sabato 19 ottobre 2013

Wolverine l'Immortale

The Wolverine

di James Mangold

con: Hugh Jackman, Tao Okamoto, Rila Fukushima, Svetlana Khodchenkova, Hirouyki Sanada, Haruiko Yamanouchi, Famke Jannsen.

Azione/Avventura

Usa/Australia (2013)














Inutile ricordalo, ma nel 2009 "X-Men le Origini: Wolverine" fu un grande successo di cassetta; rincuorato dai buoni esiti, Jackman decide così di continuare le avventure in solitario di Logan con una nuova pellicola, "The Wolverine", che questa volta vede il canadese artigliato come protagonista assoluto e si concentra (finalmente) sulla sua psicologia piuttosto che su scene d'azione improbabili o one-liner da due soldi.
Progetto dalla genesi movimentata (Darren Aaronofsky, grande amico del protagonista, ha sviluppato la sceneggiatura e supervisionato i primi mesi di produzione, per poi abbandonarla per motivi personali), "The Wolverine" può essere tranquillamente considerato come un film-fumetto "atipico" per gli standard Marvel: ironia ridotta all'osso, citazioni tratte dal fumetto contenute, strizzatine d'occhio ai fans praticamente inesistenti; al posto dei marchi di fabbrica dei film-spazzatura della "casa delle idee" troviamo (sorpresa) una violenza grafica snocciolata in forti dosi, senza però mai scadere nel parossistico, un tono cupo e introspettivo ed una storia che non tiene conto dei normali cardini dell'universo fumettistico di origine (quali complotti alieni o guerre tra fazioni di mutanti), concentrandosi sui protagonisti (Logan, Yashida e Mariko) e sui loro legami; il risultato, pur non essendo memorabile, funziona a dovere.


Basato sulla mitica "saga giapponese" del duo Miller/Clermont del 1982, il film si apre con un flashback spettacolare: Wolverine, prigioniero a Nagasaki durante la Seconda Guerra Mondiale, salva la vita all'ufficiale giapponese Yashida durante il bombardamento atomico; decenni dopo, ritroviamo Logan ritiratosi in solitudine tra le montagne, perseguitato dai rimorsi per l'uccisione di Jean Grey (Famke Jannsen), che gli appare come uno spettro; ben presto il suo ritiro viene interrotto: Yashida (Haruiko Yamanouchi), ora invecchiato e morente, lo convoca a Tokyo per ricambiare il favore fattogli anni prima: in cambio della sua vita offre a Wolverine la possibilità di disfarsi della sua immortalità per poter finalmente porre fine ai tormenti che lo affliggono.


Rispetto al precedente "X-Men le Origini" e a tutti gli altri film sui mutanti, l'intento sembra non solo quello di intrattenere dei ragazzini, ma, per una volta, anche quello di tracciare una storia coerente e dare una psicologia complessa ad un personaggio che nella sua controparte cartacea dimostrava una profondità quantomeno singolare; banditi effetti speciali roboanti e personaggi sopra le righe, in "The Wolverine" a farla da padrone è un concetto di cinema action vecchia maniera, che affonda le sue radici nelle pellicole hollywoodiane degli anni '80 e nel cinema di John Woo dei primi anni '90; ogni acrobazia ed ogni azione viene caricata di una fisicità sbalorditiva: corpi che cadono e cozzano, arti che si frantumano e colpi inferti e ricevuti grondano dolore e sangue; il gusto per la coreografia è evidente e a tratti esasperato, come nella scena del treno ad alta velocità, nella quali si riaffaccia, prepotente, lo spettro del cinema digitale ed esagerato; tuttavia Mangold non sempre si dimostra all'altezza del compito affidatogli: l'abuso del montaggio spezzato vanifica parte degli sforzi di attori e coreografi, facendo sembrare il tutto come l'opera dell'ennesimo videoclipparo bayota di turno; eppure, man mano che la storia si dipana, tra colpi di scena più o meno riusciti, la sensazione di trovarsi di fronte ad una vera pellicola d'azione è forte.


