lunedì 29 gennaio 2024

Povere Creature!

Poor Things

di Yorgos Lanthimos.

con: Emma Stone, Willem Dafoe, Mark Ruffalo, Ramy Yousseff, Hanna Schygulla, Kathryn Hunter, Jerrod Carmichael, Christopher Abbott,  Suzy Bemba.

Grottesco/Erotico

Regno Unito, Usa, Irlanda 2023















Se è vero che la società moderna trova le sue radici più profonde nell'era vittoriana, allora è lì che bisogna cercare i semi dei mali che la affliggono. A Lanthimos questo nesso ovviamente non sfugge e per questo, portando su schermo le pagine del romanzo omonimo di Alasdair Gray, con "Povere Creature!" stila un vero e proprio compendio sulle radici del femminismo e sulla sua necessaria affermazione; riuscendo al contempo a creare l'apologo femminista più riuscito degli ultimi anni.




Bella Baxter (Emma Stone) non è una donna comune: è la creatura del dottor Goodwin Baxter (Willem Dafoe), chirurgo a metà strada tra il genio e la pazzia, che l'ha creata unendo il corpo di una donna morta suicida con il cervello della bambina che portava in grembo. Esperimento fin troppo riuscito, Bella decide di uscire nel mondo per scoprirlo e comprenderlo.





Ed è dallo sguardo di Bella che tutto parte. Moderna Candido di Voltaire, è una bambina in un corpo di donna la cui sessualità è la prima scintilla verso la maturazione. Una sessualità irrefrenabile, che si appaia alla sua innata sensualità, a quell'ascendete che ha sugli uomini che la porta a trovare ogni partner possibile.
L'emancipazione parte quindi dalla maturazione sessuale e la prima lezione che la donna impara è l'impossibilità che la società impone in tale senso. Ed è qui che l'ambientazione vittoriana diventa essenziale: il mondo di "Povere Creature!" è una sorta di inconscio moderno, un universo steampunk dove passato e presente si mescolano in un'unica realtà sempiterna nella quale i vizi del passato diventano i drammi del presente.



Il diciannovesimo secolo diventa la gabbia definitiva per una protagonista che esce da quella nativa solo per trovarne sempre di nuove. La prima è il talamo, il letto condiviso con quell'amante focoso, Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), stallone fiero della propria virilità e finto libertino, che cede sotto il peso delle convenzioni sociali, prima catena con la quale imprigiona la partner.
Bella, con le sue iniziali movenze che ricordano la Frankenhooker di Frank Henenlotter, è una bambina curiosa la cui indole viene schiacciata dalle convenzioni, dal buon vivere, dalle "regole della buona società" che anziché tutelare l'individuo dagli eccessi altrui ne castrano ogni possibile affermazione. La prima delle quali è, appunto, la scoperta di una sessualità che vada al di là del singolo partner, che possa portare la donna a scegliere il proprio compagno piuttosto che limitarsi ad essere l'oggetto della sessualità altrui (e in tal senso, Bella è simile alla Abigail di "La Favorita", la quale a inizio film è il semplice trastullo del piacere altrui).




Con il secondo capitolo arriva la seconda realizzazione. La nave da crociera diventa una capsula attraverso la quale Bella prende coscienza della disparità sociale e inizia a maturare anche umanamente.
L'incontro con la coppia formata da Martha (Hanna Schygulla, non a caso nel cast) e Harry (il comico Jerrod Carmichael, qui in un ruolo serissimo) la porta a interrogarsi su come approcciare gli orrori sociali, con un rigetto del fatalismo nietszchiano e l'abbraccio di una forma di ottimismo speranzoso, tipico del femminino. Cui consegue l'arrivo nelle ultime due gabbie, ossia il bordello e la casa coniugale.
Due luoghi speculari eppure del tutto uguali. Il primo è dove la sua sessualità (ri)trova una briglia sciolta, anche se solo in modo apparente, con la curiosità e l'esuberanza che vengono ricondotte sotto l'egida del mercato. Mentre il secondo, letteralmente lastricato di sangue, è dove la sessualità viene inderogabilmente distrutta (la minaccia dell'escissione), ingabbiata nell'ambito della riproduzione e finanche surrogata nelle forme della violenza. Ed è in quest'ultimo aspetto che "Povere Creature!" trova una forma di originalità filosofica.



Per Lanthimos, la società capitalistica ha sostituito la sessualità con la violenza prima ancora che con la mercificazione. L'esternazione sessuale è sostituita dalla sottomissione, talvolta iraconda e talvolta beffarda, del più debole, sia esso la donna, sia esso un qualsiasi essere umano in una forma di subordinazione. Laddove la dominanza maschile ha portato ad una forma di possesso del maschio sulla donna, l'imposizione di una serie di valori totalmente improntati all'utilità ha portato a galla una falsa morale che ha finito, inavvertitamente o meno, con l'annientare la sessualità maschile, sostituendola con la distruzione del prossimo. Da cui il personaggio di Alfie Blessington (Christopher Abbott) e il suo revolver carico che sostituisce il fallo eretto, in una metafora che sembra uscita dritta dritta dal "Dillinger è Morto" di Ferreri.
L'origine della definitiva subordinazione femminile è in fondo da ricercare qui, ossia nel doppio standard dato all'esuberanza maschile vita come sacrosanta e dalla sostituzione del valore della sessualità con quello della sottomissione coatta altrui.



Pur tuttavia, il XIX secolo è anche quello del trionfo della razionalizzazione, della distruzione dei rapporti umani sul piano sociale (in antitesi al sorgere della letteratura romantica) in favore della sperimentazione sociale e scientifica. Godwin, in tale contesto, è la figura cardine, l'archetipo dello scienziato che gioca a fare Dio (nel nome e di fatto) con tanto di zoo privato di bizzarri ibridi animali, il quale è però a sua volta vittima di un genitore privo di empatia che ne ha distrutto il corpo fino a ridurlo ad un vero e proprio quadro cubista vivente (non per nulla, gli infanti sono le altre vittime predestinate di tale epoca storica, ingranaggi usati cinicamente nella macchina capitalistica); l'affetto verso Bella, quell'esperimento divenuto figlia in tutto e per tutto, diventa così appiglio che lo redime. 
Redenzione che arriva in un mondo dove tutte le figure maschili sono in un modo o nell'altro imperfette: il sadico (Alfie), il debole (Duncan), l'imbelle (l'assistente di laboratorio e promesso marito Max) e il cinico (Harry), una galleria di figure negative che riesce tuttavia a non scadere mai nella misandria gratuita grazie al loro ruolo archetipico.



