giovedì 16 agosto 2018

Bianca

di Nanni Moretti.

con: Nanni Moretti, Laura Morante, Remo Remotti, Roberto Vezzosi, Claudio Bigagli, Vincenzo Salemme, Enrica Maria Modugno, Dario Cantarelli.

Italia 1984


















---CONTIENE SPOILER---

Con "Bianca", Moretti, per una volta, cambia le carte in tavola, si rinnova e reinventa il suo cinema. Laddove i film degli esordi altro non erano che una versione surreale, grottesca ed iperbolica di una sua biografia esplicita, "Bianca" può essere definito come il suo primo vero film di fiction; per la prima volta Moretti si fa affiancare da uno sceneggiatore, Sandro Petraglia, per strutturare una storia vera e propria che non sia più un collage di scene e riflessioni. Ed il risultato è, forse, a tutt'oggi il suo miglior film.



Una storia, quella del film, che arriva direttamente dal racconto onirico di "Sogni d'Oro": ritroviamo Michele Apicella, ma questa volta non è un alter ego di Moretti, quanto un personaggio a tutto tondo, un professore che conduce una vita solitaria, rinchiuso in una casetta della periferia romana a mangiare chili di dolci, spiando i vicini o a condurre vacue lezioni nella scuola dedicata a Marilyn Monroe.
Una vita, la sua, segnata dall'assenza di affetto, il quale viene vampirizzato da altre coppie, fino alle conseguenze più estreme.



Due sono ancora i piani narrativi intrecciati da Moretti. Su di un primo, la critica, aspra e grottesca, ad un sistema scolastico talmente moderno da essere letteralmente impazzito, a partire dal personaggio alla quale l'istituto è dedicato, passando per i passatempi onanistici dei professori (tra i quali spunta una pista per macchinine radiocomandate) fino a questi ultimi, vero e proprio campionario umano di bestialità intellettuali; indimenticabile il professore di storia che disserta la genesi de "Il Cielo in una Stanza" di Gino Paoli, quello di lettere che viene aggredito dagli alunni, o lo stesso Apicella, incapace di spiegar loro i teoremi più semplici.
L'affondo alla decadenza dei costumi mediante la descrizione grottesca ed impietosa di un sistema scolastico fuori controllo è gustoso e riuscito, ma per una volta il cinema di Moretti non si ferma alla pura dissertazione, facendosi a misura di personaggio, trovando una dimensione inedita altrettanto interessante e riuscita.



Nel secondo piano narrativo, Moretti abbandona lo sguardo acido ed irriverente per intessere una disanima toccante su di un'anima persa. L'Apicella di "Bianca" è un solitario, un uomo privo di ogni minimo affetto, non quello familiare, di certo non quello di una donna, che vive, di conseguenza, cannibalizzando gli affetti altrui. Con piglio vouyerista, spia la coppia di dirimpettai, persi nei litigi amorosi, così come perseguita gli amici; non avendo una propria relazione, si ingerisce in quelle altrui per trarne un'emozione, una forma di soddisfazione nevrotica e del tutto momentanea: il suo è un transfert verso soggetti che riescono ad appagare la propria ricerca e che per questo divengono oggetto del suo desiderio.
Moretti descrive questo "vampiro" con un piglio insolitamente struggente: c'è vera tristezza nel suo sguardo ed una forma di empatia quasi complice nell'avvicinarsi ad un personaggio tanto bisognoso d'affetto quanto perso nelle proprie ossessioni.



