giovedì 31 agosto 2023

Avere vent'anni

di Ferdinando di Leo.

con: Gloria Guida, Lilli Carati, Ray Lovelock, Vincenzo Crocitti, Giorgio Bracardi, Leopoldo Mastelloni, Carmelo Reale, Vittorio Caprioli, Serena Bennato, Licinia Lentini, Daniela Doria.

Drammatico/Erotico

Italia 1978
















---CONTIENE SPOILER---

Se si pensa al tema dell'emancipazione femminile e della correlativa libertà sessuale per la donna all'interno del cinema italiano, gli esempi che vengono in mente sono davvero pochi, sia che si tenga in considerazione il "cinema" nostrano degli ultimi trent'anni, sia che si decida di tornare indietro alle decadi nelle quali la stagione cinematografica italiana regalava opere originali e prive di compromessi.
L'esempio più fulgido, tutt'oggi, è il cult di Fernando Di Leo "Avere vent'anni", uno dei primi e pochi film a porre al centro della narrazione la donna, le sue esigenze, le sue voglie e la relativa importanza senza paura di offendere, prendendo posizioni che tutt'oggi, anche al netto del veterofemminismo woke imperante, possono sembrare scomode. Tanto che persino all'epoca il film non ebbe certo vita facile.



L'idea del film arriva a Di Leo sul solco di una necessità impellente, ossia quello di dissipare le polemiche di misoginia che ammantano il suo cinema; proprio quel cinema che con "Brucia Ragazzo, Brucia" nel 1969, ossia in piena Rivoluzione Sessuale in corso, presentava figure femminili forti e sessualmente attive che concupivano e sottomettevano il maschio di turno. Pur tuttavia, fu il suo lavoro nel poliziottesco che attirò le ire di critica e intellettuali, con quelle donne-oggetto che i gangster si passavano come trastulli, spesso seminude e impegnate in attività pruriginose, come l'ormai mitica go-go dance di Barbara Bouchet in "Milano Calibro 9"; alle quali di Leo rispose, anni dopo e poco prima della sua morte, affermando come nel contesto criminale, la donna poteva essere solo oggetto sessuale e nulla più.
"Avere vent'anni" doveva sfatare questo mito e in realtà ci riesce appieno, ma solo se rivisto oggi.
Finito il film, le cui aspettative commerciali erano alte vista la presenza delle divette Gloria Guida e Lilli Carati, vede il buio della sala passando indenne per le maglie della censura della DC, ma non convince il pubblico, il quale diserta. La colpa è, secondo il produttore Vittorio Squillante, di quel finale deprimente, nel quale le due belle ragazze e sogno erotico degli avventori vengono umiliate, violentate e uccise.
Tempo qualche mese e il film torna al montaggio, viene girato un nuovo finale alla bene e meglio, che conclude le avventure delle due protagoniste in modo allegro, il quale fa di conseguenza perdere di significato a tutta la storia, ma tant'è. Tornato in sala, è di nuovo un mezzo flop, visto che i guadagni alla fine sono al di sotto delle aspettative.
Negli anni '80 arriva poi un terzo montaggio, ad opera della Kineo Video, la quale riprende il montaggio americano del film, ridoppia tutti i dialoghi cambiandone radicalmente i contenuti e ripristina il finale originale, ma solo in parte, con le sirene della polizia che interrompono lo stupro. Il tutto senza il consenso di Di Leo, ovviamente.
La versione integrale del film, la sola che valga la pena di vedere, torna ad essere disponibile solo negli anni 2000 grazie al DVD della RAROVideo e di Nocturno, ad oggi essenziale per la visione.
E "Avere vent'anni", pur al netto dei vistosi e grossi limiti di scrittura, rappresenta tutt'oggi una visione interessante.




Roma, fine anni '70. Tina (Lilli Carati) e Lia (Gloria Guida) sono due ventenni spiantate, che alla fine dell'estate si conoscono ad un raduno hippie. Senza un soldo, raggiungono la comune del Nazariota (Vittorio Caprioli) per trovare un posto nel quale vivere e per soddisfare le proprie voglie, costantemente castrate.




