cultura popolare per farsi atto d'amore intellettuale da parte di un fan orgoglioso (al pari del quasi coevo "The Munsters" di Rob Zombie). Riuscito, ma decisamente elitario.

mercoledì 26 luglio 2023

I 3 dell'Operazione Drago

Enter the Dragon

di Robert Clouse.

con: Bruce Lee, John Saxon, Jim Kelly, Shih Kien, Robert Wall, Ahna Capri, Bolo Yeung, Angela Mao, Betty Chung, Geoffrey Weeks, Sammo Hung, Jackie Chan.

Azione

Usa, Hong Kong 1973














20 Luglio 1973: Bruce Lee viene trovato morto mentre si trova presso la casa dell'amica Betty Ting Pei, a Hong Kong. Sulle cause della morte vige tutt'oggi un mistero: l'ipotesi più accreditata la attribuisce ad una reazione allergica ad un farmaco, ma recenti teorie parlano di un collasso renale. Tutte le versioni tirano in ballo il suo passato da lottatore di strada, le ferite che si è procurato negli scontri e in particolare il famoso combattimento (disputato a porte chiuse) con Wong Jack Man, tenuto per "punire" Lee per aver introdotto gli Occidentali alle arti marziali cinesi.
Quel giorno morì l'uomo, ma nacque la leggenda. Con appena tre film completati e uno alla vigilia della premiere, il suo nome era già famoso a Hong Kong e si stava pian piano affermando in America e Europa. Persino in Italia, i suoi primi due film, arrivati "al contrario" nel '73, riscuotevano ottimi riscontri.
Il lascito di Lee è poi immane, basti pensare allo sdoganamento definitivo delle arti marziali al cinema, che con lui escono dai confini dell'oriente per affermarsi anche altrove, divenendo un vero e proprio patrimonio dell'umanità; lo sviluppo deljJeet kune do, stile personale e malleabile; oltre ad un pugno di pellicole che più cult non si può. 
E se "L'Ultimo Combattimento di Chen" vedrà il buio della sala solo anni dopo la sua morte, venendo completato alla bene e meglio e lasciando intatti solo quei venti minuti finali da lui girati in prima persona, il suo vero film-testamento resta "I 3 dell'Operazione Drago", suo ultimo film completo e prima grossa produzione, che, pur diretta dal mestierante Robert Clouse, ha permesso a Lee di dar pieno sfogo e pieno corpo a molte delle sue idee marziali e filosofiche.




Ma è bene essere subito chiari "I 3 dell'Operazione Drago" potrebbe essere considerato come il peggior film di Lee, se non fosse per "L'Ultimo Combattimento di Chen". La regia di Robert Clouse (che all'epoca aveva all'attivo giusto un paio di film ed era persino sordo) a tratti è decisamente dozzinale e non rende neanche troppa giustizia alla fisicità di Lee o degli altri interpreti. Le coreografie sono di buona foggia (come al solito curate da Lee in prima persona), ma la messa in scena è a tratti decisamente scarna; su tutte, è la sequenza del combattimento sotterraneo con le guardie che, oggi come cinquant'anni fa, fa sorridere, con Lee al centro dell'inquadratura e i cattivi che gli saltano addosso, in una semplicità di costruzione davvero disarmante, colpa della poca esperienza di Clouse dietro la macchina da presa.
Il film resta così interessante per altro e fortunatamente non solo perché rappresenta l'ultimo vero exploit della leggenda.




In primis, è stato il primo tentativo di creare un blockbuster con protagonista un asiatico, oltre che la prima cooperazione tra una major hollywoodiana e la mitica casa di produzione hongkonghese Golden Harvest, all'epoca "casa" di Bruce Lee. Certo, il budget non era esorbitante e il protagonista è affiancato da due altri interpreti decisamente più vendibili al grande pubblico; e se John Saxon, che pur se la cavicchia come marzialista, esce sconfitto dal carisma del protagonista, Jim Kelly, artista marziale e tennista, non solo divora ogni scena in cui appare, ma crea letteralmente l'archetipo del karateka di colore, prova di come talvolta le esigenze commerciali portino anche cose buone.
Il resto, come da copione, lo fanno Lee, il suo fisico, la sua presenza scenica e la sua filosofia.




Il protagonista, omonimo dell'attore, ne è un vero e proprio doppio, un maestro shaolin che comprende come la vera essenza dello scontro sta nell'annullamento dell'io, nell'adattabilità dello stile all'esigenza, perno filosofico del jeet kune do.
La trama è oramai archetipica e nel concepirla si è coscienti del limite più ovvio di un film di arti marziali ambientato in epoca modera, ossia l'uso delle armi da fuoco, aggirato con la trovata dell'isola privata su cui di disputa un torneo di arti marziali internazionale. E nel concepirla, si trasforma Lee in un "James Bond shaolin" che combatte contro una sorta di Dr.No che supera subito il modello, imponendosi come icona popolare immediatamente riconoscibile grazie alla trovata della mano-artiglio.
Da antologia, poi, lo scontro finale nella sala degli specchi, in apparenza ispirato al capolavoro di Orson Welles "La Signora di Shangai", ma a quanto pare frutto di ispirazione estemporanea da parte di uno dei produttori.