Restando ancorato alla forma narrativa propria del romanzo, Lanthimos trova un suo spazio nella messa in scena, che rende questa sua ultima fatica davvero memorabile. 
I suoi famosi grandangoli esagerati e fish-eye apocalittici trovano una trionfante ragione d'essere in un racconto iperbolico, dove ogni singolo tema, ogni singola linea narrativa e battuta è gonfata verso il caricaturale. Ma, contemporaneamente, molteplici sono questa volta le fonti di ispirazione stilistico-estetiche. 
La più palpabile, soprattutto nel capitolo della nave, è quella di Rainer Werner Fassbinder, da cui anche la presenza della Schygulla, quasi un nume tutelare; laddove la tematica dell'amore come possesso dell'oggetto amoroso e sfruttamento del partner è parte integrante della storia, quei colori caldi e pieni non posso far tornare alla mente il felliniano battesimo del cinema queer di "Querelle de Brest". Mentre quelle ipnotiche carrellate all'indietro che sovente fanno capolino (pur se talvolta spezzate nel montaggio) sembrano uscite da un film dell'amato Kubrick.
Tale unione di stili ed influenze porta ad una visione bizzarra e magmatica, perfetta rappresentazione estetica di un racconto perennemente sopra le righe, grottesco nel suo voler sovvertire ogni regola di bon ton, trasformando uno spaccato d'epoca in un ritratto post-modernista urlante, un ritratto dove la volgarità è una forma di gustosa provocazione. Che trova poi un risvolto quasi polemico delle scene di sesso esplicito, portate in scena senza vergogna sia in nome di una coerenza estetico narrativa totalizzante, sia come sberleffo gustoso verso la rinascita del puritanesimo filmico del XXI secolo.




Al di là della messa in scena, Lanthimos si limita a creare un apologo femminista restando sempre all'interno di territori già esplorati. Il viaggio formativo di Bella Baxter non è diverso da quello di molte altre protagoniste di tanta letteratura femminista, ma di questo ne è pienamente cosciente, da cui le citazioni esplicite ad alcuni degli autori che lo hanno ispirato.
Pur non potendosi definire originale, "Povere Creature!" resta lo stesso un'opera riuscita, una storia di emancipazione tanto immediata quatno veritiera in una confezione ammaliante.

sabato 27 gennaio 2024

Il Figlio di Saul

Saul fla

di Làslzò Nemes.

con: Géza Röhrig, Levante Molnàr, Urs Rechn, Jerzy Walczak, Gergö Farkas, Balázs Farkas, Sándor Zsótér, Uwe Lauer, Christian Harting.

Drammatico

Ungheria 2015












Celebrare una ricorrenza come il Giorno della Memoria quest'anno è arduo. Questo perché si è arrivati al punto in cui gli orrori della Shoah sono perpetrati dai discendenti di chi li ha subiti originariamente, con veri e propri campi di prigionia che spuntano nei dintorni di Gaza, questa volta ad opera del popolo ebraico.
Una celebrazione volta a ricordare la persecuzione di quello stesso popolo affinché una cosa del genere non possa più ripetersi appare paradossale e ai limiti dell'ipocrita. Ma, forse, è proprio questo il motivo per cui va fatta, per ricordare quanto facile sia dimenticare, quanto importante sia ricordare le immagini di quegli orrori anche quando vengono ripetuti impunemente, anche quando le vittime del passato sono diventati i carnefici del presente. Oltre che, ovviamente, per onorare la morte di quegli innocenti la cui unica colpa era (allora come ora) quella di appartenere ad una data popolazione.
E "Il Figlio di Saul" è forse la pellicola perfetta per celebrare una ricorrenza in modo anomalo e anticonvenzionale.



Anticonvenzionale, "Il Figlio di Saul" lo è principalmente nel racconto, quella messa in scena che riprende tutti i luoghi comuni del cinema "autoriale" del secondo decennio del XXI secolo e li fonde per creare una visone volutamente scomoda. Il rapporto d'aspetto dell'immagine è in 4:3, le scene sono costruite come lunghi piani sequenza girati rigorosamente ad altezza d'uomo, la macchina da presa tampina i personaggi (principalmente il protagonista) dalle spalle con le canone "inquadrature da nuca", i dialoghi sono ridotti all'osso, così come il commento musicale. Eppure qui, per una volta, tutto ha perfettamente senso, poiché Làslzò Nemes vuole rappresentare una forma di testimonianza di un orrore celato.



La violenza, il sangue, i corpi martoriati degli internati nel campo di prigionia ove si svolge la storia, restano o fuori scena o fuori fuoco; la profondità di campo è sempre bassa, così come lo è lo sguardo di Saul, che attraversa la carneficina guardando sempre in terra o avanti, cercando di non soffermarsi sulle atrocità che gli si parano innanzi. Il suo è lo sguardo di un innocente che cerca di ritrovare quella purezza che ha perduto, quel figlio che non ha mai avuto, il cui funerale è ragione di vita, catarsi ottenuta solo per sfuggire nuovamente. Poiché nel massacro degli innocenti, l'innocenza non può rinascere, non può affermarsi, può solo essere inevitabilmente annientata (come ne "L'Infanzia di Ivan" o nell'imprescindibile "Va' e Vedi"), al massimo fuggire via in preda alla paura.




L'orrore dell'Olocausto, di conseguenza, non può avere una forma piena e completa, non può trovare una perfetta rappresentazione poiché troppo terribile, troppo insostenibile; una forma, una qualsiasi, finirebbe per limitarne la portata che, in quanto semplici spettatori, possiamo solo osservare di sfuggita, percepire in modo indiretto.
Nemes, allievo anche di fatto di Béla Tarr, lascia che sia il nostro sguardo a insistere sui dettagli fuori fuoco, che, in quanto tali, non esistono se non nella nostra mente, divenendo così infinite volte più raccapriccianti. Il suo più che un dramma è un film dell'orrore vero e proprio; e come nei migliori film di genere, è la mente dello spettatore a cadere nel raccapriccio grazie ad un violenza solo suggerita.



Il risultato è una visione a tratti insostenibile nel suo voler essere ferocemente implicita. Nemes riesce così a restituire perfettamente quell'orrore irriproducibile, a trasmettere l'angoscia e la disperazione di uomo (e di un popolo) che impara a convivere con l'orrore.

giovedì 25 gennaio 2024

Il Cacciatore

The Deer Hunter

di Michael Cimino.

con: Robert DeNiro, Meryl Streep, Christopher Walken, John Savage, John Cazale, George Dzunzda, Chuck Aspergen, Rutanya Alda, Mandy Kaplan.

