mercoledì 20 settembre 2023

El Conde

di Pablo Larraìn.

con: Jamie Vadell, Paula Luchsinger, Marcelo Alonso, Stella Gonet, Gloria Münchmeyer, Guido Castro, Catalina Guerra, Jamie McManus, Amparo Noguera.

Satirico/Grottesco/Fantastico

Cile 2023

















---CONTIENE SPOILER---

Pablo Larrain è giunto alla fama dirigendo biopic atipici di personaggi femminili giunti siliti alla ribalta restando all'ombra del potere, sviluppando uno stile visionario che cozza con il luogo comune di tante biografie filmiche più interessate ai meri fatti che alle persone. Si pensi ad esempio a "Spencer", vero e proprio thriller psicologico che usando il registro del surreale riesce davvero a restituire il dramma e le ansie del personaggio.
Tornato nel natio Cile, con "El Conde" decide altresì di affrontare un personaggio che ha incarnato direttamente il potere, quel Augusto Pinochet che definire sanguinario sarebbe a dir poco riduttivo. Ma questa volta decide di creare un ritratto usando un registro diverso, ossia quello della satira, costruendo una narrazione grottesca che fonde al surrealismo leggero delle dosi di estetica horror. Il risultato è una satira in teoria potente che però non morde mai davvero e che per certi versi risulta persino sbagliata.



Questo perché la figura di Pinochet forse mal si presta ad operazioni del genere. Lui, generalissimo traditore del proprio presidente e sanguinario sino ad un sadismo da far impallidire quello del regime di Pol Pot, venne deposto per il semplice reato di appropriane indebita, ferita che per lui, soldato orgoglioso, resterà sanguinante sino alla morte. Morte per di più avvenuta in santa pace, lontana da tribunali nazionali e internazionali, che lo ha colto per cause naturale non per mano propria o di quella di una folla inferocita.
Ad ogni modo, il Pinochet di Larraìn (Jamie Vadell) è un vampiro di origine francese che ha tradito Luigi XVI ed ha assistito imbelle alla decapitazione di Maria Antonietta solo per poi giurare vendetta contro ogni forma di rivoluzione. Dopo aver tentato di arginare la rivolta di Haiti, si ritrova nel Cile degli anni '50, dove con un colpo di stato diventa dittatore dai poteri assoluti. E oggi, dopo circa 250 anni di angherie più o meno grandi, è un vecchio stanco della vita, attorniato da un manipolo di figli che ne vuole carpire le ultime fortune e da una suora (Paula Luchsinger) che dovrebbe esorcizzarlo, ma che sembra avere ben altri piani.




L'idea di dipingere Pinochet come un vampiro è vincente: un male atavico e immortale che si nutre della vita altrui, un parassita che attanaglia la società sino a prosciugarla di ogni forma di vita, un mostro votato al sangue che vive solo grazie alla morte altrui; quale migliore metafora delle dittature del XX secolo? E di quelle ideologie fasciste, ovviamente, che ad oggi sopravvivono, rigenerate e pronte a far rivivere eventi che si credevano assimilati e superati, come il bel finale illustra, con un occhio, forse, a quel ritorno delle destre xenofobe e ultraviolente in Europa e nelle Americhe.
Ma l'occhio di Larraìn è vincente anche nella descrizione dei rapporti che questo potere mostruoso ha con tutti gli strati della società e persino con inernazionale.
Il nugolo di figli rappresenta quel Cile moderno immemore del passato, pronto a perdonare quanto è stato pur di affermare sé stesso. E, al contempo, anche quegli strati di società del passato che persistono tutt'oggi, che hanno avuto fortuna grazie alla corruttibilità della pubblica amministrazione e che sono pronti a prendere quelle briciole che sono avanzate in barba a tutto e a tutti. I dialoghi che questi orrendi personaggi snocciolano durante le "interviste" sono a dir poco gustosi, svelandone la loro indole irredenta e gaudente.



