martedì 25 giugno 2013

Spider

di David Cronenberg

con: Ralph Fienness, Miranda Richardson, Gabriel Byrne, Lynn Redgrave, John Neville.

Inghilterra, Canada (2002)

















---Spoilers Inside---


Dopo il trionfo internazionale di "eXistenZ" (1999), Cronenberg si ritrova, per la prima volta nella sua carriera, a dirigere un copione non suo, ovvero l'adattamento del romanzo "Spider" di Patrick McGarth, sceneggiato dallo stesso scrittore e voluto dal protagonista Ralph Fienness; il maestro canadese firma, così, quello che per certi versi è il suo film meno personale e più convenzionale, che lo porta, tuttavia, ad esplorare un tema fortemente connesso a quelli a lui cari: la follia.



Dennis Cleg (Ralph Fienness), detto "Spider", è un adulto disturbato che, dopo un periodo di lontananza, torna nella natia Londra; ritiratosi in una casa di cura, Spider inizia a ricordare la sua infanzia, i traumi che ha subito e che lo hanno portato a perdere totalmente la capacità d'intendere il mondo che lo circonda.



A causa del soggetto adattato da un romanzo, "Spider" presenta una trama dalla narrazione più convenzionale rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare da Cronenberg; strutturato in flashback sull'infanzia che si alternano, in modo piuttosto lineare, con il presente, il film è costruito come un classico thriller psicologico, dove la pazzia del protagonista si dipana attraverso l'odio viscerale e la paura, dovuti ad un trauma infantile.



L'infanzia, dunque, è il fulcro su cui poggia l'intera vicenda: rifacendosi alla psicoanalisi freudiana classica, McGarth vede in tale periodo dell'esistenza la base per lo sviluppo intellettivo umano; sviluppo che, per Spider, ha portato non ad una formazione, ma ad una corruzione della capacità intellettiva, dovuta al trauma del sesso, impostogli con arroganza dalla prostituta Yvonne (Miranda Richardson), che mostra al ragazzo un suo seno per sadica provocazione; trauma che, di fatto, si disvelerà tale solo nell'ultima scena, che ribalta totalmente quanto visto nell'ora e mezza precedente; colpo di scena che ricollega il film alla tradizione cronenberghiana: la follia diviene alterazione della percezione della realtà circostante in primis, del ricordo degli avvenimenti in secondo; di fatto, Spider uccide la madre (anch'essa interpretata da Miranda Richardson, in un gioco di specchi perfetto grazie alla superba prova dell'attrice) scambiandola per Yvonne: la sua percezione viene alterata dal trauma già dall'infanzia; inoltre, una volta adulto, nei suoi ricordi elabora una scena d'omicidio mai avvenuta per colmare il vuoto della dipartita della genitrice; nonostante la forte carica freudiana della vicenda, il conflitto tra Spider, il padre (un Gabriel Byrne in quello che, tutt'ora, è purtroppo il suo ultimo ruolo di rilievo) e Yvonne non assume mai connotati edipici: l'interesse degli autori è totalmente rivolto alla mente del personaggio, non alle sue pulsione, totalmente subordinate alla sua reazione emotiva e psichica, non meramente sessuali; in pratica, l'alterazione mentale, in "Spider", è alterazione dei sensi, così come, all'inverso, l'alterazione dei sensi mediante stordimento dei sensi portava alla totale mutazione mentale nel precedente "Il Pasto Nudo" (1991).



Sempre presente è invece la componente sessuale, invero assai esplicita: non solo il corpo nudo e sfatto di Yvonne perfettamente contrapposto alla bellezza materna e casta della madre, ma anche la volgarità dell'atto sessuale in sé, che viene esplicitata, da Cronenberg, nell'atto dell'etero-masturbazione, ossia una forma sessuale di puro sfogo degli istinti repressi, che di fatto trovano un viatico solo mediante un orgasmo fasullo; orgasmo che, inoltre, avviene in un flashback, ossia solo ed esclusivamente nella mente del protagonista, mai su di un piano fattuale; Spider, di fatto, è asessuato: non ha pulsioni sessuali effettive e dirette, come se il trauma che ha subito lo abbia inibito fin nel profondo della sua psiche, la quale, per liberarsi, crea una fantasia incompleta, non-adulta giacché priva di scambio reciproco dei sensi e, per di più umiliante.



