mercoledì 31 marzo 2021

World to Come

The World to Come

di Mona Fastvold.

con: Katherine Waterson, Vanessa Kirby, Casey Affleck, Christopher Abbott, Karina Gherasim, Ioachim Ciobanu, Daniel Blumberg.

Drammatico

Usa 2020












---CONTIENE SPOILER---

Un mondo a venire, altro, diverso rispetto a quello nel quale si è confinati. "World to Come", secondo lungometraggio di Mona Fastvold trionfalmente presentato allo scorso Festival di Venezia, è la cronaca di un amore impossibile, che ovviamente ha un prevedibile epilogo tragico, ma che si discosta da tanta cinematografia americana indie contemporanea per alcune scelte narrative e stilistiche vincenti. 


La storia, tratta da un racconto del co-sceneggiatore Jim Shepard, è quanto di più ovvio si possa immaginare: a metà del XIX secolo, nella regione boschiva dello stato di New York, Abigail (una straordinaria Katherine Waterson) è sposata con l'introverso Dyer (Casey Affleck, anche produttore). La sua vita cambia drasticamente all'arrivo di Tallie (Vanessa Kirby), la quale, pur sposata con l'oppressivo Finney (Christopher Abbott), intreccia con lei una travolgente relazione amorosa.


La critica al patriarcato come insensibile o oppressivo è sin troppo semplice, date le coordinate storico-geografiche in cui si svolge la vicenda. Per fortuna la Fastvold è più propensa a raccontare una storia d'amore impossibile in modo inusuale. Quella tra Abigail e Tallie è innanzitutto la storia di un'affinità che le due donne non sono riuscite a trovare nel talamo nuziale e che non è compensata neanche dal ruolo di madre, loro negato a causa del lutto e, forse, nel caso di Tallie della malattia.


Il rapporto tra le due protagoniste viene ancorato dell'empatia, la relazione carnale è relegata solo a sparuti flashback nel finale; quel che interessa è il ruolo di compagna che ciascuna trova nell'altra. Una compagna come confidente, come anima gemella in grado di comprendere umori e sensazioni in modo diretto, automatico, senza bisogno della comunicazione. Il che funziona grazie soprattutto all'alchimia tra le due attrici, dove soprattutto la Waterson colpisce per l'estrema e naturale espressività.


Echi bronthiani giungono dalla giustapposizione tra il calore della relazione con l'asprezza della natura, forza disgregatrice e maligna, pronta a punire la felicità altrui prima ancora della figura maschile. Ma la regia si concentra maggiormente e quasi esclusivamente sull'emotività dei personaggi, lasciando fuori dal racconto quella che poteva essere una dualità interessante. 
Fortunatamente, il racconto vive, oltre che grazie agli interpreti, per merito di una regia attenta, che non si fossilizza sui personaggi e cerca sempre di trovare spazi inediti, talvolta spettacolari, in cui farli muovere.
Il risultato, pur non essendo memorabile, è quantomeno riuscito e certamente più interessante di tanto cinema d'autore "alla mòde" che spesso invade le sale (o i servizi streaming) in cerca di facili riconoscimenti. Il che, si spera, porti fortuna alla sua autrice.

mercoledì 24 marzo 2021

Promising Young Woman

di Emerald Fennell.

con: Carey Mulligan, Alison Brie, Bo Burnham, Adam Brody, Christopher Mintz-Plasse, Clancy Brown, Connie Britton, Jennifer Coolidge, Alfred Molina.

Usa, Inghilterra 2020
















La carriera come produttrice di Margot Robbie ha avuto alti e bassi, ma anche una costante interessante: tutti i suoi film pongono al centro la figura di una donna forte in cerca di affermazione. Sia essa la pura e semplice vendetta di "Terminal", piuttosto che l'emancipazione dalla figura maschile di "Birds of Prey", il cinema creato dalla Robbie si inserisce, giocoforza, nel filone post #metoo per la volontà di portare alla ribalta i personaggi femminili; e l'aspetto più convincente del suo lavoro sta nel fatto di non scadere mai nella misandria pura e semplice, cercando sempre di restare ancorata a coordinate credibili senza nulla togliere alla critica sociale.
"Promising Young Woman", esordio al cinema dell'autrice televisiva Emerald Fennell, tenta di fare altrettanto, innestando un discorso sulla disparità tra genere nella società occidentale strutturando il discorso come una storia di vendetta stilizzata e antimanichea, che riesce, bene o male, a mantenere quasi tutte le sue promesse.


Cassie (Carey Mulligan) è una trentenne segnata dal trauma dello stupro e del conseguente suicidio della sua migliore amica Nina; per vendicarsi sul genere maschile, si diverte a "punire" i predatori sessuali fingendosi ubriaca nei bar per poi umiliare chi la rimorchi con l'intento di approfittare di lei. La sua condizione di vita già precaria subisce uno scossone quando reincontra il suo ex compagno di studi Ryan (Bo Burnham), il quale le svela come il gruppo di amici che aveva stuprato Nina è di nuovo in città.