La suora, giovane, bella e ambiziosa, è la metafora del rapporto che la Chiesa ha avuto con Pinochet e le dittature in generale. Basti ricordarsi di quel vergognoso incontro che il generale ha avuto con papa Woytjla e quella famosa foto che, presa con l'inganno o meno, ben rappresenta un rapporto sin troppo ambiguo. Un personaggio che dovrebbe castigare il mostro e la sua prole, distruggere fisicamente il primo, svelare il male malcelato della seconda, ma che finisce affascinato dal male che dovrebbe combattere, sino a divenirne parte integrante, assumendone natura e sembianze. E che prima ancora è più interessato al benessere materiale che a quello spirituale.
E poi c'è quel personaggio onnipresente che solo nel terzo atto si disvela, quella Margaret Thatcher che si scopre essere madre di Pinochet. Altro esempio di creatura mostruosa che ha raggiunto il potere pressoché assoluto (e in teoria più inquietante del figlio, poiché ha raggiunto un tale potere in modo naturale, non con la violenza), simbolo non solo di quell' "asse" che negli anni '80 venne a crearsi a causa della vergognosa guerra nelle Falkland, quanto anche di quel neoliberismo che ad oggi ha riplasmato il volto della destra autoritaria, divenendone compagna inseparabile perché necessaria.
Il Pinochet di Larraìn, a differenza delle sue Jackie Kennedy e Diana Spencer, non è così un uomo che si è fabbricato un'identità ultranea per celare la propria, bensì, al pari del Tony Manero del suo esordio, un uomo la cui maschera di dittatore riesce a esaltare la vera natura, ad ingigantirla persino
.



Se la metafora è forte e calzante, è il modo in cui Larraìn si approccia al suo personaggio a destare forti perplessità. Il conte è descritto in modo patetico, ma sembra esserci sempre una forma di empatia verso questo vecchio mostro oramai ridotto ad un vegliardo assediato da donne assetate di potere, figli famelici e moglie fedigrafa: non c'è vera cattiveria nel ritrarre le sue azioni scellerate, non c'è vera condanna verso la sua figura, solo una forma di pietas sempre ad un passo dall'assoluzione effettiva.
Descrizione che risalta se paragonata ad altri ritratti satirici fatti da grandi artisti. Basti pensare al dittatore sanguinario per antonomasia, ossia Adolf Hitler, e al modo in cui il cinema ne ha sbeffeggiato la figura ne "Il Grande Dittatore" in primis e in "Moloch" in un secondo tempo. Nel primo caso, Chaplin lo descriveva come un donnaiolo mezzo idiota affetto da manie di grandezza, nel secondo, Sokurov lo tratteggiava come uno sgorbietto farneticante. Una figura patetica e pietosa da deridere o schifare, mai da compatire, a differenza del Pinochet vampiro di Larraìn, il quale risulta, pertanto, come un'incarnazione sbagliata, persino e forse soprattutto all'interno del resto della descrizione fatta nel film. In merito, in un'intervista Larraìn ha ammesso di aver voluto usare un registro ironico come forma di distacco verso il personaggio (ma è facile pensare come ciò sia dovuto anche al fatto che l'immagine di un dittatore-mostro male avrebbe funzionato in una narrazione seria), fatto sta che tale chiave ironica ha finito, paradossalmente, per renderlo più empatico.
Quel che è peggio, quei dialoghi briosi nei quali si esorcizza l'orrore di un gruppo di persone orgogliose di essere dei ladri, speculatori e assassini di massa, benché ben congegnati, non riescono a trasmettere il senso di disgusto che dovrebbero, finendo per essere troppo leggeri, troppo poco graffianti, arrivando persino a lasciare freddi. Paradossalmente, Larrìn finisce per essere simile al personaggio della suora, in teoria anch'ella vittima del suo sguardo accusatore, in realtà incarnazione di quello stesso sguardo.



Se la scrittura claudica, la messa in scena, per fortuna, funziona sempre; a partire dalla bellissima fotografia, con un bianco e nero alla Murnau che si rifà al mito fondativo del vampiro cinematografico per creare belle immagini, che raggiungono il culmine nella bella sequenza del primo volo della vampira neo-nata.
Pur tuttavia, stile ed estetica non sono tutto e quella di "El Conde" finisce per essere una satira debole e contraddittoria.

lunedì 18 settembre 2023

Io Capitano

di Matteo Garrone.

con: Seydou Sarr, Moustapha Fall, Affif Ben Badra, Issaka Sawadogo, Bamar Kane, Oumar Diaw, Hichem Yacoubi, Princess Erika.

Italia, Belgio, Francia 2023


















Lo stile di Matteo Garrone ha sempre unito gli opposti del realismo a tratti estremo con il surreale, creando una specie di "realismo magico" che non ha eguali nell'attuale panorama cinematografico, poiché riesce davvero a fondere le due istanze alla perfezione.
Su tale, perfetta, unificazione poggia anche "Io Capitano", che, anzi, rappresenta forse lo zenith di questa sua visione, portando in scena il dramma dei migranti in modo crudo e privo di effettivi abbellimenti di sorta, ma iniettando in un racconto di stampo verista delle derive visionarie che ne aumentano il fascino, creando una "favola" dall'incredibile indole umana.