Pur partendo da presupposti diversi e inediti, dunque, "Spider" si inserisce in pieno nella riflessione dell'autore sulla percezione della realtà e le sue implicazioni; stilisticamente, invece, Cronenberg conferma la sua visione d'autore e non si lascia influenzare dalle esigenze spettacolari che una trama da thriller potrebbe implicare; ed anzi il suo stile si fa ancora più rigoroso: banditi completamente gli effetti speciali e la ricerca estetica (ancora più che nei precedenti "Inseparabili" del 1988 e "M Butterfly" del 1993), lo stile visivo dell'autore è sempre più sobrio, perfino nei campi lunghi; per dar forma alla pazzia del protagonista, Cronenberg immerge la vicenda in ambienti squallidi e decadenti, composti di tubature arrugginite e muri scrostati, perfetto simbolo della decadenza mentale di coloro che vi si muovono; l'intricata psiche del protagonista viene simboleggiata dalla ragnatela che tesse: enorme, inutile ed inquietante, la tela del ragno è come una trappola in cui Spider è bloccato, un groviglio di ricordi, devianze e repressioni che lui stesso crea e dal quale non può più uscire; a dare sostanza effettiva all'ossessione insita nel personaggi, invece, si presta un Ralph Fienness mai più così in parte: sempre tra le righe, tratteggia il personaggio usando solo lo sguardo ed una serie di tic nervosi mai sopra le righe o fuori luogo, soprattutto senza mai scadere nell'istrionismo, pur essendo protagonista assoluto dell'intera pellicola.



Magnifico nei contenuti, anche se ingabbiato in una trama convenzionale e ai limiti del prevedibile, "Spider" è un perfetto ritratto dell'umana follia, lucido e rigoroso nella migliore tradizione del grande autore canadese.

venerdì 21 giugno 2013

Tokyo Fist

Tokyo Kèn

di Shinya Tsukamoto

con: Shinya Tsukamoto, Kaoru Fujii, Koji Tsukamoto, Naomasa Musaka, Naoto Takenaka.

Giappone (1995)




Nel 1995, con “Tokyo Fist”,  Tsukamoto porta a compimento il suo personale discorso sulla modernità iniziato con "Tetsuo" (1989) e proseguito con il suo seguito "Tetsuo II- Body Hammer" (1992); la civilizzazione sopprime la carne: un mondo fatto di cemento e metallo trasforma i muscoli e le ossa in corpi estranei e fa assopire i sensi dell’essere umano; se in “Body Hammer” è il metallo a fungere da catalizzatore per il risveglio degli istinti, in “Tokyo Fist” è il martirio della carne a risvegliarli: il pugilato diviene strumento ideale per ridare una sensazione al cervello, per far risvegliare le funzioni corporali e sessuali che la quotidianità alienante cerca di annullare.


Ogni pugno ricevuto, ogni ferita aperta, ogni dente sputato è per l’autore metafora dell’energia che torna a scorrere; energia intrinseca all'essere umano, che però viene soppressa dal lavoro nella metropoli che stritola l’individuo e ne annichilisce gli impulsi; non per nulla Tsuda, interpretato , al solito, dallo stesso regista, in passato aveva cercato di vendicare violentemente lo stupro di una ragazza, esternando in maniera diretta e genuina la rabbia e la violenza provata; e per risvegliare tali sensazioni Takuji, suo rivale, interpretato dal fratello di Shinya ed ex pugile, usa un pretesto simile: seduce la sua fidanzata per risvegliarne la rabbia repressa, per farlo tornare ad essere umano, dopo averlo ritrovato, dopo svariati anni di oblio, ad un’ameba, un essere floscio e represso, la cui corporalità è talmente frustrata da scandalizzarsi da una foto in costume della ragazza.