L'altro lato di Apicella, quello più oscuro, può ricordare un assassino da thriller tipo "L'Occhio che Uccide", ossia un uomo scottato dalle emozioni (in questo caso dall'assenza delle stesse) che usa l'omicidio come forma punitiva verso il prossimo; nel caso di Apicella, le vittime sono coloro i quali non riescono a mantenere saldo il rapporto di coppia, chi, nonostante la sua ingerenza, si separa o tradisce il partner, ossia chi rifiuta ciò che a lui manca.
Una pulsione, la sua, che non risparmia neanche se stesso. E' nel momento che il tanto sospirato idillio amoroso arriva che il mondo di Apicella va in crisi: lui, abituato a non essere felice se non che per il tramite degli altri, non sopporta questa felicità diretta, il provare un appagamento totale con l'oggetto del proprio desiderio; tant'è che la crisi di coppia esplode per un pretesto, ossia la sua paura di una possibile rottura, cioè la fobia della fine di quell'amore tanto ricercato.
E la collaborazione con Luciano Tovoli, alla fotografia, infrange anche un'altro dei tabù del cinema di Moretti, ossia l'incapacità tecnica; alla solita semplicità nella costruzione scenica, ora si affiancano inquadrature più ricercate, che danno più respiro alla narrazione.



L'attenzione verso una psicologia non facile, il coraggio di prendere le parti di un personaggio scomodo, l'aver saputo intessere una storia a suo modo originale, senza concedersi al genere tout court, lasciando ampio spazio, di conseguenza, all'empatia, rendono "Bianca" se non un capolavoro, quanto meno un gioiello preziosissimo, prova di come Moretti, quando vuole, sappia essere un ottimo narratore.

venerdì 10 agosto 2018

Amiche di Sangue

Thoroughbreds

di Cory Finley.

con: Olivia Cooke, Anya Taylor-Joy, Anton Yelchin, Paul Sparks, Francie Swift, Kaili Vernoff.

Usa 2017

















La mancanza di empatia è connaturata alla ricchezza? Una vita pregna di soddisfazioni porta alla mancanza di vere emozioni? Per l'esordiente Cory Finley, regista e sceneggiatore, sembra essere così, almeno stando al suo "Thoroughbreds" (letteralmente "purosangue").
Film che riprende la tradizione, quasi fassbinderiana, di un cinema teatrale nella scrittura e ai limiti del kammerspiel, che usa una forma dialogica per sviscerare l'orrore che si cela dietro la sgargiante facciata della vita alto-borghese, riuscendo però solo in parte.



Al centro della vicenda, due amiche di buona famiglia: Amanda (Olivia Cooke) e Lily (Anya Taylor-Joy), la prima incapace di provare vere emozioni, la seconda afflitta da una forma marcata di solipsismo; la loro relazione, fatta di una complicità dovuta alla compenetrazione caratteriale, sfocia quasi subito in un piano per uccidere l'odiato patrigno di Lily, che coinvolge anche lo scapestrato Tim (il compianto Anton Yelchin, al quale il film è dedicato).



Due amiche, ancora adolescenti, dalla bellezza acerba eppure tangibile, che vivono arroccate nelle proprie menti al pari di come vivono rinchiuse nelle loro sfarzose ville. Non esiste un mondo esterno a loro, se non nei limiti che la storia richiede (la festa, la spa): entrambe sono perse in un universo individuale, il quale è però del tutto vacuo, privo di interessi o ideali che non siano l'appagamento di un'urgenza fisiologica (mangiare, dormire).
Amanda ha perso ogni forma di empatia e, prima ancora, la capacità di provare emozioni, il che l'ha portata ad uccidere il suo cavallo honeymooner; mentre Lily, all'apparenza indifesa, non riesce a concepire l'alterità; laddove la prima viene presentata sin dall'inizio come un essere umano disfunzionale, la seconda ha un piccolo arco caratteriale che la porta ad accentuare la propria psicopatologia sino ad una devianza totale.
L'omicidio, di conseguenza, è una tappa quasi obbligatoria: laddove l'altro è una pura manifestazione virtuale, non può essergli riconosciuta alcuna forma di dignità come persona; la quale, al massimo, può essere data ai tanto amati cavalli, animali verso cui le due ragazze sembrano provare più attaccamento.



