giovedì 28 maggio 2015

L'Angelo della Vendetta

Ms. 45

di Abel Ferrara.

con: Zoe Lund, Albert Sinkys, Darlene Suto, Helen McGara, Abel Ferrara,

Usa (1981)
















Con "Ms.45", suo terzo lungometraggio, Abel Ferrara raggiunge una prima, perfetta, sintesi tra exploitation ed esigenze d'autore; il contesto è sempre il cinema di intrattenimento metropolitano, che nel 1981 stava attraversando una fase calante, ormai prossimo al declino totale; e i punti di riferimento sono duplici: da un lato il successo de "Il Giustiziere della Notte" (1974), che ancora generava cloni ed epigoni; dall'altra la probabile visione di "Thriller- A Cruel Picture" (1973), vengeance movie che già presentava come protagonista una donna traumatizzata che si ribella ai suoi assalitori, la cui storia veniva declinata in chiave autoriale. Quello che Ferrara crea è un magnifico spaccato di un personaggio al limite, credibile ed empatico, ma verso la cui sete di vendetta l'autore volge uno sguardo lucidissimo e disincantato.


Thana (Zoe Lund) è una ragazza introversa, muta a causa di un trauma infantile; dopo aver subito un duplice stupro, decide di ribellarsi alla violenza e comincia ad uccidere tutte le figure maschili che le capitano a tiro.
"Ms.45" non è un semplice film sulla vendetta, nè sulla ribellione della donna, quanto un'esasperazione del tema della follia metropolitana che Ferrara aveva già portato in scena con "The Driller Killer" (1979). Teatro e vera protagonista è ancora New York, con le sue cacofonie insostenibili, le sue strade sporche, i suoi palazzi torreggianti e tutta la galleria di freaks che una metropoli possa offrire. Una città nella quale vivo lupi e agnelli, i primi con le fattezze del maschio, sempre alla ricerca di una vittima, l'altra con quelle della donna, scrutata dall'alto in basso.
Thana è la vittima per antonomasia della follia urbana: una ragazza docile, chiusa dentro uno sguardo vuoto ed impaurito, caratterizzata da una bellezza erotica ma fragile. Una donna vittima della violenza che grazie alla violenza sboccia, rinasce ad una nuova vita; una vita che le permette di affermarsi contro l'uomo, l'essere che l'ha sottomessa e che ora ne riceve il castigo.


Perchè quello di Thana non è una vendetta, quanto una punizione, una affermazione di sé stessa che trova nella cieca giustizia uno sfogo. La frenesia omicida si abbatte dapprima solo su personaggi viscidi, papponi violenti, gang di borseggiatori e sullo sceicco, il "ricco" che compra la donna al pari di chi ne ruba la virtù. Ben presto, la furia omicida diviene meno selettiva, arriva a castigare innocenti, si abbatte persino su personaggi in cerca dell'autodistruzione per sfociare infine nella distruzione indiscriminata, nell'omicidio, nella violenza più fine a sé stessa.


Quella di Thana è una discesa da un girone dell'Inferno ad un altro, nel quale il ruolo di carnefice coincide con la follia distruttiva: non c'è catarsi, non c'è salvezza: quella di Ferrara non è la visione di una giusta vendetta, ma la descrizione di una violenza che fagocita tutto quello che incontra, che riplasma le vite di vittime e carnefici solo per distruggerle definitivamente in un massacro totale, dove alla fine non c'è nessuna differenza tra le due categorie.


Il suo sguardo qui è più freddo, quasi distaccato, sia nella descrizione della Thana-vittima che in quella della sua versione carnefice, un "angelo della vendetta" che si presenta come un castigo divino autoproclamatosi tale; un angelo che usa la propria femminilità per adescare le sue vittime, che non prova rimorso, né piacere; un essere per la quale la morte è espressione di vita, che si traveste da suora per dispensare il suo verbo distruttivo, come a parodizzare la salvezza cristiana.
Ferrara non eccede, non carica di simbolismi il cammino di Thana, lascia che siano le sue azioni a parlare; e sopratutto ritrae la violenza in modo diretto, senza esasperazioni, quasi a volersi distaccare totalmente dall'iperrealismo americano degli anni '70. E la sua lucidità nel ritrarre la caduta della sua "eroina" è esemplare: un ritratto, quello di "Ms.45", senza veli di una follia insostenibile e per questo agghiacciante.

domenica 24 maggio 2015

Youth- La Giovinezza

Youth

di Paolo Sorrentino.

con: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda, Mark Kozelek, Robert Seethaler.

Drammatico

Italia, Inghilterra, Francia, Svizzera (2015)













"Youth" segna in un certo senso un punto d'approdo prevedibile per la carriera di Sorrentino, l'epilogo intravisto e mai sperato del suo modo di intendere la narrazione filmica: il trionfo della mera forma sul racconto.
L'attenzione estrema per la composizione dell'inquadratura, l'uso espressivo ed estetico delle luci e la creazione di sequenze oniriche e poetiche, i marchi di fabbrica del suo cinema che ne hanno giustamente sancito il successo e la riuscita, qui divengono compiaciuta masturbazione; le immagini non raccontano nulla, la loro estrema e sfavillante ricercatezza formale non è al servizio di niente se non del compiacimento estremo del loro creatore; il che, unito ad una narrazione essenziale e a tratti contraddittoria, porta alla creazione dell'esito peggiore del suo cinema.


Già ne "La Grande Bellezza" (2013), una forma di ispirazione verso il cinema di Fellini era ravvisabile; ma con "Youth" Sorrentino va oltre e riprende in pieno l'ambientazione termale e parte della caratterizzazione del protagonista da "8 e 1/2" (1963); Fred Ballinger altro non è se non una versione invecchiata del Guido Anselmi di Mastroianni, un uomo che si è lasciato alle spalle i momenti migliori della sua vita per sguazzare in uno stato di apatia perenne; un artista che rifugge la sua stessa arte per rifugiarsi nella frivolezza, nei piaceri semplici e nella quotidianità più bassa, come i discorsi sulle minzioni mattutine; un "vecchio" nel senso pieno del termine, la cui vitalità viene mostrata solo nei sogni; la performance trattenuta di Caine ben aiuta a dar vita al personaggio, ma non si capisce perchè debba assomigliare tanto a Gep Gambardella pur non avendone le caratteristiche emotive, tantomeno il volto di Toni Servillo; tant'è che è facile credere che la scelta dell'interprete sia dovuta a mere ragioni commerciali, per dare un tono "internazionale" all'operazione.
Il ruolo dell'autore vecchio ma ancora caparbio viene invece relegato alla sua ideale nemesi, il Mick Boyle di un redivivo Harvey Keitel, regista ottantenne ma ancora carico di voglia di esprimere la sua poetica, che insegue forsennatamente l'arte per poter cercare di creare un lasciato definitivo, un testamento in grado di sottolineare tutta la sua creazione precedente.