Drammatico/Guerra

Usa, Regno Unito 1978 












Durante la cerimonia degli Oscar del 1979, alla notizia della vittoria de "Il Cacciatore" come miglior film, pare che Jane Fonda (che quella stessa notte aveva vinto il suo secondo Oscar, questa volta per "Tornando a Casa") abbia urlato in faccia a Michael Cimino qualcosa tipo "Sei un fascista!".
A sentire questo bizzarro aneddoto oggi (e ammesso anche che sia vero), si resta spiazzati, soprattutto se si è visto e amato il film. Ma all'epoca, a circa cinque anni dalla fine del conflitto in Vietnam, vedere trionfare un film del genere poteva davvero apparire come blasfemo; questo perché quel finale dove i personaggi, sopravvissuti a tutti gli orrori possibili connessi alla guerra, si riuniscono per cantare "God bless America" come a voler perdonare il governo, era davvero qualcosa di irritante. E non per nulla, anche molte associazioni di reduci avevano ampiamente contestato il film quella stessa notte, oltre che nei giorni precedenti.
La domanda è quindi d'obbligo: Cimino condonava gli orrori degli Stati Uniti in Indocina e la morte di migliaia di giovani americani dati in pasto alla macchina bellica?
Una risposta positiva potrebbe essere anche in parte veritiera, ma sarebbe riduttiva e alla fine anche fuorviante, poiché lo stesso Cimino ha più volte affermato di non aver mai voluto fare un film politico, quanto un film sulle persone, sui rapporti d'amicizia nell'America operaia e di come questi restino saldi nonostante tutto. E anche (ma non solo) per questo, "Il Cacciatore" è ancora oggi un capolavoro commovente.




Cimino, dal canto suo, è quasi un'anomalia all'interno del panorama della New Wave americana. Inizia come sceneggiatore, firmando tra l'altro anche quel "Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan" che aggiustava il tiro del buon gusto rispetto al primo, "fascistissimo", film. "Il Cacciatore" è la sua seconda regia e a differenza dei colleghi coevi non sfoggia particolari velleità cinefile, non vuole rivoluzionare la narrativa filmica americana, non ha intenzione di rielaborare il lascito degli autori "classici" americani o di quelli europei. Come quasi tutti i suoi film, è un'opera "quadrata", classica nel suo voler narrare una storia nel miglior modo possibile, senza fronzoli velleitari o rimandi metatestuali. Una pellicola immediata, genuina, che punta tutto sulla carica drammatica della storia e sul suo pugno di personaggi.




Da questo punto vista, il cuore pulsante di tutto il film è il primo atto, la lunga sequenza del matrimo che occupa quasi un terzo della durata, scena-madre prima della scena-madre più famosa, quella della roulette russa, spesso citata come esempio di inutile opulenza narrativa, in realtà necessaria per stabilire l'intero racconto.
E' qui che, come la tradizione della tripartizione in atti vuole, conosciamo i personaggi, li vediamo uscire dall'acciaieria scorgendo il duro lavoro, osserviamo quasi voyeuristicamente i loro drammi umani (le violenze in famiglia subite dal personaggio di Meryl Streep), vediamo i legami che li uniscono in pieno regime, assistiamo alla santificazione di uno di questi, con il matrimonio di Steven (John Savage), testimoniano quell'unione amicale inscindibile con la prima escursione in montagna e l'intero gruppo che si riunisce per cantare "Can't take my eyes off of you". E' la normalità, la vita comune che trova bellezza nelle piccole cose, nell'umanità dei rapporti. Ed è questo il perno del dramma, la colonna portante che sostiene tutto il coinvolgimento emotivo, strutturato come l'ultimo giorno prima della perdita dell'innocenza. Individuale e collettiva, con l'arrivo in Vietnam.




Sempre all'epoca della sua uscita, "Il Cacciatore" venne criticato per la verosimiglianza: stando a quanto riportato dai reduci e dagli analisti, la roulette russa non veniva praticata in Vietnam, tantomeno nei campi di prigionia nei quali venivano internati i soldati americani. Cimino ha dovuto così spiegare la sua scelta artistica dapprima dicendo di aver sentito come la stessa venisse praticata nel sottobosco criminale di Singapore, in un secondo momento (e con una regione decisamente più veritiera) affermando come sia stata necessaria per rappresentare la pressione psicologica alla quale i soldati sono esposti.
Era impossibile, secondo lui, rappresentare a dovere l'esperienza bellica su pellicola con la giusta efficacia. In un medium dove la rappresentazione passa per l'immagine, dunque per l'azione, ridurre i combattimenti ad una scena di un pugno di minuti, per quanto spettacolare, non avrebbe mai potuto restituire a dovere lo stress dei soldati; questi vivono costantemente con una spada di Damocle sulla testa, nella paura che un vero e proprio proiettile invisibile possa trapassarli uccidendoli prima ancora che se ne rendano conto. Da cui l'idea di un pistola puntata alla testa con un proiettile pronto a sparare.
La sequenza, lunga, tesa, dolorosa, disperata, è ancora oggi sconvolgente per impatto emotivo ed estetico, riesce a trasmettere lo stato di paura costante dei protagonisti alla perfezione, anche grazie alla straordinaria performance del trio di interpreti. Da manuale, in particolare, la contrapposizione tra la disperazione urlata di DeNiro e l'introiezione totale data invece da Christopher Walken.
L'avversione di Cimino verso il conflitto in Vietnam è in fondo da ricercare qui, nel modo impietoso con il quale ritrae l'orrore sconcertante che questi giovani uomini affrontano, il modo in cui il cambia interiormente. Se la seconda parte del film racconterà le ferite fisiche e psicologiche che i personaggi di Michael, Nick e Steven si porteranno addosso per il resto della loro vita, è nella prima scena di questo secondo atto che il dramma si è già consumato, con la riunione dei tre personaggi al villaggio vietnamita, con Michael che non riconosce i due amici, perso in un inferno del tutto personale che ha già cominciato a consumarlo. Da cui l'impossibilità di definire il film e lo sguardo di Cimino come reazionari.




Il terzo e l'ultimo (quarto) atto raccontano la tragedia del ritorno a casa, l'impossibilità di tornare ad una forma di normalità; per Michael, che ha incanalato e chiuso dentro di sé tutto le tragedie che ha visto e compiuto, c'è l'impossibilità di tornare ad uccidere, con la caccia al cervo che culmina con la sua accettazione di tale limite, la scoperta, inconscia e mai davvero ricercata, della sacralità della vita. 
Per Steven c'è la menomazione fisica, la perdita del corpo che comporta la distruzione dell'unione celebrata a inizio film, la distruzione di un rapporto dovuta all'incapacità di una partner di accettare tutte le limitazioni dovute all'handicap.
Per Nick c'è il non-ritorno, l'incapacità di distaccarsi da quella forma di "scommessa con la morte", quel brivido divenuto droga. Anche il suo, come quello di Michael, è un destino tracciato dal PTSD, che si consuma però fino alle estreme conseguenze.