Cassie, vendicatrice del sesso oppresso, viene introdotta come una Thana "softcore", una donna ferita (anche se indirettamente) che sfoga la sua rabbia su tutto il genere maschile, indiscriminatamente. Ma, al contempo, la sua vita è misera, fatta di rapporti familiari freddi e caratterizzata dall'assenza totale di una vita sociale. Cassie è vittima tanto della violenza quanto di se stessa, persa nell'ossessione di una vendetta senza volto, né corpo, per questo destinata a durare per tutta la sua vita. Una vendetta che le ha tolto tutto, trasformandola da "giovane promettente" ad adulta mai realizzata.


Il tema dello stupro o, più precisamente, del sesso non consenziente viene posto alla base del dramma, ma il modo in cui viene trattato è controverso. Il supporto è per la vittima e ci mancherebbe altro, tuttavia una riflessione è d'obbligo: il tasso di stupri nel college americani è altissimo; non ci sono scuse, ovviamente, per i predatori che approfittano di una persona incapace, pur tuttavia bisogna tenere conto della contestuale esplosione di alcolismo giovanile, con il fenomeno del binge-drinking a fare da padrone, che porta spesso i giovani a distruggere volontariamente le proprie difese fisiche e psichiche e li rende, di conseguenza, vittime ideali. Il dito non va puntato contro le vittime, è sempre bene specificarlo, ma contro la cultura dell'auto-assoluzione, che tende a giustificare i comportanti più lascivi anche quando sfociano in tragedia. E l'alcol, inutile dirlo, è il balsamo che aiuta i predatori a perdere i freni inibitori e le vittime a non potersi difendere, quindi forse è arrivata l'ora di riflettere per davvero sulle abitudini dei ventenni in cerca di sballo, che si pongono volontariamente da un lato con le spalle al muro, dall'altro si sentono giutificati per ogni conseguente cattiva azione, anche quando sfocia nel reato.
Il film della Fennell, a tratti, sembra voler puntare il dito contro la cultura dell'eccesso, ma ripiega subito nei territori più confortevoli del cinismo. E da questo punto di vista, l'onestà di fondo è quasi encomiabile: nel mondo di "Promising Young Woman" non esistono buoni o cattivi, solo vittime e carnefici con differenti gradi di colpevolezza. Lo script non si fa remore a tratteggiare la propria protagonista come una psicopatica ossessionata dalla lesa maestà, quella di aver perso il primato relazionale con la migliore amica prima ancora di quella concernente la tragedia che l'ha spinta a vendicarsi. Così come non c'è vergogna nell'ammettere come una forma di redenzione sia possibile, come nel caso dell'avvocato interpretato, in un cameo, da Alfred Molina. Non siamo dalle parti del veterofemminismo gretto e compiaciuto di "Black Christmas", quanto più sulle coordinate di "Tre Manifesti a Ebbing, Missouri".


La Fennell riesce perfettamente a caratterizzare un personaggio complesso immerso in un contesto complesso; non si sbilancia troppo neanche nel finale, il quale non cancella gli aspetti più problematici, anche se risulta si troppo elegiaco e anche in parte fuori posto, visto quanto raccontanto nei due atti precedenti; per tutta la durata del film, la sua Cassie è una mina vagante, un essere perso tra auto e etero-distruzione che si aggrappa agli ultimi stralci della sua umanità riuscendo, a tratti, a tornare ad essere "normale", ad eclissare la sua ossessione vendicativa. E nel dare corpo a questo personaggio insofferente e inquieto, Carey Mulligan si rivela perfetta, donando un'interpretazione viva e sfaccettata che forse merita davvero l'Oscar.


Più forzate invece paiono le nomination per regia e scrittura, come spesso accade. La messa in scena si fregia di una fotografia sgargiante e canzoni pop vivaci, ma la costruzione delle scene è basilare, flagellata anche dall'abuso di dialoghi, prova della formazione televisiva dell'autrice, che si nota anche nella costruzione un po' frammentaria del racconto.
Per il resto, questo esordio lascia ben sperare una pregiata carriera per la Fennell e riesce a distinguersi all'interno di un filone, quello del rape & revenge, fin troppo abusato, soprattutto negli ultimi anni.

lunedì 22 marzo 2021

Zack Snyder's Justice League

di Zack Snyder.

con: Ben Affleck, Gal Gadot, Ray Fisher, Henry Cavill, Jason Momoa, Ezra Miller, Amy Adams, Connie Nielsen, Robin Wright, Diane Lane, Jared Leto, Harry Lennix, Amber Heard.

Fantastico/Avventura/Azione

Usa 2021











E' arrivato il momento di riflettere seriamente sulla forza che viene data ai fandom. Questo perché oramai viviamo in un mondo dove un film come "L'Ascesa di Skywalker" esiste quasi esclusivamente per salvare una saga agli occhi dei propri appassionati delusi, dove i fanboys riesco a far cambiare il design di Sonic minacciando di far fallire il film e dove qualcosa come "Zack Snyder's Justice League" ha visto la luce sulla sola base di una petizione degli aficionados.