L'impostazione dei caratteri dei due protagonisti, per quanto derivativa, è efficace nel descrivere lo stato senile di chi dalla vita ha avuto tutto; due autori dalle esperienze complementari, ma non del tutto opposte, due amici e complici che si ritrovano non tanto a fare il punto di quanto prodotto, ma a convivere con i postumi delle loro creazioni: Bellinger ossessionato dal riconoscimento avuto solo per la sua opera meno ambiziosa, le "canzoni semplici" che tutto il populino, falsi intellettuali compresi, apprezzano ossessivamente, Boyle alle prese con la difficoltà di creare una summa del suo cinema, in particolare il finale perfetto della sua opera, che gli sfugge continuamente.
Altrettanto riuscito è lo sguardo verso il giovane artista Jimmy Tree, che Sorrentino e Paul Dano modellano idealmente su Johnny Depp e con il quale creano un affondo all'ossessione del pubblico moderno per la frivolezza del cinema mainstream; il "genocidio culturale" già perfettamente ritratto da Inarritu nello splendido "Birdman" (2014) ritorna nella forma di un attore schiacciato dal suo peggiore personaggio, che ritrova sé stesso grazie all'apprezzamento per la sua vera arte.


Decisamente meno riuscita è la caratterizzazione di tutti i personaggi secondari; è come se Sorrentino non riuscisse a creare caratteri che non siano iperbolici e stereotipati; i freaks che hanno fatto la fortuna del suo cinema oramai divorano ogni buon senso e buon gusto per imporsi come caricature poco credibili e ridicole; è il caso di Lena, la figlia di Bellinger, vero e proprio stereotipo della figlia alla ricerca di una figura paterna in ogni uomo, sia esso il figlio del migliore amico del padre che l'aitante istruttore di alpinismo; Lena è il perfetto stereotipo della donna fragile e petulante, in grado solo di lamentarsi e rinfacciare le mancanze delle figure maschili che la circondano.
Ancora peggio, i personaggi di contorno sono tutti rigorosamente basati sull'effetto scenico piuttosto che su una loro possibile funzione narrativa; non si capisce davvero a cosa serva la coppia di "muti" che Bellinger e Boyle si divertono a spiare, se non a creare sequenze ironiche; il marito di Lena è semplicemente un idiota, non una parodia di un uomo infantile, quanto una barzelletta utile solo a dare alla stessa una forma di rilevanza ulteriore rispetto a quella di semplice controparte del padre. Gli sceneggiatori di cui Boyle si attornia nel suo brainstorming perenne sono il peggior esempio di sarabanda di luoghi comuni mai apparsi in una pellicola d'autore: il gay insicuro, lo sfacciato, il radical chic, l'intellettualoide e la ragazza petulante, ossia tutti i "tipi" di mestieranti e pseudo-autori che si possano immaginare. E l'omaggio a Maradona, ridotto ad un pachiderma silenzioso chiuso nella gloria del passato, per quanto simpatico è fuori tempo massimo, semplice strizzatina d'occhio di un napoletano ad un mito del calcio partenopeo.


Sopratutto, Sorrentino non riesce a comunicare gli stati d'animo e i pensieri se non tramite dialoghi didascalici e verbosi; l'introduzione di Bellinger, il dialogo con l'emissario della regina, è probabilmente uno dei peggiori escamotage per dar vita ad un personaggio che si possano immagine, dove tutte le informazioni sul protagonista vengono sbattute in faccia allo spettatore per il gusto di togliersele davanti, privandosi così della possibilità di dare un significato alle immagini del quale sarà protagonista. I battibecchi con Boyle sono stanchi e le posizioni anti-intellettuali sono pretenziose e talvolta genuinamente false, foriere di una volontà iconoclasta fine a sé stessa sopratutto perchè priva di ogni contesto culturale di riferimento. L'unica sessione dialogica interessante è il confronto tra Keitel e la Fonda, vero e proprio combattimento tra due personaggi antitetici: un confronto serrato, volgare e acido, nel quale Sorrentino si diverte a distruggere i due personaggi per evidenziarne le mancanze.


E le immagini scorrono inesorabili ed inerti, visioni totalmente fini a sé stesse, ricercatissime nell'estetica e totalmente vuote nel significato. Sorrentino stavolta non si risparmia: esterni della campagna svizzera che non sfigurerebbero in una brochure turistica, mangiatori di fuoco che si riflettono sui vetri, massaggiatrici che giocano a danzare al ralenty, nudi gratuiti immersi in illuminazioni soffuse; la fotografia di Bigazzi con i suoi giochi di luce e colore viene gettata in faccia allo spettatore solo per dimostrarne il mestiere; la composizione delle inquadrature, persino nelle sequenze dialogiche, è talmente inutilmente barocca che sembra gridare "guardatemi!" in ogni fotogramma; i movimenti di macchina ricercatissimi sono tronfi; il principio dell'estetica per l'estetica viene abbracciato totalmente, tanto che sembra che al posto di Sorrentino in cabina di ragia ci sia un suo imitatore intento a creare una parodia.


Nemmeno la pura contraddittorietà viene risparmiata; il personaggio di Miss Universo, ossessione erotica presente sin dalle primissime scene, viene introdotto in modo intelligente, con uno scambio di battute con Jimmy Tree che ne distrugge lo stereotipo di "bella scema"; ma poi Sorrentino ci ripensa, regala il nudo integrale della carriera a Madalina Ghenea, che le ha permesso di conquistare le prime pagine di tutte le riviste di gossip, e ne disvela in toto la bellezza: una bellezza di plastica, con le labbra gonfiate e i seni rifatti; una bellezza che, nell'ambito del racconto, vorrebbe rappresentare quasi una forma salvifica per i due protagonisti, ma che a causa della sua falsità contraddice sé stessa, proprio come avveniva con la Ferilli ne "La Grande Bellezza".


Tra compiacimento urlato in faccia e narrazione claudicante, verrebbe voglia di far propri i dialoghi del film e chiedere a Sorrentino se tutt'oggi è felice; perchè, stando a quanto lascia dire i suoi personaggi, sono la felicità porta all'arte; e lui, tra acidità gratuita, piattezza narrativa e estetismo da videoclip, oramai non sembra più in grado di concepire una vera forma d'arte.

venerdì 22 maggio 2015

La Ragazza che sapeva Troppo

di Mario Bava.

con: Leticia Roman, John Saxon, Valentina Cortese, Titti Tomaiano, Luigi Bonos, Milo Quesada.

Thriller/Noir

Italia (1963)
















Dopo aver ri-creato da zero l'horror gotico, Mario Bava fa il suo ingresso nel thriller "classico" con "La Ragazza che sapeva Troppo"; titolo che ovviamente si riferisce al classico di Hitchcock "L'Uomo che sapeva Troppo" e che riprende dal maestro inglese la costruzione in crescendo e la canonica divisione in atti; ma quello di Bava non è un semplice omaggio, né puro manierismo, quanto un esperimento costruttivo e al contempo distruttivo del "genere", che viene ibridato con un registro ipoteticamente antitetico: la commedia.