Ciò che resta, alla fine, è una forma di comunione amorosa e affettiva, la realizzazione di essere sopravvissuti, Quel canto finale, più che una forma di perdono vero e proprio, è una forma di testimonianza, un grido che afferma come questo pugno di personaggi, pur distrutti dal lutto e dai traumi, è ancora vivo; che, come la protagonista di "Le Notti di Cabiria" di Fellini, possono e vogliono ancora andare avanti.


Se Cimino avesse davvero voluto fare un film reazionario, non avrebbe mai girato la scena della roulette russa. Ma, soprattutto, non avrebbe in generale mai diretto un film come "Il Cacciatore", non avrebbe dato corpo ai drammi dei sopravvissuti, non avrebbe descritto queste vite spezzate in modo così forte, non avrebbe dato spazio al trauma fisico o psicologico, né avrebbe chiuso il film con un funerale.
Il suo è un canto doloroso, che celebra la vita, ma nella sua accezione di pura sopravvivenza, senza vergognarsi di mostrare il dramma, anzi dipingendolo (in puro stile New Wave) nel modo più vivido possibile.


EXTRA

Ultimo film per il grande John Cazale.



Solitamente visto come un caratterista, era in realtà un attore a tutto tondo, che creava i personaggi dando loro una caratterizzazione anche fisica precisa, tanto che Al Pacino lo ha citato più come fonte di ispirazione personale per il suo metodo recitativo.
Protagonista indiscusso del cinema americano degli anni '70, deve ancora oggi la sua fama al ruolo di Fredo Corleone nella saga de "Il Padrino", ma il suo volto spunta anche in altri due capolavori dell'epoca, ossia "Quel pomeriggio di un giorno da cani" e "La Conversazione".
Durante le riprese de "Il Cacciatore" si sottoponeva alla chemioterapia per curare quel cancro che alla fine avrà purtroppo la meglio su di lui. Arrivato sul set già malato (accompagnato da Meryl Streep, sua compagna di vita all'epoca), muore nel marzo 1978, senza aver mai potuto vedere il film finito.

martedì 23 gennaio 2024

R.I.P. Norman Jewison

 


1926 - 2024

Tra "Jesus Christ Superstar" e "Rollerball", Norman Jewison è stato l'artefice di cult ancora oggi insuperati. Eppure anche quei suoi film considerabili come minori ("Hurricane", "Stregata dalla Luna", "F.I.S.T.") sono in realtà piccoli classici. Quanto poi a quei classici effettivi, come "Il Violinista sul Tetto", "La calda notte dell'Ispettore Tibbs" e "Il caso Thomas Crown", si tratta di pellicole che non hanno perso un grammo del loro charme.
Un regista poco conosciuto, del quale i film hanno detto più di quanto si possa di primo acchito pensare.

lunedì 22 gennaio 2024

Mandy

di Panos Cosmatos.

con: Nicolas Cage, Andrea Riseborough, Linus Roache, Ned Dennhey, Olwen Fouéré, Richard Brake, Bill Duke, Line Pillet, Alexis Julemont, Stephen Fraser, Clement Barronnét, Hayley Saywell.

Horror

Usa, Regno Unito, Belgio 2018














Esistono dei figli d'arte che superano il modello paterno, dimostrandosi ben più capaci all'interno del medesimo contesto artistico-lavorativo rispetto ai genitori e quello di Panos Cosmatos è l'esempio più recente e più fulgido. Suo padre, George Pan Cosmatos, era un mestierante a buon mercato nella Hollywood degli anni '80 e '90; sua era la firma su quel "Rambo II- La Vendetta" che affossava l'eredità del capostipite o l'amorevolmente ridicolo "Cobra", così come quella su "Tombstone", che invece si rivelava una dignitosa rievocazione della mitica sfida all'OK Corrall graziata da un cast superbo; e benché anche "Cassandra Crossing", "Di origine sconosciuta" e "Leviathan" siano stati degli exploit più che dignitosi, è classificabile come un cineasta dotato di nerbo, ma non di stile, che ha attraversato la Mecca del Cinema lasciando il tempo che ha trovato.
Panos, all'opposto, ha diretto giusto due film ed un episodio del deludente serial antologico "Guillermo Del Toro's Cabinet of Curiosities", imponendosi immediatamente come un filmmaker visionario e dotato di uno stile personale immediatamente riconoscibile, seppur non totalmente originale.
"Mandy" è il suo secondo lungometraggio, il primo ad avere avuto una distribuzione internazionale, che ne dimostra le capacità di messa di scena e che è diventato cult praticamente subito. Anche grazie alla presenza di un al solito impagabile Nicolas Cage.




Un horror che è il classico esempio di stile che divora la sostanza. Perché da un punto di vista strettamente narrativo, "Mandy" è quanto di più convenzionale si potrebbe chiedere, un semplice ibrido tra un home-invasion classico ed un rape & revenge ancora più classico, con una prima parte dove la quiete della coppia interpretata da Cage e Andrea Riseborough (il cui personaggio dà titolo al film) viene infranta da un gruppo di fanatici religiosi para-cristiani ed una seconda nella quale Cage diventa un novello Mad Max, attuando una ferocissima vendetta. Ciò che conta è il modo in cui le sequenze prendono vita su schermo.
Quelle di "Mandy" non sono semplici scene da home invasion e rape & revenge, quanto il sogno lisergico e allucinato di un comune home invasion/rape & revenge, una sorta di inconscio cinefilo e pop nel quale la violenza della storia si fonde con il lascito del prog-rock. Non per nulla, il film si apre sulle note di "Starless" e prosegue con un ritmo da rock anni '70, inanellando una serie di sequenze da vero e proprio trip in acido.




Cosmatos porta in scena un'estetica propria e originale (benché venga dopo Rob Zombie e Richard Stanley, ma comunque prima delle derive stilistiche più estreme di Joe Begos) quella di un viaggio allucinato carburato da un immaginario tardo anni '70 proprio dell'ambientazione del film, ossia un 1983 ancora saldamente ancorato al mood del decennio precedente. L'incedere è quello di un album prog-rock, le immagini sono distorte, allucinate e rarefatte, l'atmosfera tra l'onirico e il lisergico vero e proprio. Il tutto cosparso da una vena di brutalità esagerata, urlata a squarciagola, che non riesce mai ad essere davvero disturbante ma che riesce a trasformare il tutto in un incubo drogato e malsano.
La storia è anche intrisa di simbolismi bizzarri. Il gruppo di invasori potrebbero essere il parto della mente di un paranoico durante il "panico satanista" dei primi anni '80, con un'inversione simbolica dei concetti di bene e male; così come il vendicatore di Cage è letteralmente una "tigre che brucia fulgida nella foresta notte" di blakeiana memoria; ma tutti questi simboli restano chiusi in una forma comunicativa ottusa, che non apre ad interpretazioni o letture facili e forse neanche davvero possibili, configurandosi più come rimandi che come effettivi chiavi di lettura del racconto.