Come si suol dire, il resto è Storia: "I 3 dell'Operazione Drago" viene presentato a Hong Kong il 26 Luglio 1973, appena sei giorni dopo la morte di Lee. Il successo internazionale è immediato e il film entra subito nella memoria collettiva. Il personaggio di Lee trova una nuova forma iconica, con il look a torso nudo e i nunchaku. E da interprete di culto, diventa leggenda della settima arte tutta.



EXTRA

Numerosi i piccoli ruoli affidati a futuri divi del cinema di Hong Kong, che ne "I 3 dell'Operazione Drago" muovono i primi passi.
Il più famoso è Jackie Chan che, come in "Dalla Cina con Furore", compare come stuntman in una scena del combattimento sotterraneo. Leggenda vuole che Lee gli abbia fatto davvero male durante le riprese e gli avesse promesso di promuoverlo ad attore vero e proprio nel suo film successivo. Promessa che purtroppo non riuscì a mantenere.



Un giovane ma già tondo Summo Hung interpreta l'avversario di Bruce Lee nel combattimento al tempio che apre il film.



Il futuro attore e stuntman Wei Tung interpreta lo studente a cui Lee insegna a "non concentrarsi sul dito, ma sulla luna".



Caso a parte è poi quello di Yang Sze, che interpreta il gigantesco sgherro Bolo Yeung. Il successo del personaggio è stato tale che Sze decise di ribattezzarsi con il suo nome. 
Nel 1977 ha persino interpretato Bolo in "Ba ma hei qi" una specie di spin-off de "I 3 dell'Operazione Drago" che ne narra la storia e nel 1987 è definitivamente entrato nel pantheon del cinema d'azione interpretando il "boss finale" del cult "Bloodsport", al fianco di un semi-esordiente Jean-Claude Van Damme.


lunedì 24 luglio 2023

Piggy

Cerdita

di Carlota Pereda.

con: Laura Galàn, Richard Holmes, Irene Ferreiro, Camille Aguilar, Claudia Salas, José Pastor, Fernando Delgado-Hierro, Carmen Machi, Juliàn Valcàrcel, Plar Castro.

Spagna, Francia 2022














---CONTIENE SPOILER---

L'ultra-sensiblità della Gen Z ha generato veri e propri mostri e, soprattutto, un clima dove ogni singola esternazione valutativa viene percepita come un attacco. Il che va sommato a quella "cultura dell'auto-accettazione" che anzicché aiutare le persone con menomazioni o difetti fisici a superare la paura del disprezzo altrui, ha di fatto stabilito la venerazione di ogni possibile difetto, la trasformazione di vere e proprie malattie (l'obesità così come le psicosi) in qualità. Da cui è conseguita la creazione del termine "body shaming" per indicare non solo l'atto di bullizzare chi è afflitto da un difetto fisico, ma qualsiasi forma di affermazione di disappunto verso l'obesità.
Se fino ad un decennio fa le istituzioni (americane e non) combattevano una vera e propria battaglia per la salute pubblica, con la promozione di uno stile di vita sano e la celebrazione dell'attività fisica, ora questa forma di accettazione bieca ha portato alla ridefinizione coatta degli standard di salute e bellezza. E, in merito, fa davvero specie vedere stampa specializzata come Sport Illustrated celebrare come belli e sani corpi di oltre 200kg, modelle il cui fisico non è sinonimo di salute quanto di autodistruzione, al pari di quell'anoressia tanto disprezzata in passato.
L'unica vera conseguenza che questa tendenza ha generato, è il disprezzo effettivo verso i diversi, in particolare verso quegli obesi che sono convinti che il loro corpo non sia il frutto di uno stile di vita malsano; in sostanza, un'inversione totale di quanto la Gen Z stessa si prepone con la sua mentalità di apertura verso qualsiasi forma di diversità, un trionfo di narcisismo ed egocentrismo.
Forse proprio per questo, la visione di un film come "Piggy" diventa obbligatoria al fine di ricordarci il dramma di quelle persone che pur oggi vengono davvero perseguitate ingiustamente per la loro apparenza; visione che risveglia la sensibilità nei confronti di un dramma che tutti, in un modo o nell'altro, tendono ad ignorare.



Sara (Laura Galàn) è un'adolescente oggetto di derisione per il suo peso. Dopo l'ennesimo attaco subito dalle bieche compagne, incontra per caso un estraneo gentile (Richard Holmes); questi si scopre subito essere un assassino seriale che ha catturato proprio quelle amiche che lei tanto odia. 
Sara si trova così stretta tra la fascinazione per il male e "bene" tanto giusto in apparenza quanto opprimente.




