martedì 25 novembre 2014

L'Esercito delle 12 Scimmie

12 Monkeys

di Terry Gilliam

con: Bruce Willis, Madeline Stowe, Brad Pitt, Christopher Plummer, David Morse.

Fantascienza

Usa (1995)















---SPOILERS INSIDE---

"Gilliam diventa mainstream!" titolavano i giornali nel 1995, nel pieno della lavorazione di "12 Monkeys". Un allarme esagerato? Sicuramente, perchè se è vero che per la prima volta il grande autore dirigeva un progetto su commissione, è altrettanto vero che il prodotto finito è un film d'autore al 100%, pur partendo da uno script non suo, guarda caso come accadeva con il precedente "The Fisher King".
Il vero "scandalo" semmai è un altro: il fatto che ad aver commissionato il film sia stata la Universal, che neanche 10 anni prima aveva tentato di distruggere "Brazil" per trasformarlo in una pellicola mainstream vera e propria, suscitando le ire di Gilliam e Robert De Niro, nonchè l'indignazione di tutta la comunità cinematografica dell'epoca.
Ma rimpiazzato l'odiato Sid Shainberg alla guida dello studio, la major trova nell'autore di adozione britannica il regista ideale per dirigere un kolossal da 29 milioni di dollari con protagonisti tre delle più grandi stelle di Hollywood dell'epoca. E pur non avendo il controllo completo su storia e personaggi e, purtroppo, nemmeno il final cut sul montaggio definitivo, di fatto frutto di un compromesso con le esigenze di cassetta dello studio, "12 Monkeys" è l'ennesima dimostrazione dell'enorme talento visionario di Gilliam, che per la seconda volta mette in scena una disastrosa distopia senza riproporre le atmosfere kafkiane di "Brazil" ed anzi creando uno stile post-apocalittico del tutto originale. E soprattutto, è la dimostrazione di come il grande autore sia anche un ottimo intrattenitore, in grado di creare un'opera commerciale in grado di sbancare i botteghini e, al contempo, di regalare a Brad Pitt la sua migliore interpretazione e trasformare Bruce Willis da macho ironico nella perfetta maschera della paranoia, estrapolandone le inedite doti di attore drammatico.



Alla base della pellicola c'è una magnifica sceneggiatura di David Webb Peoples; l'autore di "Blade Runner" e "Gli Spietati" rimase incantato dalla visione di "La Jetée", geniale cortometraggio di Chris Marker del 1962 girato come un montaggio di fotografie nel quale l'unico movimento è il battito di ciglia di uno dei personaggi.
"La Jetée" è il racconto di uno strano viaggio nel tempo: in un futuro post-apocalittico, segnato da una guerra nucleare che ha costretto i sopravvissuti a vivere nel sottosuolo, un uomo qualunque viene scelto dal governo per intraprendere un viaggio nel passato al fine di recuperare una fonte di energia, indispensabile per la sopravvivenza dell'umanità; tornato nel passato, l'uomo si innamora di una bella donna, ma è costretto più volte ad abbandonarla perchè "riportato" nel futuro dagli scienziati; ottenuta una fonte di energia illimitata da una civiltà proveniente da un futuro ancoro più remoto di quello in cui vive, l'uomo decide di fuggire nel passato per scappare via con la donna amata; arrivati su di un molo (la jetée del titolo) per imbarcarsi verso la salvezza, l'uomo viene ucciso dagli agenti del futuro sotto gli occhi di un testimone involontario: se stesso da bambino.


Marker partiva da uno spunto inedito ed originale: un uomo assiste inconsapevolmente alla propria morte; e il viaggio nel tempo diviene metafora del cinema: l'uomo viaggia mediante un visore che gli viene applicato mentre è sdraiato in una specie di amaca; il passato è quindi poco più di un'immagine, come un film che gli scorre davanti e del quale inizialmente egli è solo testimone; allo stesso modo, il tempo per spettatore del film rallenta: i 24 fotogrammi al secondo vengono scardinati e ridotti ad una serie di immagini che di fatto non si muovono, ma sono cristallizzate in attimi ben definiti, come le stesse immagini sui singoli fotogrammi della pellicola; il movimento è pura illusione che avviene negli occhi dello spettatore, ecco perchè il battito delle ciglia è il solo movimento possibile: il movimento effettivo che permette a delle immagini fisse di combinarsi in una azione fluida. Una volta che il tempo viene manipolato, anche le immagini perdono la loro forma apparente per rivelarsi per quello che sono in realtà, ossia semplici fotografie, attimi congelati nel tempo e non un movimento nel tempo stesso; ed è lo spettatore a compiere un viaggio nel tempo assistendo al film: è chiamato a guardare dei fatti già accaduti e che si ripetono infinite volte, senza che lui possa intervenire per cambiarne l'esito, pur essendo consapevole dello stesso fin dal primo istante; il protagonista e lo spettatore per la prima volta coincidono e tutta l'illusione della narrazione per immagini viene spezzata: la storia diviene un loop infinito, che finisce lì dove inizia ed inizia lì dove finisce, senza che nessuno possa interromperla, destinata a ripetersi in eterno sempre uguale a sé stessa.
Marker, in pratica, sviscerava definitivamente quella che è la grande mistificazione del mezzo cinematografico: l'illusione dell'azione, che viene smontata pezzo per pezzo e ridotta all'essenziale, nell'accezione più pura; il cinema rivela il suo volto più vero dinanzi allo spettatore, che per la prima volta viene riconosciuto in quanto tale: mero occhio che osserva.