Travestito da spaccato generazionale, "Avere vent'anni" è in realtà un'opera di pancia sulla sessualità femminile, sulla necessità per la donna di affermarsi nel campo dei sensi, su quel "diritto all'orgasmo" tanto propagandato quanto negato nei fatti, pur in un paese che ha vissuto la Rivoluzione Sessuale.
Una rivoluzione oramai vecchia di dieci anni e che non sembra aver lasciato effetto duraturo. E' vero, le donne si sono emanciapate, ma questo non garantisce loro una effettiva libertà.
Lia e Tina sono così due esponenti di una generazione alla quale tutto viene concesso, ma solo in teoria, due libertine che vivono il sesso in modo salutare e gioioso, per questo scambiate per prostitute in una società dove la soddisfazione dei sensi è ancora un tabù.




Nell'Italia di "Avere vent'anni" il sesso, in pratica, non esiste. Pur rientrando nella categoria del "sexploitation", l'opera di Di Leo è del tutto antitetica ai famosi "chiappa e spada" che spesso la Guida e la Carati frequentavano: non ci sono uomini di mezza età allupati, né giovanotti in cerca di una facile preda da portare a letto e le due sono l'oggetto del desiderio solo in maniera occasionale e circostanziata. Viceversa, in un'inversione dei ruoli totali, sono loro a ricercare il piacere, ad inseguire i maschi da portare a letto e a finire in bianco. Tra le due, Tina è la più spregiudicata, plasmata dalla fisicità piccante della Carati, è una ragazza "giovane, bella e arrabbiata", la cui rabbia deriva soprattutto dalla frustrazione sessuale, figlia com'è di una classe proletaria dove il denaro conta più di tutto e immersa in una società borghese che le nega anche la più basilare delle soddisfazioni. 
Lia, d'altro canto, è una bellezza angelica e talvolta persino materna, incarnata da quella Gloria Guida che potrebbe davvero ambire al titolo di attrice nostrana più genuinamente bella degli anni '70 (con buona pace delle pur bellissime Edwige Fenech e Barbara Bouchet), vive una sessualità più complessa: figlia di nessuno, orfana cresciuta in un orfanotrofio freddo e iniziata alla bisessualità da una padrona infame, vive il lesbismo mai come una colpa, ma in modo del tutto naturale. Ed è nel rapporto con l'omosessualità che Di Leo sembra voler intessere un discorso interessante, ma in parte incompiuto.




Nell'Italia qui ritratta, gli omossessuali sono perfettamente integrati nel tessuto sociale e non hanno neanhe bisogno di dissimulare il loro orientamento sessuale. Lo si vede nella scena del bar, con il cassiere-padrone palesemente effeminato e mai preso a male parole dal cameriere che redarguisce, neanche alle sue spalle; e prima ancora in una delle scene iniziali, quando le due protagoniste, mentre fanno l'autostop, vengono avvicinate da una lesbica al volante di un'auto elegante, esponente della classe alto-borghese con tanto di giovane amante al fianco. Un ritratto veritiero e anche a suo modo provocatorio, ma che finisce per lasciare il tempo che trova senza mai diventare parte integrante della narrazione, con la questione della "borghesizzazione degli omossessuali" solo abbozzata.




La narrazione si concentra altresì totalmente sulla questione sessuale e sulle macerie di una sessualità che oramai sembra inesistente in un mondo che ha ottenuto la liberazione dei costumi e che ora non sa cosa farsene. Gli uomini in particolare pare abbiano sostituito la libido con la tossicodipendenza, preferendo lo sballo autodistruttivo alla costruttiva pulsione carnale, da cui il personaggio di Rico (Ray Lovelock) e degli strafatti che occupano la camerata, accompagnati e contrappuntati dall'ascetico Argiumas (Leopoldo Mastelloni), intento a liberarsi da ogni catena della carne, vero e proprio rottame degli estremismi proto- New Age degli anni della controcultura, oltre che dal professore, più interessato al contenuto dell'enciclopedia che al corpo della Carati. 
Persino il luogo della comune, in quegli anni come tutt'oggi visto dallo spettatore comune come alcova di piaceri, viene descritto come l'ultima conquista del capitalismo, dove i membri sono costretti a lavorare per sopravvivere e l'amore libero è praticamente inesistente, se non che per scopo di lucro.
Quando il sesso fa capolino, esso è privo di gioia, un atto da consumare in un lampo per poi passare oltre, come nella scena dell'orgia tra le due protagoniste e gli avventori che le "comprano" dal Nazariota, che negano loro il piacere e per i quali il piacere è un rito puramente meccanico, come andare in bagno o starnutire. E anche quando è una donna ad essere interessata ad avere un rapporto, come nel caso dell'avvenente borghese con la quale si interfaccia Lia, il sesso è strumento di dominio, atto di acquisto di una pulsione oltre che di una persona, privo di passione e per questo umiliante.