Rifacendosi in pieno agli stilemi del cinema nipponico, Mangold adotta un ritmo molto lento per tutta la narrazione; scelta discutibile, che rende la pellicola davvero poco scorrevole e a tratti finanche noiosa, ma che le conferisce un'aura di originalità, persino di coraggio: il ritmo scialbo permette allo spettatore di avvicinarsi maggiormente ai personaggi ed affezionarsi di più all'irsuto protagonista, che mai come ora appare in tutta la sua umanità.
L'idea di creare un sequel a "X-Men- Conflitto Finale" (2006) risulta vincente: l'elaborazione del lutto mancava totalmente nella pellicola di Ratner, ma qui il concetto di "ossessione" diviene parte integrante della caratterizzazione del personaggio, donandogli profondità; gli incubi su Jean permettono a Logan di confrontarsi con sé stesso e le sue azioni, e il suo conflitto interiore e il rimorso che lo attanaglia sono ben elaborati in sede di script; bella anche l'idea di negare all'eroe la sua proverbiale invulnerabilità, che porta la gli sceneggiatori a doversi arrovellare per trovare soluzioni più "fisiche" e meno "fumettistiche" agli scontri.


Su tutto, è la semplicità della storia a stupire, dove per semplice si intende lontana dagli echi fantastici solitamente affibbiati ai personaggi fumettistici; tutta la narrazione si basa sul senso di colpa di Logan e sugli intrighi della corporazione di Yashida, con tanto di guardie del corpo ninja, yakuza e poliziotti corrotti; intreccio stile hard-boiled che, di concerto con la forte enfasi sul passato del personaggio, avvicina il film ai territori del noir classico, rafforzando ancora di più la sensazione di trovarsi di fronte ad un prodotto d'antàn piuttosto che ad un blockbuster estivo;  sensazione rafforzata ulteriormente dall'assenza di personaggi dotati di super-poteri, se si escludono il protagonista, il villain e la femme fatale Viper, uniche concessioni al fantastico di una sceneggiatura sobria, ma imperfetta.


Sceneggiatura che, al solito, presenta errori talvolta risibili e approssimazioni grossolane; come sempre la continuità tra film viene a saltare: come può Logan avere ricordi sulla Seconda Guerra Mondiale dopo che Stryker gli ha inferto un'amnesia totale con il suo "proiettile magico"? E, sopratutto, che fine ha fatto Sabretooth? Senza contare che, tolte Mariko e Yukio, tutti i personaggi secondari sono stereotipati e dalla caratterizzazione opaca, compresi i villain Viper e Silver Samurai; quest'ultimo in particolare per risultare credibile avrebbe meritato davvero maggiore approfondimento, piuttosto che un misero showdown nel terzo atto, condito di frasi fatte e battute razziste; miracolo sta, per fortuna, nella risoluzione, per una volta non lasciata esclusivamente ai muscoli del protagonista.


La modestia è la forza di questo "The Wolverine", il cui titolo italiano riecheggia quell' "Ultimo Immortale" degli anni '80 riportando alla mente i ricordi di un cinema action-fantasy ormai perduto; la nuova incarnazione del mutante artigliato di casa Marvel è una pellicola onesta e proprio per questo riuscita; va da sè una riflessione tutto sommato imprevista: forse la vera dignità dei comics su schermo va cercata non tanto nella trasposizione letterale di personaggi e situazioni, quanto nella loro traduzione in forme già codificate da generi e filoni, operazione qui ben riuscita e che, di fatto, è alla base anche delle migliori trasposizioni di sempre, quali i mitici "Batman Il Ritorno" (1992) e "Il Cavaliere Oscuro" (2008).

giovedì 10 ottobre 2013

Roulette Cinese

Chinesisches Roulette

di Rainer Werner Fassbinder

con: Anna Karina, Margit Carstensen, Brigitte Mira, Volker Spengler, Andrea Schober, Ulli Lommel, Alexander Allerson, Macha Mèril.

Germania, Francia (1976)

















Nel 1976 Rainer Werner Fassbinder, da sempre prolifico ai limiti del maniacale, dirige ben tre film; tra questi, "Roulette Cinese", tratto da una sua vecchia pièce teatrale, rappresenta uno dei suoi massimi capolavori, nonchè il suo film più gelido e nichilista.


L'imprenditore Gherard Christ (Alexander Allerson), sposato con la bella Ariane (Margit Carstensen) e padre di Angela (Andrea Schober), adolescente affetta da una malattia alle gambe, organizza un finto viaggio d'affari per passare un fine settimana con la sua amante di origine francese, Irene (Anna Karina); giunti nella sua villa di campagna, i due fanno una scoperta inattesa: anche Ariane ha un amante, Kolbe (Ulli Lommel), giovane aiutante di Gherard, ed entrambi si sono a loro volta rifugiati nella villa di campagna per un week-end di passione; l'incontro tra le due coppie è stato in realtà organizzato da Angela, la quale decide di smascherare la loro ipocrisia coinvolgendoli in un progressivo gioco al massacro nel quale attrae anche la governante Kast (Brigitte Mira), suo figlio Gabriel (Volker Spengler), giovane anarchico dalle aspirazioni di letterato, e la sua stessa badante Traunitz (Macha Mèril), affetta da mutismo.