Nel suo script, Peoples riprende solo l'idea alla base della storia di "La Jetée": un uomo, James Cole (Bruce Willis) viene mandato indietro nel tempo; da un futuro in cui la razza umana è stata sterminata da un virus e costretta a vivere nel sottosuolo, Cole viene rispedito nel passato per evitare la carneficina, ossia riscrivere la storia; viaggio che qui compie fisicamente, con tutte le possibili conseguenze di sorta. E nel mettere in scena questa ossessiva e catastrofica odissea nel tempo, l'affinità tra le elucubrazioni narrative di Peoples e le visioni di Gilliam è semplicemente perfetta.


Il viaggio nel tempo, per la prima volta nella storia del Cinema, non è un viaggio su una linea retta, su coordinate spazio-temporali precise, ma è afflitto da variabili ed incognite che lo pregiudicano; gli scienziati della distopia futura, nella migliore tradizione gilliamiana, sono folli e sbadati quanto i burocrati di "Brazil" e sbagliano a mandare indietro il loro agente; Cole si ritrova costantemente fuori luogo e fuori tempo, sbalzato da un periodo storico all'altro proprio come lo spettatore di un film, non avendo controllo alcuno sulla sua missione.
Di fatto, per tutto il primo atto Cole è uno spettatore degli eventi: mandato nel 1990, ossia 6 anni prima dell'inizio dell'infezione, può solo assistere passivamente alla reazione che la società ha nei suoi confronti; una società che non riesce a catalogare questo strano e sfatto visitatore e che per questo lo esilia in manicomio; luogo, questo, più folle della follia stessa, che Gilliam torna a costruire con inquadrature oblique e stroboscopiche per esaltare la visione deviata e deviante dei suoi ospiti. Cole, qui, è pura vittima degli eventi, trascinato dalla follia di Jeffrey (un Brad Pitt mai più così in parte e giustamente nominato all'Oscar).


Tramite il punto di vista deviato di Cole, il piano narrativo oggettivo del viaggio del tempo si fonde con quello squisitamente soggettivo della follia, per non scindersi più fino alla fine del secondo atto. Per tutto il film, Gilliam e Peoples "giocano" con le aspettative dello spettatore e con la sua percezione: Cole è davvero un crononauta o solo un folle che ha immaginato il futuro sulla base di ciò che vede nel presente?
Gilliam costella il viaggio di Cole di piccoli indizi e richiami che si saldano, talvolta inavvertitamente, nella mente dello spettatore per confermare o confutare ciascuna tesi; le 12 scimmie, il gruppo ecoterrorista del titolo, altro non è che un gruppo di fanatici guidato dal folle Jeffrey, il cui padre è un grosso ingegnere chimico (Christopher Plummer); ben potrebbero, quindi, aver scatenato l'inferno sulla Terra; o forse no? Forse sono solo elucubrazioni dovute allo shock; o forse Cole è davvero tornato indietro nel tempo e come lui ci sono altri nel 1996, come il barbone; o forse Cole è si un crononauta, ma il cui stress lo ha condotto verso una forma di follia; in ogni scena, Gilliam da una soluzione, salvo poi smentirla nella successiva: Cole non può essere fuggito da solo dalla sua cella, ma allora perchè il barbone, una volta interrogato dalla psichiatra Kathryn (Madeline Stowe) afferma di non sapere nulla? Cole ha una ferita che si è procurato durante una sortita inaspettata nella Grande Guerra, ma allora perchè i membri delle 12 Scimmie non sanno nulla del progetto di liberare un virus omicida?


E' così che lo spettatore viene chiamato a svestirsi del suo ruolo meramente passivo e ad interagire con i personaggi stessi, in particolare con Kathryn; è lei la "spettatrice dall'altro lato dello schermo", colei che pur essendo pienamente immersa nella storia cerca di scinderne il piano oggettivo da quello soggettivo; e questo nella sua duplice veste di donna di scienza e figura salvifica; da un lato, Kathryn è una psichiatra, ossia uno scienziato chiamato a decidere cosa è reale da cosa è pura fantasia; ma ella stessa è inerme di fronte all'impossibilità di discernere i due piani, tanto da arrivare a criticare la stessa scienza psichiatrica definendola come una religione, ossia un'organizzazione di soggetti che decidono a priori cosa deve essere vero, lasciando tutto quello che risulta insolito o incognito al piano dell'irrazionale e, di conseguenza, alla menzogna; una delle critiche più feroci all'istituzione scientifica che solo l'autore di "Le Avventure del Barone di Muchausen" poteva concepire.
Dall'altro, Kathryn è la sola speranza per Cole; non solo è l'unico essere umano a cercare di scorgere una dignità in lui, ma è l'unica ad avere dubbi sull'effettiva sussistenza delle sue teorie. Man mano che la narrazione procede, il loro rapporto si intensifica; anche lei viene risucchiata nel vortice di follia di Cole, ma riesce sempre a razionalizzare tutto, finendo per divenire l'unica ancora di salvezza per l'uomo; la love-story diviene di nuovo fonte salvifica: Cole, come il Sam di “Brazil”, può fuggire (forse) dal suo mondo post-apocalittico mediante la bellezza e la serenità di Kathryn, a cui una splendida Madeline Stowe infonde una carica di dolcezza tangibile.