A Cosmatos non interessa la narrazione per sé, tantomeno creare un racconto di tensione o di orrore vero e proprio, quanto comunicare un sentimento d'ansia costante, dove spesso questa viene perorata e amplificata dall'incapacità di discernere cosa stia davvero accadendo su schermo. Da questo punto di vista sono riuscitissime le scene in cui compaiono i motociclisti infernali, sorta di cenobiti su due ruote la cui natura effettivamente sovrannaturale viene lasciata in sospeso persino quando chiarificata del tutto.
Ansia che resta alta anche quando decide di inserire delle derive fantasy assortite, come i sogni in animazione che ricordano le tavole dei fumetti di "Heavy Metal" o quell'ascia che non sfigurerebbe sulla copertina di un album epic metal d'epoca; o, quando, decide di esagerare con un duello tra motoseghe che forse Tobe Hopper sognava durante le notti di lavorazione di "Non Aprite quella Porta 2".




"Mandy" funziona così nel suo voler essere un viaggio ipnotico nel subcosciente del cinema di genere americano e non, un trip avvolgente e incantevole che rapisce per tutta la sua durata lasciando, alla fine, piacevolmente ammaliati e la cui totale vacuità contenutistica non è per forza di cose un difetto.

venerdì 19 gennaio 2024

The Palace

di Roman Polanski.

con: Oliver Masucci, Fanny Ardant, John Cleese, Mickey Rourke, Bronwyn James, Joaquim De Almeida, Luca Barbareschi, Milan Perscel, Fortunato Cerlino, Sydne Rome.

Grottesco

Italia, Svizzera, Polonia, Francia 2023













E' stato facilissimo massacrare "The Palace", visto come mostra il fianco a praticamente tutte le critiche possibili. E l'ultima fatica di Roman Polanski (che, arrivando subito dopo il bellissimo "L'Ufficiale e la Spia",  lasciava presagire un buon esito anche questa volta) di certo non si può definire riuscita, vista la sua effettiva incapacità di colpire. Eppure la ferocia con la quale è stata demolita risulta spesso esagerata, se non talvolta infondata, poiché alcuni dei difetti che le vengono riconosciuti sono in realtà dei pregi.




Tutto nel film è finto. E' finto lo sfondo innevato che incornicia l'hotel del titolo, sono finte le scenografie degli interni, è fintissimo quel pinguino che ogni tanto appare in scena tanto per, rigorosamente staccato dal resto dei personaggi e incollato malamente sugli sfondi; allo stesso modo in cui finti sono i personaggi, riccastri di carta pesta, vecchie bacucche dai volti mostruosi che sfoggiano come se fossero belli, un chirurgo plastico chiamato a fare le veci del medico vero e proprio con moglie rimbambita al seguito, un ex pornodivo dalla faccia spaccata, una nobildonna incartapecorita che si preoccupa del suo cane-ratto come di un figlio, un truffatore da strapazzo pronto a fare il colpo del millennio et similia. Quella di Polanski è una satira che mette alla berlina un pugno di personaggi da cinepanettone, presentandogli come dei mostri orrendi piuttosto che come dei simpaticoni, quindi la ripresa della medesima estetica rende il racconto compatto e coerente. 
Una ripresa che trova il suo apice nel casting del produttore Luca Barbareschi, qui nei panni di un pornodivo che arriva in scena con un trucco e parrucco che sembra creato ad hoc per farlo somigliare a Christian De Sica, come una sorta di parodia umana che si muove liberamente in immagini che potrebbero quasi essere quelle di un "Vacanze di Natale" qualsiasi. 
Il racconto è così quello di un'alta borghesia cafona e viziata che mima il cinema amato e perorata da quella stessa classe, che ne imita l'estetica e lo stile e che sarebbe anche riuscito se questa satira fosse davvero classificabile come tale.




Dello stuolo di personaggi orrendi e grotteschi, Polanski non sa davvero cosa farsene. Lo script (che porta addirittura anche la firma di Jerzy Skolimowski, che non collaborava con il regista dai tempi del folgorante esordio "Il Coltello nell'Acqua") li introduce in modo efficace, riuscendo a sottolinearne la natura ripugnante, ma quando si tratta di portare davvero in scena la loro mostruosità si rivela misteriosamente parco, vergognandosi di andare oltre quella soglia di provocazione minima necessaria affinché il tutto risulti graffiante o anche solo davvero parodistico.




Tutte le scene volgari arrivano in modo automatico, come il vomito della moglie del dignitario o il suo finire di faccia nel piatto. Questo quando arrivano, perché alle volte la volgarità resta tra le righe, disinnescando ogni possibile velleità provocatoria, rendendo il registro usato stranamente vetusto, come se fosse il figlio di tempi dove le maglie della censura erano più strette, cosa inedita per Polanski. Quando poi la provocazione arriva davvero, è sterile, come quell'ultima inquadratura, che avrebbe lasciato freddi già all'interno di una satira riuscita, figuriamoci nel contesto di una priva di mordente; o come la scena del coito con il cadavere, ripresa quasi totalmente da "Visitor Q", ma che qui non ha un effetto neanche lontanamente paragonabile.




Quando poi Polanski e soci cercano di rifarsi alla modernità o alla cinefilia, le cose non migliorano più di tanto; davvero stanca la "non citazione" di "Chinatown", così come la comparsata di Sydne Rome, il cui volto massacrato dal lifting a buon mercato viene usato per spiattellare la bruttezza dell'ossessione della giovinezza, ma la cui presenza riporta inevitabilmente alla mente "Che?", altra incursione dell'autore nel grottesco decisamente più memorabile. Più simpatica è invece la performance di Mickey Rourke, al solito encomiabile, che trasforma il suo personaggio in un emulo di Donald Trump, regalando persino una sparuta risata genuina nella scena in cui si intrufola nella stanza di un altro.
E' come se regista e sceneggiatori abbiano dato per scontato che il pubblico possa odiare queste figurine tanto reali quanto fiacche per il solo loro apparire su schermo, cosa che non avveniva nel coevo "Triangle of Sadness", dove la caratterizzazione non cedeva mai il passo alla pura rappresentazione. Alla fine, sembra che le scene e battute migliori siano rimaste tra le pagine della sceneggiatura o addirittura nella mente degli autori.