Proprio il personaggio di Hizuru è l’altro polo metaforico usato dall’autore: a differenza degli uomini, il martirio che lei impone al suo corpo è totalmente gratuito e fine a sé stesso, concretizzandosi in piercing e tatuaggi che ne sfregiano il corpo; il dolore dato dall’innesto del metallo (come in Tetsuo) e dell’inchiostro ne risvegliano i sensi più dell’atto sessuale: non per nulla, durante la convivenza con  Takuji consuma un unico rapporto sessuale, nel quale il piacere viene raggiunto solo quando questi le morde voracemente l’anello che ha sul capezzolo; nel finale, inoltre, decide di autodistruggersi maciullando definitivamente il suo corpo: raggiungere il piacere definitivo con la morte, il martirio definitivo, auto-inflitto ed auto-compiaciuto, un giudizio, per molti, ai limiti della misoginia visto il sesso del personaggio, ma che in realtà simboleggia solo una forma di devianza propria dell’interna civiltà moderna.


Per Tsuda, invece, è la distruzione del corpo altrui ad essere celebrazione dei sensi: la rivalità con Takuji lo porta a riscoprire la sua corporalità e a spingerla ai massimi limiti per trionfare; tant’è che nel finale, in ossequio ai vecchi codici guerrieri, il rapporto tra i due diviene simbiotico grazie ai colpi scambiati: i loro corpi si fondono, idealmente, ma non fisicamente, e il male subito dall'uno si riverbera nella carni dell’altro, poiché divenuti, entrambi, pari nella coscienza dei sensi.


Per colpire ancora più nel profondo i sensi e il cervello dello spettatore, Tsukamoto estremizza il suo stile: i grandangoli sono ancora più stroboscopici, ai limiti del fish eye, la profondità delle immagini è incredibile, il montaggio ancora più serrato e ai limiti del subliminale; la composizione delle singole inquadrature, in particolare degli innesti fotografici, è ammaliante: forme umane letteralmente schiacciate dai palazzi e dalle strade sopraelevate e file infinite di appartamenti di cemento bianco si susseguono e si rincorrono in montaggio spezzato, frammentario e a-logico, che si insinua inesorabilmente nella psiche di chi guarda; l’intera narrazione diviene così un pugno sferrato dritto ai sensi, mentre la mente viene ammaliata dai cromatismi della fotografia, anche qui basata sul blu freddo, simbolo dell’assopimento, e da un rosso caldissimo, che sottolinea invece il risveglio della carne anestetizzata.



Al quarto lungometraggio da regista, Tsukamoto conferma le sue doti di autore ed artista: “Tokyo Fist” è uno dei suo capolavori più riusciti, nonché l’ultimo film “a tesi” del regista; dal successivo "Bullet Ballet" (1998), infatti, l’autore tenderà ad abbandonare il simbolismo puro in favore di una narrazione più articolata e, soprattutto, di un’empatia totale (o quasi) verso i suoi personaggi.

venerdì 14 giugno 2013

X-Men


Di Brian Synger

Con: Hugh Jackman, Patrick Stewart, Anna Paquin, Ian McKellen, Famke Jannsen, Halle Barry, James Marsden, Rebecca Romijin, Ray Park, Bruce Davison.

Super-eroistico/Azione

Usa (2000)













Nati nel 1963 sulla falsariga dei "Doom Patrol" della Dc Comics, gli X-Men sono tra i personaggi più apprezzati dell'universo Marvel: un gruppo di mutanti, il cui numero cresce e diminuisce nel corso degli anni con una velocità impressionante, la cui caratteristica è data dall'estrema umanità dei singoli personaggi; l'empatia generata da figure quali il Professor X, Bestia, Kitty Pryde o il ferino Wolverine (vera e propria maschera tragica celata sotto la scorza di rude canadese artigliato) è innegabile e riesce subito a far presa sul pubblico; i temi dell’intolleranza e della paranoia per il diverso garantirono il successo della testata anche presso il grande pubblico, visto anche il periodo fu prodotta: gli anni '60-'70; la contestazione e la Controcultura di massa bene erano rappresentati, nel fumetto, dalla Confraternita dei Mutanti, dalla Scuola per Giovani Dotati e dalla lotta per l’accettazione del mutante (ossia il "diverso"). Protagonisti di una serie infinita di storie e cross-over, la cui complessità e il cui alto numero di colpi di scena e twist narrativi rasentano spesso il ridicolo, gli X-Men sono diventati, nel corso degli anni, un vero e proprio caposaldo all'interno dell’universo Marvel, spesso plasmato proprio dalla complessità folle ed improbabile delle avventure dei mutanti.