Il concetto di tempo in "12 Monkeys" non è una linea retta, bensì una spirale; ogni evento è chiamato a ripetersi costantemente e uguale a sé medesimo, come realizza Cole verso la fine del secondo atto; catarsi che arriva durante la visione di un film: non una semplice citazione del lavoro di Marker, ma una riflessione su come, di fatto, guardare un film sia come una viaggio a ritroso, in un'epoca diversa dalla propria, nel quale si assiste ad avvenimenti destinati a ripetersi in eterno pur sapendo come si concluderanno; e non per nulla, il film in questione è "Vertigo" (1958)di Hitchcock, una delle massime riflessioni sul ripetersi inaspettato e inalterabile degli eventi.
La spirale di fatti si ripiega su sé stessa nel terzo atto: ogni evento così come programmato avviene; Cole e Kathryn tentano di opporvisi, ma invano; le visioni di Cole si avverano e l'uomo muore dinanzi agli occhi di sé stesso, in un circolo completo che porterà la storia a ripetersi da capo.
Forse, o forse no: cosa sono le visioni del futuro che Gilliam e Peoples ci mostrano nelle ultime sequenze? Interferenze dal futuro? Allucinazioni? Semplici coincidenze?
Gli autori decidono di non svelare il disegno, di lasciare allo spettatore non un interrogativo vero e proprio, quanto un ulteriore ruolo attivo: comprendere mediante uno sforzo immaginifico se la fuga di Cole e la sua precedente missione siano state un fiasco o meno, ossia scrivere con il pugno della propria mente il vero finale della storia; oppure non scriverlo, lasciare che gli eventi semplicemente accadano e si accumulino per ritornare indietro, al punto di partenza per cominciare da capo in una nuova visione; perchè per Gilliam, la catarsi avviene solo per il giovane Cole, con l'ultima splendida inquadratura del film, che spezza in parte la spirale degli eventi con un pizzico di speranza per il futuro, mentre l'ossessivo (e magnifico) tema di Paul Buckmaster sfuma verso le splendide note di Louis Armstrong.


Un mondo futuro, quello di "12 Monkeys", che Gilliam ricalca sulle distopie di Aldous Huxley; una società in mano agli scienziati ma ugualmente impazzita, dove la classe dirigente, nonostante sia votata alla conoscenza, sembra aver perso contatto con la realtà al pari di Cole; una versione distorta degli psichiatri che spadroneggiano nel presente, una dirigenza ai limiti della follia che ha imbastito una società claustrofobica e schizzata, dove la tecnologia continua a schiacciare gli individui e dove tutto è posto sotto controllo; come in "Brazil", ma in chiave ancora più estrema, con i camici bianchi e le tute anticontaminazione che hanno preso il posto degli abiti in doppio petto e dei cappottoni.



E la follia questa volta non rappresenta per Gilliam una forma di escapismo dalla realtà; la realtà stessa è invece fuga dalla follia; la paranoia di Cole, il suo sentirsi costantemente spiato altro non è che una manifestazione di pazzia, immaginaria o reale, che può essere vinta non lasciandosi trasportare dai sogni o dalla propria immaginazione, ma indagando il reale, discernendo il lato oggettivo da quello soggettivo, dove solo il primo rappresenta effettiva salvezza.
Salvezza che, come da tradizione, viene negata; ma laddove la salvezza perde, proprio come in "Brazil" la speranza trionfa.

giovedì 20 novembre 2014

R.I.P.- Mike Nichols





1931-2014

L'unione perfetta tra il Free Cinema londinese e la New Wave americana, Mike Nichols è stato uno degli autori più apprezzati del cinema degli anni '60 e '70.
Rivelatosi all'attenzione di tutti grazie al cult "Il Laureato" nel 1967 (premiato con l'Oscar alla regia), Nichols aveva in realtà già creato uno splendido esempio di commedia nera e acida: "Chi ha paura di Virginia Woolf?", il più celebre gioco al massacro tra coniugi in un interno della storia del cinema. La provocazione era la su prerogativa, che avrebbe esercitato anche con il successivo "Conoscenza Carnale" (1971), nel quale fa incontrare Jack Nicholson e una bellissima Ann-Marget in un gioco al gatto e al topo a dir poco bollente. Provocazione volta a scardinare ogni convenzione, sia stilistica che tematica, tanto da inserirsi nel solco tracciato da Altman per creare un'altra memorabile satira del militarismo con "Comma 22" (1970).
Intelligente, mai compiaciuto dalle storie scandalose che portava in scena, dotato di un senso del ritmo unico, il grande autore ci abbandona a 83 anni, lasciando come testamento spirituale della sua opera due film che, dopo anni di oblio, lo hanno rilanciato nell'olimpo dei grandi registi: lo splendido "Closer" (2004) e l'irriverente "La Guerra di Charlie Wilson" (2007).





"CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF?" (1966)




"IL LAUREATO" (1967)




"COMMA 22" (1970)



"CONOSCENZA CARNALE" (1971)



"FRENESIE... MILITARI" (1988)



"WOLF- LA BELVA E' FUORI" (1994)



"CLOSER" (2004)



"LA GUERRA DI CHARLIE WILSON" (2007)

mercoledì 19 novembre 2014

True Lies

di James Cameron

con: Arnold Schwarzenegger, Jamie Lee Curtis, Tom Arnold, Tia Carrere, Bill Paxton, Eliza Dushku, Charlton Heston.