Il ricorso al sesso omosessuale, pur in assenza di un'inclinazione in tale senso da parte del personaggio di Tina, è quindi una necessità rivolta a soddisfare quella pulsione che, pur socialmente e culturalmente riconosciuta, sembra essere stata alienata dall'intero corpo sociale, a prescindere dal sesso e dal ceto di appartenenza.
Pur tuttavia, Di Leo mette al contempo alla berlina anche quelle estremiste femministe (antenate delle odierne veterofemministe) le quali disdegnano il maschio in tutto le sue declinazioni: per lui, benché l'omoerotismo possa essere un'opzione sempre praticabile oltre che una realtà assolutamente non deprecabile, è l'unione tra uomo e donna a rappresentare l'appagamento definitivo; il che non viene raccontato come affermazione di potenza del mascolino, quanto come forma di empatia verso quelle donne che vivono la loro sessualità in modo ordinario, eterosessuali che reclamano giustamente le proprie necessità




Se l'appagamento sessuale è negato e superato, la visione di due donne sessualmente attive ed esuberanti è del tutto insostenibile in una civiltà del genere. Da cui il celebre finale originale, che completa perfettamente il cerchio della narrazione, con la violenza che si sostituisce alla penetrazione e la morte usata al posto di un eros sepolto sotto le tonnellate di cinismo spicciolo, in un vero e proprio rifacimento della sequenza clou de "La Fontana della Vergine" e ovviamente del più prossimo "L'Ultima Casa a Sinistra".




Se a Di Leo non mancano le idee o la voglia di provocare, è la poca profondità del suo sguardo ad impedire ad "Avere vent'anni" di essere del tutto riuscito. La parabola delle due belle protagoniste è chiara e completa, ma decisamente monche sono alcune delle sottotrame e il trattamento delle relative tematiche; oltre a quella relativa all'omosessualità nella società moderna, è quella relativa al personaggio di Rico a deludere, con questo personaggio emblema di una classe intellettuale che ha deciso di autodistruggersi il quale resta sempre sullo sfondo e non ha catarsi alcuna; oltre che il ritratto del personaggio di Lia, la quale risulta sottoutilizzata pur in un racconto dove dovrebbe essere la coprotagonista.
Pur al netto della sua incompiutezza, il cult di De Leo è lo stesso molto più interessante di tante altre pellicole sexploitation solo travestite da opere intellettuali dell'epoca; basti guardare in merito il giustamente dimenticato "Il Solco di Pesca", sempre con la Guida, molto più ambizioso e decisamente più disastroso, rappresentando ancora oggi una visione quasi obbligata per comprendere la società italiana che fu e che è.

lunedì 28 agosto 2023

Oppenheimer

di Christopher Nolan,


con: Cillian Murphy, Emily Blunt, Matt Damon, Florence Pugh, Robert Downey Jr., David Krumholtz, Josh Hartnett, Alden Herenreich, Jason Clarke, Kenneth Branagh, Kurt Koehler, Tom Conti, James D'Arcy, Benny Safdie, Tony Goldwyn, Macon Blair.