Temi quali il significato della parola "umano", l'intolleranza e l'amicizia virile tra reietti di sicuro non sono nuovi nel cinema di genere (in particolare nel horror e nella fantascienza), ma si prestano sempre bene a nuove declinazioni; nella trasposizione su grande schermo, però, non tutto va come dovuto; la sceneggiatura di David Hayter (più famoso come doppiatore che come scrittore: è la voce di Snake nella serie videoludica "Metal Gear Solid") riprende tali temi solo come base per un discorso meramente pretestuoso: la lotta per l'accettazione e lo scontro tra integrazione e ribellione sono solo una scusa per far scontrare i due gruppi di super uomini avversi; pretesto bello e buono, impostato alla bene e meglio in un prologo vero e proprio corpo estraneo rispetto al resto della pellicola, e in una prima scena, ambientata al Congresso degli Stati Uniti costruita come una specie di talk show a botta e risposta del tutto improbabile.
Perfino il tema della mutazione come trasformazione del corpo e della mente, in teoria un topos essenziale in tale tipo di narrazione, viene solo sfiorato in paio di scene con protagonista Rogue; il tema della perdita dell’identità, proprio del personaggio di Wolverine, è anch’esso una mero pretesto per avviare la narrazione, che non trova compimento alla fine della pellicola e che sembra messo lì solo per allungare il brodo.




La caratterizzazione dei singoli personaggi, inoltre, è sciatta e monocorde: Wolverine è l'eroe bello e dannato, Rogue diviene la fanciulla in pericolo, Jean Grey la bella da conquistare di turno e Ciclope il saccente primo della classe; tutti gli altri personaggi mostrati (Tempesta, Mystica e soci) sono alla stregua di mere comparse; le uniche note di interesse vengono data dai capigruppo, Xavier e Magneto, anch'essi monodimensionali, ma il cui scontro di vedute, perlomeno, è credibile, e dal rapporto di amore paterno tra Wolverine e Rogue (qui caratterizzata come Kitty Pryde nel fumetto), a tratti finanche toccante.




Lo spettacolo viene così salvato solo dal cast, formato da attori dalla carriera di lungo corso (Patrick Stewart e Ian McKellen) e da giovani esordienti al primo ruolo importante nel cinema mainstream (Jackman e la Barry), tutti perfettamente in parte ed affiatati.




Ulteriore nota dolente è data dalla regia di Singer: lo stile dell'autore di "I Soliti Sospetti" (1995) è irriconoscibile, la costruzione delle scene è sciatta e derivativa, riprendendo molti stilemi visivi da "Matrix" (1999) e appiattendosi subito sui soli effetti speciali. La vicenda narrata, già in partenza poco interessante, diviene così stucchevole e la noia viene evitata solo grazie all'azione, che perlomeno non manca, anche se nella parte finale la mancanza di idee narrative e visive si nota fin troppo: il climax nella Statua della Libertà sembra uscito da una produzione low-budget per la linearità delle coreografie e il manierismo visivo. 




Successo stratosferico in tutto il globo, l’esordio degli X-Men su grande schermo è tutto fuorché indimenticabile: un pop-corn movie senza la minima pretesa narrativa o spettacolare, sciatto nella messa in scena e superficiale nella narrazione, che fa il piacere dei fans (e forse neanche di tutti visto le vistose mancanze nel roster dei personaggi) e di pochi altri, il cui stile infantile ed esangue diventerà malauguratamente  il modello di base per la maggior parte dei film supereroistici a venire.

sabato 1 giugno 2013

Tetsuo II- Body Hammer

 di Shinya Tsukamoto

con: Tomorowo Taguchi, Shinya Tsukamoto, Nobu Kanaoka, Sujin Kim, Hideaki Tezuka.