"Cerdita", ovvero "maialina", un soprannome che urta persino chi lo ascolta. Carlotta Pereida aveva scritto e diretto l'omonimo cortometraggio nel 2018 e ora lo espande a circa 100 minuti, lasciando come protagonista la sorprendente Laura Galàn, trentasettenne eppure perfetta nei panni di un'adolescente.
Sara è il centro di tutto, punto di vista e emozionale della vicenda. Una vittima perenne, tanto delle bulle quanto di una madre castrante, persino più antipatica di quei compagni che la sbeffeggiano costantemente. E tutti altro non sono che l'incarnaizone individuale di quel male sociale che si sostanzia nell'oppressione gratuita del prossimo, nella distruzione beffarda di tutto ciò che non si conforma ad un'idea prestabilita di "bello" o anche solo di "normale".




L'assassino non è quindi un semplice doppio oscuro di Sara (benché il suo fisico rubicondo possa far pensare così), quanto quella forma di liberazione, di autoaffermazione che ridà alla società quanto ottenuto, trasformando la violenza verbale ed emotiva in fisica.
La Pereda vuole farci parteggiare per la sua protagonista e per il suo senso di vendetta giustamente insaziabile; e lo fa anche caratterizzandola non come una vittima totale, sottolineando come quel suo corpo pachidermico sia una conseguenza della sua cattiva alimentazione, senza quindi idealizzarla.
Proprio per questo, quella svolta finale lascia davvero esterrefatti.




Se per quasi tutto il film il discorso è sulla giustizia di un'azione deplorevole come l'omicidio, su come la violenza generi violenza e come i mostri altri non sono che vittime stanche di essere sottomesse, la decisione di far tradire l'estraneo e di salvare le amiche fa crollare tutto il discorso. Sara diventa così una vera e propria santa, una ragazza che resta immune al male e salva la sua anima prima ancora che il corpo delle ragazze che tanto disprezza, affossando ogni credibilità e persino tutto il discorso sul male sociale fatto fino a quel momento.



Una mancanza di coraggio finale che purtroppo rende "Piggy" del tutto malriuscito, prima ancora che incoerente; tanto che se i modelli di base all'inizio sembravano essere l'horror americano anni '70 e l'indimenticabile e ancora oggi provocatorio "Natural Born Killers", il finale richiama alla mente il compiacimento assolutorio di tanto cinema dei millennial che troppo male sta facendo alla cultura popolare. 
Uno screzio finale purtroppo ingiustificabile, che però non impedisce al lavoro della Pereda di essere apprezzato per il modo onesto e sincero con il quale ritrae il dramma dell'obesità.

martedì 18 luglio 2023

Piscina Infinita

Infinity Pool

di Brandon Cronenberg.

con: Alexander Skarsgaard, Mia Goth, Cleopatra Coleman, Thomas Kretschmann, Dunja Specic, Adam Boncz, Jalil Lespert.

Canada, Croazia, Ungheria 2023

















Che Brandon Cronenberg si sia volutamente chiuso in un angolo creativo decidendo di essere una copia sbiadita del padre era cosa chiara sin dal suo esordio. Ora, al terzo film, viene da chiedersi se davvero riuscirà mai a scrollarsi di dosso i paragoni con il genitore, visto che prova anche ad avere un suo stile, ma alla fine torna sempre a creare opere degne di un semplice epigono di David. E "Infinity Pool" è la classica "prova del nove", quella terza fatica che dovrebbe confermare quanto fatto in passato o rappresentare un viatico per il futuro. Un futuro che Brandon sembra non voler contemplare, pescando a piene mani dal passato (proprio e soprattutto altrui) in un riciclaggio costante di spunti e idee.




James W. Foster (Alexander Skarsgaard) è uno scrittore americano oramai oltre l'orlo della bancarotta creativa. In vacanza con la moglie Em (Cleopatra Coleman) in un'immaginaria località turistica europea, incontra la bella Gabi (Mia Goth), attricetta che si dice sua fan. Dopo una giornata di svago, James, con Em, Gabi e il di lei marito, sulla strada di ritorno per il resort finisce inavvertitamente per investire un locale. Condotto in prigione, scopre una stana usanza del luogo: pagando può farsi costruire un clone dotato dei suoi stessi ricordi, il quale sarà giustiziato al suo posto per il suo crimine.




Di carne al fuoco, questa volta, Brandon ne mette davvero tanta.
Si parte dallo spaccato di un mondo più reale del reale dove i ricchi turisti vivono in lussuosi villaggi vacanze difesi come fortezze impenetrabili. Fuori dalle architetture morbide circondate dal filo spinato, la povertà imperante di quel sud del mondo che altro non è se non il giardino di quel 1% talmente ricco da potersi permettere tutto. E finché il suo sguardo si posa sulla discrasia sociale, praticamente solo nel primo atto, "Infinity Pool" funziona. Laddove però Brandon introduce la tematica portante del film, ossia il concetto di colpa e di morale, tutta l'opera finisce per crollare sotto il suo stesso peso.