Fassbinder smaschera le ipocrisie malamente nascoste della borghesia media; il tradimento del coniuge, perno di tutta la narrazione (come rivangato nell'epilogo) diviene l'emblema dello squallore morale della classe media; squallore che di fatto i suoi esponenti non vogliono nemmeno coprire: dinanzi alla scoperta del tradimento reciproco, la reazione dei coniugi Christ è una semplice risata, un'accettazione totale e serena, come se il tradimento fosse tutto sommato un'attività normale, tranquillamente accettabile ed accostabile all'unità familiare; tuttavia, i rancori tra i coniugi sono solo nascosti, non eliminati dalla scoperta: a tal proposito il personaggio di Angela inscena una serie di incontri e scontri che culminano, nel finale, nel gioco della "roulette cinese" che permette a tutti i personaggi, coperti da un parziale anonimato, di parlare liberamente; è solo ora che la cattiveria intrinseca si disvela: ogni rancore viene rinfacciato mediante il gioco, senza paura e senza filtri, e i personaggi si mostrano in tutta la loro intrinseca mostruosità.


Degli otto protagonisti, due sono il vero perno dell'indagine fassbinderiana; da una parte vi è l'angelico Gabriel (interpretato da un sempre bravo Volker Spengler), un giovane proletario totalmente sottomesso alla madre, che trova unicamente nella scrittura creativa uno sfogo; quello di Gabriel è un inferno in terra: una vita sacrificata al nulla e sulla quale ha solo una minima capacità di manovra; nel finale Angela gli rinfaccia tutte le sue mancanze, portandolo ancora più a fondo nella sua crisi personale; ed è proprio Angela il fulcro effettivo di tutta l'opera: una piccola ragazza afflitta da una malattia fisica che ne ha acuito i rancori verso i genitori; nella sua personale visione, è la sua malattia che ha portato i genitori al tradimento, che ne ha causato la rottura dell'unità; reazione vista non come forma di consolazione, bensì come atto di vigliaccheria, che porta la ragazza a voler disvelarla per poter ferire deliberatamente i cari; Angela è un essere meschino, manipolatore, che non si fa scrupoli pur di distruggere qualsiasi cosa le si para innanzi e di sottomettere le persone come fossero le sue bambole (inquadrate come piccoli cadaveri), un "mostricciattolo insensibile" che per prima ha sottomesso  Traunitz, sorta di suo ideale dopplegangher adulto che si muove come un demone suadente e silenzioso; la manipolazione della prima sulla seconda si evince dalla magnifica scena del ballo, fulgido esempio di inquietante e sottilissima cattiveria.


Gli altri cinque personaggi formano un unicum, la manifestazione di ogni difetto che la borghesia possiede: oltre l'ipocrisia, la cattiveria gratuita (Kast urla "fascista" ad un automobilista che le taglia la strada), l'opportunismo (Irene ha conosciuto Gherard a causa di una storia di soldi), il cinismo (Gherard e Kolbe parlano delle prestazioni sessuali di Ariane come se niente fosse) e la passione morbosa (il rapporto saffico che scorre sottopelle tra Irene e Ariane); nel ritrarre il loro disfacimento, Fassbinder non usa sconti: li porta alla distruzione totale e totalizzante in un massacro senza limiti; l'eviscerazione dei difetti che vengono visti e non rivelati diviene insostenibile: nessuno sopporta che gli sia rivelata la verità, l'illusione della rispettabilità è talmente radicata nei personaggi che all'atto della disvelazione reagiscono solo con la violenza; violenza fortemente voluta da Angela per liberarsi dal suo inferno, ma che le sarà negata solo per infliggerle un castigo più grande; violenza che non si sopisce neanche a seguito della prima vittima e che si riversa, fuori scena, su uno dei personaggi, non è dato sapere chi perchè non ha importanza, ciò che conta è che il tabù è stato infranto e che nulla (forse) sarà come prima.