"The Palace" è così una satira stanca e vacua, ma che trova almeno una ragion d'essere in una messa in scena del tutto coerente con i propri intenti iniziali. Non un film brutto, solo magistralmente malriuscito.

mercoledì 17 gennaio 2024

L'Assassino

di Elio Petri.

con: Marcello Mastroianni, Micheline Presle, Cristina Gaioni, Salvo Randone, Andrea Checchi, Marco Mariani, Franco Ressel, Mac Ronay, Toni Tucci, Giovana Gagliardo.

Drammatico

Italia, Francia 1961

















Delle anime che hanno costellato il Cinema dell'Impegno Civile italiano, quella di Elio Petri è stata certamente la più inquieta. Comunista fin dall'adolescenza, fortemente critico sia del sistema politico ancora fermamente destrorso dell'Italia del Secondo Dopoguerra che dei valori morali e civili propri della società, inizia la sua carriera come giornalista e recensore già adolescente e nel corso degli anni dimostra la sua indole insofferente e indomita arrivando a ritirare la sua sottoscrizione dal famoso "Manifesto dei 101" del Partito Comunista e persino firmando una vera e propria condanna a morte per il commissario Luigi Calabresi apparsa sulle pagine di Lotta Continua.
Le sue posizioni sono state estreme e il suo stile sovente grottesco, volto a disvelare l'innata assurdità dei meccanismi di potere, sia quelli insiti all'interno delle istituzioni (l'imprescindibile "Todo Modo", suo capolavoro maledetto) che quelli che si vengono a creare "dal basso", propri dei rapporti sociali talvolta di natura criminale ("A Ciascuno il Suo"), talaltra semplicemente basati sul gender ("La Decima Vittima", "Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto"), più sovente in riguardo al rapporto di subordinazione di una classe inferiore a quella patronale ("La Classe Operaia va in Paradiso").



Il suo esordio, "L'Assassino", ha in nuce tutta la sua filosofia. Produzione Titanus con l'allora neo-divo Marcello Mastroianni, riprende la struttura di un poliziesco giallo, ma la utilizza per fare altro.
La trama è quella classica del whodunnit: l'antiquario Alfredo Martelli (Mastroianni) è accusato dell'omicidio della facoltosa amante Adalgisa De Matteis (Micheline Presle); viene così torchiato dal commissario Palumbo (un magnifico Salvo Randone) e costretto a ricostruire la storia della sua relazione.
Una struttura, si diceva, che più classica non si può, con un omicidio, una risoluzione finale ed un percorso fatto di false piste e supposizioni. Ma l'occhio di Petri non si sofferma tanto sui meccanismi del genere, tantomeno sulla semplice questione filosofica del concetto di colpevolezza, quanto sul suo protagonista, che nella tradizione del filone è una perfetta incarnazione della "nuova italianità" del Boom Economico, oltre che sul gioco di potere nel quale incappa suo malgrado.




Martelli è un arrivista ipocrita, il classico italiano che ha assimilato la famosa "arte di arrangiarsi" e ne ha fatto un vero e proprio credo. Ex robivecchi divenuto antiquario grazie ai capitali elargiti dalla amante, è praticamente un ricettatore che acquista paccottiglia a buon mercato per rivenderla a prezzi da capogiro, facendo felici gli alti borghesi che possono sfoggiare falsa arte nei loro squallidi salotti. A Maretelli non interessa la politica, è al di fuori della lotta di classe, in quanto ex membro della sinistra che ora ripudia per mancanza di interesse, pur dicendo di stimare il nonno, famoso antifascista del posto, il quale veniva, tuttavia, da lui canzonato.
Quello de "L'Assassino" è un perfetto esempio del prototipo del personaggio sordido del cinema italiano, un archetipo che include in se stesso tutti gli aspetti più deleteri della cultura nazionale. E se la sua storia personale è avvilente, il suo carattere è del tutto antipatico: lo si vede come un cinico menefreghista interessato solo alla propria affermazione, tanto che nel finale arriva persino a vantarsi di essere stato accusato d'omicidio. In un primo momento sembra che la brutta esperienza lo abbia reso più umano, ma è una redenzione puramente temporanea, che viene corretta con il tempo. In questa disillusione cinica, l'opera di Petri riesce non solo ad incapsulare perfettamente uno sguardo ed un ritratto d'epoca, ma anche (malauguratamente) a configurarsi come del tutto contemporanea.




Se lo sguardo verso questo omuncolo opportunista è di disprezzo, quello verso le autorità è altrettanto disincantato. L'incipit di tutta la vicenda sembra uscita dalle pagine de "Il Processo" di Kafka (da notare come il bellissimo adattamento filmico di Orson Welles sarebbe arrivato solo un anno dopo), con un protagonista che viene tradotto in questura senza che né lui, né lo spettatore sappiano di cosa è accusato. Persino l'ingresso in scena del commissario, colui che porta avanti l'indagine e con essa l'accusa, arriva tardi. E' facile, di conseguenza, vedere in prima istanza Martelli come una vittima del sistema, il destinatario di un abuso ingiustificato anche quando si è in dubbio riguardo la sua innocenza, unica concessione all'empatia di Petri, usata non per far connettere lo spettatore al protagonista, quanto per creare uno spaccato critico di un ordinamento penale che prima della riforma del 1988 era ancora ingiustamente ancora ad un sistema inquisitorio.




Un terzo sguardo di biasimo, Petri lo rivolge alla società tutta, a quel populino che gravita intorno a Martelli e al sistema penale, quel popolo che dovrebbe essere il depositario della saggezza, ma che si disvela come pericoloso e ipocrita a prescindere dalla classe sociale di appartenenza. Il ritratto che emerge dalle chiacchere è di molto peggiore di quello che Martelli effettivamente è, lasciando trasparire una forma di perplessità verso quel pubblico che si arroga il diritto di distruggere una persona a prescindere dal suo effettivo valore e solo sulla base di vaghe e infondate accuse di colpevolezza.
La stessa città dove i personaggi si muovono è indicativa dell'allineamento morale da essi seguito: una Roma plumbea, chiusa in un inverno freddissimo che schiaccia i personaggi in un grigiore asfissiante.