Il presupposto dell'intera narrazione è il concetto di doppio e alterità, dell'esternalizzazione della colpa come autoassoluzione che distrugge ogni inibizione dell'uomo; concetto più che interessante, ma, come sempre con il cinema di Brandon, il problema è nell'esecuzione.
Si parte da un dato che in teoria dovrebbe essere scontato, ossia la mancanza di sospensione dell'incredulità rispetto al mondo creato. Il fatto che un clone possa essere giustiziato al posto dell'originale non ha il minimo presupposto giuridico, stante il carattere personale della norma penale in praticamente tutto il mondo civilizzato. E anche evitando pedanterie giuridiche, non è chiaro in che modo il famigliare della vittima possa ritenersi umanamente soddisfatto dall'omicidio di un essere che di fatto non ha commesso crimini. Men che meno, poi, si riesce a credere ad un paese del terzo mondo che non solo possiede la tecnologia necessaria per creare dei duplicati perfetti, ma che si limita a usarla per salvare dai guai i turisti facoltosi, senza neanche solo pensare di reimpiegarla sul piano economico.




Volendo come al solito soprassedere riguardo alla poca plausibilità dell'assunto di base, il vero dramma di "Infinity Pool" è nella sua estrema incapacità di dire qualcosa di originale o di dirlo anche semplicemente in modo interessante.
Nel secondo atto, Brandon inscena così una sorta di "Arancia Meccanica dei poveri", dove i teppisti assetati di emozioni forti non sono i membri della classe disagiata, ma quelli dell'alta borghesia, i quali si abbandonano ai sensi a causa dell'impunità a loro accordata. E proprio quando il discorso sembra farsi tutto sommato stimolante benché derivativo, si decide di introdurre a forza un conflitto tra il protagonista e il resto del gruppo, di trasformare James in una sorta di coscienza collettiva e far transitare Gabi da femme fatale mefistofelica a pazza lunatica senza soluzione di continuità alcuna, praticamente di punto in bianco con la scusa di una sorta di "battesimo" del protagonista verso un nuovo stato dell'essere che, ridicolmente, aveva già raggiunto. Con la conseguenza, più che ovvia, che tutta la storia diventa debolissima, aggravata poi da un racconto al solito fiacco e quantomai privo di mordente.




Brandon decide come sempre di sfogare la sua vena visionaria unicamente negli inserti onirici, sorta di video-art innescata in un racconto altresì classico, generando come risultato uno stridore risibile tra le immagini psichedeliche e una fotografia talmente convenzionale da rasentare a tratti il brutto. E quando dovrebbero risultare graffianti, le sue immagini sono invece blande, come la visione di quel cane-umano, ripresa anch'essa dal lavoro del padre, la quale non ha la minima carica disturbante o provocatoria.




Alla fine, anche "Infinity Pool", al pari dei due film precedenti, risulta più pretenzioso che graffiante, più compiaciuto che intelligente, più insipido che simpatetico. Viene quindi da chiedersi quale possa essere davvero il futuro del cinema di Brandon Cronenberg: i suoi tre film gli hanno consentito di farsi un nome, ma sono delle copie scolorite dell'opera del padre, del quale rappresenta un imitatore (un clone, è il caso di dire) decisamente poco interessante. Sarà così a vita?

lunedì 17 luglio 2023

Space Adventure Cobra


di Osamu Dezaki.

Animazione/Fantastico/Avventura/Azione

Giappone 1982























Il fatto che "Space Adventure Cobra" sia praticamente sconosciuto in Italia è davvero una stramba anomalia, sia a causa del fatto che l'animazione nipponica è divenuta parte del substrato nazionalpopolare da quasi cinquant'anni, sia a causa dell'enorme successo che ha riscosso in patria così come negli Stati Uniti e in Francia, dove Cobra è un personaggio amato al pari del similare Lupin III, vero e proprio calco dal quale in un qualche modo ha preso vita.
Oscurità dovuta in primis al fatto che, sempre per motivi mai chiariti, tutte le opere che lo vedono protagonista non sono praticamente mai giunte ufficialmente nel Bel Paese: il manga originale viene dato alle stampe nei primi anni '90 ad opera della Play Press, solo per chiudere la pubblicazione dopo appena cinque numeri, l'anime televisivo originale è tutt'oggi inedito, così come il revival del 2010 e la precedente serie OAV del 2008. Solo il lungometraggio del 1982, nato come apripista per la serie televisiva, si è timidamente affacciato nei negozi sotto forma di VHS in primis e di DVD in tempi più recenti, senza suscitare alcun clamore (nonostante l'ottima edizione italiana) e senza che un versione in alta definizione sia mai neanche stata annunciata.
Cobra e le sue rutilanti e sexy avventure restano così appannaggio dei soli cultori di anime retro, i quali sono così gli unici a conoscere l'iconico anti-eroe di Buichi Terasawa; il che è davvero un peccato laddove si tiene conto della simpatia di questa sua stramba e simpaticissima opera.