Perché la famosa "Snyder's Cut" di "Justice League" era qualcosa di diverso, una semplice versione monca del film diretto da Whedon che avrebbe persino dovuto avere una sua distribuzione, ma che Snyder ha ostracizzato, giustamente, poiché si trattava per l'appunto di un film non finito, non di un semplice montaggio alternativo. E la storia dietro le quinte del film parla, di fatto, da sé: la Warner era scontenta dell'underperforming di "Batman v. Superman" e ha cercato di ottenere un controllo diretto sul sequel, usando Geoff Johns come "agente dietro le quinte" per guidare la mano del regista verso scelte stilistiche e narrative che avrebbero accontentato il grande pubblico e i fanboys. Questa situazione poco rosea deflagra, drammaticamente, alla morte della figlia di Snyder, che lo porta ad abbandonare definitivamente il progetto in mano a Joss Whedon, il quale fa praticamente ripartire da capo le riprese e stravolge lo script. Il risultato, che lo si detesti o meno, è quello uscito al cinema, una sorta di riarrangiamento di quanto da lui fatto con il primo "The Avengers".


Tutto questo non ha ovviamente fermato i fandom mondiali e, dietro di loro, la HBO, che ha praticamente deciso di finanziare un progetto "for fantics only", lasciando mano libero a Snyder, il quale ha praticamente girato un altro film e lo ha assemblato con quel poco fatto in precedenza, per un totale di quattro ore di durata, praticamente l'equivalemtne di quanto fatto dai Russo in due film.
Alla fin fine, ne è valsa la pena?


Va riconosciuto a Snyder l'epiteto di autore, non solo per il fatto di aver mantenuto anche qui uno stile coerente (che piaccia o meno), ma soprattutto di aver perseguito la sua visione con caparbietà. Fin troppa caparbietà.
La prima cosa che salta all'occhio durante la visione, soprattutto nei primi minuti, è l'estrema dilatazione del ritmo, sia interno alle scene che del film in generale. Ogni sequenza sembra durare troppo, avere sin troppi dettagli, tanto che sembra di assistere non ad un film finito, ma ad una semplice copia-lavoro per il montaggio, anche escludento i famosi slow motion snyderiani. Il che è sicuramente dovuto alla volontà di Snyder di inserire praticamente tutto il girato originale nel film, senza lasciare nulla e modificando il meno possibile rispetto alla sceneggiatura.
Salta all'occhio, ovviamente, anche la scelta di distribuire il film interamente in formato video 4:3, con la visione che così viene concentrata sul centro dell'inquadratura; e non si sa bene per quale motivo, tanto che, come scelta, sembra dettata unicamente dalla volontà di dare un tocco "artsy" ad un kolossal che vuole anche essere pura visione autoriale. E forse, in fondo, la Snyder's Cut è proprio questo, ossia l'affermazione totale della visione di un autore su tutto e tutti, con tutte le conseguenze possibili, sia nel bene che nel male.


La storia, bene o male, è sempre quella vista nella versione di Joss Whedon, ma bisogna dire che questa versione, benché sin troppo lunga, è molto più coerente e completa.
Ora Steppenwolf è un villain con una caratterizzazione vera e propria; non più semplice mostro in cerca di vendetta per lavare l'onta della sconfitta subita in passato, l'arcidemonio è l'araldo di Darkseid, inviato a conquistare pianeti in sua vece per ripristinare il suo rango all'interno della corte di Apokolips. E lo stesso Darkseid appare spesso, assieme al braccio destro DeSaad, come minaccia cosmica alla Thanos. solo virato al male supremo. E sarebbe davvero stato interessante vedere gli sviluppi apocalittici della trama originariamente imbastita, del quale qui rimangono alcuni spettacolari frammenti.
Cyborg diventa personaggio centrale e completo, con un arco narrativo che lo porta a ritrovare l'affetto verso quella figura paterna che odiava; Flash, sempre fisso nel suo ruolo di linea comica, ha anche lui una pacchianissima introduzione, in cui Snyder si diverte ad esagerare il concetto di ralenty, inserendo al contempo trovate comiche ai limiti del ridicolo. Ma, fortunatamente, molte delle vecchie gag vengono tagliate, al punto che il suo status di "bambino speciale" perde, fortunatamente, di significato. Persino il cameo del commissario Gordon di J.K. Simmons ha una sua funzione narrativa precisa. Meno spazio viene invece dedicato ad Aquaman, ma la scena della sua introduzione, diametralmente opposta per tono a quella vista al cinema, è a suo modo simpatica per il modo in cui lo caratterizza come divinità scesa in Terra.


Più cura è anche riposto nell'aspetto spettacolare. Senza una data di uscita vera e propria, gli effetti speciali in CGI fanno dimenticare la mediocrità imbarazzante della versione precedente; soprattutto, Snyder riesce davvero a creare uno spettacolo visivo partendo sempre dalla storia, con sequenze spettacolari ma importanti sul piano narrativo, come la nuova versione dello scontro con il redivivo Superman e, ancora di più, il climax con un Flash che si muove nello spazio-tempo.