Finley scrive il proprio dramma cinico come se fosse una piece, adagiandosi sui dialoghi per caratterizzare le due protagoniste; la teatralità viene in parte neutralizzata dalla messa in scena, che fa del piano sequenza dinamico l'inquadratura prediletta, rimarcando la natura filmica dell'opera.
Quel che non funziona è proprio la scrittura in sè, che pur attenta alle tematiche e alla caratterizzazione, non ha la minima profondità; la vicenda si svolge in modo sin troppo meccanico, manca un vero affondo al cinismo delle due ragazze, così come un distacco davvero marcato per poter essere avvertito come tale. La superficialità fa capolino persino nel finale, in teoria catartico, dove si cerca di trovare una causa alla cattiveria nella disumanizzazione della società tecnocratica; ma il tutto è buttato quasi a caso, senza divenire mai colonna portante della narrazione, quasi una scusa trovata all'ultimo momento per cercare di dare una vana profondità alla scrittura.



L'esordio di Finley resta così il classico esempio di pellicola più interessante che riuscita: le tesi portante avanti, benchè poco originali, sono sempre di grande interesse, ma il modo in cui vengono sviscerate è fin troppo blando per colpire davvero.

sabato 4 agosto 2018

Il Buono, il Brutto, il Cattivo


di Sergio Leone.

con: Clint Eastwood, Eli Wallach, Lee Van Cleef, Mario Brega, Aldo Giuffrè, Luigi Pistilli, Rada Rassimov.

Spaghetti Western/Avventura

Italia, Usa, Spagna, Germania 1967

















Ovverosia il film più celebre di Sergio Leone, stampato a fuoco nella memoria collettiva di più di una generazione, nonchè suo primo, vero, capolavoro.
"Il Buono, il Brutto, il Cattivo" arriva dopo gli straordinari successi di "Per un pugno di dollari" e "Per qualche dollaro in più" e chiude la cosidetta "trilogia del dollaro", divenendo uno spartiacque tra questa e la più impegnata "trilogia dell'America". Ed è, sotto un certo punto di vista, il film più memorabile di Leone, dove le freddure di Luciano Vincenzoni si sposano perfettamente con una trama picaresca imbastita con l'aiuto di Age e Scarpelli, mentre lo stile del grande autore romano giunge a piena maturazione: il controllo sulla messa in scena è totale e regala 167 minuti indimenticabili, pregni di sequenze da antologia, che andrebbero mostrate, per pathos e perfezione tecnica, nelle scuole di cinema di tutto il mondo.



Sul finire della Guerra di Secessione, ritroviamo l'Uomo senza Nome (Eastwood) alle prese con una strana impresa: trovare un tesoro sepolto da un disertore; assieme a lui e suo malgrado c'è Tuco (Eli Wallach, in una interpretazione che buca lo schermo), il "brutto", delinquente messicano con cui il "buono" ha più di un conto in sospeso. Ma sulle tracce del bottino si mette anche un terzo individuo, più laconico e spietato dei due: Sentenza, detto il "cattivo" (Lee Van Cleef).



Tre personaggi, il Biondo, Tuco e Sentenza, che il titolo cala in tre categorie, ma che non hanno in realtà una differente bussola morale. Il Biondo è laconico e violento quanto Sentenza, mentre Tuco è cattivo e opportunista anche più del cattivo. Non c'è vera distinzione tra i tre sotto il profilo morale e tutti hanno una personalità più sfaccettata di quanto si possa immaginare.
Il Buono è sicuramente il più pacato del trio, ma non si fa scrupoli a crivellare chiunque gli capiti a tiro, oltre che a tradire il suo socio saltuario; Tuco, sboccato e viscido, ha una fibra umana in realtà solidissima e sofferente, che si estrinseca nel rapporto con il fratello monaco. Mentre il cattivo, pur sadico da tradizione, ha un suo codice morale, che per quanto infame segue meticolosamente.
Tutti e tre hanno poi un carattere essenziale in comune: l'avidità, vero e proprio motore che muove loro ed il mondo in cui si aggirano; persino il Buono è pronto a voltare gabbana a tutto e tutti per il classico pugno di dollari.