Azione/Commedia

Usa (1994)
















E' il 1994: Schwarzenegger è la più grande stella di Hollywood; nulla gli è negato dopo i successi stratosferici di "Terminator 2" (1991) e "Atto di Forza" (1990); strapagato dagli studios, ultra-amato dal pubblico e ancora dotato di un senso dell'umorismo autoironico in grado di conquistare critica e pubblico, lo scultoreo golem dallo sguardo infantile viene coinvolto dalla Fox in un progetto che, sulla carta, sembra lontanissimo dalle sue corde: un remake di "La Totale!", commedia spionistica francese campione di incassi in patria nel 1991, ossia un progetto totalmente antitetico a quelli cui di solito è protagonista.
Schwarzy aveva già preso parte a commedie di successo quali "I Gemelli" (1988) e "Un Poliziotto alle Elementari" (1990), nelle quali Ivan Reitman aveva svelato il suo lato genuinamente comico con buoni esiti (sopratutto commerciali); ma con "True Lies" il macho per antonomasia si prende per la prima volta in giro: rilegge il suo ruolo di duro in chiave ironica fino ai limiti del parodistico.
E con lo star power acquisito, Schwarzenegger riesce a portare al timone del progetto l'amico James Cameron, per quella che sarà la loro ultima collaborazione, l'ultimo grosso successo commerciale dell'attore e l'ultimo film veramente memorabile per il regista; oltre che il suo ennesimo film del record, con un budget di 117 milioni di dollari, di nuovo il più alto per l'epoca.


Budget e regia che garantiscono un divertimento unico; Cameron, in gran spolvero, crea sequenze adrenaliniche e spettacolari, trasformando il film in un susseguirsi di scontri e sopratutto inseguimenti, dove ogni spostamento diviene una sarabanda di veicoli in corsa che si scontrano, si ribaltano, esplodono e carambolano tra loro; tra tutte, è ovviamente la scena più stramba di tutto il film ad incantare: l'inseguimento con il cavallo, che culmina con Schwarzy appeso alle redini mentre penzola da un grattacielo, in un mix riuscito di tensione ed umorismo slapstick divenuto giustamente un cult.



Ma è ovviamente il tono ironico e divertito con cui tutto viene condotto a rendere "True Lies" una visione piacevole ed unica; regista e attore riprendono tutti i topoi dell'action e li rivoltano; non arrivano alla parodia nuda e pura, né alla lettura ai limiti dello sfotto stile "The Expendables", ma operano in modo più fine, trasformando l'agente della CIA simil-James Bond a stelle e strisce in un marito geloso, che imbastisce una folle operazione sotto copertura per riconquistare sua moglie; piuttosto che in una figura parodistica, Trasker è un comune eroe action con tutti i crismi: atleitco, ironico, forzuto e violento del quale viene svelato anche il retroscena familiare, quel "dietro le quinte della missione" che solitamente viene lasciato al di fuori della narrazione; il confronto con la moglie e la figlia, persone ordinarie, diviene l'humus ideale per imbastire equivoci e gelosie volte a disvelare la parte più divertente del personaggio, nonchè quella più inedita, che trasforma Trasker da 007 donnaiolo incallito a padre di famiglia geloso fino all'ossesso.


La trasformazione del topos caratteriale si fa quindi spunto per tutta la parte centrale del film, nella quale Cameron si diverte a sovvertire tutti i personaggi, trasformando il donnaiolo Simon in un imbecille sottomesso e, sopratutto, la casalinga Helen in una bomba sexy, che le curve morbide e sensuali di Jamie Lee Curtis rendono indimenticabile. E l'alchimia del cast funziona a meraviglia: Schwarzenegger regge la scena ottimamente sia nelle numerose sequenze d'azione, ma anche e sopratutto in quelle ironiche; la Curtis regala il suo ultimo ruolo "hot", imprimendosi nell'immaginario collettivo come la perfetta incarnazione della sensualità matura, Tia Carrere riprende i panni della femme fatale bondiana in chaive libica, mentre un compassato Charlton Heston si diverte ad utoparodiarsi nel ruolo del bellicoso capo della CIA.
Per 141 minuti si è scossi, ammaliati, divertiti ed incuriositi dalla perizia di Cameron e soci, che trasformano il pop-corn movie in una perfetta macchina ad orologeria, incastrando alla perfezione ogni ameno pezzo e regalandoci il loro ultimo, magnifico, exploit prima di perdersi in produzioni di second'ordine o, peggio, deliri autoriali privi di senso; e forse anche in questo "True Lies" trova una sua ulteriore valenza: il canto del cigno di una coppia che al cinema di genere ha dato tanto e che da qui in poi si perderà per sempre.


giovedì 13 novembre 2014

Guardiani della Galassia

Guardians of the Galaxy

di James Gunn

con: Chris Pratt, Zoe Saldana, Dave Baoutista, Bradley Cooper, Vin Diesel, Micahel Rooker, Lee Pace, Karen Gillan, Benicio Del Toro.

Fantastico/Commedia

Usa (2014)














