giovedì 30 novembre 2017

La Guerra dei Mondi

War of the Worlds

di Steven Spielberg.

con: Tom Cruise, Dakota Fanning, Justin Chatwin, Tim Robbins, Miranda Otto, Rick Gonzalez.

Fantascienza/Catastrofico

Usa 2005















---CONTIENE SPOILER---


Pubblicato per la prima volta in quattro parti nel 1897, "La Guerra dei Mondi" di H.G. Wells è l'opera più influente dello scrittore più influente degli ultimi duecento anni. Vero e proprio creatore del genere fantascientifico (assieme a Jules Verne), con questo suo incredibilmente visionario exploit Wells immagina per la prima volta nella Storia il contatto tra l'essere umano ed una razza aliena, con conseguenze catastrofiche.
Inutile stare a sottolineare come nel corso di ben 120 dal suo esordio, "La Guerra dei Mondi" sia stato alla base di praticamente tutto il cinema fantascientifico, sia fantastico che hard sci-fi, concernente l'incontro con extra-terrestri. Nè appare utile ricordare il mitologico adattamento radiofonico di Orson Welles (nome omen) del 1938, a cui seguirono ondate di isteria collettiva dovuta alla forma data dal grande artista al racconto, ossia quello di un finto radiogiornale che commentava lo sbarco alieno e i conseguenti attacchi come descritti nel libro.



Romanzo che pur non invecchiato benissimo, trova ancora oggi motivo di interesse anche non semplicemente "archeologico"; efficacissima è la descrizione dello scenario post apocalittico, così come la caratterizzazione dei personaggi, con il protagonista vero e proprio doppio di H.G. Wells ed un paio di comprimari, incontrati a storia inoltrata, dall'indole psicologica credibile: un predicatore traumatizzato dall'invasione, che vede i marziani come emissari dell'Inferno, ed un soldato impazzito che farnetica di una possibile resistenza contro la soverchiante forza aliena, scavando un tunnel che non conduce da nessuna parte.
Ancora apprezzabile è la descrizione degli alieni, con i loro celebri "tripodi", veicoli xenoformi giganteschi che distruggono tutto quello che si trovano innanzi senza troppo sforzo, personificazione perfetta della paura ancestrale di un'apocalisse priva di senso e talmente inarrestabile da poter essere solo subita passivamente.
Persino la trovata di risolvere il tutto per il tramite dei batteri terrestri che attaccano l'organismo alieno, non immunizzato proprio perchè non ha mai vissuto sulla Terra, benchè figlia di una cognizione scientifica oramai superata (possibile che questa civiltà in grado di viaggiare per migliaia di anni luce e costruire armi di distruzione di massa invincibile non abbia mai inventato sonde in grado di rilevare la composizione dell'ecosistema terrestre?), se inscritta nel periodo di pubblicazione della storia, appare a dir poco geniale.




L'eredità di H.G. Wells è stata raccolta dal cinema americano sin dalla fine degli anni '40. Con l'avvio del progetto spaziale e sopratutto a causa dell'inizio della Guerra Fredda, la storia di un'invasione da parte di esseri alieni venuti dall'ignoto e che avviene di punto in bianco ed annichilisce ogni forma di vita in pochi istanti, diviene la perfetta incarnazione della paranoia dell'Olocausto Nucleare. Tutta la produzione fantascientifica degli anni '50 si basa sulla rielaborazione del canovaccio de "La Guerra dei Mondi" o di altri scritti ispirati, in modo diretto o meno, ad esso; senza contare il primo adattamento cinematografico del romanzo originale, datato 1953, che trasporta la storia in epoca contemporanea e la infarcisce con forti metafore anticomuniste, cambiandone in parte trama e caratterizzazione dei personaggi. Versione giustamente divenuta di culto e anch'essa invecchiata non benissimo, ma lo stesso ancora affascinante, anche grazie all'ottimo design delle navicelle aliene, non più tripodi ma veri e propri dischi volanti, forse a causa della difficoltà insita nel creare un movimento credibile con gli SFX dell'epoca.




Ed è proprio l'estrema adattabilità dell'assunto di base a consentire a "La Guerra dei Mondi" di avere una nuova incarnazione oltre 50 anni dopo la prima; Spielberg, coadiuvato dal fido David Koepp alla sceneggiatura, ha un'intuizione geniale: trasformare l'invasione dei Tripodi in una metafora potente delle paure post 11 Settembre. Adattamento che trova la sua forza in un immaginario a dir poco sconvolgente, il più forte e crudo mai portato in scena dal Re Mida di Hollywood, persino rispetto a quello di "Indiana Jones ed il Tempio Maledetto".



Cadaveri che galleggiano sul letto di un fiume nella tranquillità della campagna nordamericana, civili innocenti inceneriti in un batter di ciglio, esseri umani trasformati in concime quando non travolti da macchine torreggianti; le immagini de "La Guerra dei Mondi" di Spielberg sono un vero e proprio incubo ad occhi aperti, la rappresentazione lucida e diretta di una "fine" non sospettata, né comprensibile; non c'è spiegazione effettiva per la violenza dei marziani, tantomeno per la loro intolleranza verso forme di vita inferiori; gli esseri umani sono come vermi al loro confronto e come vermi vengono trattai.
La mano di Spielberg, come sempre quando si tratta di dirigere una pura pellicola di genere, è fermissima: la tensione è sempre alta, tenendo lo spettatore costantemente sul filo del rasoio per poi esplodere in jump-scare azzeccatissimi o nelle immagini disturbanti della catastrofe, rese ancora più spaventose dalla fotografia di Janusz Kaminski, che le prosciuga di ogni colore e le sgrana per ottenere un effetto realistico, al punto che a volte sembra davvero di assistere ad un documentario, similmente a quanto fatto da Orson Welles con il mezzo radiofonico.
Se nella messa in scena, "La Guerra dei Mondi" è un'opera potente e riuscita, purtroppo altrettanto non si può dire per la narrazione in sè, per colpa di alcune scelte di trama e casting a dir poco disastrose.



Al bando scienziati e scrittori, il punto di vista sull'invasione questa volta viene cucito addosso a Ray Ferrier, operaio divorziato e genitore insicuro, sorta di working class hero che passa dall'essere un irresponsabile ad una sorta di piccolo eroe suo malgrado. Centro emotivo e drammatico non è tanto la distruzione della civiltà, quanto la disgregazione del nucleo familiare: a Spielberg non interessano più di tanto le sorti del mondo, quanto quelle della base primigenea della società. Il che porta ad un primo problema.
La riduzione del punto di vista a quello dei soli uomini medi restringe troppo la vastità della vicenda: non si percepisce mai davvero la scala globale dell'invasione, nonostante l'atmosfera pesante e violenta. Ma, ancora di più, il focalizzarsi totalmente sui problemi privati di un uomo che di punto in bianco si trova catapultato in una situazione di pericolo totale appare pretenzioso: non si riesce davvero a parteggiare per questo piccolo uomo ed i suoi bisogni quando l'intera razza umana è in pericolo.
Quel che è peggio, ogni finalità drammatica viene annichilita da un happy ending zuccheroso in cui ogni singolo conflitto trova risoluzione, il protagonista cresce, il figlio dato per morto si salva per magia, la bambina sopravvive e persino quel nucleo familiare della ex moglie tanto detestato si rivela caldo ed accogliente.