Senegal. Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) sono due adolescenti comuni, che alternano il lavoro come muratori alla scuola e sognano di diventare dei celebrati musicisti. Dopo aver messo da parte i soldi necessari, i due partono per l'Europa, pur a fronte del diniego della madre del primo. Il viaggio, ovviamente, sarà tutt'altro che facile.




Garrone guarda al dramma dei migranti, ma il suo sguardo si poggia anche su di una realtà praticamente inedita, ossia quella del luogo di partenza. 
Si è abituati a considerare l'Africa come una realtà monolitica, dove la povertà estrema porta ad un disagio insostenibile, immaginandola sempre come una serie di villaggi sperduti dove la gente fa la fame in mezzo alla sabbia. Il Senegal di "Io Capitano" è invece quello più vicino al reale che forse il cinema europeo abbia mai ritratto, ossia un luogo dove la povertà esiste, ma non è estrema e che per questo è in tutto e per tutto simile all'Italia del Secondo Dopoguerra. Le immagini che aprono il film sono in un certo senso le più spiazzanti, con la descrizione di una vita quotidiana lontana dagli stereotipi, dove i giovani protagonisti vivono come in un ritratto pasoliniano, in un mondo dove le scalcinate condizioni economiche non impediscono di trovare una forma di tranquillità, di felicità persino, con le celebrazioni tradizionali che portano gioia e una situazione famigliare di certo non facile, ma neanche impossibile da sopportare.



L'intento di Garrone non è ovviamente quello di criticare chi abbandona una società vivibile per intraprende un viaggio della speranza talvolta futile, come qualche ottuso leghista potrebbe eccepire, bensì quello di dare spazio e corpo ai sogni di due ragazzi che potrebbero essere tranquillamente italiani, due adolescenti che sognano nulla più che una forma di benessere negato in un luogo di nascita disastrato.
Il racconto è quindi inizialmente concentrato sulla pura descrizione del viaggio, ma poco alla volta cambia natura. Di episodio in episodio, con una parata di orrori costante, il personaggio di Seydou si trasforma da ragazzo qualunque che lotta per la sopravvivenza a giovane uomo il quale decide di salvare quante più vite possibili. La sopravvivenza passa dall'essere quella individuale a quella del gruppo, di una collettività che gli eventi votano alla sconfitta, alla morte violenta e, prima ancora, alla perdita totale di ogni umana dignità. Il capitano del titolo è nient'altri che questo ragazzo il quale si carica sulle sue sole spalle la vita di tutti i suoi simili. E nel rifiuto di un finale iperbolicamente drammatico, Garrone evita facili ridondanze e ancora più facili patetismi, creando una storia mai ricattatoria e per questo davvero emozionante.



La descrizione del viaggio affonda le sue radici nella realtà più pura. I singoli episodi sono basati sulla vera esperienza di Mamadou Kouassi Pli Adama, che ha collaborato attivamente alla stesura della sceneggiatura; dalla sua esperienza sono ripresi gli episodi della benedizione degli antenati, così come l'incontro sibillino con l'uomo di mezza età che cerca di dissuadere i protagonisti a partire. E sempre sulla sua storia, è basata la descrizione degli orrori dei campi di prigionia in Libia, con i migranti ridotti e vera e propria carne da macello, res da derubare, stipare in luride stalle e rivendere agli avventori facoltosi.




E' proprio nella descrizione di questo girone dantesco di pura violenza che l'occhio di Garrone raggiunge l'apice della visionarietà: l'immagine di Moussa appeso al soffitto è impossibile da dimenticare, l'ideale icona di quella disumanizzazione imposta a quegli esseri umani colpevoli solo di essere deboli. Tanto che anche l'immagine oramai più iconica del film, il volo della donna del deserto, per quanto esteticamente bella, perde per significato in suo confronto. E per tuto il resto della durata, la regia riesce sempre a creare immagini genuinamente belle, che donano un meritato tocco di interesse anche estetico ad una storia tetra. 
La grandezza di Garrone come narratore va così ricercata nella sua capacità, qui più fulgida che mai, di creare momenti onirici e surreali in una storia realistica, giustapponendo sempre con efficacia sequenze drammatiche, come la travesta sulla "carretta del mare", ad altre genuinamente visionarie, come quelle immagini della traversata del Sahara che potrebbero essere tranquillamente uscite da "Dune", o l'arrivo alla piattaforma petrolifera, descritto come l'approdo in un mondo alieno. Oltre che nella capacità di dirigere un cast di non professionisti in modo eccellente.




"Io Capitano" rientra così di diritto tra i migliori film del grande regista romano, un viaggio vivido e toccante in una realtà che spesso si decide codardamente di ignorare.

giovedì 14 settembre 2023

Joint Security Area

Gongdong gyeongbi guyeok JSA

di Park Chan-Wook.

con: Song Kang-Ho, Lee Byung- Hun, Lee Yeong-Ae, Kim Tae-Woo, Shin Ha- Kyun, Herbert Ulrich, Christoph Hofrichter.