Perchè se già Hitchcock sapeva come alleggerire la tensione con inserti brillanti, Bava va oltre e dissacra totalmente il thriller con una serie di elementi atti a smascherarne la finzione. Primo tra tutti, la caratterizzazione della protagonista Nora, ragazza cresciuta a pane e gialli, non proprio la classica biondina da salvare, ma vero e proprio segugio della domenica e motore della vicenda; la sua sensualità non viene mai celata, ma il ruolo di vittima le viene sottratto fin dall'inizio e destinato al personaggio di Marcello (un giovanissimo e mai più così espressivo John Saxon), a cui tocca divenire spalla, interesse amoroso e vera e propria vittima delle turbolente attitudini investigative della bella protagonista.


Le soluzione adottate da Nora per salvarsi dal killer sono degne della migliore parodia di Mel Brooks, così come il tono leggero che Bava infonde alla vicenda, che alla fin fine non ha nulla da invidiare a quello dei più famosi thriller anglofoni; anche perchè Bava sa quando premere il pedale della tensione per tenere lo spettatore incollato allo schermo ed evitare che l'ironia affossi ogni forma di coinvolgimento.
La tensione non latita, anzi: gran parte dei brividi sono dati, come al solito, alla splendida atmosfera che il maestro riesce a creare con la luce. La Roma de "La Ragazza che sapeva Troppo" vive di due estremi inconciliabili; da un lato la meta turistica agognata da milioni di americani, con i suoi monumenti da favola e il sole che scalda ogni suo singolo angolo; dall'altra la Roma notturna, che Bava trasforma in un vero e proprio castello degli orrori a cielo aperto, riprendendo i contrasti e i tagli propri del suo gotico.


Luci espressive che aumentano la sensazione onirica che Bava trasmette sin da metà del primo atto, dove il gioco tra sogno e realtà non viene mai davvero svelato; prima ancora che con Dario Argento, è grazie a lui se il thriller, da indagine oggettiva del canonico "whudunnit", si colora di suggestioni inedite e surreali, che riescono a tenere alto l'interesse nonostante l'ovvietà della risoluzione, intuibile già alla fine del primo atto. E proprio come farà più di dieci anni dopo Argento, Bava, già da ora, si diverte a giocare con la percezione dello spettatore insinuando un sottile dubbio su quanto effetivamente mostrato, se l'omicidio sia reale o solo frutto dello stress, mera visione priva di oggettività.


Esordio dissacrante e tutto sommato riuscito, ancora godibile nonostante l'età, "La Ragazza che sapeva Troppo" regala un'atmosfera interessante e dei personaggi simpatici; ma Bava riuscirà a fare molto di meglio con il thriller con i successivi "Sei Donne per l'Assassino" (1964) e con l'iconoclasta ed imprescindibile "Reazione a Catena" (1971).

martedì 19 maggio 2015

Parnassus- L'Uomo che voleva ingannare il Diavolo

The Inmmaginarium of Doctor Parnassus

di Terry Gilliam.

con: Christopher Plummer, Heath Ledger, Tom Waits, Lily Cole, Andrew Garfield, Verne Troyer, Johnny Depp, Jude Law, Colin Farrell.

Fantastico

Inghilterra, Canada, Francia (2009)












Sarebbe troppo semplice etichettare "Parnassus" come "film brutto"; sarebbe giusto, visto la sua completa malriuscita, il fiasco dei fiaschi che Gilliam raggiunge finalmente e dal quale sarà impossibile distaccarsi; ma sarebbe troppo duro nei confronti del suo autore, il quale può tranquillamente essere criticato per l'abuso di CGI e per la mancanza di ispirazione delle visioni, ma non certo per l'aver assemblato alla bene meglio il girato per dargli un senso lontano anni luce dal progetto originario, per l'aver cercato di imbastire una storia sicuramente fiacca, piatta e schizofrenica, ma che perlomeno riesce a raccontare qualcosa.
Perchè non può essere fatta una colpa a Gilliam se questa volta è stata la sciagura suprema ad abbattersi sul suo film: la morte del co-protagonista Heath Ledger, in origine motore della vicenda. Venuto meno il cuore del racconto, lasciato lo spazio solo al protagonista nominale interpretato da Christopher Plummer, ben poteva questo "Parnassus" restare una pellicola incompleta, uno "scarto" impossibile da portare a termine a causa della tragedia al pari di "Dark Blood", il tristemente famoso ultimo film di River Phoenix rimasto incompiuto a causa della sua dipartita.
Ma va dato merito a Gilliam di aver voluto, caparbiamente e cocciutamente, completare il film per regalare al mondo l'ultima performance dello sfortunato Ledger, attore da lui stesso rilanciato, amico personale e collega stimato; tanto che alla fine, nell'ultima inquadratura, arriva sinanche ad ammetterlo con quel "un film di Heath Ledger ed amici", statuizione di intenti che regala al film un senso vero, sotto sotto ricattatorio, ma che riesce comunque a redimerlo in parte.



Alla sua forma attuale, "Parnassus" altro non è se non la reiterazione di tutti i temi cari a Gilliam sin dal suo esordio: in un mondo privo di immaginazione, un uomo ormai vecchio e stanco viaggia di dove in dove per redimere le anime della gente comune con la forza della fantasia. Parnassus, in un certo senso, è l'ennesimo Barone Munchausen che cerca di salvare il mondo con le sue mirabolanti visioni; mentre Mr.Nick, il diavolo di Tom Waits, altro non è che il male più materiale, il vizio terreno che distrugge l'uomo. E in un mondo nel quale l'uomo si dedica quasi esclusivamente al vizio, alla fantasia non resta che dimorare negli anfratti più bui e dimenticati, sopravvivere nelle sue forme più essenziali ed antiche: il carro da imbonitore dell' "Immaginarium", vera e propria summa di un sense of wonder ormai divenuto reliquia.
A differenza di Munchausen o degli altri archetipi gilliamiani, Parnassus non è un personaggio totalmente positivo: è anch'egli sicuramente un codardo, uno sfruttatore che preferisce usare la scorciatoia della scommessa per giungere all'illuminazione, alla salvezza, piuttosto che applicarsi in una ricerca costante e sentita; una dualità che dovrebbe rispecchiarsi e controbilanciarsi in Tony (Ledger), suo ideale dopplegangher giovane. Ed è qui che il cortocircuito ha inizio.


Il cambio di sceneggiatura in corso d'opera ha stravolto totalmente il personaggio di Tony e le sue incarnazioni fantastiche, tanto che lo stesso arriva a cambiare di carattere di scena in scena; truffatore all'inizio, innamorato in cerca di redenzione a metà film, dannato nel finale, il suo non è un percorso costante e logico, quanto un'accozzaglia di fatti e situazioni ricucite alla bene e meglio che non funziona nonostante gli sforzi di Gilliam e dei tre attori chiamati a rimpiazzare Ledger; Depp appare in un semplice cameo che nulla aggiunge al personaggio, se non un monologo sull'immortalità data a coloro che sono morti giovani di cattivo gusto vista la sorte dell'attore; Jude Law si limita a prestare il suo fisico in una gag che ricorda le comiche di Benny Hill piuttosto che le strabilianti imprese dei Monty Python; più riuscita l'apparizione di Colin Farrell, l'ultima incarnazione del personaggio, che si abbandona anima e corpo nella catarsi.