Ma, ancora di più, l'accoppiata "invasione aliena-nucleo familiare" finisce inevitabilmente per portare alla mente altri lavori di Spielberg, primo fra tutti "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo", il cui confronto con "La Guerra dei Mondi" è davvero inevitabile.
Ci si chiede, innanzitutto, come mai Spielberg abbia voluto dirigere un film sulla prima e più celebre invasione aliena, caratterizzando quindi gli extra terrestri come terroristi privi di empatia, quando proprio "Incontri Ravvicinati" prima e poi "E.T." sono opere nate proprio in opposizione al lascito di Wells; cambio di mentalità? Pura occasione per fare soldi? Scelta dettata dal cambiamento geo-politico? Impossibile saperlo con certezza.
Ancora più distante appare poi il rapporto tra l'autore ed il concetto di famiglia rispetto al film del '77; laddove lì la famiglia era un peso, una prigione che impediva all'individuo di realizzarsi, qui, come del resto in tutti gli altri film di Spielberg, la famiglia è nido essenziale, valore principale per ogni essere umano. Tant'è che persino la figura dell'artigliere paranoico viene rimpiazzata dal personaggio di Tim Robbins, folle perchè ha visto tutti i suoi cari morire. Inversione di tendenza che dimostra come Spielberg sia in grado di trasformarsi, di abbandonare una visione in favore di un'altra pur di far contento il suo pubblico: laddove il cinema americano degli anni '70 era figlio della controcultura e della contestazione dei valori fondamentali della società occidentale, quello dei primi anni 2000 è ai limiti della propaganda neo-con repubblicana, di quel ritrovato senso di patriottismo ed unione generato a seguito della tragedia del World Trade Center. Alla faccia della coerenza.




Ad affossare definitivamente la visione è complice anche la presenza di un attore quale Tom Cruise, credibile nei panni di un proletario come lo sarebbe Denzel Washington in quelli di un gerarca nazista: con il suo mascellone squadrato, il fisico da fotomodello agghindato con un costoso giubbotto da motociclista mentre scorrazza su di una Mustang truccata sgommando a destra e a manca, Cruise è lontano anni luce dall'essere identificabile con il classico "Joe the Plumber" yankee, figuriamoci come devoto padre di famiglia.
Quel che è peggio, la sua canonica espressione blanda nelle situazioni drammatiche o di pericolo è del tutto fuori luogo; quando poi si trova a dividere lo schermo con una Dakota Fanning fin troppo espressiva e con un giovane Justin Chatwin sottilmente empatico, su tutto cala un alone di ridicolo involontario che ammazza ogni sospensione dell'incredulità. Il che risulta anche più fastidioso quando ci si accorge che nelle scene più intime, Cruise funziona dovere e che la dicotomia nella sua performance tra queste ultime e quelle di distruzione di massa è dovuta alla cattiva direzione di Spielberg.




"Malriuscito" è il termine che meglio descrive questo ennesimo exploit di genere del Re Mida di Hollywood, che non solo contraddice alcuni dei suoi film più amati per il gusto di farlo, ma riesce anche a vanificare ogni forma di coerenza all'interno di un adattamento mal concepito e peggio eseguito, che trova la sua forza nelle sole, sconvolgenti, immagini, come un qualsiasi blockbuster estivo, piuttosto che come nell'opera di uno dei registi più celebrati della Storia del Cinema.

martedì 28 novembre 2017

L'Uomo che Amava le Donne

L'homme qui aimait les femmes

di François Truffaut.

con: Charles Denner, Brigitte Fossey, Nathalie Baye, Leslie Caron, Nelly Borgeaud, Geneviéve Fontanel, Valérie Bonnier.


Francia 1977
















Un'ossessione, quella di Truffaut, un'immagine ricorrente che catalizza la sua attenzione ed i suoi desideri consci ed inconsci; quella della donna, del corpo femminile, dell'idea della donna o di un particolare tipo di donna, dal carattere forte e dispotico; ad ogni modo, la donna, con la sua innata sensualità, è sempre stata al centro della sua opera. E con "L'Uomo che amava le Donne" è al suo rapporto con queste che pensa, creando la sua opera più vicina ad un'autobiografia; lontano, però, da ogni forma di idealizzazione delle proprie inclinazioni ed anzi velando il tutto con un'inavvertibile ma onnipresente coltre di tristezza.




Bertrand ha il volto di Charles Denner, ma è ricalcato su Truffaut. Un uomo dall'apparenza semplice, di una bellezza virile di certo non travolgente, non da divo, ma al contempo carismatico, magnetico; un uomo che nell'approcciarsi all'oggetto del desiderio ha sempre un'espressione greve e sofferente: in molte gli confessano come abbiano provato un misto tra attrazione e pietà nel vederlo. Eppure, questa sua malinconia non gli impedisce di saltare da una donna all'altra, di cambiare amante come cambia cravatta; non è un uomo che cerca l'amore, è un uomo innamorato dell'amore o, per meglio dire, di una propria idea dell'amore: cerca in varie partner quello che solitamente un uomo cerca in una sola donna. Ed ama ognuna di queste con trasporto, anche se per poco tempo.
Il paragone con Casanova, pur schivato dall'autore nei dialoghi, è in verità azzeccato: come il grande seduttore veneziano, anche Bertrand non vede la donna come mero oggetto sessuale, nè come il premio per una caccia, bensì come un idolo, un qualcosa da conquistare ed amare, sia fisicamente che sentimentalmente.



Sentimento che brucia in pochi istanti; dacchè innumerevoli sono le "conquiste". E Truffaut non cela mai la sua passione sfrenata per il corpo femminile, in particolare per le gambe, definite "il compasso per misurare il mondo", centro gravitazionale della sua attenzione.
L'immedesimazione con il personaggio è totale, ancora più di quanto accadeva con il suo "quasi-doppio" Antoine Doinel; l'autore gli resta sempre vicino, adoperando questa volta una messa in scena scarna, usando inquadrature strette, girando quasi tutto il film in interni ed adoperando quasi sempre semplici campi e controcampi per portare in scena i dialoghi. La narrazione in sè stessa, composta al solito dagli "sketch", ha un'inedita forma ad incastro, più complessa rispetto a quella di "Mica Scema la Ragazza!", che invece seguiva un percorso bene o male lineare. La storia di Bertrand, al pari della sua vita sentimentale, è frammentaria, un continuo andirivieni tra passato e presente, una serie di piccoli e grandi flashback all'interno di uno più grande, lungo tutto il film, che si apre con l'epilogo, con il funerale dell'Uomo che amava tutte le donne.