Per il resto il film soffre a causa di uno stile sin troppo barocco, con ralenty su ralenty che enfatizzano ogni singolo movimento scadendo talvolta nel ridicolo. Ma, in generale, Snyder riesce a rendere la formazione della JL davvero epica e la sua visione, benché imperfetta, è indubbiamente spettacolare, figlia di un cinema dove lo spettacolo non dimentica i personaggi e, soprattutto, ha sempre rispetto per l'intelligenza del suo pubblico. Cosa che, al giorno d'oggi, è rara, soprattutto nel filone supereroistico.

giovedì 18 marzo 2021

La Favorita

The Favourite

di Yorgos Lanthimos.

con: Olivia Colman, Emma Stone, Rachel Weisz, Nicholas Hoult, Joe Alwyn, Mark Gatiss, James Smith, Faye Daveney.

Irlanda, Inghilterra, Usa 2018














Il gioco del potere e la conseguente guerra per conquistare una forma di affermazione personale non è certo un tema nuovo per il cinema, né tantomeno moderno, eppure Yorgos Lanthimos decide di porlo al centro di un proprio racconto; il primo, per la cronaca, a non essere basato su uno script del fido Efthimis Filippou dai tempi del suo esordio con "Kinetta"; e "La Favorita", pur non rappresentando nulla di nuovo da un punto di vista contenutistico, riesce a convincere sia per l'asprezza della storia che per una messa in scena straniante e al contempo magnifica.


Inghilterra, inizi del XVIII secolo. Alla corte della regina Anna (Olivia Colman) serve con dovizia lady Sarah Moulborough-Freeman (Rachel Weisz), braccio destro della regnante nonché sua segreta amante. L'equilibrio, di fatto precario, sia sul piano umano-sentimentale che politico viene scosso dall'arrivo a corte di Abigail (Emma Stone), cugina di Sarah caduta in disgrazia a causa dei debiti del padre e letteralmente pronta a tutto pur di riottenere un posto in società.


La differenza fondamentale rispetto alle opere precedenti di Lanthimos, verso cui "La Favorita" potrebbe essere posto come una rottura, è lampante: l'autore non imbastisce un racconto metaforico di stampo surrealista, ma lascia che siano i rapporti tra personaggi a narrare i fatti e a creare un racconto più terreno, meno basato sui simbolismi e più sulle azioni. Discontinuità dovuta al cambio di sceneggiatore, la quale non intacca il racconto, il quale resta potente e fluido.
Racconto che pone al centro lo scontro tra le due protagoniste, Sarah e Abigail, che si confrontano per le attenzioni dell'oggetto del desiderio, ossia la regina Anna, ma anche per l'affermazione individuale nel caso di Abigail. Il ruolo di Sarah è ben presto delineato, ossia quello di ostacolo da abbattere, di nemesi da sconfiggere per ritrovare un proprio spazio.


Ma Abigail, almeno inizialmente, è sia carnefice che vittima. Così come lei intraprende un gioco di crudeltà con la cugina e rivale, è essa stessa vittima delle manipolazioni degli uomini, ossia di lord Harley e dell'ufficiale Masham, le uniche figure maschili della storia, incarnanti il potere politico e militare. Se Masham prova a carpirle l'amore, fisico e sentimentale, ritrovandosi ben presto sottomesso, Harley, d'altro canto, riuscirà nell'intento di trasformarla in una spia, anche se solo in parte. E proprio come con Sarah, lo scontro con quest'ultimo si consuma attraverso piccole cattiverie, gesti superficialmente innocui ma immensamente crudeli che umiliano la vittima prima ancora che causarle dolore fisico.


Lo scontro tra le due figure femminili, invece, è una corsa alla discesa sociale che poggia sulla distruzione dell'avversario. Se gli intenti di Sarah sono genuini (è innamorata della sua regina e al contempo preoccupata per le sorti della Guerra Anglo-Indiana), quelli di Abigail sono puramente egoistici, dettati dalla volontà della sua ascesa sociale. Da qui l'insinuazione, lenta e inesorabile, nel ruolo della rivale, sia come amica che come amante, che porta alla distruzione dell'avversaria.


La contrapposizione tra l'eleganza della cornice settecentesca e la decadenza della storia viene accentuata da una messa in scena impavida e originale. La ricostruzione d'epoca è eccellente, benché volutamente artificiosa: per la confezione degli abiti e delle parrucche sono stati usati materiali sintetici, che tolgono parte della fisicità ai costumi per trasformarli in freddi involucri nei quali i personaggi sono cinti. Visivamente, l'uso della luce naturale viene giustapposto a grandangoli mostruosi, spesso creati tramite l'abuso del fish-eye per distorcere le proporzioni degli ambienti, mentre i ralenty trasformano i personaggi in animali grotteschi. L'effetto è deliziosamente straniante e rispecchia perfettamente la deformazione umana e morale dei protagonisti, lasciando trasparire perfettamente la cattiveria della storia.


Lanthimos trova così un nuovo registro espressivo perfettamente calzante alla storia e uno stile originale per un racconto non nuovo, ma lo stesso graffiante.

lunedì 15 marzo 2021

I Care a Lot

di J Blakeson.

con: Rosamund Pike, Peter Dinklage, Eiza Gonzalez, Dianne Wiest, Chris Messina, Isaiah Whitlock Jr., Alicia Witt, Damian Young.