La schizofrenia caratteriale ha un controaltare in quella estetica; Gilliam tenta sempre, costantemente di creare immagini evocative, ma le sue creature stavolta non stupiscono, non ammaliano, al pari dell' "Imaginarium" di Parnassuss, anche l'immaginario di Gilliam stavolta non stupisce, non cattura l'attenzione nè colpisce per forza visionaria, se non nell'ultimissima visione.



Quel che resta alla fine della fiera è solo la volontà di omaggiare un amico; intento anche condivisibile, ma il paradosso di fondo si rivela quando ci si rende conto che il grosso della performance di Ledger non è finito, purtroppo, su schermo: la sua interpretazione è fin troppo carica e gestuale, quasi caricaturale, fin troppo esagerata per essere convincente; tanto che conviene ricordarlo piuttosto per quella splendida prova di misura ed esagerazione che era il suo Joker in "The Dark Knight" (2008).
Paradosso che disvela ancora maggiormente la sua forza se si tiene conto di come le prove degli altri attori principali, compresa la semi-esordiente e bellissima Lily Cole, sono semplicemente perfette; e su tutti, a rubare la scena a Ledger, ci pensa lo sfortunato clown di Andrew Garfield, che già qui mostra il suo talento attoriale.


Se "Parnassus" non può essere considerato l'esito peggiore del cinema di Gilliam è solo a causa dell'esistenza di "The Brothers Grimm" (2005); e perlomeno, il disastro questa volta è in parte giustificato; resta lo stesso il rammarico per una pellicola che, forse, avrebbe avuto molto dire e che si configura, alla fin fine, come un semplice omaggio malriuscito.


lunedì 18 maggio 2015

Mad Max: Fury Road

di George Miller.

con: Tom Hardy, Charlize Theron, Hugh Keys-Byrne, Nicholas Hoult, Riley Keough, Josh Helman, Zoe Kravitz, Rosie Huntigton-Whitley, Megan Gale.

Azione/Fantascienza

Australia, Usa (2015)














Quando si pensa a film che hanno rivoluzionato il concetto stesso di messa in scena, la mente vola sempre verso il cinema d'autore; raramente ci si accorge o si realizza in pieno come spesso anche pellicole prive di ambizioni artistiche siano riuscite ad imporre nuovi modelli stilistici ed estetici volti a riformulare da capo la grammatica filmica; e "Mad Max" (1979) è uno di questi film: un B-Movie vero e proprio, prodotto con il solo scopo di intrattenere un pubblico non proprio acculturato nel modo più semplicistico possibile e senza alcuna effettiva velleità di sorta. Eppure, quello che gli spettatori del '79 si trovarono in sala non era il solito filmetto d'azione ben girato e coreografato, ma un nuovo modo di concepire il movimento su schermo.
Non per niente, "Mad Max" è uno degli ultimi esponenti del cinema di genere australiano, quell' "Ozploitation" celebrata nello splendido documentario "Not Quite Hollywood" (2008) che si impose sin dai primi anni '70 come efficace concorrente del genere americano ed italiano, con i suoi film chiassosi, volgari e violenti; un modo di intendere il cinema totalmente asservito al puro divertimento, all'intrattenimento più basso possibile, dove spesso a contenuti minimali si affiancava una messa in scena magistrale in grado di rendere anche le storie più stupide altamente interessanti.


Il suo creatore, George Miller, è un personaggio già di per sé abbastanza sui generis; regista lanciato dalla sua creatura ad Hollywood dove si dedica ad una serie di progetti che con l'action non hanno nulla a che vedere, come la commedia sulla guerra dei sessi "Le Streghe di Eastwick" (1987), il dramma umano "L'Olio di Lorenzo" (1992), la splendida favola "Babe- Maialino Coraggioso" (1995) e il suo dirompente sequel "Babe va in Città" (1998), sino a giungere al musical animato con i due "Happy Feet", che gli hanno permesso persino di conquistare un Oscar. Una carriera che definire eclettica sarebbe riduttivo, vista l'efficacia con cui ha saputo dirigere anche le sue opere meno riuscite.
Ma il suo nome resterà indelebilmente legato alla saga di Mad Max e al modo in cui ha saputo gestire già all'interno della stessa influenze, registri ed archetipi totalmente differenti tra loro per creare tre film collegati solo dal protagonista, il quale a sua volta cambia il proprio ruolo in ogni pellicola.
Miller comincia a sviluppare l'idea del primo film a soli vent'anni, mentre lavora come medico in un ospedale vicino ad una delle highways australiane; ogni giorno il giovane George aveva a che fare con feriti e morti dovuti ad incidenti stradali; la passione dei giovani australiani per le auto truccate e la vastità degli spazi erano un binomio letale, che portava in quegli anni ad un tasso di crescita incontrollato di tragedie sul bollente asfalto.
Scioccato da una tale esperienza e fortemente ispirato dai vengeance movies americani, in particolare dal cultissimo "Il Giustiziere della Notte" (1974), Miller scrive di suo pugno la sceneggiatura e grazie ai fondi pubblici riesce a mettere su una produzione piccolissima, ma che gli permette di avere il pieno controllo sul prodotto e sopratutto la piena libertà di sperimentare. Al bando misure di sicurezza ed in sfregio ad ogni forma di censura, Miller gira inseguimenti mozzafiato con stuntman ed esplosioni tutti rigorosamente reali, mostra la violenza distruttiva delle deflagrazioni e dei capitomboli senza filtri, rischiando spesso di uccidersi o far morire parte del cast; ma il risultato è a dir poco eccezionale.


Auto e moto divengono protagoniste assolute di tutte le sequenze d'azione, corpi in perenne movimento che si inseguono, si scontrano, esplodono e si sfasciano di continuo; la distruzione del veicolo si fa violenza, la lamiera distrugge la carne dei personaggi, ne divora la statura e diviene tessuto vivente che si sostituisce ai personaggi per rubarne lo schermo; gli attori vengono rimpiazzati dai veicoli, i personaggi non hanno motivo d'essere una volta scesi dalle cavalcature, vere e proprie protesi meccaniche che ne definiscono ruoli e forza; tanto che ogni qual volta se ne separano, fanno una brutta fine.
E nel portare in scena il massacro, Miller si rifà alla canonica scuola australiana, imponendo al contempo uno stile ancora più cinetico e spettacolare; ogni inquadratura esterna alla corsa viene bandita: la macchina da presa è sempre ancorata ai mezzi e vi si stacca solo quando questi vengono distrutti; l'occhio dello spettatore si avvicina a ruote e lamiere in un gioco quasi sensuale per accarezzarne la sostanza, mai stata così viva su schermo grazie ad un uso maniacale dei grandangoli e delle panoramiche; e al contempo, corre a più non posso assieme ai personaggi: per restituire la sensazione di velocità, Miller arriva persino ad usare la camera a mano su di una vera motocicletta lanciata a 120 Km/h; e quando lo stesso personaggio viene ucciso, lo stunt è tra i più disturbanti apparsi su schermo: la motocicletta gli si schianta sul collo dinanzi ai nostri occhi, con il movimento enfatizzato dal ralenty.