La morte è l'unica fine possibile per il seduttore; una morte dovuta, paradosso puro, per la solitudine; benchè Bertrand  non sia uno sciupafemmine, né un misogino, benchè non sia un uomo a cui piace usare le donne per i propri fini egoistici e corporali (a differenza di un altro grande seduttore filmico, l' "Alfie" di Michael Caine) è comunque contrario ad ogni unione. E si ritrova così, sotto le feste natalizie, totalmente solo, abbandonato, in un modo o nell'altro, da tutte quelle donne che così intensamente e brevemente ha avuto.
Ma Truffaut non vuole condannare la sua (e la propria) condotta libertina, solo riflettere sulla tristezza che si cela dietro un comportamento in apparenza frivolo.




La sofferenza di Bertrand ha radici profonde, causate in primis da quella figura matriarcale dalla libidine incontenibile, che si divertiva ad ignorarlo, senza mai dargli quell'affetto primigeneo di cui aveva bisogno.
Tristezza acuita dalla rottura con Vera, forse l'unico grande amore della sua vita, che reincontra per puro caso a Parigi e tramite la quale confessa allo spettatore come l'abbandono lo abbia portato ad una nera depressione.
Il legame affettivo, più che schifato, viene rescisso, nel corso della relazione, forse proprio per evitare tale dolore. Meglio che la fiamma della passione bruci velocemente, piuttosto che esplodere portando con sè ogni forma di felicità. Tanto che persino la relazione con la passionale Delphine, ideale nemesi di Bertrand, dall'appetito insaziabile e dalla gelosia incontenibile, finisce la prima volta con una tragedia, ossia il tentato omicidio del di lei marito, per poi sfumare in una relazione totalmente fisica, che trova nel puro affetto carnale l'unica possibile chiusura.




E Truffaut chiude il film con un interrogativo straziante: quanto felice era in verità questo seduttore? Non è dato saperlo: alla fine quel che resta delle sue avventure è un libro di memorie, un "figlio surrogato" unica testimonianza tangibile della sua esistenza; senza sbilanciarsi, con un'onesta di fondo incredibile, sembra voler chiedere allo spettatore di esprimere un giudizio definitivo su di un personaggio impossibile da condannare, nè da assolvere; un personaggio che trova nella coerenza del suo stile di vita e nella tristezza incurabile le sole certezze.



EXTRA

"L'Uomo che amava le Donne" è, assieme a "La Mia Droga si chiama Julie" l'unico film di Truffaut ad essere stato oggetto di remake. Nel 1983, niente meno che Blake Edwards ne ha infatti diretto una versione americana che, pur contando sul tocco del grande regista ed un cast che include Burt Reynolds, Julie Andrews e Kim Basinger, non ha di certo la profondità dell'originale, sostituendo l'indole dolente con un umorismo farsesco che appiattisce storia e personaggio.


venerdì 24 novembre 2017

Re Lear

King Lear

di Jean-Luc Godard.

con: Peter Sellars, Jean-Luc Godard, Leos Carax, Julie Delpy, Freddie Bauche, Molly Ringwald, Burgess Meredith, Woody Allen.

Usa 1987
















Un caso a dir poco singolare, quello del "Re Lear" di Godard. Nato dall'incontro con Menahlem Golan e Yoram Globus nel 1985, questo strano oggetto filmico doveva inizialmente essere un adattamento decostruttivo e postmodernista del dramma di Shakespeare, tanto che viene coinvolto nel progetto niente meno che Norman Mailer come sceneggiatore. Ma dopo un solo giorno di riprese, Godard lo licenzia e sovverte tutto il progetto, facendolo a pezzi, obliandone storia e personaggi, risucchiando il tutto in un maestorm di riflessioni e pensieri liberi sull'arte visiva, la decadenza dell'Occidente nell'era dell'edonismo, la perdita della cultura e l'ossessione grammaticale.
Presentato a Cannes, il film riceve un'accoglienza a dir poco disastrosa. I due produttori prenderanno immediatamente le distanze dal prodotto finito, che non trova strada, in molti paesi, nemmeno per l'uscita in sala (qui in Italia è tutt'oggi reperibile unicamente in Home Video).
Astio del tutto giustificato: "Re Lear" è una riflessione arida e chiusa in sè stessa, dove Godard si lascia soggiogare dalle sue ossessioni e pulsioni, senza riuscire a comunicare nulla di nuovo o fecondo.




Del dramma omonimo non resta quasi nulla; Burgess Meredith interpreta una sorta di gangster chiamato Lear e Molly Ringwald la sua giovane figlia Cordelia. Ma la loro storia, il loro rapporto e la rilettura di Shakespeare restano relegati sullo sfondo. Così come sullo sfondo di tutto resta le ricerca, picaresca e strampalata, dello pseudo protagonista interpretato da Peter Sellars, William Shakespeare Jr. V, discendente del Bardo che in un mondo post-apocalittico, dove la tragedia di Chernobyl ha spazzato via la cultura, deve ritrovare, per conto della "divisione culturale della Cannon", le opere del suo avo.
Punto centrale è la figura del Professore, interpretato dallo stesso Godard, attorniato dai suoi folletti, tra i quali compaiono due giovanissimi July Delpy e Leòs Carax; filosofo esistenzialista a pezzi, sociologo distrutto, glottologo rottamato, perso in elucubrazioni sull'Arte e sull'immagine.
Mentre in sala montaggio, Woody Allen interpreta Alien (personaggio di "Come vi Piace"), montatore che cuce pezzi di film.




Il caos intellettivo-sensoriale di "Prènom Carmen" non ha più briglie o confini. La cultura è morta, bruciata nelle fiamme dell'olocausto nucleare fasullo, pura possibilità astratta che ha comunque cancellato il Sapere. Restano solo macerie dell'opera di Shakespeare, frammenti recitati meccanicamente, frasi decontestualizzate mischiate a dialoghi di altre opere, titoli di romanzi ("Così è se vi pare" di Pirandello scambiato per una commedia del Bardo) o a reminiscenze di autori ed arte, con i volti di Pasolini e Visconti ed il Saturno del Goya ad apparire tra un fotogramma ed un altro.




L'autore è un folle, un intellettuale divenuto sorta di ibrido uomo-macchina, ossia distrutto da una tecnologia aliena rispetto all'arte. E quest'ultima è concetto totalmente astratto: ancora più che in passato, non esiste certezza alcuna nella messa in scena, nè nella scrittura; il nome è nuovamente prigione che castra il significato; da qui la metafora del fuoco: l'idea è come una fiamma, nasce da un impulso al contempo creativo e distruttivo, vive solo per  poi svanire e non può essere davvero contenuta.
Le immagini e le parole, di conseguenza, perdono significato, sono sterili, frammenti e macerie di qualcosa che non è più e forse mai è stato. Possono esistere solo in tale (pseudo)forma, trovare significato solo come proiettili vaganti, stelle filanti che bruciano per pochi secondi in una scatola (sala) per poi lasciar spazio solo al buio.