Thriller

Corea del Sud 2000














---CONTIENE SPOILER---


Portare il dramma della separazione delle due Coree sul grande schermo non è mai cosa facile per nessun cineasta. Ma Park Chan-Wook, oramai è cosa nota, è un cineasta del tutto anticonvenzionale persino all'interno del panorama di quel cinema sudcoreano che agli occhi di noi occidentali sembra già tanto anticonvenzionale di suo. E "Joint Security Area", suo terzo lungometraggio e primo a portarlo alla ribalta internazionale, affronta di petto la questione della divisione di un popolo e si configura come una pellicola coraggiosa e soprattutto toccante.



Uno sparo nella notte. Una corsa al riparo. Ma il luogo degli eventi non è un posto qualsiasi: si tratta del confine tra la Corea del Sud e quella del Nord. Dopo una breve schermaglia che per puro miracolo non porta ad un'escalation militare, vengono rinvenuti due cadaveri, due soldati del nord, oltre che due feriti appartenenti a ciascuna nazione.
Ad investigare sull'accaduto viene inviata il maggiore Sophie Jean (Lee Yeong-Ae), di nazionalità svizzera ma di padre sudcoreano, la quale interroga i due sopravvissuti, l'ufficiale nordista Oh Kyeong-Pil (Song Kang-Ho) e il soldato del sud Lee Soo-Hyeok (Lee Byung- Hun).




Park Chan-Wook traspone sullo schermo il romanzo "DMZ" di Park Sang-Yeon e lo adatta in un racconto non lineare; si parte in medias res e l'arrivo del maggiore Jean porta ad una ricostruzione episodica degli eventi simile a "Rashomon", dove il mistero dello scontro armato viene ricostruito poco alla volta. 
Una struttura tortuosa, da mystery vero e proprio, la quale si ferma bruscamente dopo il tentativo di suicidio del soldato Nam Sung-Shik (Kim Tae-Woo), a circa quaranta minuti dall'inizio: da questo momento in poi viene ripreso totalmente il punto di vista di Lee Soo-Hyeok e gli eventi trovano una ricostruzione piena ed effettiva, la quale diventa il vero fulcro di tutto il film.




Una verità presto svelata: a causa di un banale errore topografico, Lee ha sconfinato ed è rimasto indietro rispetto al resto del plotone; messo il piede su di una mina, si ritrova letteralmente ad un passo dalla morte, ma viene salvato dal subitaneo intervento di Oh e del soldato Jeong Woo-Jin (Shin Ha- Kyun). Episodio che dà il via ad un avvicinamento tra i tre uomini, i quali cominciano a comunicare con delle audiocassette lanciate attraverso il confine, per poi iniziare dei veri e propri incontri nel posto di blocco del nord; e ben presto al trio si unisce anche il soldato Nam, il quale si scopre essere anche amico d'infanzia di Lee.




La scissione tra i due popoli viene così annullata e quel confine, costituito da un piccolo ponte, abbattuto. I quattro soldati si scoprono amici, finendo per passare serate ai limiti del goliardico, come bambini in un parco giochi, tra sigarette, gare di sputi, abbuffate di dolci e riviste porno.
La visione di Park è tanto semplice quanto profonda: privati della sovrastruttura nazionale, di quelle ottuse regole che portano alla divisione, i popoli si riscoprono fratelli (il termine di consanguineo, prediletto dai sudcoreani, viene contrapposto a "compagno", di forte connotazione politica, quindi divisorio); come in "Duello nel Pacifico", gli esseri umani sono naturalmente portati all'unione ed è solo l'intervento esterno della politica (in questo caso, l'ingresso nella piccola casera dell'ufficiale nordcoreano) a rimettere gli uomini gli uni contro gli altri.
Non per nulla, Park nasce una decina d'anni dopo la fine della guerra e si forma in un'epoca nella quale anche la dittatura sudcoreana perde la presa di ferro su popolo e cultura; la visione di una terra divisa per un'idealogia fuori tempo massimo e preda del colonialismo politico americano diventa subito una scheggia nell'occhio e nella mente.