Biografico


Usa, Regno Unito 2023







Reduce dal suo peggior film, Christopher Nolan ha comunque ben poco da dimostrare sia a chi lo ama che ai suoi detrattori. Se "Tenet" rientra il quel nugolo di pellicole (assieme a "Inception", "Il Cavaliere Oscuro- Il Ritorno" e in parte "Interstellar") che potrebbero tacciare la sua nomea di "più grande cineasta degli ultimi vent'anni" come estremamente esagerata, il suo mestiere e il suo ruolo di autore in una Hollywood oramai allo sbando sono un faro per chi il cinema vero lo ama visceralmente.
Con "Oppenheimer" si confronta con un passato scomodo e non solo per la storia americna, la rievocazione del Progetto Mahattana e la figura dell'uomo che più di tutti contruibui alla creazione della bomba atomica, quel J. Robert Oppenheimer che fu anche il primo a prendere coscienza dell'inaudita pericolosità della fissione dell'atomo.





Inglese di nascita, americano d'adozione, Nolan si incammina a piedi nudi in un sentiero irto di rovi: è davvero facilissimo sbagliare qualcosa raccontando la storia dell'uomo responsabile di una delle più grande sciagure dell'intera storia della razza umana. E di fatto le critiche (a torto, va subito specificato) non sono neanche mancate.
Per le tre ore di durata, si ha come l'impressione che lo script sia sempre pronto a deragliare, ritraendo Oppenheimer come un eroe, una vittima, un martire o comunque a riabilitarne la figura in qualche modo. Questo perché la storia è strutturata in modo non lineare (in una ripresa del racconto spezzato solitamente usata ai tempi della collaborazione con il fratello Jonathan) partendo dalle accuse che, nel Secondo Dopoguerra, vengono mosse allo scienziato in merito ai suoi trascorsi comunisti. Nolan sembra voler dare il tipico ritratto eastwoodiano di un eroe la cui caratura non viene riconosciuta da coloro che ha salvato; e "Oppenheimer" a tratti potrebbe essere davvero letto in chiave eastwoodiana, se non fosse che il suo protagonista non viene caratterizzato come un eroe neanche per sbaglio.







Se per tutta la durata del film la psicologia fragile e ambigua del protagonista verso la sua opera viene spesso solo suggerita e solo mostrata nella scena del "trionfo", è quella scena finale, con il disvelamento del "dialogo segreto" con Einstein che Nolan fuga ogni dubbio: Oppenheimer è pienamente cosciente del male assoluto che sta per liberare. Continua i suoi esperimenti, così, solo per i suoi doveri di patriota e scienziato, nella speranza che la coscienza di un potere distruttivo così grande possa unire i popoli, cosa che ovviamente non avverrà.
Nel ritrarre queste vane speranze, Nolan prende la decisione di non mostrare il bombardamento di Hiroshima, mossa che gli è costata anche severe critiche, ma che è pienamente comprensibile: mostrarla avrebbe significato spettacolarizzare la tragedia. Restando invece aderente ai fatti storici, la lascia fuori campo e immette la catarsi nella scena, visionaria e struggente, nella quale gli scienziati festeggiano il successo, con le visioni dei morti che si riverberano a chilometri di distanza (scena genialmente contrapposta alla quella precedente, nella quale il protagonista viene portato in trionfo dalla folla con una bandiera a stelle e strisce che gli sventola sulla testa) e quel cadavere carbonizzato su cui lo stesso Oppenheimer poggia il piede come simbolo della sua colpa decisamente più esplicativo di quanto la visione diretta dei morti avrebbe potuto essere. E quando la deflagrazione nucleare viene portata in scena, questa viene confinata in dettaglia, mai mostrata in quella che sarebbe la sua titanica interezza, proprio per non trasformare il simbolo di un massacro in uno spettacolo, cosa che può avvenire davvero solo all'interno delle coordinate di un cinema di puro genere senza scadere davvero nel cattivo gusto (come fatto da James Cameron in "Terminator 2- Il Giorno del Giudizio").
Tanto che, se di cattivo gusto si vuole davvero parlare, questo si affaccia solo nella scena del primo amplesso con il personaggio di Florence Pugh, dove quest'uiltima si eccita udendo la tristemente famosa frase "Now I'm become death, destroyer of worlds", trovata che non si capisce davvero cosa stia ad indicare.
L'Oppenheimer di Nolan è così un colpevole che sa di essere colpevole, che prova invano a scrollarsi di dosso i sensi di colpa senza mai riuscirci. E che quando viene perseguitato, non diventa martire perché eroe non lo è mai stato.