Ma la riflessione è fredda, troppo compiaciuta nella sua totale disconnessione logica, nel suo arroccarsi in una forma filmico-narrativa volutamente astrusa, talmente astratta da divenire eterea, futile. Di sicuro è questo l'ennesimo punto d'arrivo per Godard: l'astrazione suprema.
Ma un'astrazione che non riesce a far riflettere chi osserva resta pur sempre un fallimento. "Re Lear" è un'opera volutamente criptica e scostante, oltre i limiti del pretenzioso, dove Godard perde di vista tutto e tutti per rifugiarsi in sè stesso, lontano anni luce dalla capacità comunicativa e dall'originalità del passato.

venerdì 17 novembre 2017

Justice League

di Zack Snyder & Joss Whedon.

con: Ben Affleck, Gal Gadot, Jason Momoa, Ezra Miller, Ray Fisher, Henry Cavill, Ciaràn Hinds, Amy Adams, Connie Nielsen, Robin Wright, Amber Heard, J.K. Simmons, Jeremy Irons, Billy Crudup, Diane Lane.

Supereroistico/Fantastico/Azione

Usa 2017














Dopo il mezzo flop di "Batman v Superman: Dawn of Justice" ed i successi a sorpresa di "Suicide Squad" e "Wonder Woman", tutti i riflettori erano puntati su "Justice League", il progetto più ambizioso della DC/Warner, il film in cui il loro universo condiviso avrebbe finalmente preso piena forma, garantendoli di rivaleggiare definitivamente con i Marvel Studios.
Pellicola la cui gestazione è stata funestata da ritardi, intense sessioni di reshoot e la defezione all'ultimo momento di Zack Snyder, a causa di un terribile lutto familiare, sostituito da Joss Whedon, già consulente per il film, letteralmente rifugiatosi presso la DC dopo il pessimo trattamento riservatogli da Kevin Feige durante la produzione di "Avengers: Age of Ultron".
Ed il solito quesito quesito è d'obbligo: ne è valsa la pena?




La Justice Legue of America nasce su carta nel 1960; agli inizi della Silver Age, il rinato interesse del pubblico verso gli eroi in costume porta la DC non solo a ricreare alcuni dei suoi eroi più famosi (su tutti Flash, Lanterna Verde e Wonder Woman), ma anche a riunirli in un'unica testata; la trovata di unire gli eroi più popolari del brand, affiancandoli ad altri magari meno conosciuti, non è però una totale novità: già nella Golden Age appare infatti la Justice Society of America, ensamble e testata che, nelle intenzioni della DC, deve dare spazio a personaggi inediti, piuttosto che riunire quelli già esistenti ed affermati, che invece si limitano a sporadiche apparizioni. La JSA diviene così la prima "superfamiglia" di eroi, dove ognuno ha una sua peculiarità e la collaborazione tra i singoli membri è essenziale per salvare la situazione. Ottenuto un buon successo, vengono in un secondo momento introdotti nel supergruppo anche eroi più famosi e dotati di un proprio albo, ossia Wonder Woman, Flash e Lanterna Verde; solo Superman e Batman resteranno al di fuori di questa prima incarnazione della League, continuando ad apparire sulle pagine del fumetto solo come guest star.




Le cose cambiano nella Silver Age, dove l'Uomo Pipistrello e l'Uomo d'Acciaio divengono parte integrante della JLA. La formazione canonica del gruppo vede infatti come costanti i due, affiancati da Wonder Woman, a formare la "trinità" degli eroi DC; a questi sono sempre affiancati Flash e Lanterna Verde, nelle loro varie incarnazioni, ossia prima Barry Allen ed Hal Jordan, in seguito Wally West e Jon Stewart. Il gruppo base è però formato da un totale di sette eroi: ai cinque principali si affiancano di volta in volta due membri "variabili", il più delle volte Freccia Verde, Aquaman, Hakwman e Hawkgirl, Cyborg o Martian Mahunter. Ad i sette si aggiungono poi, sempre di volta in volta ed a seconda nelle necessità, praticamente tutti gli eroi di casa DC, compresi i più misconosciuti, quali lo Spettro, Black Canary e Red Tornado, per formare una vera e propria super-squadra dalle possibilità infinite.




Per la sua versione filmica si è invece optato per una configurazione più semplice, più facile da gestire attraverso la narrazione cinematografica; la JL (che perde il limitate "of America" per fare presa sul pubblico internazionale) è qui composta solo da Batman, Wonder Woman, Flash, Aquaman e Cyborg, almeno nelle fasi iniziali della storia. Contro di loro, il villain di turno non è dato da quella Legion of Doom vero e proprio controaltare della League che riunisce tutte le nemesi degli eroi, bensì da Steppenwolf, generale a capo delle schiere di Darkseid.




Creato dal mitico Jack Kirby assieme a tutta la cosmogonia del multiverso DC, Steppenwolf è lo zio di Darkseid, la nuova divinità nemesi totale di Superman. Laddove l'Azzurrone è una divinità protettrice, Darkseid è distruzione pura; nel crearne la backstory e la caratterizzazione, Kirby dà sfogo a tutta la sua immaginazione, inventando un universo dove alcuni esseri riescono a salire al rango di divinità (ma non al livello divino totale: nel mondo della DC alla base di tutto resta il Dio dei Tre Libri); e tra questi vi è proprio Darkseid, spietato sovrano del pianeta Apokolips, perennemente in guerra con il pianeta gemello Nuova Genesi, comandato invece dal saggio e pacifico Altopadre. L'obiettivo di Darkseid è però più ambizioso del vincere una semplice guerra interplanetaria: risolvere l'arcana equazione omega, che conterrebbe il segreto della non-vita, potere in grado di cancellare la vita effettiva in tutto l'universo, garantendogli potere assoluto.




Mitologia che al cinema veniva già introdotta nella famosa sequenza dell'incubo di "Batman v Superman", dove un'enorme omega, simbolo di Darkseid, giganteggiava impressa nello scenario apocalittico, mentre le schiere di parademoni, i soldati alati di Steppenwolf, davano la caccia a Batman. Senza contare come una prima apparizione dello stesso Steppenwolf fosse presente, sotto forma di ologramma, in una scena eliminata del film, ripristinata nella sola versione estesa.
Nel riprendere la cosmogonia kirbyana e la figura di Darkseid, Snyder e gli executives cercano, in buona sostanza, di replicare la strategia di Feige, che pone al centro del MCU come nemico onnipotente quel Thanos creato da Jim Sterlin, un ex allievo di Kirby come omaggio al proprio maestro e vera e propria versione Marvel dell'arcidemonio DC. In pratica, laddove tutti i film Marvel Studios culmineranno in "Infinity War", quelli DC/Warner lo faranno in un probabile sequel di "Justice League", magari basato sulla recente miniserie "Darkseid War"; il che è ironico ed anche un pò squallido, neanche le due case fossero un cartello che si accorda per non pestarsi i piedi a vicenda mentre vendono lo stesso prodotto allo stesso pubblico.
Ma a far la differenza, ovviamente, è la qualità dei film in sé stessi; persino con i film meno riusciti, i creatori di "Justice League" hanno dimostrato un approccio meno semplicistico a storie e personaggi ed uno stile, sia visivo che di scrittura, più vicino a quello cinematografico piuttosto che a quella versione blanda ed ai limiti dell'ignoranza che è, solitamente anche se non sempre, la messa in scena del MCU.
Ma proprio per il loro prodotto di punta, hanno deciso di cambiare rotta, di semplificare le cose, di avvicinarsi alla formula dei Marvel Studios, anche senza rinunciare del tutto a molte delle caratteristiche, sopratutto estetiche; pur con un tono serio ed un buon occhio per la caratterizzazione dei personaggi, "Justice League" è un'avventura praticamente senza storia e senza villain, dove ciò che conta è dato unicamente dai caratteri dei personaggi.