La sua visione sul ruolo delle autorità, di conseguenza, è pessimista; l'intervento del maggiore "apolide" non porta a nulla di concreto, mentre la descrizione di come la paura di una guerra con gli Stati Uniti porta i due schieramenti a ricompattarsi dinanzi ad un possibile conflitto che annichilirebbe entrambi i fronti in un battito di ciglia. L'ideale dell'autore è chiaro, ossia ricongiungere le due Coree nel nome di una fratellanza di fatto che va al di là di ogni idealogia e schiramento politico; una descrizione che sebbene prediliga lo stile di vita del sud (e come dargli torto, dopotutto) si fa tangibilmente umanitaria ed empatica. Tanto da concretizzarsi nella stessa figura del maggiore Jean, la quale si scoprirà figlia di un ex prigioniero di guerra nordcoreano che ha preferito l'espatrio piuttosto che l'unione ad uno dei due schieramenti, prova di come le origini non portino alla creazione automatica del carattere.



Con un soggetto che gli permette finalmente di dar sfogo alla sua creatività, Park crea immagini ipnotiche, nelle quali la sua fascinazione per il cinema di Hitchcock trova forma in inquadrature ricercatissime. Nella costruzione del quadro, enfatizza la divisione tra personaggi e corpi, con piccoli spazi negativi che scindono i soggetti, sottolineando la vicinanza effettiva delle persone. Ogni immagine si fa così genuinamente bella e riesce a convogliare perfettamente dapprima il senso di tensione dato dal luogo, in un secondo momento la comunanza ritrovata del quartetto di soldati.




"Joint Security Area" riesce perfettamente a fondere dramma umano e thriller, con una narrazione serrata e sentita, primo vero capo d'opera di Park Chan-Wook, che da qui in poi inizia la sua gloriosa carriera.
Ma non solo grosso successo in patria, dà il via, assieme al coevo "L'Isola" di Kim Ki-Duk, alla cosiddetta "Nouvelle Vague Coreana", che porterà il cinema sudcoreano ad imporsi sul piano internazionale in brevissimo tempo. E persino i bravissimi Lee Byung-Hun, Song Kang-Oh e Lee Yeong-Ae iniziano qui la loro gloriosa carriera di vere e proprie star nazionali.

lunedì 11 settembre 2023

Prigionieri dell'Onore

Prisoner of honor

di Ken Russell.

con: Richard Dreyfuss, Oliver Reed, Peter Firth, Jeremy Kemp, Brian Blessed, Peter Vaughan, Catherine Neilson, Kenneth Colley, Lindsay Wagner, Patrick Ryecart.

Storico/Drammatico

Regno Unito, Usa 1993















La fama e fortuna della HBO fu dovuta al pacchetto esclusivo che dedicava agli abbonati, all'epoca della sua creazione (i primi anni '80) del tutto inedita, ossia poter vedere film e spettacoli in versione integrale, senza tagli o censure; ovverosia, largo spazio a sesso e violenza.
Ma già verso la fine degli anni '80, la regina delle tv via cavo decise di investire in programmi autoprodotti e in parte lontani dai canoni della sua programmazione; e se nei primissimi anni '90 trovò successo riproponendo la formula che le aveva garantito fama con la serie di culto "Tales from the Crypt", è singolare notare come sempre nello stesso periodo avrebbe prodotto un film per il piccolo schermo lontano anni luce da essa, ossia "Prigionieri dell'Onore", che narrava la storia del tristemente famoso "affaire Dreyfus", più di recente portato sul grande schermo da Roman Polanski nel bel "L'Ufficiale e la Spia".
Affidato lo script al mestierante Josh Hutchinson, viene chiamato alla regia niente meno che Ken Russell, per dirigere un progetto in apparenza lontano anni luce dalle sue corde. E "Prigionieri dell'Onore" è sicuramente il classico film su commissione, che il grande regista inglese dirige però con passione e senza rinunciare del tutto al suo stile.



Una storia del genere non può che essere portata in scena con piglio verosimile. Russell resta quindi tra le righe, dirigendo persino gli attori in modo che non strabordino, come nel caso di Oliver Reed, qui misuratissimo (a Brian Blessed, d'altro canto, viene concessa più libertà, come nella scena del confronto con il protagonista Picquart dove entrambi sono ubriachi). Trova così una misura eccellente con uno stile classico, ma mai arido, creando immagini ricercate pur dovendo ricorrere a brevi movimenti di macchina e campi stretti (in ossequio alla natura televisiva del progetto). E quando decide di concedersi qualcosa, riesce a non far risultare come fuori luogo gli inserti ilari e grotteschi, come i contrappunti musicali ironici per sottolineare le assurdità delle tesi processuali o quel Dreyfus trentanovenne ritratto come un anziano malfermo.