La Marvel Studios si è ormai definitivamente imposta come la major più agguerrita e spietata di Hollywood; tra produzioni stratosferiche, set blindati, programmazione quinquiennale dei film neanche si fosse in Unione Sovietica, autori coartati a lavorare con contratti capestro a confronto dei quali quelli dello Studio System degli anni '50 sembravano figli del liberalismo più puro ed un margine di libertà per i registi pari allo 0%, lo studio di Kevin Feige e soci ha praticamente trasferito la politica strozza-creatività intrapresa nell'editoria sulla produzione filmica, con esiti talvolta disastrosi, come il "Thor" di Branagh,quasi rinnegato dallo stesso autore, o i pessimi exploit dei primi due "Iron Man".
La parola d'ordine dei Marvel sembra essere quella di "successo ad ogni costo": dare al pubblico ciò che vuole vedere in produzioni grosse e roboanti, ma afflitte da un'anoressia stilistica e narrativa atroce, dove nelle canoniche due ore di durata stentano a trovare spazio sia la storia che l'azione, lasciando che tutta l'attenzione sia rivolta solo al cast di nomi noti e ai costumi sgargianti che indossano.
In un contesto del genere, un film come "Guardiani della Galassia" appare come una scheggia impazzita, una creatura che stona nel mare magnum di mediocrità propria delle produzioni standardizzate e omologate a causa di tutti i suoi punti di forza; è spiazzante, anzi tutto, il fatto che Feige decida di investire ben 170 milioni di dollari per una produzione dedicata al gruppo di "eroi" meno conosciuto di tutta la produzione editoriale Marvel; è ancora più spiazzante che a dirigere questo blockbuster estivo sia stato ingaggiato James Gunn, nato tra le produzioni orgogliosamente trash e anti-commerciali della Troma e che ha trovato successo ad Hollywood con l'irriverente "Slither" (2006) e sopratutto con l'acidissimo "Super" (2010), vero e proprio manifesto dell'anti-supereoismo infarcito di una cattiveria goliardica e iconoclastica unica. Spiazza ancora maggiormente come Gunn riesca ad impadronirsi totalmente del materiale di origine e a riplasmarlo in uno spettacolo di intrattenimento spensierato perfettamente riuscito, che, nonostante i compromessi necessari per rendere il film accessibile alle famiglie, riesce davvero a compiacere anche il cinefilo più incallito.


Che Feige abbia deciso di dare una virata più credibile alle sue produzioni lo si era già capito con "Iron Man 3" (2013), con l'abbandono del ridicolo involontario a favore di un'ironia più riuscita, e sopratutto con "Captain America: The Winter Soldier" (2014), ideale contraltare del film di Gunn; laddove il film dei fratelli Russo era un remake de "I Tre Giorni del Condor" (1975) in chiave fumettistica, "Guardiani della Galassia" altro non è se non una rielaborazione della fantascienza ironica e sarcastica di Joss Whedon; non il Joss Whedon sottotono e mainstream che la Marvel ha ghermito in "The Avengers" (2012), ma quello visionario ed ispirato dell'amatissimo "Serenity" (2006); l'avventura cosmica di natura "seria" si colora così di uno humor goliardico irresistibile, di un sarcasmo distruttivo, ma mai ridicolo o compiaciuto, in un equilibrio tra narrazione e ammiccamenti che regge bene per tutta la durata del film; merito della mano di Gunn, ovviamente, qui nelle vesti sia di regista che di co-sceneggiatore, riuscendo ad imprimere il suo tocco a tutta la pellicola.


Riprendendo i personaggi ri-creati da Dan Abnett e Andy Lenning nel 2008, e non l'originale team creato da Steve "Howard the Duck" Gerber negli anni '70 sulla scorta delle prime storie dedicate loro già nel '69, Gunn porta in scena un gruppo di anti-eroi stereotipati ma simpatici. Protagonista, l'immancabile umano tutto muscoli e battuta pronta, Peter "Star Lord" Quill (Chris Pratt), razziatore guascone e playboy; la parte femminile viene ricoperta da Gamora (Zoe Saldana, che si toglie di dosso la pelle blu di "Avatar" per un ancora più amena epidermide verde), assassina ninja e interesse amoroso di Quill, una sorta di Vedova Nera dello spazio; il possente Drax (Dave Bautista), golem spaccatutto ma dallo sguardo umano; e sopratutto i personaggi più strambi mai apparsi in una pellicola fantastica: il procione-cyborg armiere e boccalone Rocket (Bradley Cooper) e il simpatico e poetico uomo albero Groot (Vin Diesel).
L'intuizione vincente di Gunn sta nel concentrarsi proprio sul rapporto complicato e beffardo tra personaggi; la trama, in fin dei conti, altro non è se non l'ennesima "quest" alla ricerca del canonico McGuffin, in questo caso una delle Gemme dell'Infinito tanto care ai lettori Marvel più scafati; tutta la narrazione si sviluppa sul canone tracciato da mille altre commedie fantastiche, da "Ghostbusters" (1984) allo stesso "Serenity", passando per "Men in Black" (1997), con il gruppo di improbabili eroi all'inseguimento dell'artefatto prima dell'arrivo del villain di turno, qui incarnato da Roanan l'Accusatore, ennesimo megalomane in cerca di vendetta.


Il rapporto tra personaggi, pur non propriamente originale, resta comunque divertente data la loro amenità, la totale antiteticità di caratteri, l'impegno degli attori chiamati a recitare in motion capture o sotto chili di trucco; e persino i personaggi più improbabili come Groot o Rocket restano sempre simpatici, senza mai scadere nell'idiota; impresa che Gunn mantiene anche nel tono generale del film, infarcito di un umorismo goliardico ma mai stupido, inedito persino per il suo cinema: più leggero, mai volgare o acido, perfettamente calzante. Incalcolabili, poi, le citazioni e i rimandi con cui l'auotore riempie la pellicola: dai film di Spielberg e Lucas alle visioni future di Philip K.Dick, passando per la musica pop della già mitica "Awsome Mix" e il walkman squisitamente rertò, il tutto dona, paradossalmente, un'identità forte e decisa ad un film altrimenti anonimo.