Pur con tutti i loro difetti, "L'Uomo d'Acciaio" e "Batman v Superman" presentavano una storia più o meno solida ed uno sguardo complesso ai personaggi (pur se lontano anni luce da quanto fatto da Nolan nella sua trilogia del "Cavaliere Oscuro"). In "Justice League" tale complessità viene messa da parte, molto probabilmente a causa delle critiche che i fandom si sono divertiti a lanciare su quei film.
Niente più schemi complessi o visioni apocalittiche, tantomeno eroi che realizzano i propri limiti come nel film in solitario di Diana di Themiscyra; la storia è un puro pretesto: morto Superman, in assenza di una Lanterna Verde assegnata al settore, Steppenwolf torna sulla Terra per vendicare l'onta della sconfitta in passato e recuperare dei mcguffin (le tre scatole del caos) che gli consentono di sottomettere il pianeta al dominio di Darkseid. Stop, nulla più. Lo stesso Steppenwolf, nonostante sia interpretato, sotto la CGI, da un attore di razza quale Ciàran Hinds, non ha la minima caratterizzazione, è solo un bruto che vuole conquistare il mondo; tant'è che finisce per somigliare al Loki di "The Avengers" e al Malekith di "Thor: The Dark World", ossia un tizio che si è svegliato male ed ha deciso di spaccare tutto.




Laddove storia ed antagonista sono pressocchè inesistenti, a dare qualcosa al pubblico ci pensano i personaggi.
Per forza di cose, quelli introdotti in precedenza risultano meglio riusciti. Diana è una guerriera impavida che però deve confrontarsi con il suo ruolo di guida, mai richiesto o voluto. Batman, l'essere umano, il più debole perchè privo di poteri, è un manipolatore, ma anche un solitario che capisce di dover mettere da parte le sue ossessioni per un bene più grande; e che sul suo corpo riporta le cicatrici degli oltre venti anni di servizio: un uomo agguerrito ma fragile, intelligente ma fallace. Geniale la trovata di metterlo in continuità con i due film di Tim Burton: la ripresa del tema storico di Danny Elfman (che compone l'intera colonna sonora, con ritrovato gusto), l'estetica gotica di un Gotham che finalmente è distinguibile dalla vicina Metropolis ed una serie di battute lasciano intendere come il Batman di Affleck altri non sia se non quello di Michael Keaton, invecchiato anche se interpretato da un attore anagraficamente più giovane.



Le new entry, Cyborg, Aquaman e Flash hanno una caratterizzazione più basica, ma quasi sempre azzeccata. Il Cyborg di Ray Fisher (vera rivelazione, espressivo pur costretto in una tuta da mo-cap per tutto il film) è un moderno mostro di Frankestein (forse da qui il nome Victor?), un redivivo che non ha chiesto nè la vita, tantomeno i poteri, ma che impererà a mettere da parte i suoi guai per un bene più grande. Aquaman, il sovrano reietto di Atlantide, ha il volto da bruto ed il corpo da macho di Jason Momoa, mossa di puro marketing per cancellare l'opinione diffusa secondo cui sarebbe un personaggio stupido (e chiunque abbia mai letto anche solo una storia dei suoi fumetti, sa che non è così) e che qui è il bel tenebroso, riluttante a far comunella con gli altri eroi perchè tormentato dal suo passato, disilluso e taciturno eppure empatico al punto di salvare sempre la situazione.
E poi c'è il Flash, il personaggio meno riuscito; forse per distanziarlo dalla sua controparte televisiva, quello di Ezra Miller è un Velocista Scarlatto logorroico ed insicuro, quasi un bambino autistico che non sa come relazionarsi con il prossimo e che per tutto il film ricopre il ruolo di linea comica; trovata il più delle volte fastidiosa, anche le sue battute riescono per puro miracolo a non scadere nel ridicolo. E per un miracolo ancora più grande, né il personaggi in sè, tantomeno le scene che lo vedono protagonista finiscono per essere una fotocopia del Quicksilver visto negli ultimi due film degli X-Men.




L'influenza di Whedon, accreditato solo come co-sceneggiatore anche se responsabile di un buon 20% del film, è avvertibile, ma mai spiazzante, amalgamandosi bene con il resto del tono. L'umorismo è asciutto, tutti i personaggi sparano battute, persino il Batman oscuro e violento di Ben Affleck, che ora ritrova parte della sua luce, senza mai divenire una macchietta.
In generale, i rapporti e gli scontri caratteriali funzionano: non si scade mai nel bisticcio gratuito per far godere i fan, i contrasti hanno sempre un senso, dato sia dai singoli caratteri in rotta di collisione, sia dal contesto della pur blanda storia.
Snyder, come sempre, si dimostra attento alla costruzione delle scene d'azione, che pur facendo leva ora più che mai sugli effetti in CGI, risultano perlomeno ben coreografate; anche se gli effetti digitali, non si sa per quale assurdo motivo, a tratti sembrano vistosamente non finiti, falsi, appiccicati alla pellicola in fretta e furia, prova del casino celato dietro alla produzione.




Ma, tutto sommato, lo spettacolo regge: due ore di puro disimpegno, graziato dalla presenza di un esnamble di personaggi riusciti; nulla di memorabile, sia chiaro; e dati i precedenti era lecito aspettarsi qualcosa di più, sia sul piano della storia che dello spettacolo; ma anche così, come pop corn movie al 100%, "Justice League" è un innocuo e divertente giocattolo, mai offensivo dell'intelligenza di chi lo guarda.

giovedì 16 novembre 2017

The Terminal

di Steven Spielberg.

con: Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci, Diego Luna, Kumar Pallana, Barry Shabaka Henley, Zoe Saldana, Chi McBride, Eddie Jones.

Commedia

Usa 2004

















Gli effetti della paranoia post 11 Settembre, inutile sottolinearlo, hanno finito per influenzare in modo marcato tutta (o quasi) la produzione filmica statunitense della prima degli anni 2000. Steven Spielberg, pur famoso per il suo cinema "per ragazzi", ha provato anch'egli a confrontarsi con il lascito di quell'orrore, in due dei suoi film meno riusciti: "La Guerra dei Mondi" e questo "The Terminal".
Commedia brillante, che vorrebbe essere satira umanitaria, "The Terminal" si basa su di un soggetto originale del mai troppo lodato Andrew Niccol, che a sua volta ha tratto ispirazione da una storia vera, capitata ad un viaggiatore all'aeroporto Charles De Gaulle di Parigi; ma in sede di script prima, sul set dopo, Spielberg stravolge totalmente quella che era la visione originaria, avvicina storia e personaggi al suo stile, ponendo al centro di tutto, come sempre, i valori familiari e caratterizzando Victor Navorski come il più classico "magnifico idiota" del cinema americano.