Il conflitto con Lewis Strauss rientra nell'ottica dello scontro ossessivo di tanto cinema nolaniano, come i più celebri scontri tra Angier e Borden in "The Prestige" e Batman e il Joker ne "Il Cavaliere Oscuro": un uomo decide di distruggerne un altro del quale potrebbe essere l'immagine speculare e lo fa senza ritegno umano o morale alcuno. La causa? Un dialogo mai udito, quello con Einstein, il quale poi si scoprirà riguardare le colpe dell'oggetto dell'odio, ma che si percepisce a torto come lesa maestà, il cui contenuto effettivo viene mostrato e contemporaneamente celato fino all'ultimo con il solito, ottimo, piglio depalmiano.
La narrazione si spacca così in due tronconi, due punti di vista a posteriori, quello di Strauss e quello di Oppenheimer, rivolti a ricostruire le vicende che hanno portato alla costruzione e al lancio dell'atomica. E se Strauss è un Salieri privo di redenzione alcuna, Oppenheimer anche quando filtrato dal punto di vista del nemico resta l'uomo distrutto dai sensi di colpa che lui stesso vede. E quando il punto di vista è il suo, alle colpe pubbliche si aggiungono quelle private.







Anche nel privato, l'Oppenheimer di Nolan porta le cicatrici di scelte di vita sbagliate, come le relazioni con parenti e amici, l'abbandono del fratello e della cognata, comunisti convinti, nonché con la "spia" Chevalier. E su tutto, le relazioni sentimentali: quella con Jean Tatlock, "tossica" e carnale, che sfocia nel suo suicidio (o forse omicidio), la quale lo segnerà a vita, nonché con la moglie Kitty, donna solo in apparenza debole, il cui ruolo nel finto processo si rivela essenziale, con buona pace di tutti coloro che continuano a tacciare Nolan di misoginia.







Nolan porta in scena l'anti-parabola dello scienziato dalla coscienza sporca con il suo solito ritmo andante, riuscendo ad imprimere una cadenza sempre veloce ad una storia densa per tutte e tre le ore di durata. Le redini della narrazione sono sempre salde, persino più che in passato, con l'autore che deve districarsi praticamente da solo con due punti di vista e ben tre tracce narrative. Il montaggio, qui come non mai, è veloce e sincopato, forse talvolta persino troppo, impedendo a tratti alle singole scene di avere il giusto respiro, ma tutto funziona sempre benissimo.
Il cast corona poi l'ottima visione, capitanato da un Cillian Murphy che sfoggia un'intensità inedita, che lo porta oltre lo stereotipo del "bell'uomo" che la fama datagli dal successo di "Peaky Blinders" ha finito per cucirgli addosso, dimostrando definitivamente (anche se in realtà non ce n'era bisogna) di poter essere un ottimo attore protagonista.
La sperimentazione nell'uso del formato IMAX raggiunge qui il culmine, con la pellicola 65mm usata per l'intero film e la fotografia di Hoyte Van Hoytema che crea immagini talmente vivide che anche se non viste sullo schermo migliore finiscono lo stesso per bucarlo, alternando colori saturi ad un bianco e nero cristallino, una festa visiva resa ancora più sfavillante dagli effetti totalmente analogici, con l'esplosione nucleare più realistica mai portata su schermo a rendere la visione definitivamente memorabile.







"Oppenheimer" si configura come uno degli esiti migliori nella filmografia di Nolan. Non un capolavoro, questo è certo, ma lo stesso una lezione di cinema e di sottigliezza morale infinitamente penetrante.

Barbie

di Greta Gerwig.

con: Margot Robbie, Ryan Gosling, Ariana Greenblatt, Simo Liu, Kinglsey Ben- Adir, Will Ferrell, Kate McKinnon, Dua Lipa, Michael Cera, Alexandra Shipp, America Ferrera, Emerald Fennell, Nicola Coughlan, Emma Mackey, Hari Nef, Ncuti Gatwa, Helen Mirren.