Ma per essere apprezzato appieno, "Guardiani della Galassia" necessita di uno sforzo immaginativo non facile per lo spettatore; bisogna abbandonare la parte più adulta del proprio carattere, credere che un cattivo dotato del più grande potere dell'Universo non riesca a tenere testa a cinque disperati o che delle forme di vita organiche  riescano a sopravvivere nello spazio aperto, anche quando la sospensione dell'incredulità ci urla nella testa il contrario. Perchè alla fin fine, tra una battuta riuscita ed una no, tra una serie di citazione azzeccate (su tutte l'incipit ripreso da "I Predatori dell'Arca Perduta") e altre meno (il finale preso pari pari da "Ghostbusters", ma privo della sua carica apocalittica), vale davvero la pena scorrazzare per la galassia al fianco di questi strambi "Guardiani", sulla loro astronave battezzata in onore di Alyssa Milano mentre si ascoltano bombe del rock d'antan come "Moonage Daydream" o "Cherry Bomb".






EXTRA

Il cameo post-crediti è ormai diventato un must; questa volta è il turno di Howard the Duck, che intrattiene uno spassoso dialogo con Benicio Del Toro, omaggio a Steve Gerber.





Molto più difficile da notare è invece il cameo di un personaggio ancora più strambo:


Lloyd Kaufamn, fondatore, presidente regista principale della Troma, nonchè mentore di Gunn appare nella scena della prigione come uno dei reclusi; se infilare il re dello splatter trash in una produzione hollywoodiana da 170 milioni di dollari destinata al divertimento delle famiglie non è un colpo di genio, allora i colpi di genio non esistono.

lunedì 10 novembre 2014

Interstellar

 di Christopher Nolan

con: Matthew McConaughey, Jessica Chastain, Anne Hathaway, Michael Caine, John Lithgow, Wes Bentley, David Gyasi, Casey Affleck, Matt Damon, Topher Grace.

Fantascienza

Usa, Inghilterra (2014)

















Se c'è una cosa che a Nolan riesce sempre, è quella di dividere la critica ed il pubblico; tra chi lo osanna come un maestro della Settima Arte a chi lo apostrofa come un furbetto capace solo di dare al pubblico e alla critica quello che vogliono vedere, sono in pochi coloro i quali riescono davvero a dare una valutazione oggettiva e distaccata alle sue opere, di volta in volta additate o come capolavori o come fesserie; non fa eccezione "Interstellar", ritorno all'hard sci-fi del blockbuster americano che l'autore inglese riprende da un progetto abbandonato qualche anno fa da Spielberg e che riplasma su una concezione di fantascienza intelligente ed umanistica di stampo squisitamente autoriale; operazione che, a discapito dei detrattori delusi, gli riesce in pieno.




Abbandonate le influenze del cinema metropolitano di Michael Mann, Nolan si rifà alla fantascienza classica più seminale: riprende il tema del confronto tra l'essere umano e l'ignoto da "2001: Odissea nello Spazio" (1968) di Kubrick (del quale "Interstellar" può essere visto come una sorta di remake "d'autore", vista la sua struttura narrativa) e l'introspezione umanistica ed empatica dal "Solaris" (1972) di Tarkovsky; ma quello dell'autore britannico non è un semplice saccheggio di idee, né pura derivatività, quanto una rielaborazione di quanto giù fatto dai due grandi autori, nel quale inserisce tematiche proprie e per certi versi inedite.



Il fulcro concettuale di "Interstellar" è diverso da quello dei capolavori a cui si ispira: è il conflitto tra l'essere umano in quanto singolo e l'uomo come specie; un conflitto nel quale i sentimenti individuali si scontrano con le necessità collettive: la sopravvivenza della razza umana come urgenza dovuta all'esaurimento delle risorse energetiche si confronta con l'impulso di un padre, il pilota Cooper (McCounaghey) si poter riabbracciare i propri figli; il conflitto è, in sostanza, quello tra le necessità individuali e quelle universali, nel quale Nolan non prende posizioni, allontanandosi dalla tradizione di un certo cinema hollywoodiano buonista che mette al centro di tutto sempre e solo le esigenze individualistiche e i valori familiari tradizionali; perchè Cooper è sicuramente in sostanza un eroe, un impavido sognatore e viaggiatore, ma anche un personaggio i cui difetti non vengono mai nascosti né giustificati; la sua voglia spasmodica di tornare sulla Terra si scontra puntualmente con l'esigenza della missione, incarnata dal personaggio della dottoressa Brand (Anne Hathaway), fino a scomparire del tutto alla fine del secondo atto.



La fusione delle due influenze, opposte e complementari, di Kubrick e Tarkovsky è in Nolan pressocchè perfetta; la componente visionaria del film del'68 viene filtrata mediante lo stile dell'autore, che qui si fa magistralmente rigoroso; tutte le sequenze più spettacolari e grandiose non vengono mai gonfiati ad intrattenimento puro; le fughe dai pianeti inospitali, il viaggio transdimensionale nel wormhole e nel buco nero e persino i più "classici" voli nello spazio sono costruiti in modo sobrio, con inquadrature ancorate alla carlinga laterale della nave come a mimare i filmati di repertorio della NASA; l'effetto è al contempo spiazzante ed ammaliante, tra la rielaborazione fantasiosa più pura e la fisicità più estrema per donare al tutto un senso di verosomiglianza che, ancora più che in "Gravity" (2013), avvicina davvero la fantascienza al concetto di realismo.