Inghilterra, Usa 2020


















---CONTIENE SPOILER---

E' davvero difficile parlare di "I Care a Lot" senza partire dal colpo di scena finale, quel colpo di oda che arriva a pochi istanti dai titoli di coda e sovverte quasi del tutto quanto si è visto sin dall'inizio. La morte di Marla, la protagonista e punto di vista principale della storia, pone tutti gli eventi sotto una luce diversa, almeno dal punto di vista del narratore. E quel narratore, J Blakeson, reduce dal disastroso "La Quinta Onda", tornando ad un cinema a misura di personaggi, dimostra una dimestichezza e una chiarezza di visione rimarchevoli.


Marla (Rosamund Pike) è una donna ambiziosa che ha avviato un businness porco ortodosso, ma redditizio: con la complicità di un medico corrotto e del direttore di una casa di cura privata, si fa nominare tutrice legale di anziani facoltosi, solo per farli ricoverare contro la loro volontà e spogliarli di tutti gli avere. Il gioco regge bene, finché non incappa nella sig.ra Peterson (Dianne West), la quale custodisce un segreto letale, agghindato con irresistibili diamanti pronti.



Marla è quella che un tempo si sarebbe definita "yuppie rampante", una donna dalla bussola morale saldamente ancorata sull'immoralità più pura. Tutto ciò che conosce e che vuole conoscere è il successo, la più piena affermazione individuale, sia materiale che "morale", sul prossimo. Una donna in grado di schiacciare tutto e tutti pur di ottenere il successo, che coincide con la ricchezza. Le sue vittime non sono che foto su di una parete, clienti che non sono altro che mucche da mungere sino all'ultima goccia. Il suo personaggio è una sorta di Gordon Gekko post 2000 o un Tony Montana che agisce sulla soglia della legalità; e se lei disumanizza il prossimo è perché ha già disumanizzato se stessa: persino la sua relazione con la fidanzata Fran (Eiza Gonzalez, splendida come sempre) sembra basata sulla sessualità prima che sull'amore; lei è, in tutto e per tutto, la leonessa che si proclama e che sta per incontrare la sua degna nemesi.


Il gangster Lunyov (interpretato con gusto dal sempre ottimo Peter Dinklage) altro non è se non una versione maschile di Marla, un uomo che è stato in grado di fare tutto pur di arrivare in cima, persino fingere la propria morte. Un re che ha però una fatale debolezza, ossia sua madre, caduta nelle grinfie dell'arpia bionda. Il suo scontro con Marla è inizialmente basato solo sullo "sgarro" di aver scelto la vittima sbagliata, ma ben presto si trasforma in un confronto tra predatori, un gioco al rialzo sul chi ha l'ultima parola nel manipolare e distruggere la vita altrui.


Marla e Lunyov altro non sono se due "corporations" che offrono un servizio e che ragionano sulla base del proprio interesse economico. Due tycoon ramparti il cui scontro finisce in quello che da un punto di vista sembrerebbe il più improbabile dei modi, ma da un punto di vista imprenditoriale è il più ovvio, ossia una fusione che porta alla crescita e all'arricchimento reciproco. Se all'inizio il loro ruolo di personificazione del capitalismo rampante era puramente metaforico, nel finale diviene letterale, trasformandoli in quel famoso 1% che domina, letteralmente, la società.
Tutto questo, ovviamente, sino al finale, dove il personaggio di Marla ritrova la sua umanità. Lei, l'invincibile, capace di sopravvivere ai tentativi di assassinio più complicati e di cadere sempre in piedi, lei che si credeva greater than life viene prosaicamente riportata ad una dimensione umana e materiale tramite la morte. Non una morte qualsiasi, né una morte connaturata al suo ruolo, bensì la rivalsa di una delle sue vittime comuni, un uomo qualunque, il quale nel prologo viene da lei umiliato per affermare il proprio status di donna forte e indipendente, di creatura libera da regole sociali o morali. Proprio quell'uomo comune, quella goccia in mezzo all'oceano del 99%, è, in ultima analisi, la sua vera nemesi, il vero castigo divino che discende per ricordarle che nessuno è davvero intoccabile e che i moderni Scarface sono comunque alla mercé di chi ne garantisce l'affermazione.


Blakeson tiene salde le redini della regia; se la storia sembrerebbe uscita dalla mente dei fratelli Coen, la messa in scena trova una sua fonte caratterizzante nell'uso moderno delle musiche al synth e dei colori innaturali, che restituiscono una dimensione disumana, quasi cibernetica, alla storia; giustapposizione semplicemente perfetta per un racconto disumano sulla disumanizzazione, il quale rende il tutto compatto oltre che incredibilmente riuscito.

martedì 9 marzo 2021

Flinch

di Cameron Van Hoy.

con: Daniel Zovatto, Tilda Cobham-Hervey, Cathy Moriarty, David Proval, Buddy Duress, Steven Bauer, Tom Segurra, Michael Drayer, Adam Lazarre-White, Raymond Lee.