Se i tre protagonisti sono in senso lato tutti e tre cattivi e sempre violenti, Leone, che si disse ispirato dal monologo finale di "Monsieur Verdoux", contrappone la loro ferocia a quella decisamente più disturbante della guerra.
I tre avventurieri attraversano letteralmente la guerra civile americana, restandone sconvolti; se la violenza degli "eroi" è ludica, quasi bambinesca nel suo essere inscritta nel registro di genere, quella della guerra è una violenza sporca, ben più sadica di quella del Cattivo; una violenza che è puro massacro insensato, perfettamente sintetizzata nella magnifica sequenza del ponte di Legstone, dove i due eserciti si danno all'assalto due volte al giorno senza riuscire ad ottenere nulla se non un quantitativo impressionante di morti e feriti.
Il vero male, il vero "cattivo", è l'eccidio, il massacro perpetrato ai danni di soldati innocenti, per lo più giovanissimi, dove la morte non ha senso alcuno. Non per nulla, è l'ufficiale interpretato da Mario Brega ad essere il vero cattivo del film: un enorme ed irriducibile torturatore che si diverte ad infliggere dolore gratuito al povero Tuco.



La maestria stilistica di Leone qui raggiunge una prima vetta; l'uso della musica diviene più pregnante: da antologia i primi dieci minuti, dove i caratteri dei personaggi vengono presentati solo grazie alle immagini e alle note di Morricone; ed è inutile lodare il celeberrimo tema principale.
Vetta stilistica che giunge a sua volta ad un apice incredibile nell'uso del montaggio, con la corsa tra le tombe del Brutto nell'ultimo atto che potrebbe essere tranquillamente usata come esempio di editing moderno, tra riprese oggettive e soggettive che si raccordano sempre alla perfezione.
Lo stile, in generale, è ancora più solido che nei precedenti exploit, la costruzione della scena più sicura e plastica, tra inquadrature pittoriche ancora più perfette che in passato ed un uso narrativo del suono, come nella scena dell'agguato al Buono, dove riesce a scamparla ascoltando il rumore degli speroni dei bounty killer.
Da antologia è anche l'ormai mitico "triello" finale: qui, come nel prologo, Leone gioca con le tempistiche, diluendo la durata della scena sino ad un ritmo innaturale, dilatato, contrapposto ad una risoluzione fulminea; giustapposizione ancora più marcata che nei suoi film precedenti o nei jidai-geki di Kurosawa, che diverrà, da questo momento, tratto essenziale del suo stile.



"Il Buono, il Brutto, il Cattivo" è anche il film più pop di Leone, con i titoli di testa che sono pura arte popolare applicata alla Settima Arte, così come l'uso dei nomi dei personaggi in sovraimpressione alle immagini; effetto popculturale acuito dai dialoghi sensazionali di Vincenzoni, Age e Scarpelli, pieni di battute memorabili quali "il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola e chi scava. Tu scavi", degni eredi di quelli di "Per qualche dollaro in più".

Ironia che viene squisitamente giustapposta ai magnifici valori produttivi, questa volta da vero kolossal: cariche dei soldati portate in scena con scene di massa popolate da migliaia di comparse, esplosioni a più non posso e, in generale, una ricercatezza nella ricostruzione d'epoca quasi innaturale per una pellicola così moderna e stilizzata. Il che la rende ancora più preziosa.




EXTRA

Tra le molte scene divenute di culto, un posto d'eccezione merita quella in cui un Tuco indaffarato con la toeletta spara ad un pistolero ciarlone:



Perfetto esempio di ironia nera, ripreso persino da George Lucas in "Guerre Stellari" nella celebre scena in cui Han Solo fredda il cacciatore di taglie Greedo:



Se il "Django" di Corbucci e "Per un pugno di Dollari" dello stesso Leone hano avuto un rifacimento "orientale" con "Sukiyaki Western Django" di Takashi Miike, "Il Buono, il Brutto, il Cattivo" può contare, al di là degli omaggi e delle parodie, un rifacimento con "Il Buono, il Matto, il Cattivo" (2008), remake ancora più stilizzato e folle (benchè non riuscitissimo) ad opera di Kim Jee-Woon, con il carismatico Byung Hung- Lee nei panni che furono di Lee Van Cleef ed il solido (e qui divertito) Kang Ho-Song il quelli di una versione demenziale di Tuco.