Cyberpunk

Giappone (1992)



















Trionfatore nei festival di mezzo mondo, "Tetsuo" (1989) creò il mito di Tsukamoto: autore-demiurgo capace di scrivere, dirigere, montare, fotografare ed interpretare una pellicola graffiante e suggestiva; credito che però non gli valse nulla di fronte ai produttori, i quali lo costrinsero, letteralmente, a girare una pellicola commerciale: "Hiruko the Goblin" (1991), horror per teen-agers che, sebbene divertente, non ha davvero nulla a che vedere con i temi e con lo stile del maestro nipponico; esperienza che tuttavia gli permise di ottenere un cospicuo budget per il suo successivo e ben più ambizioso lavoro: "Tetsuo II- Body Hammer", rielaborazione dei temi del suo esordio nonchè anticipazione di quelli del successivo capolavoro "Tokyo Fist" (1995).




Sequel solo nominale, "Body Hammer" riprende il tema della trasformazione del corpo in elemento artificiale per declinarla in modo del tutto originale; questa volta il protagonista (sempre interpretato da Tomorowo Taguchi) è un uomo tranquillo, sposato e padre di un piccolo bimbo, la cui vita viene sconvolta quando un gruppo di malfattori rapisce il figlio; atto che risveglia il suo istinto omcida, il quale dà il via ad una strana mutazione: il suo corpo diviene un'arma ambulante capace di distruggere tutto ciò che gli si para innanzi.





Come nel successivo "Tokyo Fist", si diceva, Tsukamoto declina qui per la prima volta un tema che sarà centrale nella sua filmografia successiva: il risveglio dei sensi assopiti; la società moderna, non solo post-industriale, con le sue torri di acciaio e le immense colate di cemento, ha sepolto e asfissiato ogni pulsione corporea; l'istinto omicida viene qui visto dall'autore come passione primigenea dell'uomo, che lo distingue dagli oggetti inanimati e freddi di cui si circonda; la trasformazione della carne in metallo e cemento (il pilastro che spunta dalla spalla del mutante è una novità rispetto a quanto visto nella pellicola precedente) è letteralmente paradossale se confrontata con quanto visto nel primo "Tetsuo"; la catarsi, dunque, va ricercata nell'atto fisico della distruzione cui il cyborg si presta: l'annientamento totale e definitivo della società che ne ha recluso i sensi, come mostrato nell'ultimissima sequenza, è l'unica forma di liberazione del corpo, che deve necessariamente passare per il tramite della macchina, o, più specificatamente, dell'arma; il corpo umano, soggiogato dalla pietra e dal ferro, deve farsi esso stesso cannone ("Hammer" proprio nel senso di strumento di distruzione) per liberarsi; catarsi perfettamente simboleggiata dai corpi muscolosi che si flettono nelle sequenze dell'acciaieria, nelle quali la splendida fotografia si tinge di colori caldissimi a risaltare la pulsione intrinseca del corpo.





E proprio i cromatismi della fotografia sono uno dei pezzi forti della pellicola; abbandonato il livido bianco e nero del film precedente, Tsukamoto immerge questo sequel in un'atmosfera ancora più fredda e straniante mediante l'uso del solo colore blu, declinato in ogni sua sfumatura: dall'azzurro opaco degli interni dell'appartamento del protagonista al verde acqua mischiato al nero pece della scena finale nell'acciaieria; colori freddi gustosamente giustapposte alle tonalità caldissime del rosso e dell'arancione, ossia la perfetta metafora, a livello cromatico, dello scontro tra la pulsione corporea  pronta a sgorgare e il metallo che la frustra.





Con un budget più alto. inoltre, Tsukamoto può sperimentare inquadrature ancora più forti: movementi impossibili della mdp, montaggio ancora più serrato e spezzato nelle singole scene e immagini sempre più emblematiche, in cui i soggetti non sono praticamente mai al centro dell'interesse, quasi come se l'autore li stesse rincorrendo all'impazzata; il risultato è semplicemente esplosivo, una bomba sensoriale perfetta erede dello sperimentalismo sfrenato degli esordi, un attentato dirompente ed abbagliante ai sensi dello spettatore come se ne sono davvero visti pochi nella storia della Settima Arte.




Il limite intrinsesco del film, però, risiede nell'approccio narrativo dell'autore: come il Cronenberg di "Scanners" (1981), Tsukamoto trincera nettamente le sue riflessioni all'interno di una narrazione squisitamente di genere; la maggior parte enfasi viene lasciata più che sulle implicazioni filosofiche, sulla storia e sui personaggi, in particolare sugli scontri tra mutanti e sullo splatter, invero non troppo marcato ma comunque presente.