La violenza raggiunge così un limite quasi insostenibile; il mondo del primo "Mad Max" non è ancora la landa post-apocalittica che viene comunemente associata alla serie, ma un futuro che è mera iperbole del presente, dove le strade sono invase da punk motorizzati che gioiscono nell'uccidere e da poliziotti rudi e violenti quanto i loro avversari; lo stesso Max viene introdotto come una figura distruttiva, uno sbirro taciturno e violento che non appare se non alla fine del primo inseguimento, dopo aver ucciso il temibile Night Rider costringendolo a schiantarsi; e una volta rivelatosi, lo spettatore non può che restare incredulo dinanzi alla sua figura: il temibile "bronzo" non è un truce e sfatto sceriffo alla John Wayne e non ha la faccia da duro di Charles Bronson; è un giovane uomo, ancora ventenne, con il volto di Mel Gibson.
Un uomo, Max, circondato dalla violenza e che usa la violenza come unico metodo possibile per salvare sé stesso e i suoi cari. Ma la violenza delle highways, della famosa "anarchy road" che vede gli scontri tra le Interceptors della polizia e le moto delle gang, non lascia spazio a nessuno; per vendicare l'uccisione del loro amico, il compagni del Night Rider, guidati dall'irsuto e animalesco Toecutter (Hugh Keys-Byrne), uccidono il migliore amico di Max e lo costringono a confrontarsi con sé stesso e i proprio limiti, fino alla decisione di abbandonare il corpo di polizia per restare accanto ai suoi cari. Decisione che lo porterà a perderli: nel mondo di Max la violenza e l'assassinio gratuito sono le sole regole, non ci sono eroi, né pace, solo vittime e carnefici; "Mad Max" cambia così pelle a metà film esatta e si trasforma in un film di vendetta; una vendetta turpe, violenta sino ai limiti del parossistico, ma mai compiaciuta.


La vendetta di Max, reso folle dalla violenza, non è giustizia, ma semplice castigo; un castigo che si fa via via più sadico man mano che i membri della gang di Toecutter vengono eliminati; un castigo irrogato con la meno ortodossa delle armi: l'automobile, il simbolo stesso di virilità che qui diviene sinonimo di morte; la bellissima V8 Interceptor (in realtà una Ford XB Falcon Coupe, tra le muscle car più ricercate al mondo) è la spada di Damocle di Max, con la quale decima tutti i barbari sino al climax più cattivo e sadico della storia del cinema, un omicidio, quello dell'imbelle Johnny the Boy, citato da decine di altri film (tra i quali il primo "Saw", per ammissione dello stesso regista James Wan), ma che ancora oggi è in grado di spiazzare per la crudezza con il quale viene architettato; e sopratutto a causa della performance stoica di Gibson.
Ma la vendetta di Max non viene celebrata come la riscossa del giusto: nell'ultimissima inquadratura, Miller lascia che siano gli occhi di Gibson a parlare, a farci comprendere come Max non abbia più uno scopo, come la violenza lo abbia privato di tutto e non gli abbia dato nulla, se non l'amarezza e la solitudine.


Successo di critica e pubblico in tutto il mondo, "Mad Max" portò alla ribalta non solo il nome di Mel Gibson ma dello stesso Miller, il quale decide tuttavia di restare a Melbourne per creare un nuovo film con protagonista il suo antieroe; non un semplice sequel, ma un'avventura del tutto nuova che ha come unico collegamento con il precedente film solo Max e il suo interprete.
"Mad Max 2" (1981) è la più grossa produzione australiana dell'epoca: ben 2 milioni di dollari che permettono a Miller e soci di girare l'intero film in costume, aumentare il tasso di spettacolarità degli inseguimenti ed ambientare il tutto totalmente nell'Outback. "The Road Warrior" (così ribattezzato in occidente) si impone come uno dei film più spettacolari di sempre e sopratutto come un manifesto di estetica, in grado di creare un look post-atomico imitatissimo.


Abbandonato il setting vagamente futuristico, Max si aggira ora in una terra desolata, sconvolta dalla guerra nucleare; nei postumi della distruzione, si aggirano ancora due categorie di persone: vittime e carnefici; quello di "Mad Max 2" è un west del futuro, dove al posto dell'oro è la benzina a rappresentare il bene conteso dalle due fazioni in lotta: da un lato la tribù bianca, arroccata attorno all'ultima pompa di petrolio in funzione; dall'altro gli Humungus, i selvaggi, residui della civiltà imbarbarita, punk che ora spadroneggiano guidati dal possente Lord Humungus, gigante muscoloso che parla con un accento simile a quello di Johnny Rotten.


Max si ritrova incastrato in una guerra tra fazioni, cambiando nuovamente caratterizzazione: ora è una versione post-apocalittica del pistolero senza nome di "Per un Pugno di Dollari" (1964), un uomo senza ideali, un solitario che viene dal nulla, muta gli equilibri di una comunità e poi ritorna nel nulla; un uomo non più folle, ma disilluso, che combatte solo per sé stesso finchè tutto quello che ha gli viene tolto; solo allora riscopre una forma di senso del dovere e decide di aiutare davvero i suoi compagni.
E Miller si rifà proprio a Leone per la messa in scena del suo western post-atomico: dialoghi ridotti all'osso per lasciare che siano le sole immagini ad essere protagoniste, con gli immensi spazi dell'Outback ad avvolgere personaggi e mezzi; e come colonna sonora, utilizza i rombi dei motori, ruggiti animaleschi che accompagnano le immagini per risaltarne il lato selvaggio. Nel finale, filma uno degli inseguimenti più spettacolari di sempre, un vero e proprio capolavoro di immagini montate in sequenza senza mai una sbavatura o un'inquadratura di troppo. Una rievocazione del classico assalto alla diligenza incredibile per tempistica, dove carni e lamiere si mischiano alla polvere in un crescendo di violenza e adrenalina unico.
L'estetica di "Mad Max 2" parte dallo spaghetti western per creare qualcosa di nuovo e mai visto prima; l'universo post-apocalittico viene immaginato come uno scarto del presente, un crogiolo nel quale i sopravvissuti si vestono con protezioni sportive usate come armature ed abiti di pelle semidistrutti come divise; il costume di Max verrà immediatamente copiato nella serie manga e anime di "Hokuto no Ken", così come il setting in generale, per poi essere ripreso in infiniti altri film ed opere multimediali. L'intuizione più stravagante e più azzeccata è però quella di dipingere il dopo-bomba come una terra di disperati dove i punks sono i nuovi barbari, gli indiani che assediano il fortino degli eroi, un incubo per i benpensanti che si ritrovano assediati dalla parte peggiore della società borghese promossa a perfetto predatore.


Superato persino il successo del primo capitolo, Miller sbarca ad Hollywood dove viene accolto a braccia aperte da Spielberg e soci per dirigere uno degli episodi dell'antologia "Ai Confini della Realtà" (1983).
Eppure l'ombra di Max e del suo mondo polveroso non gli lasciano scampo; appena due anni dopo è di nuovo nella natia Australia, dove forte di un budget ancora più elevato crea quello che sarebbe dovuto essere l'ultimo capitolo delle avventure del guerriero post-atomico: "Mad Max Beyond Thunderdome".