Nel mettere in scena lo scontro tra aguzzini e vittime, Fassbinder esaspera la sua famosa profondità di campo ed indugia ancora più che in passato con i carrelli laterali; l'origine teatrale della scrittura si infrange grazie ad una costruzione della scena controllatissima e fatta di molteplici inquadrature, spesso oblique dall'alto e dal basso; magnifico anche l'uso della scenografia: le superfici riflettenti vengono usate per frammentare le immagini dei personaggi e duplicarli in una serie di doppi, eviscerazione dei loro pensieri con cui idealmente si scontrano all'interno dello schermo, aumentando al contempo la freddezza e il cinismo dell'atmosfera, fino all'insostenibile; e sono proprio i termini "cattivo" e "freddo" che meglio descrivono "Roulette Cinese", intesi nelle loro migliori accezioni: un'opera che non fa sconti, nasce per provocare e scioccare e riesce perfettamente nel suo intento, a testimonianza dell'immenso talento di un grandissimo autore.

mercoledì 9 ottobre 2013

Gravity

di Alfonso Cuaròn

con: Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris.

Fantascienza/Thriller

Usa, Inghilterra (2013)














Dopo aver stupito le platee mondiali nel 2006 con il capolavoro "I Figli degli Uomini", Cuaròn continua la sua personale disanima del genere fantascientifico con "Gravity", nel quale affronta il filone del "film di sopravvivenza" applicato alla fantascienza classica.


Totalmente immerso nello spazio al di sopra della Terra, "Gravity" segue le disavventure di Ryan Stone (Sandra Bullock), scienziata impegnata in una missione spaziale andata male, la quale cerca in ogni modo di sopravvivere alle avversità del cosmo; ad aiutarla c'è solamente il pilota Matt Kowalski (George Clooney), anch'egli superstite della missione.


Protagonista indiscusso dei 90 minuti di durata è lo spazio, con la sua oscurità infinita e il silenzio tombale squarciato unicamente dai respiri dei due personaggi e dalla musica onnipresente; l'atmosfera è tesa fin dai primissimi istanti: Cuaron apre il film con la missione già iniziata e con la pioggia di detriti in arrivo; di fatto, nell'ora e mezza successiva non ci sono stacchi temporali, se non brevissimi; ancora più che ne "I Figli degli Uomini", il concetto di dilatazione e de-strutturazione temporale, proprio del media cinematografico, viene abbandonato per una narrazione "in diretta" e lineare, che si concentra esclusivamente sui punti di vista dei due astronauti, all'inizio, e solo su quello della sola Stone da metà in poi; la tragedia, la paura, la tensione che si respira è immane e attanaglia lo spettatore senza tregua.


Merito dello stile di regia radicale ed esasperato; Cuaròn struttura tutta la pellicola come una serie di lunghissimi piani sequenza (girati a stacchi ed incollati assieme grazie al montaggio digitale) che gli permettono di pedinare la protagonista senza sosta; centro di interesse diviene così il corpo della Bullock, che in assenza di gravità diviene vero e proprio oggetto inanimato in balia degli eventi, sui quali pare non avere mai davvero il controllo; la sopravvivenza diviene così non solo lotta contro un ambiente ostile e inospitale, ma sopratutto contro "l'imprevisto", tutto ciò che sfugge al controllo dell'uomo; e di fatto, i personaggi altro non sono che oggetti, non soggetti, sprovvisti di ogni potere decisionale e lasciati in balia del caso, o "del fato" come una lettura spirituale (di fatto avvalorata dall'inquadratura della statuetta del Buddha nelle scene finali) sembra suggerire.


Il tema dell'essere umano come "corpo inerte" vive attraverso le immagini spettacolari ed avvolgenti, senza mai divenire il perno del racconto; tutta l'enfasi viene lasciata sulla tensione e quindi sul coinvolgimento emotivo che, di fatto, non manca mai; con "Gravity" il cinema diviene esperienza sensoriale prima ancora che intellettiva: bisogna lasciarsi trasportare, come i suoi personaggi, dagli eventi e dalle immagini, immergersi nello spazio e nei suoi pericoli ed assaporarne ogni singola sensazione, acuita magnificamente (per una volta, finalmente) dalla visione in 3d, che aggiunge davvero una nuova profondità percettiva all'esperienza visiva.

martedì 8 ottobre 2013

Pop Skull

di Adam Wingard

con: Lane Hughes, Brandon Carroll, Melanie Henry, Hannah Hughes, Jeff Dylan Graham, E.L. Katz, Jennifer Price.