L'areoporto, il JFK di New York, non-luogo ideale, ove si è sempre e solo di passaggio; incontri casuali, facce che si perdono nella folla, nomi appena uditi, corpi in perenne movimento. Eccetto che qui: Victor diviene suo malgrado apolide, causa una sanguinosa rivoluzione nella sua terra natia, l'immaginaria Krakozhia; e la sua nuova patria diviene il duty free del JFK, per motivi prettamente burocratici.
Sopratutto nel primo atto, la regia è asciutta, quasi asettica; la macchina da presa vola costantemente nello spazio chiuso del terminal del titolo, resta sempre a distanza dai soggetti; laddove i movimenti di macchina sono fluidi, il montaggio è minimale, la fotografia fredda, come a distanziarsi dalla materia narrata. Il senso di isolamento di Victor, solo in mezzo ad una folla perenne, viene enfatizzato magnificamente dall'uso di una carrellata aerea che lo inquadra come perduto in mezzo alla calca.




L'inferno burocratico, la costante richiesta di moduli, certificati, permessi e firme dovrebbe essere incarnazione di kafkiana di quella paranoia strisciante, quella paura di un estraneo, qui letteralmente senza origini e per la gran parte del tempo senza storia, che potrebbe insinuarsi in seno alla Grande Mela, perdersi nella folla per compiere chissà quale gesto. Meglio, dunque, isolarlo o cercare di sbarazzarsene, spiarlo costantemente con un sistema di telecamere guidate in remoto da far invidia al Dottor Mabuse. Solo per poi scoprirne l'innata umanità, l'umanità di un personaggio buffo all'apparenza, ma dal cuore d'oro, che Hanks caratterizza sfruttando sopratutto il suo fisico, piuttosto che le sole gag verbali date dall'impossibilità di comunicazione.
Se in teoria la stramba storia di Victor ha del potenziale, sia comico che satirico, a dir poco enorme, Spielberg non sa letteralmente cosa farsene del tutto e gioca sul sicuro, mettendo quasi subito in secondo piano ogni possibile lettura metaforica per concentrarsi unicamente sui personaggi ed i loro legami, appiattendo tutto in modo esasperante.




Il trattamento riservato ai personaggi schiaccia ogni possibile forma di credibilità; Victor è e resta sino alla fine il buono ed ingenuo, dotato di ogni possibile risorsa, in grado di adattarsi a tutto; non si teme mai davvero per la sua sorte, né si gioisce delle sue vittorie: il suo spirito umanitario e le sue capacità pratiche sono talmente grandi da divenire iperboliche, come se il personaggio fosse la parodia di un santo tuttofare sceso in terra.
Sorte ancora peggiore tocca al personaggio di Frank Dixon, per il quale la performance al solito ottima di Stanley Tucci risulta sprecata: un burocrate maniaco del controllo che decide di perseguitare Victor per il solo gusto di farlo. Il loro conflitto, già debole in partenza, viene forzato più e più volte per cercare di dare una forma di empatia verso le disavventure del buffo omino del duty free; ma invano, poiché davvero non si capisce come mai Victor non esca dall'aeroporto quando, già all'inizio della vicenda, gli viene data questa opportunità; tantomeno è comprensibile l'astio di Dixon nei suoi confronti, troppo marcato persino per un dirigente ossessionato dalla sicurezza e dalla sua immacolata carriera; tanto che alla fine, i personaggi divengono semplici cartonati, anzi vere e proprie macchiette da cartone animato, impossibili da prendere sul serio.




Piuttosto che la paranoia strisciante nella società americano o lo scontro tra personalità opposte, tema centrale della storia, come da tradizione nel cinema di Spielberg, è il legame familiare, sia quello che lega Victor al suo passato, sia quello che forma con le persone incontrate nel suo soggiorno forzato.
I personaggi che lavorano nel non-luogo del JFK sono i classici stereotipi etnici: l'impertinente inserviente indiano, che poi si redimerà aiutando quel protagonista che all'inizio tanto disprezzava e che nel frattempo si diletta ad intrattenere  con giochi di prestigio, ancora come in un cartone animato piuttosto che come in una commedia che vorrebbe essere brillante ed umana; l'ispanico appassionato, follemente innamorato dell'ufficiale di sicurezza trekkie (interpretata da una giovane Zoe Saldana, che guardacaso tempo cinque anni e finirà proprio a bordo dell'Enterprise); senza contare gli amorevoli uomini di colore, che questa volta sono ben tre.




Ed ovviamente, l'immancabile love-story, che vorrebbe ricalcare quella ben più celebre e riuscita di "Breve Incontro" del tanto amato David Lean, senza ovviamente riuscirci. Anche qui Spielberg calca la mano sulle forzature, rendendo il personaggio della Zeta-Jones troppo piatto, una semplice donna bisognosa d'affetto che però non riesce ad amare sè stessa, finendo sempre con il ripetere gli stessi errori senza mai imparare nulla, anche quando non ha nessun valido motivo per continuare a farli. Quel che è peggio, ad una caratterizzazione sbagliata si aggiunge un tono smielato e zuccheroso persino quando vorrebbe e dovrebbe essere agrodolce.




E' impossibile, alla fine, appassionarsi davvero alle disavventure di Victor Zavorski e compagnia bella: tutti i personaggi sono caricature di sè stessi e cozzano con i toni usati, sia quando virati alla commedia, sopratutto quando si cerca di creare un'atmosfera più seria e matura, finendo automaticamente per scadere nel pretenzioso o, peggio, nel ridicolo.
Tanto che per gli oltre 120 minuti, la noia non manca davvero: tutto è troppo tirato e compiaciuto, un lavoro blando che crede di essere davvero brillante ed efficace, risultando, oltre che vuoto e malriuscito, oltremodo pesante.

lunedì 13 novembre 2017

Gantz: O

di Yasushi Kawamura & Keichi Saito

Animazione/Fantastico/Azione/Horror/Splatter

Giappone 2016




















Cercare di dare un giudizio, classificare o anche semplicemente discutere riguardo un manga come "Gantz" è opera assai ardua, non tanto per i suoi contenuti, né per il tono spiazzante della narrazione, quanto per l'altalenante qualità che la storia ha presentato nel corso della sua lunga serializzazione, presentando idee geniali seguite da un'esecuzione talvolta maldestra, colpi di scena che piazzano pugni allo stomaco decisi al lettore seguiti da cadute di tono e stile abissali, sino a giungere ad un finale dove ad una battaglia feroce e spettacolare segue un happy end fin troppo buonista, facilone e fuori luogo rispetto al resto.
Iniziato nel 2000, terminato nel 2013, "Gantz" è l'opera definitiva di Hiroya Oku, mangaka che ha mosso i primi passi nel mondo del fumetto grazie ai doujinshi ed al fumetto erotico (il suo primo successo è stato "Hen", sorta di hentai d'autore, giunto anche in Italia), per poi sperimentare i primi passi nella fantascienza con l'incompleto "Zero One". In "Gantz", Oku fa confluire praticamente tutte le sue passioni ed ossessioni: l'erotismo spinto, spesso virato verso il limite del pornografico, l'azione frenetica, violenza splatter talvolta oltre i limiti del gore, una struttura da shonen costantemente sovvertita in favore di una narrazione non lineare e a dir poco spiazzante, nonché un gusto divertito per la citazione hollywoodiana.