Capitolo minore nella serie, non tanto per la carica spettacolare, quanto per le incertezze stilistiche e narrative. In "Beyond Thunderdome" il west post-apocalittico lascia spazio ad una nuova civiltà, una sorta di Medioevo venturo dove le città sono governate da tiranni spietati ed egocentrici piuttosto che da selvaggi capi tribù.
Ritrovatosi a vagare senza un mezzo, Max si imbatte nella città di Bartertown, governata dalla regina Aunty Entity (un'affiatatissima Tina Turner, che per il film compone e canta la hit "We don't need another hero"), la quale lo coarta ad uccidere Master-Blaster, essere composto da due persone: Master, un nano che comanda il sottosuolo della città, dove viene prodotta l'energia a metano che le permette di funzionare, e il gigantesco Blaster, la sua guardia del corpo.
Miller dirige con mano sicura lo spettacolare duello nel Thunderdome, e il suo gusto per le inquadrature qui si fa ancora più raffinato e ricercato; ma a metà film decide di rallentare il ritmo concedendo troppo spazio alla mitologia della tribù di bambini; Max dovrebbe rivestirsi di una carica messianica e sovversiva, ma Miller non enfatizza tale lato, lasciando che il suo antieroe resti ancorato all'archetipo leoniano; la carica violenta ed anarchica viene annullata, tanto che a tratti sembra di vedere un Mad Max concepito e diretto da Spielberg piuttosto che dal creatore del truce film del 1979 alle prese con una rievocazione de "Il Signore delle Mosche".
Perso il fascino che lo contraddistingueva, "Beyond Thunderdome" non ha la forza espressiva e visionaria del suo predecessore, ma riesce comunque a stupire per la spettacolarità degli stunt, ancora oggi notevoli, anche se non ai livelli dei precedenti film.


Il progetto di "Fury Road" entra in cantiere ufficialmente nel 2004, con Mel Gibson di nuovo in sella come protagonista e Miller di nuovo pronto a ridare al suo mondo il fascino che aveva perduto. Sfortunatamente, una serie di sciagure degne di Terry Gilliam si abbatte sul progetto sin dal suo primo giorno di lavorazione; tra tutte, la più clamorosa fu il lungo inverno che trasformò gran parte dell'Outback in uno splendido giardino in fiore, location decisamente fuori luogo per le scorribande dei barbari del futuro.
"Fury Road"si trascina così per 11 anni, perde il suo protagonista storico, scartato perchè ormai troppo vecchio per essere credibile come eroe d'azione, ed esce esattamente 30 anni dopo "Beyond Thunderdome"; lunga attesa ripagata in toto.



"Fury Road" è un tornado, una tempesta che distrugge tutto ciò che incontra e ricrea da capo l'action con i rottami del passato.
Miller riprende l'inseguimento finale di "Mad Max 2" e lo espande per tutta la durata del film: un lungo, incredibile, feroce inseguimento che dura 120 minuti. Due ore durante le quali lo spettatore, al pari dei personaggi, viene risucchiato in un vortice ipercinetico fatto di azione e violenza, di colpi inferti e ricevuti, di veicoli che capitombolano, di corpi umani e meccanici che si fondono in una danza di morte magistralmente architettata ed eseguita, quasi una sinfonia di lamiere e carne in movimento.



Come il Kinji Fukasaku di "Blackmail is My Life" (1968), Miller estremizza il concetto stesso di velocità e di ritmo applicato alla narrazione; ogni scena è rapida, ipercinetica, quasi schizofrenica, furiosa come il titolo, ma mai sciatta; sin dal prologo, ogni azione, gesto, carattere dello sparuto gruppo di personaggi ed aspetto del mondo viene mostrato mediante movimenti di macchina o sequenze action; l'intera narrazione filmica viene ripensata in virtù del suo effetto spettacolare; persino i dialoghi servono a dare ritmo.
Ritmo che per le due ore non cala mai se non per brevissimo tempo, giusto per lasciare i personaggi e lo spettatore a riprendere il fiato, salvo poi ripartire in quinta verso un nuovo tratto del viaggio, una nuova parte dell'inseguimento, una nuova sequenza adrenalinica.
E nell'imbastire la furia di Max e soci, Miller gioca sempre pesantemente al rilancio, trovando sempre nuove soluzioni narrative per vivacizzare gli scontri, tra trampoli usati per abbordare i veicoli, amazzoni agguerrite, NOS sputato direttamente nella presa d'aria del motore e kamikaze folli ogni scena non è mai uguale alla precedente o alla successiva, ognuna vive di luce propria grazie ad un unico tratto distintivo.


Ed in barba alla scarnificazione stilistica degli odierni drammi post-apocalittici quali "The Rover" (2014) e "The Road" (2009), Miller crea il capitolo più visionario della sua saga; ogni aspetto del mondo di "Fury Road" è vivo, credibile e gronda di una creatività inusuale; i bolidi, non più accozzaglie di lamiere e motori, qui divengono mostri mutanti con V8 che crescono come tumori impazziti; i personaggi si dividono in classi, come le amazzoni o i "figli di guerra", ognuna contraddistinta da un'estetica propria ed originale; le tribù sono caratterizzate da tratti salienti e distintivi, come i proiettili di Bullet Town o il NOS il Gas Town; e su tutto, trionfa la ricostruzione del regno di Immortan Joe (Hugh Keyes-Byrne, l'ex Toecutter redivivo), nuovo eden comandato da un tiranno spaventoso, un patriarca sfatto e folle, ossessionato dall'eugenetica.


A contrastarlo troviamo un Max mai così simile a sé stesso, eppure distante anni luce dalle precedenti incarnazioni; sempre fisso sull'archetipo leoniano del pistolero senza nome e senza onore, ora acquista una forma di caratterizzazione psicologica grazie ai fantasmi del passato che lo tormentano e alla volontà di redenzione che lo attanaglia; e Tom Hardy, con il suo volto duro e lo sguardo espressivo si rivela una scelta felice per il nuovo Guerriero della Strada.
Max che è qui figura quasi ancillare nello schema della cose, affiancandosi a quella che è la vera protagonista del film, l'imperatrice Furiosa della bellissima Charlize Theron, nuova incarnazione della "donna macho" di weaveriana memoria, anch'essa declinata in chiave western, esprimendosi con pochissime parole e molti sguardi; Furiosa è l'emblema della società matriarcale generatrice di vita oppressa dal violento mascolino che riprende il suo posto di gerarca; per la prima volta, la fuga dei superstiti verso la terra promessa si infrange: non esiste più un Eden, un mare azzurro a cui fare ritorno; l'unico Eden è quello creato dall'uomo per sfruttare l'uomo e che nell'atto di ribellione viene sottratto al tiranno.
Riconquista del paradiso da parte della genitrice che non avviene tramite la mera contrapposizione uomo-donna, ma dalla collaborazione tra i due sessi: la riuscita del piano di fuga e ritorno si deve a Max e al figlio-di-guerra Nux, in un superamento del mero femminismo.
Al di là di eroi e tiranni, esistono solo carnefici, non più vittime, solo guerrieri e folli; la pazzia di Max si è estesa definitivamente a tutto e a tutti come la malattia che attanaglia i figli-di-guerra; coloro che sono sopravvissuti alle barbarie del dopo-bomba ora sono solo i forti o i folli, non più vittime, non più carnefici, solo una nuova umanità fatta da demagoghi, sottoposti e ribelli.