Usa (2009)















---SPOILERS INSIDE---

Subito dopo la fine delle riprese di "Home Sick" (2007), Adam Wingard inizia la produzione del suo secondo lungometraggio, che terminerà solo due anni dopo, nel 2009: "Pop Skull"; più ambizioso del gonzo-slasher degli esordi, "Pop Skull" è un intelligente mix di video arte e cinema di finzione che affonda le sue radici nell'horror psicologico e nel filone del cinema sulla tossicodipendenza, i cui punti di riferimento sono due cult del calibro di "Trainspotting" (1996) e sopratutto "Requiem for a Dream" (2000)


Nel portare in scena la strana storia di depressione post-separazione e dipendenza da sostanze psicotrope di Daniel (Lane Hughes), Wingard abbatte i modelli di riferimento esasperandone lo stile; le visioni lisergiche qui non sono circoscritte a singole scene o eventi: è l'intera pellicola a riprendere lo stato allucinogeno del suo protagonista; la narrazione si sfalda fin dai primissimi fotogrammi: ogni scena viene spappolata e "sparsa" per tutta la durata del film; il mix di paura, nostalgia, dolore e stupefazione prende la forma di clip espressioniste, fatte di primi piani subliminali, loop esasperati, primissimi piani mischiati a rari campi lunghi, il tutto illuminato con monocromie arancio e luci neutre contrastatissime; l'intento dell'autore di ricreare il caos percettivo del suo protagonista è perfettamente riuscito: "Pop Skull" è una vera e propria esperienza sensoriale in grado di disorientare, stordire e spaventare, puro cinema underground che entra dritto nel cervello dello spettatore.


Nel ritrarre la spirale di dipendenza e depressione, Wingard mostra una sorta di pudore, un rispetto inedito verso il suo personaggio, descritto si come un tossico votato all'autodistruzione, ma anche e sopratutto come un vittima della spirale autodistruttiva cui si è condannato; la tossicodipendenza, pur non esaltata, viene vista con distacco e non come la causa del male, bensì come una conseguenza, una sorta di catalizzatore che porta la vittima al passo successivo, ovvero la distruzione dell'oggetto del proprio odio; la droga (qui sotto forma di pillole psicotrope) è il viatico per la totale perdita del contatto con la realtà: a seguito della (gigantesca) consumazione, Daniel comincia a vedere i fantasmi di un omicidio/suicidio avvenuto anni prima, arrivando a non distinguere più la realtà dal sogno e il presente dal passato; distruzione delle barriere del reale e del tempo che presagisce anche il superamento della distinzione tra amore e odio: nel finale arriverà ad uccidere il suo rivale in amore e forse anche il suo stesso amore... forse, giacchè la totale incapacità di discernere il "qui e ora" porta anche alla parziale incapacità di agire.


Girato con soli seimila dollari di budget, il secondo lungometraggio di Wingard ne conferma le doti di cineasta indipendente e sperimentatore, in grado di mischiare con nonchalance esigenze narrative e fascinazioni proprie del cinema sperimentale più puro; oltre a rivelarne, più che in "Home Sick", le eccellenti doti di montatore: la forza visiva del film si deve infatti quasi esclusivamente all'assemblaggio subliminale di esperimenti visivi, riprese in digitale ed inserti video, in un mash-up talmente riuscito da ricordare i fasti dell'insuperabile "Natural Born Killers- Assassini Nati" (1994).


Spettacolare e affascinante, "Pop Skull" è probabilmente l'opera più riuscita ed interessante di Adam Wingard, che con poche pretese e molto stile riesce davvero a far penetrare lo spettatore in una psiche alla deriva senza scadere mai nell'ovvio o nel ricattatorio.

lunedì 7 ottobre 2013

Kick-Ass 2

di Jeff Wadlow

con: Aaron Taylor-Johnson, Chloe Grace Moretz, Christopher Mintz-Plasse, Jim Carrey, Donald Faison, John Leguizamo, Lindy Booth, Olga Kurkulina, Morris Chestnut, Clark Duke, Augustus Prew, Ian Glein.