Definire "Gantz" in modo completo e soddisfacente è più difficile di quanto si possa immaginare; la storia comincia come un horror sovrannaturale con spruzzate di sci-fi pura. Il protagonista, Kei Kurono, sedicenne nipponico di bell'aspetto ma ancora vergine nonostante la forte libido, ritrova per puro caso un suo amico di infanzia mentre percorre la metropolitana di Tokyo, Masaru Kato, giovane dal carattere già maturo, dovuto al fatto di dover crescere da solo il fratello minore Ayamu. Ma non c'è tempo per la nostalgia: mentre il treno sta per arrivare, un barbone finisce sui binari; nell'indifferenza generale dei presenti, Kato decide di aiutare il vecchio e Kurono, spinto da una ritrovata empatia, accorre in suo aiuto; ma invano: salvata la vita all'estraneo, i due vengono travolti dalla metro e letteralmente fatti a pezzi dallo schianto. Ma qualcosa di sorprendente li aspetta dall'altra parte: i due si risvegliano infatti in uno strano monolocale, situato nel centro di Tokyo, in compagnia di altre persone che affermano di essere morte, tra le quali anche la bellissima Kai Kishimoto, per la quale Kurono perde subito la testa; ancora più strano: al centro della camera, un'enorme sfera nera afferma come le loro vecchie vite siano finite; la sfera si apre, mostrando di contenere armi e tute hi-tec e, di punto in bianco, assegna un obiettivo da uccidere ai presenti, una strana forma di vita che pare essere aliena; neanche il tempo di riflettere su quanto è accaduto che l'intero gruppo viene teletrasportato in un'altra zona di Tokyo; con una bomba impiantata in testa per prevenirne la fuga, un countdown che designa il tempo limite per l'uccisione e nessun addestramento, Kurono, Kato e Kishimoto si ritrovano loro malgrado immischiati in un gioco al massacro, dove l'unica regola è uccidi o sarai ucciso.




E questa non è che la premessa: un mix tra suggestioni oltremondane, influenze videoludiche, erotismo e gore, dove l'unica certezza è la mancanza di certezze; tant'è che già a metà del secondo tankobon, ossia alla fine della prima missione, l'intero cast di personaggi introdotto poco prima viene annichilito: a salvarsi sono solo i tre protagonisti e l'infido Nishi, studente delle medie dall'indole sadica, veterano nonostante la giovane età. Certezze che vengono nuovamente azzerate quando, nell'ottavo volume, a tirare le cuoia, assieme alle nuove reclute, sono gli stessi Kato e Kishimoto, azzerando così le loro storyline e lasciando Kurono a trovare una forma forzata e non richiesta di maturazione.
Ma cos'è davvero o cosa vuole essere "Gantz"?
Almeno inizialmente, Oku utilizza trama, personaggi e situazioni per creare un seinnen che in realtà sia sopratutto la parodia della classica formula degli shonen, con un gruppo di giovani alle prese con situazioni limite, nemici sempre più forti da abbattere ed esperienze di vita quotidiana che li portano a confrontarsi con i propri limiti e le proprie ossessioni.
Ma Kurono, Kato e gli altri sono, in un certo senso, il perfetto controaltare dei vari Goku, Vegeta e company. Kurono, il protagonista pressocché assoluto di tutta la serie, non è coraggioso, né intelligente, tantomeno forte nel senso convenzionale del termine (almeno all'inizio della storia); è un liceale chiuso in sè stesso, nella sua ossessione per il sesso e le ragazze prosperose, che si butta a capofitto contro i nemici non per coraggio, ma solo per sublimare la propria libido e fare colpo sull'agognata Kishimoto.
Quest'ultima, la donna del gruppo, che solitamente è forte quanto i suoi comprimari maschili, è in realtà poco più di una damigella in pericolo, che anche quando acquisisce le capacità necessarie al combattimento, non riuscirà mai davvero a fare la differenza.
Kato, d'altro canto, è fisicamente modellato su quello che nelle serie per ragazzi è il classico "bel tenebroso", l'antieroe taciturno e risoluto, spesso individualista nel midollo e oltremodo fascinoso; ma in "Gantz" è lui, non Kurono, ad essere la coscienza del gruppo, ad essere il "buono" che si preoccupa della sorte dei compagni e delle missioni.





Missioni che, sempre per sovvertire le regole dello shonen, non hanno senso, né fine (almeno inizialmente), sono puri e semplici giochi al massacro, videogame reali dove i personaggi muoiono davvero, in modo sempre cruento. E dove lo spirito collaborativo, come nei MMORPG, è essenziale alla riuscita: benché Kurono sia spesso al centro dell'azione e riesca a totalizzare molti punti anche da solo, è solo grazie agli aiuto dei compagni se riesce sempre a sopravvivere. Tematica di fondo che vuole essere una critica a quell'individualismo distruttivo proprio della società nipponica (ed anche occidentale) che qui è viatico solo per la propria distruzione; e che garantisce una chiave di lettura interessante.
Senza contare come lo stile di Oku sia a dir poco perfetto per la storia che narra; i disegni sono volutamente freddi, con i personaggi disegnati a mano e ricchi di dettagli e gli sfondi spesso generati con la CGI o mediante l'utilizzo di fotografie di luoghi reali; l'atmosfera si fa così glaciale, genuinamente disturbante anche quando la violenza non viene mostrata; e quando questa entra in scena, lo fa in modo roboante, con corpi umani ridotti a miseri brandelli di carne in pochi istanti, personaggi introdotti e caratterizzati con cura fatti a pezzi in pochissime pagine nei modi più brutali immaginabili.
In generale, al di là dell'estetica e dallo splatter, è l'immaginario evocato da Oku ad essere profondamente disturbante; i mostri, sopratutto a serie inoltrata, cominciano ad avere connotazioni sessuali esplicite e votate al mostruoso, in un mix tra reminiscenze paragigeriane ed il mitico "Urotsukidoji", dove il corpo femminile, comunque idolatrato dall'autore, si fa ammasso di carne rivoltante e letale.
L'erotismo, d'altro canto, quando non usato a fini orrorifici, è invece votato al puro intrattenimento, al sollazzo dello spettatore maschile, tramite scene di sesso esplicito (purchè nei limiti della censura) ed ogni singolo capitolo introdotto da una pin-up girl; lo stile di Oku rende le immagini irresistibili, sensuali, con modelle dai corpi prosperosi e dai volti angelici, quasi infantili.