Commedia/Fantastico

Usa, Regno Unito 2023











Ma alla fine, quello di Barbie è davvero un modello diseducativo? Su tale quesito, per anni esperti e amatori si sono dibattuti, senza mai davvero arrivare a dare una risposta completa e definitiva.
Una cosa si può dire: benché il canone di bellezza da modella magra fino ai limiti dell'anoressia è deprecabile, il modello di donna che Barbie ha venduto sin dal suo esordio nei negozi, datato 1959, è quello di una donna emancipata prima ancora che bella, una donna indipendente, il cui boyfriend è poco più di un accessorio, che ha una casa e una macchina di sua proprietà e può fare letteralmente qualsiasi lavoro, dalla casalinga all'astronauta. Un modello che ha insegnato alle bambine che se si vuole essere qualcosa di più di un bel faccino agghindato di rosa, lo si può essere e che la donna non deve essere limitata al ruolo di compagna, segretaria o ancella di sorta. E questo è forse quanto di più progressista si possa insegnare agli infanti.



Il film su Barbie ha però rischiato davvero di essere nulla più che uno spottone pubblicitario e, peggio, una commedia involontariamente ridicola. Si parti da un presupposto: il perché la Mattel abbia deciso di concedere i diritti di sfruttamento cinematografico del marchio è quasi un mistero, visto che le vendite sono sempre alte; forse si è deciso di farlo per cercare di svecchiare l'immagine della bionda smilza più amata dalle bambine e per cercare di arginare le polemiche riguardanti il suo famoso modello di donna.
Fatto sta che, tolto un primo tentativo di produzione negli anni '80 per la mitica Cannon e subito naufragato, il film di Barbie entra in cantiere all'incirca dieci anni fa, per la Sony della tristemente famosa Amy Pascal, la quale, in modo del tutto coerente con la sua disastrosa visione commerciale, decide di affidare il ruolo di protagonista niente meno che a Amy Schumer.
Nelle sue intenzioni, "Barbie" avrebbe dovuto essere un film per millennial, con un modello di donna "nuova" e "lontana" dagli stereotipi. E si, la Schumer è certamente lontana anni luce dallo stereotipo della Barbie, ma se vendere alle ragazzine una donna ai limiti dell'obesità e famosa per lo humor pecoreccio oltre che per le fasulle posizioni progressiste come modello da seguire è davvero una cosa giusta e moderna, allora forse questo tipo di modernità è davvero folle e fuori da ogni logica.




Fortuna ha voluto che, dopo aver gettato letteralmente alle ortiche decine di milioni di dollari in una pre-produzione che non ha portato a nulla, la Sony ha deciso di rivendere i diritti alla Warner. La quale ha preso il progetto con più filosofia, ingaggiando in primis la più calzante Anne Hathaway nel ruolo della protagonista, per poi dare il progetto in mano a Greta Gerwig e al marito Noah Baumbach, i quali hanno per prima cosa portato a bordo Margot Robbie, l'unica attrice vivente in grado di incarnare la bellezza fulgida e un po' svampita della bambola più famosa del mondo.
Ed è proprio il trio di artisti coinvolti che ha permesso a "Barbie" di non essere un semplice spot pubblicitario, ma un film che, sebbene facilone e imperfetto come la tradizione commerciale americana vuole, può dirsi lo stesso riuscito e divertente.




"Barbie" racconta quella che forse è davvero l'unica storia possibile per un progetto del genere: nel "BarbieWorld", Barbie (la Robbie) vive felice e spensierata assieme all'eterno fidanzato Ken (Ryan Gosling), oltre ad un infinito numero di amici, tutti chiamati Barbie e Ken; quando però una serie di pensieri cupi e maturi riguardanti la morte ne distruggono la spensieratezza, la bella bionda decide di abbandonare il suo mondo per recarsi in quello reale, dove scopre come la realtà, quella vera, sia infinite volte più dura e complessa di quanto il rosa schocking e i balletti del suo mondo ideale potessero farle pensare.