Un'universo, quello di "Fury Road", che Miller ricostruisce nel suo abituale Outback e che espande grazie ad un uso sapiente della Computer Graphic, qui usata solo come correttivo. La color correction digitale satura i colori oltre ogni limite per far risaltare i contrasti dell'azzurro e oro del deserto con il grigio degli interni dei bolidi, o per ricreare l'incredibile sequenza della tempesta di sabbia, vero e proprio trip allucinogeno in pieno deserto, una visione nella visione dal fascino incredibile.
Tutto il resto lo fanno gli stunt reali, veri ai limiti del tangibile nonostante la correzione in post; stunt dove l'automobile è di nuovo, prepotentemente al centro dell'inquadratura ed il montaggio non ne martoria la coreografia, ma anzi ne esalta la velocità



Veloce, furioso, folle, "Fury Road" è uno schiaffo in piena faccia al bulimico eppure piatto action moderno; un'esperienza sensoriale spiazzante, forse anche sfiancante vista la durata ai limiti dell'eccessivo, eppure strabiliante; la zampata di un leone che con 36 anni di onorata carriera alle spalle, assente dal genere da 30, può dirsi ancora giovane, capace e sorprendente.

mercoledì 6 maggio 2015

The Driller Killer

di Abel Ferrara.

con: Abel Ferrara, Carolyn Marz, Baybi Day, Harry Schultz, Alan Wynroth.

Usa (1979)



















Abel Ferrara non è sicuramente un nome noto presso il grande pubblico; non può vantare la fama di altri grandi registi italoamericani newyorkesi del calibro di Francis Ford Coppola o Martin Scorsese, tantomeno lo status di regista di culto vero e proprio, vista la complessità di molte sue opere.
Tuttavia, è proprio Ferrara a rappresentare l'ideale continuazione del cinema della New Wave americana che ha visto come protagonisti gli autori piuttosto che le star o le case di produzione; quell'idea di cinema come opera strettamente autoriale, volta a convogliare idee del tutto proprie o declinare in modo originale generi e stilemi che era già radicata ad Hollywood quando Ferrara muoveva i suoi primi passi nel cinema. Idea che non lo ha mai abbandonato ed anzi è cresciuta sempre più voracemente nel suo modo di fare di cinema.
Tanto che a differenza degli altri grandi autori americani, Ferrara non si è mai davvero avvicinato alle grandi produzioni, ai grandi budget e grandi set; si è anzi sempre mosso nel sottobosco del cinema indipendente, imponendosi come il perfetto cantore di un modo di fare cinema piccolo solo nei numeri, la cui estrema libertà da restrizioni gli ha sempre permesso di creare opere vive, tra le quali spiccano alcuni immensi capolavori malauguratamente poco conosciuti.


Nato nel Bronx, Ferrara cresce in una famiglia di immigrati di seconda generazione fortemente orgogliosa delle sue origini italiane, dalla quale eredita la fascinazione per il concetto di "radici" che esplorerà in parte della sua filmografia; sopratutto, eredita i crismi della religione cattolica, che saranno al centro di buona parte della sua produzione, anche grazie alla collaborazione con Nicholas St.John, all'anagrafe Nicodemo Oliviero, anch'egli figlio di immigrati ed ex seminarista che scriverà di suo pugno alcuni dei lavori più interessanti di Ferrara.
Potrebbe quindi stupire il fatto che due personaggi del genere, nati e cresciuti in ambienti conservatori, esordiscano nel cinema exploitation, in particolare nel porno, con il mitico "9 Lives of a Wet Pussy" (1976), facilmente interpretabile come un atto di rifiuto verso tutto ciò che li ha forgiati.
In realtà il quadro dell'epoca era più complesso; la situazione produttiva della New York della fine degli anni '70 era basata quasi unicamente su pellicole di basso rango e largo consumo, tra i quali la pornografia altro non era se non un "genere" non diverso dagli altri; ben potevano, quindi, cineasti in erba prestarsi, sotto falso nome, a produzioni del genere per ottenere fondi e credito per lavori più personali.
Ferrara e St.John colgono la palla al balzo e usano i proventi, economici e non, del loro esordio per confezionare successivamente un piccolo film, ascrivibile anch'esso all'explitation più pura visto l'alto tasso di violenza grafica; una pellicola di genere nel quale i due immettono una seria riflessione riuscita sulle nevrosi urbane: "The Driller Killer"


Il termine di paragone ideale, ma al contempo fuorviante, per il lavoro di Ferrara è "Taxi Driver" (1976); in entrambi un cineasta newyorkese racconta una lenta discesa nello follia di un personaggio borderline e per entrambi la New York notturna è un vero e proprio girone dantesco percorso da anime in pena; e l'influenza del capolavoro di Scorsese si disvela quando Ferrara arriva a citarlo esplicitamente nella scena in cui Reno, da lui stesso interpretato, minaccia un suo dipinto con un coltello chiedendogli "se sta parlando con lui".
In realtà Ferrara si distacca dal modello di riferimento per due motivi essenziali della sua visione; l'odissea di Travis Bickle veniva osservata da Scorsese con un certo distacco ed una forte lucidità, mediante uno stile visivo fortemente debitore dei canoni della Nouvelle Vague francese, per quanto reinterpretati in modo personale; quello di Scorsese, inoltre, è uno sguardo laico, totalmente scevro da considerazioni metafisiche o filosofiche, fortemente calato invece nel contesto socio-politico dell'America degli anni '70.
Ferrara, all'opposto, apre "The Driller Killer" con una scena che, idealmente, descrive quello che sarà il suo stile per tutta la sua filmografia; Reno entra in una chiesa, cammina in silenzio lungo la navata, avvolto in una luce irreale, immerso in un'atmosfera cupa ed onirica; un uomo che prega per i peccati che ha commesso lo ha chiamato, ma lui corre via mentre è visibile una scritta che recita "coloro che pregano lo fanno sempre per qualcosa"; il tono è definito: Ferrara riprende il punto di vista del suo personaggio totalmente, dà vita alla sua angoscia ed al suo tormento in prima persona.


La città di "The Driller Killer" è un coacervo di violenza e follia e il suo protagonista ne è la vittima e l'incarnazione. Reno si allontana nella prima scena da Dio e dalla carità, si rifugia in sé stesso, in un mondo fatto di sesso ed arte, ma privo di vera ispirazione o di bellezza. Un mondo grigio, popolato da punks sfatti, infestato da rumori insostenibili che ne spappolano il cervello e percorso da una vena di violenza che si fa strada nella sua psiche per sedimentarsi a poco a poco; una violenza gratuita. sia essa esercitata su animali che su persone lasciate morire in strada sotto gli occhi di tutti.
E la violenza è l'unica risposta di Reno al male che lo affligge, alla paranoia senza volta e al malessere quotidiano; una violenza carnale, brutale, che ha la forma del trapano, un oggetto quotidiano trasformato in arma mortale; una violenza del tutto autoreferenziale, non votata al castigo, ma allo sfogo: le sue vittime sono innocenti, barboni, sia gli ultimi tra gli ultimi; una violenza gratuita, priva di catarsi alcuna persino nel climax.