"Space Adventure Cobra" esordisce su Weekly Shonen Jump nel 1978 e riscuote subito un buon successo tra i lettori; il motivo è anche semplice, ossia la più totale mancanza di vera originalità: le avventure di Cobra, benché calate in un'ambientazione futuribile di stampo fantascientifico, sono in tutto e per tutto simili a quelle di Lupin III, vuoi per toni, vuoi per ritmo. Le differenze con quest'ultimo, tolto il contorno sci-fi di stampo comunque fantasy, sono poche e riguardano più che altro un tasso di erotismo più elevato, con il pirata spaziale perennemente circondato da donne mozzafiato agghindate in abitini striminziti che ne esaltano le forme, e una violenza grafica leggermente maggiore, con Cobra che non si fa problemi a freddare i nemici anche a tradimento.
A livello caratteriale, Cobra e Lupin potrebbero quasi essere lo stesso personaggio: anche Cobra è un ladro gentiluomo che spesso si ritrova a collaborare con la giustizia, personificata dalla Space Patrol, più che altro per il comune interesse a distruggere l'odiata Gilda dei Pirati Spaziali. Anche Cobra è un cascamorto, anche se meno allupato della creatura di Monkey Punch, e anche lui è un gigione dal sorriso sbruffonesco ma dall'animo tutto sommato nobile.



A rendere il tutto simpatico è così la penna di Teresawa, che sa come far muovere il suo pirata spaziale, la sua inseparabile compagna di avventure sintetica Amaroid Lady e i personaggi che di volta in volta li accompagnano nelle loro avventure. Oltre al suo gusto per l'esagerazione e per la citazione "colta": Cobra è davvero un personaggio "bigger than life", una sorta di James Bond che riesce sempre a fuggire dalle situazioni più impervie con i suoi gadget, fantascientifici anche per il futuro in cui vive, come l'iconica psychogun impitanta nel suo braccio sinistro, che spara raggi laser creati dalla sua forza di volontà i quali possono colpire qualunque bersaglio deviando la traiettoria a piacimento; o anche i sigari che a seconda dei casi possono essere esplosivi o contenere un respiratore.
Il suo sorriso smargisasso è poi ripreso da quello del mitico Jean-Paul Belmondo, i cui lineamenti sono facilmente rintracciabili nel design.
E in questo mix di avventura e azione nel quale la fantascienza è solo una trovata estetica, Terasawa riesce a stupire inserendo una citazione inaspettata: l'incipit del manga vede il protagonista vivere la vita di un'altra persona, la quale scopre di essere il pirata spaziale Cobra solo dopo aver effettuato una simulazione virtuale nella quale ha sognato di esserlo; si scopre così come in realtà, cinque anni prima, avesse deciso di farsi cancellare la memoria, cambiare i connotati e assumere un'identità diversa per sfuggire ai propri nemici, in quello che è un vero e proprio adattamento del dickiano "We will remember for you the wholesale" fatto dodici anni prima del cult "Atto di Forza".



Nei primi anni '80, si decide di trasporre su schermo le avventure del pirata spaziale più guascone di sempre; per farlo si opta per un piano distributivo in parte inedito, ossia far precedere la trasmissione della serie televisiva dalla distribuzione un lungometraggio cinematografico, cosa successa, con ottimi esiti, per la seconda serie di  (sembra quasi inutile dirlo) "Lupin III". Il film di Cobra viene affidato al grande Osamu Dezaki, che poi farà da regista principale alla serie, e arriva in sala a pochi mesi di distanza dalla trasmissione del primo episodio, rivelandosi però un successo solo tiepido. E rivederlo oggi non si direbbe, visto che "Space Adventure Cobra" è un perfetto film anime di puro e spensierato intrattenimento escapista, diretto con brio e tanto mestiere.



Il lungometraggio salta l'introdizione "dickiana" del personaggio e presenta un Cobra già tornato in azione, il quale prende subito contatto con la bella cacciatrice di taglie Jane. Dezaki rielabora l'arco narrativo più famoso del manga, quello delle trigemini Royal, che Cobra aiuta a sfuggire dalle grinfie della Gilda dei Pirati prima e poi nella quest per la scoperta del tesoro lasciato loro in eredità dal defunto padre anch'egli famoso pirata spaziale.




Nel film la storia non viene semplicemente adattata, quanto del tutto rielaborata. Le tre sorelle Jane, Dominique e Catherine (chiamate in onore, rispettivamente, della Fonda, della Sanda e della Denevue) sono ribattezzate Flower al posto di Royal e non sono più le eredi di un celebre pirata, bensì le principesse di un lontano pianeta mitologico dove l'amore è una forma di energia e il cui dominio può consentire alla Gilda di assurgere a tirannide intergalattica. Anche la nemesi storica di Cobra, lo spaventoso androide Crystal Boy, qui passa dall'essere un semplice contract killer incaricato di ucciderlo a capo della Gilda. Viene poi introdotto il personaggio del professor Topol, sorta di Buddha cosmico onnisciente che aumenta il tasso di amenità.
Come rielaborazione, la storia funziona, lasciando intatte le dinamiche tra i personaggi principali e la drammaticità del tutto, pur omettendo interi passaggi in teoria essenziali. Lo spirito frizzante e gaio di Terasawa resta anch'esso intatto, ma grazie al tocco di Dezaki, che qui può esprimersi in piena libertà, il tutto assume una veste psichedelica che lo rende definitivamente irresistibile.