"Barbie" è, in un certo senso e fino ad un certo punto, una satira di ciò che effettivamente è, ossia un film che cerca di rivendere un modello di donna ideale in un mondo dove quel modello è, per forza di cosa, troppo perfetto. Non un film sulla guerra dei sessi, quanto la versione satirica di un film sulla guerra dei sessi, che sa quando essere più serio e quando e quanto parodizzare i luoghi comuni di operazioni del genere, arrivando a statuire l'assurdità delle situazioni e della morale in modo esplicito, come a distruggere le aspettative di quel pubblico che si aspetta un film serio tout court. 
Tanto che se tutto il progetto non fosse stato supervisionato e approvato dalla Mattel, si potrebbe pensare ad uno scherzo d'auotre vero e proprio; invece per una volta gli alti papaveri hanno lasciato correre e permesso ad un duo di artisti di sbizzarrirsi, rincuorati dal fatto che a prescindere dall'esito, il film avrebbe venduto.
"Barbie" si muove così su due territori complementari, ossia l'ovvia descrizione della discrasia tra un mondo ideale ed uno vero e la presa di coscienza della responsabilità individuale sulle brutture sociali, con un manto di autoironia talvolta persino acida.




Barbie è la donna perfetta, talmente perfetta che nessuna bambina, ragazza o donna può essere ai suoi livelli. Il suo modello, pur creato da un donna nella speranza di emancipare le bambine, ha finito per creare un paradigma che le ha schiacciate. La Barbie della Robbie compie quindi un percorso da Pinocchio di plastica, arrivando a capire come l'imperfezione sia la vera perfezione, come l'essere umani, pur con tutti i difetti del caso, sia sempre e comunque bello, anche al netto della cellulite, delle rughe e delle visite dal ginecologo.




Ma "Barbie" è anche un film femminista, che però rema contro gli stereotipi del veterofemminismo odierno. Si parla di patriarcato, si inscena una rivolta dei maschi (i Ken) che creano una dittatura fallocentrica, ma la sconfitta del modello maschile e il suo ritorno al rango di subordinato che gli spetta è solo una lettura superficiale. I Ken, nelle parole degli stessi personaggi, sono le donne di BarbieWorld, esseri che vivono in funzione di qualcun altro. La loro rivolta, pur chiamata come rivoluzione patriarcale, altro non è che la metafora di quelle donne che, al contrario, nel mondo reale sono gli accessori dei maschi. 
Come viene risolto questo conflitto? Nell'unico modo sensato, ossia con un'ammissione di colpa della parte dominante nel rapporto e con la realizzazione da parte di quella dominata di essere di più che un orpello al servizio di qualcuno altro. Statuizione che farà venire l'oritacaria ai più irreprensibili odiatori del sesso opposto, ma farà il piacere di chiunque abbia un cervello funzionante. Vien però da ridere quando ci si accorge che, alla fine della storia, il personaggio più complesso del film è Ken, che ha un arco caratteriale completo, mentre Barbie impara unicamente ad essere sé stessa, piuttosto che la parte migliore di sé stessa.
Decisamente meno riuscita è invece la traccia riguardante il rapporto madre/figlia (comune tra l'altro a quel "The Lego Movie" in tutto e per tutto simile a questa operazione) che finisce per scomparire poco alla volta nel corso della durata in favore di tematiche più universali, lasciando la narrazione e la "morale" irrimediabilmente monche.
Tutto è poi ovviamente didascalico, gridato a squarciagola e sottolineato nella maniera più esplicita possibile e va bene così, perché dopotutto si sta pur sempre parlando di un film commerciale americano rivolto principalmente ad un pubblico di bambine.