Nel rapporto tra i personaggi, lo script scava sul concetto di onore personale e istituzionale e come questo si interfacci drammaticamente con gli interessi dello Stato. L'onore è quello di un uomo, Picquart (che qui ha il volto di Richard Dreyfuss, a suo dire discendente del vero Dreyfus), chiamato a fare luce su di un ingiustizia che vuole sanare come forma di rispetto verso sé stesso e la stessa istituzione militare; non certo un sant'uomo, razzista e apertamente xenofobo come è, è in realtà un semplice uomo dal forte rigore morale che finisce per scontrarsi con una nazione dome i pregiudizi sono più forti di quella parità di diritti e di trattamento che nell'Europa della fine del XIX secolo venivano propagandati solo per essere traditi a piacimento.
Una posizione che si scontra con la necessità della nazione di far salvo il proprio di onore, quello dell'istituzione militare infangato da un razzismo sistemico che, benché assimilato su più livelli sociali, finisce lo stesso per causare scandalo quando foriero di ingiustizie. Da cui l'aperta ostilità del maggiore Henry (Peter Firth) e il ruolo ambiguo giocato dal generale de Boisdeffre (Oliver Reed), il quale fa avviare l'indagine sul caso Dreyfus solo per poi rivelarsi malvolente contro il pur protetto Picquart quando la sua azione scoperchia il proverbiale "vaso di Pandora". E poi c'è il personaggio del maggiore Estherazy (Patrick Ryecart), ossia l'effetivo punto di vista degli eventi, un uomo a cui del concetto di onore non può importare di meno e che guarda con un occhio alieno il dimenarsi di questi personaggi ossessionati da esso; un essere sgradevole, falso, meschino, che Russell guarda con scherno e patimento, descrivendolo come un mentecatto inerme votato alla sconfitta totale anche se non messo con le spalle al muro da nessuno.


Russell riesce così a donare un tocco di originalità ad una pellicola già di suo interessante, creando così un dramma storico elegante e a suo modo singolare.

giovedì 7 settembre 2023

R.I.P. Giuliano Montaldo


1930 - 2023

E' vero che negli ultimi anni della sua carriera Giuliano Montaldo ha oscillato tra pellicole mediocri anche se non disprezzabili ("Gli Occhiali d'Oro", "I Demoni di San Pietroburgo") e altre decisamente brutte ("L'Industriale"), ma la sua importanza come cineasta dal forte impegno civile è innegabile, avendo prodotto una filmografia dal fortissimo rigore morale.



"Tiro al Piccione" (1961)




"Gott mit uns (Dio è con noi)" (1970)




"Sacco e Vanzetti" (1971)


"Giordano Bruno" (1973)



"Il Giocattolo" (1979)



"L'Addio a Enrico Berlinguer" (1984)

mercoledì 6 settembre 2023

Tartarughe Ninja- Caos Mutante


Teenage Mutants Ninja Turtles - Mutant Mayhem

di Jeff Rowe & Kyler Spears.

Animazione/Fantastico/Commedia/Azione

Usa, Canada, Giappone 2023
















Fin dall'esordio del loro primo fumetto nel 1984, le Tartarughe Ninja di Eastman e Laird non hanno mai davvero conosciuto un periodo di stanca, essendo protagoniste di infinite incarnazioni animate, fumettistiche e cinematografiche. Ma come in tutte le storie di successo perenne, non mancano ovviamente i periodi di stanca, nel loro caso concretizzatosi nel dittico filmico prodotto dal Michael Bay tra il 2014 e il 2016, che dopo un primo brutto film che ha pur avuto un buon riscontro al box office, ha visto crollare i profitti con un sequel tutto sommato simpatico, ma che non ha convinto gli avventori.
A Nickelodeon ovviamente questa cosa non è andata giù e gli executive hanno così deciso di rimboccarsi le maniche per creare un nuovo exploit che rinverdisse la fama di fabbrica di soldi del brand; questo complice anche l'uscita de "L'Ultimo Ronin", storia a fumetti firmata da Eastman in prima persona che, ponendosi come una sorta de "Il Ritorno del Cavaliere Oscuro" delle Turtles, ne ha rinverdito l'attenzione anche da parte di una fetta di pubblico che solitamente non corre dietro alla sua creatura.
Ma il modello di riferimento di questo "Caos Mutante" non è quella cupa e violenta storia che riprendeva a piene mani l'atmosfera underground e a suo modo adulta della prima incarnazione fumettistica delle quattro tartarughe ninja, bensì quell' "Into the Spider-Verse" che qualche anno fa ha dimostrato come un film d'animazione ben congegnato e ispirato possa produrre ottimi risultati al botteghino, cogliendo altresì una fetta di pubblico trasversale. Portati così a bordo Jeff Rowe e Kyler Spears, autori del simpatico "I Mitchell contro le Macchine", nonché il duo Seth Rogen e Evan Goldberg, da sempre fan del franchise, Nickelodeon si gioca il tutto per tutto in un film d'animazione pensato però per i bambini e i fan di lunga data, il quale riesce a convincere anche se non a stupire.



