lunedì 6 aprile 2020

Black Christmas

 di Sophia Takal.

con: Imogen Poots, Aleyse Shannon, Lily Donoghue, Brittany O'Grady, Cary Elwes, Caleb Eberhardt, Madeline Adams.

Thriller

Usa, Nuova Zelanda 2019















---CONTIENE SPOILER---

In principio fu "Black Christmas" di Bob Clark, piccolo thriller canadese che si rifaceva in parte ai Giallo Movies nostrani per creare quella formula che poi Carpenter avrebbe perfezionato sino a divenire lo Slasher. Un cult che si credeva perduto e che assume davvero tale status a seguito della sua riscoperta alla fine degli anni '90, quando viene nuovamente editato per il mercato home-video.
Il thriller di Clark vende talmente bene che nel 2006 spunta un primo remake, il quale non può certo dirsi riuscito, ma che azzecca quantomeno la formula di "belle ragazze perseguitate da un killer misterioso in un campus universitario durante le feste di Natale", oltre ad essere graziato da una bella fotografia.
Arriva per ultimo il secondo remake, che Jason Blum mette in cantiere con la sua solita formula di low-budget da poter vendere bene in tutto il mondo. Peccato che abbia commesso un errore fatale: affidare regia e sceneggiatura a Sophia Takal, regista politicamente impegnata alla quale il film di Clark, lo slasher e le "regole della tensione" non interessano neanche per sbaglio e che preferisce trasformare quello che doveva essere un film di genere con un sottotesto femminista in un pistolotto malriuscito e indigesto sul girl power.



Va innanzitutto ricordato come lo slasher sia e sia sempre stato il filone femminista per antonomasia, dove è la donna a distruggere il male incarnato in un uomo che usa un simbolo fallico per uccidere. Cosa che era chiara, su tutti, a Amy Jones e Rita Mae Brown, ferventi femministe che nel 1983 sfornano, per Roger Corman, il piccolo cult "Slumber Party Massacre", che con i suoi simbolismi e metafore riesce davvero ad essere un'apologia sulla forza femminile, pur restando sempre calato nei meccanismi del cinema di genere; non un capolavoro, sia chiaro, ma una pellicola onesta con lo spettatore che riusciva a trasmettere un messaggio femminista dirompente. Vien da chiedersi perché Blum non abbia deciso di rifare questo piuttosto che il cult di Clark e la risposta più probabile risiede nella vendibilità del titolo.



Come thriller, "Black Christmas" non funziona per niente. Ogni qual volta la Takal prova a costruire la tensione, lo fa in modo talmente blando e poco originale da divenire subito prevedibile, al punto di sfociare nel ridicolo involontario; i jump-scare sono tutti fuori luogo e usati quando manca la voglia di gestire il cliamx; e quando si arriva a saccheggiare la famosa scena dell'ospedale de "L'Esorcista III", si scade incontrovertibilmente nel tedioso. E non basta qualche inquadratura ispirata per salvare una regia che davvero non sa muoversi tra i meccanismi della tensione.




Ma, come accennato, alla Takal urge piuttosto creare un'apologia radical-femminista, quindi decide di rileggere la trama dell'originale in chiave progressista; nel mondo di questo nuovo "Black Christmas", tutti gli uomini che vivono normalmente la propria mascolinità sono dei mostri, stupratori e assassini assetati di sangue, per di più controllati dalla volontà di un vecchio e misogino patriarca; la trovata geniale è poi quella di battezzare la confraternita assassina come "DKO", perché la sottigliezza è per gli stupidi. Vien da ridere, poi, quando vengono introdotte delle figure maschili positive, giusto due: il primo, Landon, è un personaggio totalmente asessuato con un volto da povero sfigato, costantemente subordinato ai personaggi femminili; il secondo, Nate, ha una trasformazione in maschio demens dopo aver assaggiato la birra; che sia il luppolo la vera causa della degenerazione del cromosoma XY?




Le donne, dal canto loro, sono tutte belle, sante e intelligenti; il personaggio di Kris, la classica spalla afroamericana, è il perfetto modello di femminista odierna, che porta avanti la battaglia per far studiare all'università anche le opere di scrittori afroamericani, omosessuali, transgender e donne e poco importa se in passato la cultura fosse appannaggio della sola classe alto borghese o se non esistono scrittori afroamericani transgender degni di essere annoverati tra i classici: chiunque contraddica il suo modo di pensare è subito etichettato come retrogrado decerebrato. In una pellicola intelligente, questo personaggio verrebbe usato per smussare le pretese più futili e inconsistenti del progressismo da campus per creare una parabola intelligente su come aggiustare le storture ancora presenti in un modo in cui il multiculturalismo è divenuto una realtà urgente; qui, al contrario, è proprio il personaggio di Kris che serve per contraddire chiunque non condivida il pensiero ultra-liberal, il quale è sempre, categoricamente, il maschio bianco eterosessuale.




Il fondo, ad ogni modo, lo si tocca già nel primo atto, quando la protagonista Riley reagisce allo stupro subito cantando una canzoncina con le amiche dinanzi ai DKO; perché denunciare la cosa alle autorità, accusare formalmente il proprio assalitore dinanzi a giudice e giuria e vederlo condannato a 20 anni di galera è troppo poco, l'umiliazione di un gruppo di pupe in abiti sexy è decisamente una punizione più adeguata. Il che, tra l'altro, finisce per ricordare lo strafalcione fatto da Jennifer Kent.
Quando nel finale, la Takal porta in scena la vendetta delle vittime, il ridicolo trionfa, tra amazzoni che entrano in scena come in un film di Tarantino da discount e la donna che ha osato sottomettersi al fallo che viene tradita e eliminata in modo crudo, senza alcuna empatia da parte di chi racconta.




In un mondo ideale, questo "Black Christmas" sarebbe potuto non esistere; la Takal avrebbe diretto per Blum un nuovo remake di "Non violentate Jennifer", come era originariamente nei suoi piani e la storia di Riley e le sue compagne sarebbe stato un rape e revenge degno di questo nome, dove il peccato viene castigato in modo feroce eppure giusto. Purtroppo, ci è dovuto toccare questo finto thriller esangue, sbagliato e compiaciuto.
Un thriller solo nel nome che acquista una forma di valore come testimonianza dell'inconsistenza ed incoerenza di tanto femminismo da campus, professato da quelle figlie dell'alta borghesia americana troppo stupide e codarde per affrontare di petto i veri problemi che l'essere donna comporta nella società odierna, sopratutto in quei luoghi del mondo dove l'essere donna è ancora considerato sinonimo di subordinazione. Ma si sa, l'esasperazione autoreferenziale e polemica vende sempre meglio dell'intelligenza.

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