Noir

Usa 2021















"Flinch", vocabolo di ardua traduzione; può essere adattato in  "sussultare" o "tirarsi indietro" o anche "desistere"; ed è di certo il primo significato che meglio si adatta al lavoro svolto da Cameron Van Hoy. La sua carriera, fino ad ora, è stata costellata da apparizioni come attore, di cui la più importante è stata nella serie tv di "Crash"; e qui, al suo esordio nel lungometraggio, si cimenta in un noir a metà strada tra il classico e il post-moderno, mostrando un gusto schietto per la narrativa di genere a muso duro.


Joey Doyle (Zovatto) è un killer prezzolato che agisce per conto di una famiglia mafiosa di Los Angeles per ripagare i debiti che suo padre ha contratto. Incaricato di uccidere il consigliere comunale Ed (Tom Segurra), viene sorpreso dalla di lui assistente, la giovane e bella Mia (Tilda Cobham-Hervey) e, invece di ucciderla, decide di risparmiale la vita; con un ostaggio in custodia forzata e il fiato dei mandanti sul collo, il giovane assassino deve trovare il modo di sopravvivere.


E la sopravvivenza è la chiave di "Flinch"; i due personaggi principali sono, in un modo o nell'altro, due sopravvissuti. Joey è nato in un sistema criminale, figlio di una famiglia tanto devota a Dio quanto al malaffare, mentre Mia, data la situazione, deve adattarsi per poterne uscire viva. Allo stesso modo la madre di Joey, interpretata da una magistrale Cathy Moriarty, cerca di trovare il suo posto in un mondo di violenza e, al contempo, di lasciare che questo intacchi il meno possibile suo figlio.
Il racconto che li vede protagonisti, invece, muta costantemente direzione, un colpo di scena alla volta, riuscendo sempre a sorprendere.


Quello che parte come un piccolo noir metropolitano, quasi un omaggio a "Le Samurai" di Melville per storia e contorno romantico, ben presto si trasforma in una sorta di "50 Sfumature di Grigio" votato al gangster movie, con la vittima legata al letto del killer e in balia delle sue non volute attenzioni. Ma da qui, quando oramai la direzione sembra tracciata, nuove svolte riescono a tenere sempre alta la tensione. Le uniche due costanti sono appunto i due protagonisti e il loro improbabile rapporto.


E Van Hoy riesce a destreggiarsi bene nei cambi e nelle svolte, dimostrando una forte curiosità verso il racconto il genere. Ad una storia "classica" contrappone uno stile secco nella messa in scena, ma accompagnato da una colonna sonora evocativa e d'antan. Le note del collettivo "Miami Nights 1984", con le loro scale synth, evocano un'atmosfera talmente onirica da divenire eterea, avvolgendo la storia in un'aura stilizzata, alla quale la fotografia accompagna colori caldi e neon. Lo stile è così un mix di tradizione e rielaborazione, omaggio sentito al cinema degli anni '80 solo nell'estetica, per questo genuinamente post-moderno nel suo rielaborare stile e estetica stessa per adattarle al noir classico.


Van Hoy riesce così a creare qualcosa di curioso, per quanto non originalissimo, un noir cosciente delle proprie radici e che trova una propria identità stilistico-estetica tutto sommato forte. Un esordio davvero notevole.

mercoledì 3 marzo 2021

La Città delle Donne

 
di Federico Fellini.

con: Marcello Mastroianni, Donatella Damiani, Anna Prucnal, Berenice Stegers, Jole Silvani, Ettore Manni, Fiammetta Baralla, Malisa Longo.

Italia, Francia 1980


















Sarebbe facile etichettare l'ultimo periodo produttivo di Fellini come "trascurabile". Facile, si, ma scorretto, perché tra produzioni meno riuscite ci sono altre più interessanti e persino all'interno del medesimo film i momenti malriusciti sono comunque inframezzati da trovate geniali. Il grande artista non ha semplicemente esaurito la sua verve, è solo prigioniero delle sue stesse visioni, il che lo porta a ripetersi o, peggio, ad arrivare a conclusioni, filosofiche più che filmiche, discutibili.
E' il caso, quest'ultimo, de "La Città delle Donne", fantasmagoria nella quale Fellini affronta i postumi dell'emancipazione femminile arrivando però a rifugiarsi nel passato per fuggire da un presente che non comprende.


La donna (per fortuna) non è più la creatura indifesa de "La Strada". Dopo anni di proteste, è riuscita a raggiungere un ruolo di spicco nella società e rivendica con forza la propria identità, sia essa sociale che sessuale. E come nel cinema di Marco Ferreri, sembra sia arrivato il momento per l'uomo di eclissarsi... forse.
Mastroianni torna come Snàporaz, nuovamente doppio di Fellini, ma che qui finisce, forse involontariamente, per incarnare quella visione dell'uomo medio alienata rispetto alla figura femminile. Snàporaz è (ancora) un seduttore, pronto a correre dietro alla prima avvenente femmina che incontra... solo per precipitare in un non-luogo (la "città delle donne" del titolo) abitato da amazzoni arrabbiate e stanche del loro ruolo subalterno rispetto all'uomo. E come in passato, Fellini spezza il racconto in episodi per concentrarsi su singoli aspetti e singole visioni; in tutto, ci sono tre macrosequenze nel film: quella della riunione delle femministe, l'arrivo a casa del dottor Katzone e il luna park finale.