Grottesco

Usa, Inghilterra (2013)















Il primo "Kick-Ass", nel 2010, si rivelò inaspettatamente come un ottimo successo al botteghino americano, tant'è che il consenso del pubblico portò alla riscoperta del fumetto di partenza e alla successiva creazione di una nuova serie con protagonista lo stralunato Dave Lizewski; serializzato tra il 2010 e il 2012, "Kick-Ass 2" riprende la storia del suo predecessore e ne espande temi e situazioni; Dave cerca di far convivere le sue due identità, quella di adolescente imbranato e quella di vigilante sfigato; Mindy, alias Hit-Girl, vive ora con Marcus, poliziotto ex collega di suo padre, ed è alle prese con i traumi dell'adolescenza; nel frattempo Red Mist torna da un viaggio in Est Europa dove ha reclutato un nuovo gruppo di criminali in maschera, tra i quali la colossale Mother Russia, e giura di vendicare la morte del padre, ribattezzandosi "The Motherfucker" e mettendo a ferro e fuoco il quartiere di Katie, presunta fidanzata di Dave; per fortuna, Kick-Ass e Hit Girl sono coadiuvati da un intero gruppo di improbabili eroi in costume, tra i quali spiccano anche Marty e Todd, compagni di scuola di scuola di Dave, ribattezzatisi "Battle Guy" e "Ass Kicker".


L'adattamento delle nuove avventure di Kick-Ass arriva giusto un anno dopo la loro conclusione, nel 2013 per la regia di Jeff Wadlow, che sostituisce Matthew Vaughn ora impegnato con la produzione di un altro cinecomic, quel "X-Men: Days of a Future Past" che si preannuncia come la più interessante trasposizione dei mutanti Marvel al cinema; Wadlow adatta la miniserie originale con delle differenze talvolta essenziali: il viaggio in Europa di Chris viene eliminato e viene modificato il finale, compresi i riferimenti all'11 Settembre; il risultato, però, paga: "Kick-Ass 2" è un sequel che riprende la formula del suo predecessore, la potenzia e ne elimina i difetti.


Rispetto al primo film, in questo seguito viene enfatizzato il lato più ordinario dei personaggi: eroi e villain si ritrovano ora soli al mondo e a confrontarsi con il peso delle loro azioni; resosi conto della sua inefficenza come eroe in solitario, Dave subisce un forzoso e disumano allenamento da parte di Mindy, la quale le dimostra cosa significhi davvero essere delle macchine da guerra di carne e ossa; Dave deve inoltre fare i conti con il fenomeno di massa che le sue azioni hanno generato: diviene parte di un pittoresco gruppo di vigilantes comandato da Capitain Star and Stripes (un favoloso Jim Carrey, che in seguito si distanzierà dal film a causa dei toni suoi toni violenti e cinici), nel quale la tutela dell'ordine pubblico viene vista anche come una forma di riscatto personale; largo spazio viene poi dato a Hit Girl e al suo scontro con i problemi dell'adolescenza, risolti a suon di colpi di karate ed armi non convenzionali, nonchè a Chris "Motherfucker" D'Amico e alla sua vendetta ossessiva.


A farla da padrone è però l'umorismo cinico e la violenza grottesca; il tono iperbolico ai limiti del demenziale questa volta non si stempera con il procedere della narrazione, anzi: viene strutturato come un vero e proprio crescendo che culmina nella battaglia finale e, ancora di più, nell'immancabile "scena extra", questa volta davvero sorprendente per la sua carica di cattiveria; umorismo qui graffiante fino al dolore: non si può di certo non ridere di fronte all'idiozia del villain Motherfucker e al suo gruppo di criminali sopra le righe, nè davanti alla totale idiozia di Chris nei suoi atteggiamenti da genio del male malamente posti in essere; su tutte, la scena da antologia questa volta è il tentato stupro ai danni di Nightbitch (nomen omen), nuovo interesse amoroso di Kick-Ass, che schernisce delusa la poca virilità del suo assalitore.


Ironia folle e acida non sempre valorizzata a dovere, come nel caso del personaggio di Capitain Star and Stripes: l'idea di farlo interpretare da Carrey paga, ma il poco tempo dedicatogli non permette al grande comico di esprimersi al meglio, lasciando allo spettatore l'amara certezza che una sceneggiatura più articolata gli avrebbe permesso di creare un personaggio davvero memorabile, obiettivo che l'attore sembra ormai rincorrere da anni; quel che resta è una storia pretestuosa ma godibile, nonostante la sua estrema linearità, e sopratutto tanta cattiveria, urlata, esagerata, talvolta autocompiaciuta, ma tutto sommato innocua, per questo dannatamente divertente.