L'influenza del film su Miles Morales è forte nella scelta di un'estestica antinconvenziale, che parte dall'uso di un'animazione che mima l'estetica dello stop-motion del modello di riferimento solo per trovare subito una sua identità grazie ad un design ultra-stilizzato e ad un uso dei colori a tratti lisergico, che trasforma le immagini in bellissimi caleidoscopi fatti di forme impossibili e cromatismi sgargianti, che raggiungono l'apice nella scena della partita a bowling, vera e propria festa per gli occhi (e incubo per i daltonici).
Anche il design dei personaggi è ispirato, con le quattro testuggini che hanno ognuna un corpo e un volto diverso e sono facilmente riconoscibili anche senza le famose fasce colorate. Ottimo anche il design degli altri mutanti, una vera e propria parata di volti noti ai fan del cartoon, con un Superfly come nuova incarnazione di quel Baxter Stockman che già nel cartone era un'ottima variante per bambini del body horror cronenberghiano.



L'unica eccezione in merito (criticata a volte anche giustamente) è data dallo strampalato design di April O'Neill; una scelta stramba non tanto perché la sua etnia è differente da quella con la quale viene solitamente ritratta (anche nella sua prima apparizione fumettistica è afroamericana, modellata sulla fidanzata dell'epoca di Kevin Eastman), quanto perché si è deciso di puntare così superficialmente sul messaggio di body positivity da trasformarla in un personaggio esteticamente brutto pur all'interno di un contesto dove tutti i personaggi, umani e non, sono a loro modo brutti. Tanto che non si capisce perché Leonardo la trovi attraente, al di là della facile battuta per la quale sembra più mutante lei di lui.
Oltre tale debacle, l'estetica rende perfettamente l'idea di una New York bizzarra, dove dietro ogni angolo può celarsi una creatura fantatica, un pericolo o anche qualcosa di semplicemente anomalo; merito anche della bella colonna sonora firmata dal mitico duo di Trent Reznor e Atticus Ross.



La storia ordita da Rogen, Goldeberg e un intero stuolo di sceneggiatori bene o male funziona, soprattutto come rilettura dei personaggi. Le tartarughe sono ora dei veri e propri adolescenti, non giovani uomini (dopotutto quel "teenage" nel titolo deve servire a qualcosa) che ricadono quasi nell'archetipo dell'eroe riluttante, quattro ragazzi nati diversi che vorrebbero esplorare il mondo e che vedono la battaglia contro le forze del male come un'opportunità per essere accettati. Il tema centrale, come in tanto cinema americano di animazione e non degli ultimi vent'anni, è il rapporto famigliare, il che fa somigliare quest'ultima incarnazione all'ancora insuperato cult di Steve Barron del 1990, solo più convenzionale, visto anche il pubblico di riferimento decisamente più giovane. Le Turtles sono così dei reietti in cerca di integrazione in un mondo intollerante, dei ragazzi compressi tra la voglia di integrarsi e la paura del giudizio altrui; la banda di Superfly diventa così una forma di famiglia alternativa e allargata (come avveniva con il Clan del Piede nel film del '90) e lo stesso Superfly una sorta di Lucignolo che mostra loro come la via più semplice, ossia la distruzione dell'intollerante sia più facile, con un piano da supercattivo fin troppo simile a quello visto nel primo film sugli X-Men.



Se tale impostazione bene o male convince, lascia perplessi il modo in cui è stata riicsritta l'origine di Splinter (che tra l'altro ha la voce di Jackie Chan, hongokonghese che non il ninjutsu non ha mai avuto nulla a che fare): tutti i riferimenti alla diatriba da Hamato Yoshi e Oroku Saki vengono eliminati e il ratto umanoide insegna alle tartarughe la via degli shinobi... per autodifesa e tramite videocassette anni '80 e film di arti marziali? Trovata decisamente poco credibile persino per un film per bambini e che finisce per togliere fascino e profondità al personaggio.
L'umorsimo d'altro canto funziona e, pur in una pellicola per infanti, Rogan e Goldberg non rinunciano totalmente alla volgarità, lasciandola furbescamente celata nei sottotesti, come la gag ricorrente sulla "mungitura" che si concretizza in Michelangelo drenato del suo sangue mutante quasi come se fosse sottoposto ad una fellatio forzata. La pletora di riferimenti pop è come al solito simpatica e i dialoghi hanno brio e ritmo, garantendo un intrattenimento comico che ben si amalgama con la spettacolarità dell'estetica.