La prima parte è anche la più interessante e riuscita. Fellini assiste qui alla presa di potere delle donne e, facendosi uomo comune, ne resta esterrefatto. La sua è una celebrazione di una forza ritrovata, di un'emancipazione totalizzante che porta al superamento del ruolo della donna come "oggetto casalingo", da cui la bella gag del "mostro" che violenta la casalinga. Quella delle donne, qui, è una ferocia acuita dagli anni di sottomissione e che ora trova uno sfogo integerrimo.
Il maschio resta spaventato e sottomesso dalla furia femminile e non può che assistere in silenzio al processo evolutivo. La paura è l'unica emozione che può provare e Fellini si diverte ad umiliare il proprio alter-ego di fronte alla sessualità espressa anche dalla più improbabile delle partner, nella scena, divertente e provocatoria, della matrona in motocicletta, che quasi violenta il povero protagonista.
C'è una forma di complicità verso queste donne che sgomitano per un proprio posto nel mondo, per questa nuova coscienza di genere che le guida e per la rappresentazione dell'emancipazione, con Snàporaz volutamente umiliato, rimesso in riga da quell'essere che lui ha sempre considerato come puro oggetto.



L'antro del Dottor Katzone (interpretato con trasporto da Ettore Manni, purtroppo deceduto durante le riprese) è un vero e proprio mausoleo alla mascolinità, un alcova ripiena di simboli falici (gli obelischi, i treni, la lampada) nella quale il padrone di casa è un ultimo esponente della razza dei seduttori; le sue conquiste sono ritratte come vittime, ricordate in un vero e proprio santuario dal quale emerge la moglie di Snàporaz, quella donna per la quale lui non sembra provare più nulla.
L'apice della carriera del seduttore (le sue 10 mila conquiste, appositamente festeggiate) è anche la sua conclusione: la "gestapo delle lesbiche" ne frustra l'attività "uccidendone" la virilità; l'uomo non può più reclamare il suo ruolo di conquistatore ora che la donna non è più oggetto. Ed è purtroppo a questo punto che la visione e la riflessione di Fellini si incagliano.



Nel perdersi tra i meandri dei sogni di Snàporaz, Fellini ricicla il suo stesso immaginario. Torna il circo, questa volta declinato come luna park e, soprattutto, il ricordo delle figure femminili del passato, gli episodi formativi, come la visita al bordello e la "prima volta, così come lo spaccato della mente di un personaggio che, nel nome e nei fatti, torna ad essere quello di "8 1/2". Il tutto sa di già visto e Fellini non riesce a dare al tutto né un nuovo significato, tanto meno un nuovo significante. Si assiste così ad una sfilata di luoghi comuni del cinema dell'autore, che si fanno così processione di ombre incapaci di incantare come una volta, data la loro natura di epigoni, di visioni riciclate senza più ispirazione.



Quel che è peggio, le visioni divengono forma di un pensiero retrograda. E' nell'ultimissima parte che Fellini sembra voler fare un passo indietro e cominciare a guardare di sbieco la "nuova donna"; se già nell'episodio ponte tra l'hotel e il castello di Katzone portava in scena le rovine di una gioventù sfemminilizzata, composta da valchirie drogate e anarchiche, in totale controtendenza alla donna intellettuale e liberal dell'incipit, nell'ultima parte il grande artista si rivela schiacciato dalla femminilità moderna, prova a rifugiarsi nel passato (il ricordo dei primi amori e persino un omaggio a Stanlio e Ollio, ombre di un cinema che fu), a perdersi tra le braccia di una forma femminile idealizzata, ossia la mongolfiera che ha le forme prosperose e provocanti di Donatella Damiani, solo per essere castigato dalla vera Damiani, ora terrorista che uccide la visione di sé.



Se ad una visione superficiale una tale metafora sembra voler esprimere la liberazione della donna dal cliché dell'oggetto sessuale, ad un'analisi più attenta ci si accorge di come Fellini veda il tutto con un occhio di rammarico, preferendo la Damiani come la "soubrettina" svestita che compare nei momenti più caldi delle visioni del suo protagonista. Passo indietro? Volontà di dar corpo ad una visione non propria, ma fortemente radicata nella mentalità italiana (non solo) dell'epoca? Dalle immagini non è dato discernere, tanto che alla fine la prima soluzione sembra anche la più azzeccata. Purtroppo.