Anche come semplice poliziesco, "L'Assassino" funziona a dovere. Usando una struttura non lineare, Petri può dare sfogo alla sua vena visionaria e sovrapporre i piani narrativi anche a livello visivo, come nella sequenza dell'albergo, dove passato e presente si incrociano in una serie di panoramiche ardite, prova di un talento innato e di una padronanza tecnica notevole. 
Il dubbio sulla colpevolezza del protagonista è sempre ben perorato e, anzi, l'impossibilità di discernere la sua effettiva innocenza aiuta a tracciarne un quadro psicologico-morale ancora più completo, soprattutto quando lo si descrive come un narratore inattendibile.
Il risultato è un'opera prima folgorante che riesce perfettamente a fondere un ritratto umano al vetriolo con un meccanismo narrativo perfetto, un esempio superlativo di esordio memorabile.

mercoledì 10 gennaio 2024

La Sfida

di Francesco Rosi.

con: Rosanna Schiaffino, José Suàrez, Nino Vingelli, Decimo Cristiani, Tina Castigliano, Pasquale Cennamo, José Aspe, Elsa Valentino Ascoli.

Italia, Spagna 1958


















Tra i vari filoni nati durante la stagione d'oro del cinema italiano, quello del cinema dell'impegno civile e politico è forse il più dirompente, non solo perché ha portato alla creazione di un genere vero e proprio (il film d'inchiesta, punto d'incontro ideale tra fiction e documentario), quanto per gli effetti indelebili che ha lasciato nel tessuto sociale, il quale sovente è stato scosso da opere pensate a tal fine, che portavano all'attenzione delle masse realtà scomode e spesso rimosse per il quieto vivere. 
Se già il Neorealismo e persino la Commedia all'Italiana proponevano spaccati del costume, il Cinema Civile affrontava di petto questioni scottanti senza alcuna rielaborazione, portando davanti agli occhi del pubblico le malefatte, i complotti, lo squallore morale e talvolta persino materiale che circolava tanto nelle strade quanto nei palazzi del potere, con i loro intrighi, gli inciuci e le ruberie assortite sepolte sotto la coltre di omertà e di quella rispettabilità "sacrale" tanto propagandata dalla vecchia Democrazia Cristiana.
Una stagione in realtà mai conclusasi, visto che la filmografia a riguardo è praticamente l'unica che ha ancora una produzione attiva; e che ha portato alla creazione di film imprescindibili, oltre all'affermarsi di un pugno di autori le cui opere, benché figlie del loro tempo, sono tutt'oggi eclatanti persino sul semplice piano contenutistico, vista la forte arretratezza culturale che ha sempre caratterizzato il Belpaese. E il primo autore a dover essere citato a riguardo è il compianto Francesco Rosi, padre putativo di tutto il filone.




Campano d'origine, romano d'adozione, Rosi si forma artisticamente sotto l'ala protettrice di Luchino Visconti, per il quale scrive anche "Bellissima". La prima esperienza dietro la macchina da presa arriva precocemente, quando, nel 1952, completa la lavorazione di "Camicie Rosse" dopo la defezione di Goffredo Alessandrini. Esperienza che non lo porta immediatamente ad occupare la sedia di regista, la quale lo reclama solo nel 1958, quando dirige "La Sfida", suo effettivo esordio artistico.




"La Sfida" è un racconto che parte dalla lezione del Neorealismo e del dramma popolare per diventare subito altro, una storia a sé che riprende dai modelli di base poco o nulla. Quello di Rosi è uno stile crudo, che lo porta a guardare a fatti e persinaggi con distacco, come la materia pretende. E la storia alla base della trama è ispirata ad un fatto realmente accaduto, benché nei titoli di testa si dica il contrario: a Napoli, Vito Polara (José Suàrez) è un delinquente di bassa lega che vuole entrare nel giro del traffico ortofrutticolo, in mano ai fratelli Ajello; dei due, Salvatore (Pasquale Cennamo), il più impulsivo e violento, tenta subito di estrometterlo, ma torna su suoi passi dietro consiglio del più riflessivo Ferdinando (José Jaspe). Fatta fortuna e sposata la bellissima vicina Assunta (Rosanna Schiaffino), Vito decide di fare il classico passo più lungo della gamba...




Il termine "Camorra" viene pronunciato un'unica volta negli 83 minuti di durata, ma quello di Rosi è un perfetto antesignano dei moderni gangster-movie nostrani à la "Gomorra". Vito è il classico giovane rampante, un criminale che vive di piccoli espedienti ed ha un'ambizione più grande della sua stessa intelligenza. Il suo arco umano è classico, ma non scontato: la Camorra non tollera sgarri, la via della delinquenza porta facilmente alla fortuna e altrettanto facilmente alla morte. Nel ritrarre tale verità universale, Rosi porta in scena un mondo che fino ad allora si voleva ignorare o relegare quasi esclusivamente alla narrativa di genere. "La Sfida", in maniera opposta, è un film che vive alla luce del sole, che porta in prima piano le violenze che si consumano quotidianamente per le strade delle città e vuole dare spazio a quei personaggi squallidi che le popolano.




Lo sguardo di Rosi è, su di un primo livello, quello di un documentarista che usa il registro del dramma per parlare d'altro. Il suo racconto affonda le radici nella narrativa popolare, della quale però decide di ignorare i risvolti più frivoli. Si pensi alla storia d'amore con Assunta, interpretata dalla diva Rosanna Schiaffino, all'epoca superstar dei rotocalchi rosa di tutta la penisola; una storia che viene portata in scena con tutti i crismi possibili: gli sguardi teneri, l'inseguimento nella palazzina popolare, l'incontro focoso e il matrimonio da favola; ma che, alla fine, non è che una nota di colore che rende quel finale ancora più tragico ed il personaggio del protagonista ancora più deprecabile.
A Rosi interessa scandagliare la rete che intercorre tra l'impresa agraria e gli affari della criminalità organizzata ed è in tale aspetto che il film trova la sua perfetta dimensione, riuscendo a descrivere il mondo dei traffici e della co-dipendenza tra impresa locale e Camorra in modo talmente veritiero da risultare ancora attuale.




Tale denuncia, questa dissezione di un meccanismo simbiotico raccapricciante, viene poi immessa in una storia fin troppo umana; quello di Vito è in proposito la perfetta maschera della piccola delinquenza. Un uomo minuscolo, quasi ingenuo nella sua meschinità, un arrivista pronto a tutto pur di incartare qualche soldo. Un uomo la cui vita, alla fine, non vale niente, contrariamente a quanto lui pensa, essendo un egocentrico convinto di poter surclassare una famiglia criminale più esperta e potente. Tanto che alla fine, la vera vittima non è lui, quanto la sua neo-moglie il cui grido straziante chiude il film.