E nel suo mix di sovversione dei canoni ed exploitation pura, "Gantz" riesce ben ad imporsi come una lettura disimpegnata ed estremamente divertente. Almeno nei suoi primi numeri. Perchè, come da manuale, a causa del successo planetario, Oku ha deciso di allungare il brodo in modo inefficace, dilatando una storia che in realtà aveva poco da dire sin dall'inizio; quel che è peggio è che nel farlo dimostra di non avere il minimo controllo sulla narrazione: da antologia della cattiva scrittura è la famosa sottotrama sui vampiri, dove questi vengono introdotti come rivali dei "gantzers", solo per poi finire letteralmente nel nulla; o anche le varie suggestioni spirituali e sovrannaturali, puntualmente sprecate, dimostrazione di come neanche l'autore conoscesse le risposte ai misteri della mitologia della sua stessa opera.
Ma tant'è, nei suoi primi volumi e nel finale, catastrofico ai livelli di un film di Roland Emmerich sotto acido, "Gantz" riesce davvero a divertire e a tratti a far riflettere sulla fallacia di una condotta di vita prettamente individualista; lettura, quest'ultima, che l'intera opera trova nella bella trasposizione anime prodotta dalla Gonzo Digianimation nel 2004, che pur coprendo solo i primi 8 numeri (ossia fino al massacro del primo gruppo), crea un finale ad hoc in cui la metafora sociologica risulta ben amalgamata alla componente exploitation.




Trasposizione animata che ha incrementato esponenzialmente il successo del brand, al punto che già nel 2010 escono due primi film live-action dedicati alle imprese di Kurono e soci: "Gantz- L'Inizio" e "Gantz- Revolution" (giunti in Italia direttamente per il mercato Home-Video); due pellicole televisive, quindi prodotte con un budget scarno come i primi film di "Death Note", che si segnalano quasi esclusivamente per la presenza di Ken'Ichi Matsuyama nei panni Kato e della bellissima Natsuna in quelli di Kishimoto; l'erotismo viene eliminato e la violenza fortemente limitata, per motivi intuibili, mentre storia e personaggi sono appiattiti per motivi di durata; in generale, si tratta di due film mediocri: il primo è abbastanza noioso e a tratti ridicolo, il secondo ha perlomeno un finale interessante e belle sequenze d'azione, ma non è nulla di memorabile.
























Tanto che a cercare di rimediare a tale operazione, a dare dignità a "Gantz" anche su schermo arriva nel 2016 "Gantz: O", film d'animazione in CGI fotorealistica, distribuito nelle sale nipponiche nientemeno che dalla Toho ed in Occidente da Netflix; pellicola a suo modo ambiziosa: prodotta con un buon budget ed un lavoro di animazione certosino, vede l'esordio alla regia di Keichi Saito e Yasushi Kawamura e della loro Digital Frontier, casa di produzione specializzata in effetti in CGI per anime ed animazione di FMV, che ha lavorato, tra gli altri, a giochi del calibro di "The Legend of Zelda- Brath of the Wild", "Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots" e "Killer7", già responsabile per il lungometraggio in CGI "Resident Evil: Damnation" e qui per la prima volta alle prese con un progetto non direttamente legato all'ambito videoludico. Progetto che ha prsino trovato una vetrina d'eccezione: presentato fuori concorso alla 73ma edizione del Festival di Venezia, con un'accoglienza mista tra promozioni e stroncature
Perché il risultato ottenuto dal duo di artigiani della computer graphic è godibile come pura pellicola d'azione e fanservice, ma anche totalmente vuoto sul piano narrativo.




Perché se non si ha dimestichezza con l'universo creato da Oku su carta, non si capirà nulla della pur basica storia, che riadatta lo story-arc ambientato ad Osaka, uno degli ultimi prima dell'ultima fase del manga. Protagonista assoluto è Masaru Kato, arruolato (per la prima volta?) tra i Gantzers dopo la sua dipartita e che si trova suo malgrado a sostituire il leader Kei Kurono, deceduto nel prologo; eliminato Kei, il cuore della serie, "Gantz: O" utilizza Kato come alter ego dello spettatore, che si ritrova letteralmente catapultato in un mondo strambo e violento. Ma senza mai avere davvero risposte su chi siano gli altri concorrenti, cosa sia la sfera nera o i mostri chiamati a combattere, né una risoluzione effettiva alla vicenda. Davvero blando e monodimensionale è il ruolo giocato dai comprimari: Reika, Suzuki e Nishi hanno la consistenza di figurine di carta velina e sono ascrivibili totalmente agli stereotipi della bella di turno, del vecchietto simpatico e del giovinastro antipatico. Unico barlume di carattere viene dato, oltre al protagonista, allo pseudo interesse amoroso, la bella e gioviale Anzu; ma anche qui, i caratteri sono talmente basilare da rientrare in pieno negli stereotipi del buono senza macchia e senza paura e della damigella in pericolo che cerca di rendersi utile; colpa di uno script che preferisce lasciare fuori dalla porta ogni approfondimento, ogni tipo di narrazione per concentrarsi sulla pura azione.
Per fortuna, almeno sotto questo punto di vista, "Gantz: O" risulta godibile.



L'animazione, pur non arrivando ai livelli qualitativi di "Capitan Harlock" o di "Appleseed Alpha", è di grande impatto; i modelli in CGI sono pressocchè perfetti, salvo qualche difetto che comunque non fa cadere la loro percezione nella famosa "uncanny valley" per renderli disturbanti alla vista, vero e proprio miracolo che talvolta non riesce neanche nei kolossal di Hollywood (basti vedere alle resurrezioni digitali di "Rogue One").
Il polso dei due registi è fermo: l'azione è frenetica e spettacolare, oltre che ben dosata; le coreografie sono perfette e l'animazione sempre fluida; semplicemente geniale, poi, la trovata di aggiungere un filtro grana che rende la fotografia simile a quella di un film su pellicola vero e proprio, piuttosto che a quello di un lungometraggio in CGI.


Anche la violenza è ben dosata: lo splatter, sempre presente, non viene mai esagerato, mai portato nei limiti del gore, restando disturbante senza mai divenire di cattivo gusto; quasi del tutto assente è invece la componente erotica, limitata alla sola comparsa del mostro fatto con pezzi di nudità femminili; mancata inclusione dovuta più che altro alla mancanza già nel soggetto originale, piuttosto che ad una scelta programmatica.



Tra corpi fatti a pezzi, mostri giganti che combattono contro robottoni stile "Pacific Rim", sparatorie frenetiche e duelli al cardiopalma, "Gantz: O" intrattiene al minimo sindacale di empatia verso gli scarni personaggi. Un puro pop-corn movie per giovani adulti, da guardare a cervello staccato in una serata di puro disimpegno, che pur non cogliendo molto dello spirito del manga, riesce ad essere anche un suo buon adattamento.