La visione si fa quindi insostenibile, non si capisce che valore dare a questa fantasmagoria che ha il difetto peggiore di essere una reminiscenza sbiadita, persa nella pura contemplazione di se stessa e di un soggetto, quello femminile, nei confronti del quale non sa come porsi. La visione d'autore si perde, così, ineludibilmente e questa opera finisce con l'essere malriuscita e discutibile.
Ma non tutto, ovviamente, è da biasimare: laddove le visioni sono vecchie, la voglia con cui Fellini le porta in scena è sempre irrefrenabile, prova di come, in fondo, il suo talento non si sia ancora esaurito.

lunedì 1 marzo 2021

Sinistre Ossessioni

The Passion of Darkly Noon

di Philip Ridley.

con: Brendan Fraser, Ashley Judd, Viggo Mortensen, Grace Zabriskie, Loren Dean, Lou Myers, Kate Harper, Mel Cobb.

Inghilterra, Germania, Belgio 1995
















Negli anni '90, sembrava che Philip Ridley dovesse diventare un celebrato autore di drammi surreali. Il suo stile secco e la predilezione per storie di perdizione prive di speranza lo portarono agli onori delle cronache dapprima con il magnifico "Riflessi sulla Pelle" e in secondo luogo con questo "The Passion of Darkly Noon". Sfortunatamente, questa sua seconda fatica resterà a lungo il suo ultimo film e, ad oggi, dopo l'uscita del suo terzo lungometraggio, "Heartless", può tranquillamente essere considerato come il punto di non ritorno della sua riflessione narrativa ed estetica. Un dramma dirompente sull'attrazione, la frustrazione e il pregiudizio, impreziosito da un buon cast.


Da qualche parte, tra i monti del Nord America, Darkly Noon (Fraser) è un giovane che viene ritrovato a vagare tra i boschi in preda ad uno stato di shock e visibilmente ferito. Di lui si prende cura la bella e emancipata Callie (Ashley Judd), che vive isolata dal mondo nel bel mezzo di una foresta. Tra i due nasce subito una forte attrazione, finché non fa ritorno a casa il di lei compagno Clay (Viggo Mortensen).


Gli immensi campi di grano cedono il posto alle foreste lussureggianti, ma il mondo non è di certo diverso. Come nell'opera precedente, anche il mondo di "Darkly Noon" è un inferno in cui il male dilaga portando via con sé tutto. Il luogo di ritrovo dei personaggi è invece una sorta di purgatorio, un "mondo fuori dal mondo" nel quale sembrano riunirsi i dannati.
Tutti i personaggi sono reduci da una tragedia: Darkly è sopravvissuto a stento al linciaggio perpetrato ai danni della sua comunità di puritani da parte dei "normali"; Callie è anch'essa reduce da un passato misterioso, mentre la sua relazione con Clay ha distrutto la di lui famiglia, con la madre Roxy ancora assetata di vendetta. Su tutto vige una coltre mortifera, con le bare costruite da Clay e Darkly visibilmente a misura di bambino, come se l'intero mondo fosse stato colpito da una maledizione che lo 
sta erodendo pian piano.


Allo stesso modo, tutti i personaggi sono erosi dalla passione. Darkly, ovviamente, è quello che ne viene consumato di più. Stretto da un sentimento incontenibile, un'attrazione erotica mai provata prima che si scontra con la sua indole conservatrice, un super-io oramai totalmente assimilato a livello inconscio che lo porta a sublimare il desiderio nell'autoflagellazione, con il cilicio che diviene sfogo e castigo.
In modo uguale e al contempo diverso anche Callie vive la passione in modo totalizzante, senza però tirarsene indietro e, anzi, abbandonandosi ad essa, un ninfa dalla bellezza incredibilmente carnale, che la fa somigliare ad un'ammaliatrice. Il dramma che si è consumato con la famiglia di Clay ben potrebbe essere dovuto ad una violenza o alla seduzione, la storia potrebbe essere sia quella da lei raccontata, sia la versione opposta e complementare narrata da Roxy; il punto non è chi ha ragione, non è importante la valenza benefica o malefica della sua figura, lei è e resterà per tutta la storia l'incarnazione della tentazione. Una tentazione spontanea, che nasce da una visione della vita antitetica a quella, restrittiva e castrante, di chi la osserva.


Da qui un conflitto insanabile: ciò che non deve essere posseduto, deve essere distrutto. E con tale realizzazione, la sanità mentale viene definitivamente ingoiata in un turbine di pazzia. Ridley calca un po' troppo la mano su questo aspetto, tra apparizioni ectoplasmatiche ridondanti e una trasformazione finale che forse vorrebbe essere una versione deviata del castigo di "Apocaplypse Now" ma risulta sin troppo sopra le righe. Ben più riuscito, invece, l'epilogo, dove il fuoco, di nuovo elemento distruttivo per antonomasia, lascia alla fine spazio ad un nuovo ciclo di tragedia, in un cerchio eterno che cinge i personaggi e li costringe a ripetere i medesimi errori e a rivivere costantemente gli stessi orrori.



E la mano un po' troppo pesante è forse l'unico vero difetto di questo secondo exploit. Come regista, Ridley adopera ora un montaggio meno classico, più sincopato e fatto di dettagli espressivi, trovando un suo stile eccessivo e visionario. E "Darkly Noon" rappresenta, alla fin fine, la perfetta continuazione della sua poetica, un racconto sul male che non lascia tregua, né fiato.