La regia è sempre stilizzata e trasforma ogni singola scena in un volo onirico immerso in colori sgargianti. Dezaki sperimenta costantemente con la costruzione del fotogramma inerconnettendo e giustapponendo forme e colori per creare la soluzione più amena possibile, senza però rinunciare ai marchi di fabbrica del suo stile, come i flare o la tripla ripetizione delle inquadrature per enfatizzare le situazioni clou, soluzioni che aveva letteramente inventando per risparmiare sulle animazioni in televisione e che sono diventate sinonimo della regia degli anime almeno fino agli anni '90. Il risultato è una festa visiva dove ogni fotogramma risulta ricercato e vivido, un vero e proprio capolavoro di estetica che sarà surclassato per intensità solo un anno dopo dall'adattamento di "Golgo 13".
Il tocco estetico finale lo da lo splendido character design di Akio Sugino, che non solo riesce a trasporre con fedeltà lo stile sgargiante di Terasawa, ma ha anche l'ottima idea di ricreare da zero il design delle sorelle Royal, che acquistano anch'esse un'aura di psichedelia con le loro acconciature colorate, aumentando il tasso di lisergicità della visione.




Tanto che se non fosse per un combattimento spaziale fiacco a metà film e un finale sin troppo anticlimatico, il lungometraggio di "Space Adventure Cobra" potrebbe quasi essere considerato un piccolo capolavoro anime; così com'è resta pur sempre una perla di stile, oltre che un ottimo biglietto da visita per chiunque voglia iniziare a perdersi tra le avventure dell'anti-Harlock per eccellenza.

mercoledì 12 luglio 2023

Dante

di Pupi Avati.

Con Sergio Castellitto, Alessandro Sperduti, Carlotta Gamba, Enrico Lo Verso, Nico Toffoli, Ludovica Pedetta, Alessandro Haber, Erika Blanc, Mariano Rigillo, Paolo Graziosi, Romano Reggiani, Rino Rodio, Leopoldo Mastelloni.

Biografico

Italia 2022













Sembra strano anche solo pensarlo, ma il rapporto tra l'odierna cultura italiana e Dante Alighieri è decisamente cattivo. Insegnato in pompa magna nelle scuole, dove diventa croce e delizia degli alunni, scompare quasi del tutto nel tessuto culturale effettivo del paese: i saggi a lui dedicati sono tutto sommato pochi laddove si tenga conto della sua importanza, gli spettacoli teatrali a lui dedicati di certo non mancano, ma alla fine si contano sulle dita di una mano, le letture pubbliche della "Divina Commedia" sono scarse (se si esclude la fin troppo celebre versione di Roberto Benigni) e la sua opera viene praticamente ignorata dalla produzione pop nazionale, cosa che praticamente non avviene all'estero, dove le citazioni dantesche in film, serie, fumetti e videogames sono innumerevoli.
Al cinema, poi, neanche a parlarne, visto che il Sommo Poeta è apparso su grande schermo giusto qualche volta; e pur stante l'estrema difficoltà (se non totale impossibilità) di trasporre anche solo "L'Inferno" in immagini, fa davvero specie notare come ad oggi il solo tentativo di trasposizione cinematografica risalga al 1911. E in un periodo storico dove si cerca persino di politicizzarne l'opera imbrattandola con i colori della destra (spalmati su di un poema nel quale più di un papa finisce all'Inferno...), la riscoperta dell'opera dantesca dovrebbe essere un imperativo.
Cosa che non deve essere sfuggita a Pupi Avati, il quale ha finalmente deciso di dare dignità al cinema al padre della lingua italiana. Sfortunatamente, però, il suo "Dante" è un film blando, per quanto appassionato.



Nel 1350, Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) riceve l'incarico di portare un risarcimento alla figlia di Dante Alighieri da parte della città di Firenze per quanto a lui fatto patire a seguito dell'esilio. Durante il viaggio, il poeta ricostruisce la storia della vita del giovane Alighieri (Alessandro Sperduti), dall'infanzia sino alla morte avvenuta a Ravenna.




Non una biografia convenzionale, quella che Avati vorrebbe imbastire, quanto un omaggio. Usa il punto di vista di Boccaccio, colui al quale si deve il titolo "Divina" nella omonima "Commedia" per dare corpo alla sua fascinazione verso Dante, la sua vita, le sue passioni e la sua opera. Ma se l'intento è quello di creare uno spaccato in grado di restituire la grandezza del Sommo Poeta, "Dante" è alquanto malriuscito.
Si parte dal dato più ovvio, ossia il fatto che alla fin fine, nonostante le intenzioni dell'autore, a conti fatti quella prodotta è nulla più di una biografia che si sofferma a ripercorrere i momenti salienti della vita di Dante. Non manca nulla all'appello, ma la rincorsa verso i fatti trasforma tutto il film in una semplice cronistoria intervallata dagli inserti con Boccaccio, i quali alla fine lasciano anche il tempo che trovano.
La genesi della "Commedia", i sonetti, le poesie d'amore e il rapporto con Beatrice trovano uno spazio angusto su schermo (dovuto anche alla durata esigua della pellicola, appena 94 minuti), prendono la forma di sparutissime visioni e tanta, troppa declamazione, che cozza con il mezzo filmico, neanche a dirlo. Quando poi sono i simbolismi ad apparire su schermo, Avati non si risparmia certo, ma non trova una forma adeguata e scade persino nel cliché più abusato e facile, donando al suo Dante una visione di Beatrice morta mentre è intento a fare l'amore con una bella mugnaia, neanche si fosse in una parodia.
La passione del vero Dante, la sua vis sanguigna e la sua sfrontata carica intellettuale non trovano vero riscontro alcuno. E allo stesso modo, il suo impegno politico si riduce, nuovamente, ad una serie di eventi incasellati con dovizia storica e niente più.