La Gerwig si diverte immensamente a dar vita alla sua Barbie e al suo colorato mondo, usando scenografie barocche e colori sgargianti, arrivando persino a far camminare gli attori come veri pupazzi. E se Margot Robbie e Ryan Gosling sono come al solito sublimi, la vera sorpresa è Michael Cera, per una volta simpatico nei panni di Allan, l'amico sfigato di Ken.
"Barbie" alla fine diverte e forse riesce a far pensare il suo pubblico di riferimento. Non certo un film memorabile, ma altrettanto sicuramente un film a suo modo intelligente, oltre che immensamente simpatico.

lunedì 7 agosto 2023

R.I.P. William Friedkin


 1935 - 2023


Eclettico e per certi versi geniale, Friedkin ha rappresentato il lato quasi un'eccezione nel panorama della New Wave americana, fermo com'è stato ad un sistema produttivo del tutto classico, seppur bilanciato da uno stile di regia innovativo, oltre che sull'uso di budget più grossi, per opere decisamente più ambiziose sul piano produttivo rispetto alla media dell'epoca. E il suo cinema è tutt'oggi incredibilmente moderno, incalcolabilemente influente, immensamente bello, con capolavori venerati e piccole gemme che meriterebbero di essere riscoperte.



"Festa di compleanno per il caro amico Harold" (1970)

Un giovane eterosessuale si confronta (e scontra) con la comunità gay di fine anni '60. Friedkin, in parte conservatore e in seguito persino accusato di omofobia per "Cruising", dà voce a quella comunità solitamente ignorata dal cinema mainstream, rivelandone le debolezze, ma anche la forza.



"Il Braccio violento della legge" (1971)

Prendendo spunto dalla cronaca della guerra tra la polizia di New York e la mafia marsigliese, Friedkin ricrea da zero il poliziesco avvicinandolo alla realtà, girando tutto il film per le strade e le location reali, caratterizzando il suo protagonista come un duro fatto e finito, eppure tanto integerrimo quanto fallibile, dirigendo uno degli inseguimenti più arditi di sempre e lanciando la carriera del grande Gene Hackman.




Friedkin porta su schermo il romanzo omonimo (e già piccola opera di culto) di William Peter Blatty, in quello che non è un semplice horror, quanto una riflessione sul concetto di fede e di male assoluto nella modernità.



"Il Salario della Paura" (1977)

Terzo capolavoro di fila, nonché il suo film più vicino alla sensibilità europea. Friedkin ricrea il capolavoro di Henry-Geroge Clouzot e gira tutto nelle reali location della storia, con un grosso sforzo logistico e produttivo. Cocente flop di cassetta, è invece uno dei film più belli del decennio.



"Cruising" (1980)

Secondo (cocente) flop e vero e proprio "film maledetto" che farà prendere alla sua carriera una direzione diversa. Friedkin porta di nuovo al cinema uno scottante caso di cronaca, questa volta quello di un serial killer che terrorizzava la comunità gay newyorkese negli anni '70 (tutt'oggi irrisolto). Con una struttura da poliziesco canonica, si immerge nei meandri della vita notturna, dei gay bar frequentati da omaccioni in completi di pelle attillata e crea uno spaccato sulla perversione e la devianza psicologica subito scambiato (a torto) per un atto d'accusa contro l'omosessualità.



"Vivere e Morire a Los Angeles" (1985)

Tornato alla piena forma, Friedkin incapsula lo zeitgeist degli anni '80 in un'ora e cinquantasei minuti al cardiopalma, che culminano in un'ennesima lezione su come portare in scena gli inseguimenti in auto.




"Assassino senza colpa?" (1987)

Ribaltando prospettive e aspettative, Friedkin porta in scena la strana storia di un feroce serial killer forse colpevole, forse no.



"La Parola ai Giurati" (1997)

Remake per HBO del capolavoro di Sidney Lumet, che Friedkin riporta in scena cambiando giusto il cast, composto da due giganti del calibro di Jack Lemmon e George C.Scott, oltre che da James Gandolfini, Ossie Davis e Armin Mueller-Stahl.




"Bug- La Paranoia è Contagiosa" (2006)

Portando in scena una pièce di Tracy Letts, Friedkin crea un ritratto della paranoia tanto ovvio quanto riuscito, anche grazie alle ottime prove di Ashley Judd e Michael Shannon.




"Killer Joe" (2011)

Ultima regia di fiction e terz'ultima opera in generale (alla quale seguiranno giusto un paio di documentari). Friedkin traspone un'altra opera teatrale di Tracy Letts su grande schermo, in un tripudio di cinismo e cattiveria a dir poco sublime.