La descrizione di Reno e della follia metropolitana vengono portati in scena in modo vivido ed efficace, con uno stile lercio, sporco e cupo, fatto di camera a mano e pellicola 16mm. Meno riuscito è lo script di St.John, troppo acerbo nella descrizione dei personaggi secondari e nell'intrecciare le sottotrame.
L'intuizione dei due autori è però vincente: creare un film d'autore per il tramite dell'exploitation più pura, con violenza grafica esplicita, visioni viscerali degne di Dario Argento e sequenze softcore d'antan che non rubano mai la scena alla descrizione della psicosi del protagonista. Un "esordio effettivo", quello dei due autori, che ha in nuce già tutti gli elementi che ne faranno la fortuna, anche se non ancora pienamente maturi.




EXTRA

Censurato e bandito un pò in tutta Europa a causa delle sequenze di violenza esplicita, "The Driller Killer" ebbe una sorte del tutto particolare nell'Inghilterra puritana dei primi anni '80.
Distribuito in VHS con una copertina a dir poco di cattivo gusto, il film di Ferrara, assieme a "La Casa" (1981) di Raimi e agli horror di Lucio Fulci, scioccò i benpensanti al punto che il Department of Public Prosecutions dovette intervenire con un provvedimento ad hoc; nel 1984 fu emanato il famoso "Obscene Publications Act". legge che proibiva o limitava la distribuzione di opere dal contenuto violento o pornografico, rimasta in vigore sino al 2001.
La legge portò alla redazionee di una lista di 39 film la cui pubblicazione era perseguibile penalmente; i 39 titoli presero il nome di "video nasties", ossia "video osceni", e cominciarono a circolare in via illecita su tutto il territorio inglese a causa della reputazione fattasi, che li permise di assurgere allo status di cult a prescindere dal loro contenuto.



sabato 2 maggio 2015

La Maschera del Demonio

  di Mario Bava.

con: Barbara Steele, John Richardson, Andrea Checchi, Ivo Garrani, Arturo Dominici, Enrico Olivieri.

Horror/Gotico

Italia (1960)
















Di quella enorme fucina di idee che fu in il cinema italiano degli anni '60 e '70, molti sono i meriti riconosciuti; l'aver riplasmato il genere americano per antonomasia con lo "spaghetti western" o innovato i canoni del thriller con i "giallo movies"; finanche di aver fuso la dimensione della fiction con quella del documentario con i "mondo movies".Ma stranamente, sono stati in pochi ad aver accreditato a Mario Bava e ai mestieranti nostrani dell'epoca la codificazione del filone gotico.
Il che non deve stupire; da un lato il lavoro di Bava è stato sottovalutato dalla critica per decenni e riscoperto solo ed esclusivamente a seguito dell'apprezzamento di maestri americani come Tim Burton o Quentin Tarantino. Dall'altro non va dimenticato il fatto di come esistesse già all'epoca dell'archetipico "La Maschera del Demonio" un filone gotico britannico, quello della Hammer, la quale aveva inaugurato la seconda giovinezza dell'horror in costume già nel 1958 con "Dracula il Vampiro" e "La Maledizione di Frankenstein".
Ma seppure si potrebbe far risalire la paternità effettiva del gotico moderno sempre a Bava grazie al lavoro svolto in "I Vampri" (1957), uscito un anno prima dei lavori della Hammer, in realtà è proprio con il suo esordio totale da regista che il grande autore reinventa l'horror classico per imporre una nuova formula che poi la casa di produzione britannica farà propria; una formula "ibrida", una via di mezzo tra tradizione e innovazione che all'epoca sconvolse il mondo.


Formula che si rifà alla tradizione per l'impostazione della storia, classica fin nel midollo; una storia che trae spunto dalla tradizione popolare e dalle atmosfere di Poe, con una strega che torna in vita duecento anni dopo il suo linciaggio per vendicarsi, un gruppo di uomini razionali chiamati ad affrontare l'orrore ed una giovane principessa in pericolo di vita. Formula che svecchia la tradizione introducendo nell'horror in costume una violenza grafica inusitata per l'epoca ed una sensualità carnale palpabile in ogni scena in cui compare la protagonista, la bellissima Barbara Steele.
Mai su schermo era apparsa una tortura come quella della maschera creata da Bava; ispirata alla alla "vergine di ferro" tanto cara all'Inquisizione, la maschera è un pugno allo stomaco, un oggetto di tortura che penetra il volto della vittima così come il film si insinua nel nervo ottico dello spettatore per distruggerne ogni aspettativa sino a ricreare una sensazione di orrore puro e tangibile, non più semplicemente evocato dall'atmosfera sinistra.
La tradizione della Universal riprende nuova linfa vitale: il sangue, quel sangue che la censura dei primi anni '60 permetteva di mostrare e che qui scorre copioso dai buchi dei chiodi. E Bava anche qui va oltre per creare un immaginario gotico fatto di cadaveri putrescenti, orbite vuote infestate da insetti e non-morti vendicativi ed inarrestabili.
In pratica, sulla tradizionale storia dell'orrore atavico che torna a perseguitare i discendenti dei carnefici, Bava innesta un nuovo tipo di orrore, un orrore visivo ai limiti del viscerale, grafico e pulsante.


La carica sensuale di Barbara Steele gli permette poi di reinventare la figura della strega, che da vecchia megera diviene giovane e provocante sposa del male; la strega perde ogni connotato esteticamente orrorifico per caricarsi di una bellezza carnale e selvaggio; il terrore della figura comincia così a derivare dal misto di attrazione e repulsione che emana, incarnato dal volto della Steele sfregiato dai chiodi della maschera: una creatura bella distrutta dal male, affascinante e temibile.


Il terrore deriva non tanto dallo shock della graficità degli effetti e non solo dal mix di eros e thanatos della Steele, quanto dalla magistrale atmosfera che Bava crea. Riunendo i personaggi in un'unità temporale precisa ed in un pugno di luoghi, riesce a ricostruire in studio quasi tutte le location per ammantarle in una fotografia lugubre, dalle ombre preminenti, incorniciata in inquadrature ricercattime sia nella composizione che nei componenti di macchina. Ogni singolo fotogramma riesce a trasmettere l'inquietudine dei luoghi e l'atmosfera maligna che li appesta, anche grazie ad un'uso dell'effetto nebbia mai invasivo, volto a sottolineare l'entrata in scena dei "mostri".


Un esordio col botto, quello di Bava. Un piccolo film che ha fatto scuola e che grazie alla sua eleganza e alla cura resiste bene alla prova del tempo; una "pietra miliare" da riscoprire ed ammirare per comprendere per l'ennesima volta come il talento non venga inificiato da budget irrisori.