Laddove "Dante" inciampa definitivamente è in una messa in scena smaccatamente televisiva. Largo spazio viene concesso ai costumi ricercatissimi e storicamente accurati, ma di converso la grammatica filmica soffre di una fotografia dai brutti colori slavati, inquadrature convenzionali, CGI dozzinale che spesso poteva anche non essere utilizzata in toto e un montaggio talmente impreciso da non risparmiare neanche errori di continuità tra un'inquadratura e l'altra, oltre che un uso del ralenty in post ai limiti dell'amatoriale.




Alla fine, "Dante" è purtroppo un'opera malriuscita, che troverebbe la sua ragion d'essere solo come documento scolastico. Anche se, data la indole debole, ben farebbero i professori a recitare direttamente i versi agli alunni.

martedì 11 luglio 2023

Whore (Puttana)

Whore

di Kenn Russell.

con: Theresa Russell, Benjamin Mouton, Antonio Fargas, Daniel Quinn, Sanjay Chandani, Jason Saucier, Michael Crabtree, Amanda Goddwin, Ginger Lynn, Jack Nance, Danny Trejo.

Drammatico

Usa, Regno Unito 1991












Se si pensa alla rappresentazione della prostituzione al cinema, sono pochi i film che vengono davvero alla mente. Anche perché quello che spesso viene ignorato è che a partire dalla metà degli anni '80 nacque un vero e proprio filone nel cinema americano che ritraeva il "mestiere più vecchio del mondo" in modo diretto e crudo. 
Apripista di questa tendenza è il piccolo cult "Streetwalkin'" (in Italia ribattezzato con il semplice titolo "Prostituzione"), prodotto da Roger Corman e scritto e diretto da Joan Freeman, che con piglio quasi neorealistico porta lo spettatore tra le strade di New York, negli squallidi ambienti del meretricio, seguendo le disavventure di una giovanissima passeggiatrice intrepretata da una Melissa Leo semiersordiente.
Il successo di quel piccolo film fu immediato, anche perché molte vere prostitute accorsero a vedere un'opera che ritraeva il lo mondo in modo veritiero e impietoso. Da cui la nascita del filone, che però virò subito all'exploitation spicciola.
Le cose cambiano nel 1990 con l'uscita del megasuccesso "Pretty Woman", il quale ritraeva quel mondo in modo pulito, sanificandone gli aspetti più sgradevoli per piacere al grande pubblico; cosa che ha suscitato le ire di non poca gente, primi fra tutti coloro i quali frequentavano quegli ambienti con il loro cinema. E tra questi il più iracondo fu Ken Russell, il quale, pur avendo toccato il tema della prostituzione solo di striscio nel corso della sua carriera, uscì devastato dalla visione di una prostituta simpatica e allegra che viene salvata da un bel principe azzurro.
In risposta, Russell decide di girare un vero film sulla prostituzione, che si insinuasse in quel filone inaugurato dalla Freeman e da Corman evitandone però gli eccessi di compiacimento degli ultimi esponenti. Trova una base nel monologo teatrale "Bondage" di David Hines, autore che aveva avuto anche una carriera come attore per poi dedicarsi alla drammaturgia; e trova poi in Theresa Russell una protagonista espressiva e sensuale, creando un'opera tanto convenzionale quanto riuscita.



Liz è una prostituta in fuga dal proprio magnaccia Blake (Benjamin Mouton). Vagabondano per la città, incontra vari personaggi, tra cui lo strambo "Rasta" (Antonio Fargas) e rimugina sulla sua condizione attuale e sul suo passato.
Per comprendere appieno "Whore" bisogna tenere conto non solo del suo status di "reazione", ma anche di come si contrappore all'altro film con il quale Russell ha toccato in modo diretto il tema del sesso e in modo indiretto quello della prostituzione, ossia "China Blue".
Liz e China Blue sono due opposti inconciliabili. Quest'ultima vende la vendita del proprio corpo come forma di affermazione individuale in un impeto edonistico, mentre la prima si ritrova suo malgrado a vendersi pur di campare. Cambia anche il contesto nel quale le due figure si muovono: benché separate da giusto un pugno di anni, le città dove le due donne battono sono agli antipodi, con quella di China Blue a rappresentare un mondo in cui il sesso è ancora pulsione passionale, sublimazione di una necessità emotiva oltre che fisica, mentre quella di Liz è una sorta di fogna nella quale il sesso è anticamera della morte, dove tutti i corpi meno il suo e pochi altri sono vecchi e malati; un mondo dove l'AIDS sembra presente ad ogni angolo (da cui l'agghiacciante scena dell'accoltellamento), pronta ad uccidere chiunque si abbandoni ai sensi.
Se in "China Blue" il sesso è passione (non per nulla il titolo originale è "Crimes of Passion"), in "Whore" esso è uno sfogo, una necessità, una pura azione meccanica.