Verosomiglianza che passa sopratutto attraverso le scelte registiche più contingenti, come l'uso di vere locations per dare forma ai pianeti alieni, e di minuature ed SFX per animare le scene di volo nello spazio; il blockbuster fantascientifico ritrova così una forma di autenticità che sembrava persa sotto le tonnallate di pixel della CGI e nella spettacolarizzazione virtuoisistica di ogni singolo effetto; prassi a cui Nolan rinuncia persino nelle sequenze e negli aspetti più "rischiosi"come nel climax con la discesa nel buco nero, dove l'autore non rinuncia al rigore quasi stoico nella messa in scena nemmeno per un istante, senza mai abbandonasi alla contemplazione del "tesseratto gravitazionale" per il mero gusto di mostrare un'immagine potente; o, sopratutto, nel design dei robots, che perdono ogni componente ludica per divenire forme astratte e funzionali, la cui caratteristica più spettacolare non è data dalle azioni, ma dal carattere estremamente umano.




Realismo che viene raggiunto definitivamente grazie alla consulenza scientifica del fisico Kip Thorne, autore delle teorie sull'unificazione tra spazio-tempo e gravità alla base di tutta la sceneggiatura, che permette ai fratelli Nolan di costruire uno script basato sui paradossi spazio-temporali senza mai cadere nella contraddizione logica o nell'improbabilità, come spesso succede alle pellicole sci-fi che giocano troppo facilmente con i concetti di relatività e nesso causa-effetto.



Più opaca è invece la rielaborazione dei temi umanitari; nel prediligere una messa in scena forzatamente classica sino ai limiti del teatrale, Nolan costruisce la relazione a distanza tra Cooper e la figlia Murph (Jessica Chastain) con una serie di sottrazioni; i momenti topici dell'abbandono, della scoperta della crescita e del ricongiungimento finale vengono costruiti affidandosi totalmente alle ottime prove degli attori, in particolare di McCouneghy, che nella scena del videomessaggio "in differita" dimostra una capacità di concentrazione unica nel suo genere. Ma al di là di queste tre scene, tutta la narrazione riguardo ai concetti di nostalgia e del terrore dell'abbandono vengono lasciati ai dialoghi con Brand ed il resto dell'equipaggio, risultando fin troppo didascalici e noiosi, finendo per appiattire persino la caratterizzazione dei personaggi stessi, che a tratti divengono dei semplici clichè.




E' inutile e deleterio cercare poi altri paragoni con i titoli di riferimento: "Interstellar" non è e non vuole essere un nuovo "Odissea nello Spazio", né un nuovo "Solaris"; Nolan si limita a riprendere l'eredità dei lavori del maestri del passato e a riarrangiarla in chiave moderna, filtrandola mediante il suo stile, sottraendo la liricità del primo e la sensibilità del secondo per creare qualcosa di sicuramente non nuovo, ma di riuscito.



Di suo, "Interstellar" è una pellicola sci-fi intelligente e di sicuro fascino; non solo le teorie di Thorne restano intriganti, ma anche il futuro inventato da Nolan è inquietantemente credibile: un mondo privo di risorse nel quale l'umanità ha accettato la propria fine ripegando verso l'oscurantismo ed involvendosi ad una società simile a quella americana antecedente la II Guerra Mondiale. Ed è in questa intelligenza di fondo che sta il vero valore del film di Nolan: nel saper dare qualcosa di interessante e divertente senza tediare o scadere nello spettacolo fine a sé stesso; operazione che solo i grandi registi sanno fare.



EXTRA

Al di là delle citazioni più erudite e dei rimandi più impegnati, allo spettatore più navigato non saranno sfuggiti due richiami che Nolan fa alla cultura pop più mainstream; tra i libri presenti nella biblioteca di Murph spunta una copia del capolavoro di Stephen King "The Stand" (in Italia "L'Ombra dello Scorpione"), anch'esso incentrato sull'estinzione della razza umana a seguito di un'epidemia mortale.



Più diretta è invece la citazione più spiazzante di tutto il film: la spiegazione del funzionamento del wormhole fatta dal personaggio di Romily a Cooper è ripresa da quella fatta da Sam Neill all'equipaggio dell'astronave del film "Event Horizon" (1996), fanta-horror anch'esso incentrato su un viaggio intergalattico effettuato mediante un buco nello spazio-tempo; vedere un film del Re del Trash mainstream Paul W.S. Anderson citato in un film di Nolan è forse il momento più genuinamente agghiacciante di tutto il film.


sabato 8 novembre 2014

Thelma & Louise

di Ridley Scott

con: Susan Sarandon, Geena Davis, Harvey Keitel, Michael Madsen, Brad Pitt, Stephen Tobolowsky, Christopher McDonald, Timohty Carhart.

Drammatico

Usa, Francia (1991)















---SPOILERS INSIDE---

Ritrovato in parte lo smalto di un tempo e il favore del pubblico con "Black Rain" (1988), Ridley Scott si afferma definitivamente come mestierante ad Hollywood, dove si avvicina sempre più spesso a progetti genuinamente "alimentari" che ne comprometteranno ben presto la carriera; prima di finire nel baratro degli autori sfiatati e dimenticati, Scott riesce però a dirigere un ultimo progetto personale: "Thelma & Luoise", il più grande inno all'emancipazione femminile che Hollywood abbia mai visto, nonchè il suo ultimo vero cult.
Progetto che come nella migliore tradizione del regista britannico ha una genesi lunga e travagliata; entrato in cantiere ufficialmente nel 1980 sulla base dello script dell'esordiente Callie Khouri, il film avrebbe visto Scott come produttore esecutivo e la sceneggiatrice come regista; ma a causa della scarsa considerazione da parte degli studios, il progetto si arena per quasi 10 anni, trascorsi i quali Scott decide di riprendere in mano la bella sceneggiatura dell'autrice (che poi sarà premiata con l'Oscar) per dirigerlo personalmente; e dopo una pre-produzione di quasi un anno, l'autore trova in Susan Sarandon e Geena Davis le perfette incarnazioni delle sue due anti-eroine.
 