L'occhio di Rosi non si ferma alla mera cronaca degli eventi. Benché ricerchi sempre la verosimiglianza, non appiattisce la messa in scena sulle coordinate del laconico, anzi trova sempre la soluzione visiva migliore, con la conseguenza che "La Sfida" è un film bello anche sul piano strettamente estetico.
Il suo esordio resta quindi ancora oggi interessante: uno spaccato dell'Italia che fu e che per certi verso ancora è.

sabato 6 gennaio 2024

Willy Wonka e la Fabbrica di Cioccolato

Willy Wonka & the chocolate factory

di Mel Stuart.

con: Gene Wilder, Peter Ostrum, Jack Albertson, Günter Meisner, Diana Sowle, Roy Kinnear, Julie Dawn Cole, Leonard Stone, Denise Nickerson, Dodo Denney, Paris Temmen, Ursula Reit, Michael Bollner.

Fantastico/Commedia/Musical

Usa 1971












La tendenza odierna a riscrivere la narrativa per accordarla al mutare della sensibilità è un fenomeno che può essere definito solo come "orwelliano". Fa ridere, tuttavia, che ad essere colpito sia stato anche Roald Dahl, quel narratore per l'infanzia i cui scritti compaiono sovente nei testi di scuola elementare e che in apparenza sembrerebbe essere lontano da ogni potenziale offensivo.
Dahl, tuttavia, era pur sempre figlio dei suoi tempi e nelle sue storie figuravano spesso descrizioni di luoghi e usanze che oggi potrebbero passare per razziste. La scure del buonismo ne ha quindi maciullato i testi, in un mondo dove la censura coatta viene sempre preferita alla spiegazione didattica e alla contestualizzazione storica.
Polemiche a parte, se si pensa alle trasposizioni dei suoi lavori al cinema, l'unico davvero degno di nota è "Willy Wonka e la Fabbrica di Cioccolato", quell'adattamento nato senza particolari pretese, ma che è riuscito davvero a configurarsi come un perfetto film per giovanissimi, sia grazie alla rilettura fatta al testo (ironicamente detestata dall'autore), sia grazie alla presenza di un impagabile Gene Wilder.




La storia del film (al pari del film stesso) è alquanto stramba. L'idea di una trasposizione viene alla figlia del regista Mel Stuart, all'epoca bambina, dopo aver letto il libro. Stuart, colpito sia dal libro in sé che dalla presa che aveva avuto sulla bimba, contatta il collega e amico produttore Albert Wolper, il quale si mette subito all'opera per trovare i fondi necessari, fiutando un successo facile. Questi arrivano grazie alla collaborazione della Quaker Oats Company, azienda produttrice di dolciumi spronata dalla possibilità di usare il film come un gigantesco spot per un nuovo prodotto, tanto che il titolo viene persino modificato per avere il nome di Willy Wonka in primo piano, in modo da piazzarlo poi sugli incarti. 
Ottenuto un budget di circa tre milioni di dollari, la produzione ha inizio e si conclude senza intoppi, ma la Wonka Bar che doveva divenire il prodotto di punta del marketing viene subito ritirata dai negozi a causa di un errore nella formula, che la rendeva troppo facile alla liquefazione e quindi impossibile da conservare nei magazzini dei grossisti.
Uscito in sala, il film non riscuote particolare successo e, anzi, viene persino criticato per la sua natura non proprio fanciullesca,finanche per quei genitori che nei primi anni '70 avevano certamente più pelo sullo stomaco degli odierni. La riscoperta avviene grazie ai passaggi televisivi e grazie all'interessamento dei bambini, i quali non sono affatto spaventati da Willy Wonka e i suoi modi da vero e proprio villain.




La riuscita di questa trasposizione si deve praticamente al fatto che sia Mel Stuart che lo sceneggiatore David Seltzer (qui praticamente al suo esordio e poi autore di "The Omen" giusto qualche anno dopo), oltre che Gene Wilder, avevano capito perfettamente lo spirito del romanzo e sapevano cosa trarne (cosa che disgraziatamente non succederà a Tim Burton circa trentacinque anni dopo). La differenza più vistosa con la storia scritta in origine da Dahl (e aggiunta da Seltzer a quella sceneggiatura inizialmente vergata proprio da lui) è l'inclusione del personaggio di Slugworth, il cattivo rivale di Wonka che usa i bambini per carpirne i segreti; tutta la relativa sottotrama porta ad una vera e propria prova per il protagonista Charlie, il quale alla fine decide di sua spontanea volontà di fare del bene, dimostrandosi come degno erede di Wonka in modo attivo e non semplicemente passivo, aggiungendo una sfumatura decisamente al suo carattere che rende il suo personaggio decisamente più empatico e il suo lieto fine meritato piuttosto che regalato.




Wilder riesce invece ad incarnare perfettamente l'eccentrico Willy Wonka e tutte le diverse tonalità del suo lunatico carattere. Sua è l'idea di farlo entrare in scena come un finto claudicante per estrinsecarne la natura imprevedibile, suo è il merito se questo personaggio concepito come un vero e proprio carnefice riesce ad essere infinitamente amabile.
Perché Wonka è, in senso lato, un cattivo: è un cinico, un uomo che ha compreso come i bambini siano vittime di quello stesso consumismo che lui stesso ha perorato, di come abbiano perso ogni forma di bontà, ogni capacità di comprensione e solidarietà verso il prossimo. Da cui l'eliminazione sistematica di quel gruppetto di orrendi  piccoli vincitori, uno più odioso dell'altro, in maniera impassibile, oltre i limiti della strafottenza, in una serie di castighi che potrebbero essere davvero quelli architettati dal serial killer di uno slasher particolarmente elaborato stile "Saw".





Stuart ha poi l'ottima intuizione di affidarsi completamente al cast e alle scenografie. Affida le canzoni al cantautore Anthony Newly, il quale crea un pugno di pezzi orecchiabili che restituiscono perfettamente l'atmosfera sognante della storia. Dirige poi i numeri musicali con la giusta grinta, ma questi alla fine vivono proprio grazie alle belle canzoni, molte delle quali ancora oggi saldamente presenti nella memoria collettiva; laddove si dimostra perfetto è nel sottolineare il tono grottesco e sottilmente spaventoso del viaggio nella fabbrica, come nella celebre scena del tunnel, magnifico esempio di cinema lisergico e horror riadattato per la narrativa infantile.




Quello che emerge da questa splendida sinergia è un concentrato di buoni sentimenti magnificamente speziati da una vena di sana cattiveria. Una favola morale che stupisce, incanta e sconvolge, intrigando a dovere e lasciando il cuore leggero, ma non vuoto. Un perfetto esempio di cinema per l'infanzia che trova un altrettanto perfetto valore anche quando lo si riguarda con un occhio adulto e che ancora oggi, pur con tutti i limiti che la messa in scena di una piccola produzione di oltre cinquant'anni fa può avere, risulta perfettamente godibile.