Laddove l'occhio di Russell scruta in primis la sua protagonista, esso è però altrettanto penetrante verso i suoi clienti, vero e proprio campionario di un'umanità eterogenea e appartenente ad ogni classe sociale. La maggior parte sono rifiuti umani, uomini in cerca di un orgasmo facile che si vergognano di chiedere vera passione alle compagne e che usano le prostitute come ricettacoli delle loro frustrazioni. Tra loro sono in pochi quelli che hanno una vena di umanità, come l'anziano del quale Liz si invaghisce durante i primi anni di attività. E in generale, sono davvero pochi gli uomini che trattano le donne con rispetto, come il professore interpretato da Jack Nance, il giovane ragazzo indiano (che pur prova ad ottenere un rapporto non protetto a più riprese) e il misterioso Rasta, vero e proprio angelo custode della protagonista, sorta di incarnazione di quella bontà che per tutta la sua vita non ha mai trovato.
L'unica forma di amore, Liz la ritrova nel figlioletto sottrattole e nel rapporto con la giovane amica Katie (Elizabeth Morehead), la "lesbica" che la adotta come una sorella e che cerca di sottrarla alla strada, purtroppo invano.




Il centro di tutto resta però sempre Liz, la sua vita, il suo dramma, le sue emozioni e le sue bugie; una donna distrutta dalla vita, quella privata prima ancora che quella di strada, che mente a sé stessa pur di sopportare una situazione sempre pronta a deflagrare; un essere umano che ha perso ogni vera passione, sottrattale dalla professione e le cui emozioni sono nascoste sotto una coltre di cinismo necessario alla propria sopravvivenza psicologica e spirituale. 
Quella di Liz non è una storia di redenzione, riscatto o salvezza, quanto appunto di pura sopravvivenza. Alla fine non abbandona davvero la vita di strada, non ritrova né l'amore del figlio né quello della perduta Katie e persino il salvifico Rasta esce dalla sua vita così come è entrato; Russell sa che il vero nemico in una storia non è un magnaccia misogino, né il sistema che tollera che prostituzione e persino quella misoginia insita nella clientela. Il vero nemico di Liz così come quello di praticamente tutte le moderne schiave bianche è la vita stessa, quel complesso di sventure e relazioni finite male che in un modo o nell'altro portano una ragazza a prostituirsi (ovviamente quando non coartata dall'inizio); l'unica speranza è dunque la speranza stessa, l'aver concluso una pessima giornata ed essere riuscita a chiudere i rapporti con quello sfruttatore che ne avrebbe certamente causato la morte, nulla più. Da qui quel finale risolutivo, ma volutamente monco, dove nulla finisce davvero e gli eventi sono idealmente pronti a ripetersi all'infinito, con la protagonista che esce da un sotterraneo ma potrebbe ben presto ritrovarsi ai margini del tunnel della prima scena.




Lo script elaborato con Deborah Dalton riprende gli elementi essenziali di "Bondage" e ne inserisce alcuni inediti. E', in buona sostanza, un campionario di tutti i luoghi comuni che una storia del genere può presentare, non cercando mai l'originalità, quanto una forma di autenticità narrativa ai limiti del neorealistico, pur rielaborati in una chiave para-teatrale, con l'abbattimento della quarta parere e il coinvolgimento diretto dello spettatore che diventano elementi narrativi chiave. Il risultato è tanto didascalico quanto penetrante e non si riesce davvero a tacciare "Whore" di faciloneria, neanche quando scade (a ben vedere a più riprese) nell'ovvio.
La regia di Russell, d'altro canto, è abilissima nell'inserire elementi di stilizzazione che si contrappongono ad una storia verista: laddove tutto il film è girato in location, riuscendo a restituire l'autenticità di una metropoli nordamericana sudicia e infestata da personaggi decadenti, molti flashback assumono la forma dei famosi inserti musicali del cinema russelliano, colpendo come sempre per l'inventiva, veri e propri colpi d'occhio d'antan in un periodo storico dove la messa in scena non contemplava licenze simili.



Per quanto pedante e meno graffiante di quanto Russell sperasse, alla fine "Whore" riesce a convincere. Un ritratto crudo e mai compiaciuto di una vita perduta, portato in scena con classe e ottimamente interpretato.


EXTRA

Nei panni di Rasta troviamo l'apprezzato caratterista Antonio Fargas, il che è quasi un inside-joke.



Fargas raggiunge infatti la notorietà negli anni '70 interpretando il mitico magnaccia-informatore Huggy Bear nella serie "Starsky & Hucth". Il suo volto è rimasto per sempre legato al ruolo del pappone, tanto che interpreterà anche il magnaccia violento di "Streetwalkin'" e arriverà persino a parodizzare il personaggio nella simpatica parodia della blaxploitation "I'm gonna git you, sucka!" del 1988, diretta dai fratelli Wayans.