Perchè "Thelma & Louise" è un film che vive grazie ai volti e ai corpi delle due grandi attrici, della loro bellezza solare e decisa, dell'alchimia unica che si instaura tra le due, che sembrano nate appositamente per incarnare due personaggi opposti e speculari.
Louise, la donna più matura, responsabile e forte, scafata sin nell'anima da un passato fatto di violenza dalla quale fugge e decide freddamente di vendicarsi; Thelma, la più giovane e naif, inesperta ma solare, una donna che non ha mai vissuto una vita vera, ma una semplice esistenza rinchiusa tra le mura domestiche. Il viaggio delle due amiche diviene liberazione dal tabù che vorrebbe la donna come moglie fedele e servizievole, oggetto sessuale da sottomettere e figura ancillare da denigrare. Viaggio che proprio a causa della violenza maschile si trasforma prima in un incubo, poi in un atto di ribellione consapevole verso una società che schiaccia la donna e la umilia.


La violenza dello stupratore Harlan (Timothy Carhart) è la violenza insensata di un essere che si crede superiore alla sua controparte di genere; superiorità intrinseca nel ruolo dominante del maschio nella società americana (e non solo) che si sostanzia nella sottomissione totale della donna; l'atto di ribellione non può, di conseguenza, che passare attraverso la medesima violenza, unico mezzo comprensibile da parte di una categoria in grado di esprimersi unicamente atti di sottomissione.
Ma il femminismo duro e puro di Scott e della Khouri non è misantroposmo cieco e compiaciuto come quello di pellicole più recenti (su tutte l'improponibile "I Ragazzi stanno bene" della Cholodenko), ma un atto d'accusa alla società maschile in quanto insieme di regole e abitudini; il mondo di "Thelma & Louise" è si popolato per lo più da figure maschili grette, stupide ed ossessionate dal sesso: l'idiota Darryl (Chistopher MacDonald), sciatto e sfatto marito di Thelma, che le nega la sua femminilità rinunciando al suo ruolo di padre per ricoprire esclusivamente quello di marito-padrone; il bel guascone J.D. (Brad Pitt), ragazzaccio bello e affascinante, ma interessato solo al sesso e ai soldi; e lo strambo camionista sciovinista, vero e proprio coacervo di tutta il peggiore esibizionismo maschile.
Ma al contempo, la vita e l'avventura delle due fuggiasche è illuminata da due figure maschili salvifiche, che incarnano le migliori virtù del maschio: Jimmy (Michael Madsen), compagno abituale di Louise, rude ma innamorato e pronto a tutto pur di aiutare la sua donna; e il poliziotto Hal (Harvey Keitel), incarnazione della vis comprensiva e simpatetica, in grado comprendere lo stato d'animo di chi ha subito la violenza senza condannarla.


Due figure che incarnano il lato migliore della società patriarcale; due figure purtroppo isolate all'interno di un sistema che non fa sconti; il viaggio verso la libertà si trasforma così in fuga verso il nulla, atto di ribellione fine a sé stesso, ma ugualmente furioso; Thelma e Luoise sfrecciano lungo le highways dell'ovest americano verso una meta irragiunngibile, proprio come i Sailor e Lula di Lynch facevano giusto un anno prima; sulla Thunderbid verde, auto simbolo di individualità e affermazione di sé, attraversano il cuore più puro dell'America, fino alla Monument Valley, il luogo cinematografico maschile per antonomasia che per la prima volta viene associato alla liberazione del genere femminile.
Un viaggio che ad ogni tappa accresce la consapevolezza di sé delle due donne: Thelma matura in una donna coscienziosa e non più ingenuamente attaccata alla sua compagna maggiore; e Louise sconfigge la sua paura di una vecchiaia di rimpianti rinunciando ai riti e ai simboli propri del suo status di donna matura: si sveste dei trucchi, degli anelli e delle collane per ritrovare una femminilità più rude e autentica.


E' il viaggio in sé stesso a diviene catarsi, con la vendetta contro i simboli stessi dell'oppressione maschile; dapprima, il poliziotto "nazista" che vorrebbe arrestarle viene a sua volta arrestato ed umiliato, spogliato della sua immagine di duro e ridotto alle lacrime; in ultimo, la figura ricorrente del camionista sboccato viene punito come un bambino, sbeffeggiato dagli oggetti del suo stesso desiderio. E il mito dell'amicizia virile viene qui trasportato in un contesto femminile, cucito addosso alle due amiche che così si trasfigurano in eroine western in abiti moderne, in una sovversione del'immaginario tipico volto ad affermare la loro dignità accostandole alla tradizione cinematografica americana più pura.
Nel portare in scena le pagine della Khouri, Scott riesce ad evitare così i manicheismi e a contenere gli aspetti più improbabili della vicenda ricorrendo al registro della commedia, che alleggerisce i passaggi più forzati.
Leggerezza che però si va via via stemperando, per arrivare ad un finale amaro, ma trionfale; nell'autodistruzione, le due donne trovano la piena e totale affermazione di sé stesse: rinunciano a tornare ad uno status di paria, voltano le spalle alla comprensione del poliziotto Hal, che fatalmente le raggiunge troppo tardi, sconfessano la negatività delle proprie azioni per affermare la loro dignità; non la semplice dignità di donne o amiche, ma di esseri umani; in un atto che Scott decide di congelare in eterno in uno dei freeze-frames più belli e commoventi di tutta la Storia del Cinema.