Solo Dio Perdona

"Only God Forgives"

di Nicolas Winding Refn

 con: Ryan Gosling, Vithaya Pansringarm, Kristin Scott Thomas, Tom Burke, Rhatha Phongam, Byron Gibson.

Noir

Francia, Thailandia, Usa, Svezia (2013)









Dopo il successo di critica e di pubblico di "Drive" (2011), le aspettative per il nuovo film del duo Refn/Gosling erano a dir poco stellari; aspettative che, sfortunatamente, vengono in parte deluse: "Solo Dio Perdona" è un film stilisticamente perfetto, ma anche estremamente freddo.



In una Bangok oscura e sulfurea, il gangster di origini americane Billy (Tom Burke) viene ucciso dal poliziotto-giustiziere Chang (la rivelazione Vithaya Pansringarm); suo fratello Julian (Ryan Gosling) decide di vendicarlo a seguito delle forti pressioni subite dalla volitiva madre (Kristin Soctt Thomas).


La classica storia di vendetta tra gangster viene ripresa in tutti i suoi archetipi; Refn riesce tuttavia a non annoiare grazie alla caratterizzazione dei personaggi: non esistono buoni, solo diversi gradi di cattiveria; la vittima, Billy,viene subito introdotto come un pedofilo violento, ucciso per aver stuprato ed ammazzato una prostituta minorenne; Julian, anch'egli gangster, è un debole: un accidioso, che subisce passivamente gli eventi (come sottolineato anche nelle scene di sesso), che si lascia deliberatamente opprimere e manipolare dalla figura materna e che fa esplodere la sua violenza repressa solo in atti del tutto fini a sè stessi; Crystal, la madre, uno dei fulcri della vicenda, è sboccata ed approfittatrice: decide di vendicare il figlio solo per motivi d'onore e non si fa scrupoli a sacrificare l'odiato secondogenito, il quale già in passato aveva costretto ad uccidere, creando una forte simbologia edipica; altro fulcro della vicenda è invece lo splendido personaggio di Chang: un poliziotto violento e cinico che tuttavia agisce solo ed esclusivamente per punire i crimini; se Crystal, in quanto donna e madre, è la divinità creatrice ed oppressiva, Chang è il dio del titolo: un giudice in terra terribile, ma giusto, nonchè un padre da distruggere per affermare sè stessi, altro richaimo al mito di Edipo; e lo sguardo calmo e le movenze aggraziate Vithaya Pansringarm donano al personaggio un'aura mistica imlpabile, rarefatta eppure fortissima persino nelle scene più ordinarie, come quelle in cui canta al karaoke, a sottolineare l'estrema ordinarietà degli atti di violenza nella sua vita.



Refn, iperrealista come al solito, immerge la pellicola in colori caldissimi: dai rossi degli interni alle luci dorate della palestra, passando per i blu avvolgenti del postribolo; i colori vivi ed abbaglianti ben si adattano al ritmo, volutamente dilatato oltre ogni limite, come se l'intera vicenda si svolgesse nel west di Sergio Leone o nel Giappone di Akira Kurosawa; l'atmosfera onirica di "Drive" e "Fear X" (2003) lascia qui spazio all'iperrealismo puro, ad ambienti rarefatti splendidamente racchiusi in inquadrature geometriche ed eleganti, come se ne vedono davvero poche nel cinema occidentale odierno.



Laddove però Refn sbaglia clamorosamente è nell'ermetismo di fondo: la dilatazione ritmica e l'eleganza quasi sfacciata tolgono enfasi alla vicenda, che finisce così per divenire clamorosamente fredda; siamo lontani, per fortuna, dall vacuità autocompiaciuta di "Valhalla Rising" (2009): i simbolismi e le caratterizzazioni sono sempre ben decifrabili, ma si fatica davvero ad appasionarsi alla storia, a causa di una narrazione troppo chiusa in sè stessa, che non crea alcuna empatia verso lo spettatore.



"Solo Dio Perdona" si configura, così, come un perfetto esercizio di stile: elegantissimo ed abbagliante, ma inerte; i cinefili dal palato più fino lo apprezzeranno per lo stile, ma gli spettatori generici davvero faticheranno molto ad amarlo.