"Caos Mutante" è così un ritorno alla forma per le tartarughe più amate di sempre, un film d'animazione piccolo e a tratti davvero irresistibile, che riuscirà a convincere sia i bambini che quegli adulti cresciuti a pane e Turtles.

lunedì 4 settembre 2023

La Fidélité

di Andrzej Zulawski.


con: Sohpie Marceau, Pascal Greggory, Guillaume Canet, Magali Nöel, Guy Tréjan, Michel Subor, Edith Scob, Marc François, Marina Hands.

Francia, Portogallo 2000
















Giunto alla fine degli anni '90 con addosso lo stigma dello scandalo de "La Sciamana", Zulawski si ritrova ina posizione strana, un punto nella sua carriera dove forse non sa che direzione imboccare e per questo prova a tornare indietro, al suo cinema erotico-esistenziale degli anni '80. Modernizzando il romanzo di Madame De La Fayette "La Principessa di Cléves", al quale si ispira comunque alla lontana, firma così "La Fidélité", quella che resterà la sua penultima pellicola, nonché l'ultima girata con la moglie Sophie Marceau.




Clélia (la Marceau) è una fotografa di talento, cittadina canadese, la quale decide di accettare un lavoro in Francia per conto di un tabloid specializzato in notizie scandalistiche condite da sesso e violenza. Durante il viaggio verso la Francia, la madre (Magali Noël) le chiede di sposarsi prima della sua morte. Giunta a destinazione, incontra lo strambo Clève (Pascal Greggory), rampollo di una grossa famiglia borghese che si dichiara subito innamorato di lei, nonché il volitivo datore di lavoro Mac Roi (Michel Subor), che le dimostra apertamente la sua attrazione. Sposatasi con il pur buon Clève, Clévia incontra per caso il collega fotografo Nemo (Guillaume Canet), per il quale comincia a provare un'irrefrenabile attrazione.




Un film fluviale, di ben 159 minuti, durante i quali il grande regista polacco rievoca un pò tutte le sue ossessioni; in primis la più ovvia, quella del triangolo amoroso, qui declinata in chiave quasi pudica. "La Fidélité" più che un film sull'amore è un film sul tradimento e più specificamente, come il titolo afferma, sulla fedeltà: Clélia è fortemente tentata di tradire il marito e consumare l'attrazione verso Nemo, cosa che però non fa mai. La narrazione scava quindi nel solco tra tentazione e abbandono dei sensi, ma, fermandosi sempre su tale dicotomia, si fa presto ridondante, senza mai riuscire ad avere la forza drammatica di "L'Importante è Amare" e la sua sottotrama sul personaggio di Jacques Dutronc.



Zulawski cuce tutto il racconto sul personaggio interpretato dalla moglie (qui prossima alla separazione definitiva), dipingendone fortunatamente sfaccettature e umori in modo completo. Clélia è una donna sofisticata, un'artista che non si accontenta della semplice pornografia e scandaglia il mondo con uno sguardo diverso, originale, a suo modo profondo; ma è al contempo irrefrenabilmente attratta dal sudicio, da quel mondo sotterraneo che di solito si limita a testimoniare a occhio nudo (la spazzatura trovata nello stadio da hockey) e che Nemo le porta in piena attenzione.
Lo sguardo dei due si fa così compenetrante e complementare: le foto di Clélia ritraggono il reale, ma con l'effetto in movimento lo distorcono, lo patinano sino a trasformarlo in qualcosa di irreale e indefinito, astrazione nella sua forma più terrena. Nemo ha invece un occhio più posato, più vicino alla forma della realtà, benché filtrata dalla sua sensibilità artistica. Il loro rapporto è quindi del tutto complementare, per questo ideale.



Lo sguardo di Zulawski si muove accompagnando questi strambi personaggi per le loro peregrinazioni, tampinandoli da vicino, ritraendoli in immagini al solito ricercate; ma mai come ora sembra sempre prossimo a far deragliare racconto e descrizione, a perdersi nel vortice di intuizioni, critiche più o meno velate (tra cui quelle alla pornografia anche televisiva, con un chiaro rimando alla tv commerciale berlusconiana), tra gli umori e passioni dei suoi personaggi. Riesce a restare in equilibrio per puro miracolo anche quando fa confluire apparizione ectomplasmatiche inutili, con una tensione verso il sovrannaturale che non trova motivo alcuno di esistere come accadeva ne "Le mie notti sono più belle dei vostri giorni".



Benché la mano di Zulawski riesca a restare ferma, la durata eccessiva e la poca originalità del tutto impediscono a "La Fidélité" di essere un'opera davvero memorabile, stretta così com'è in pensieri assodati e ossessioni oramai arcinote, finendo per essere priva della freschezza e della profondità dei suoi migliori lavori.