venerdì 27 gennaio 2023

Va' e Vedi

Idi i smotri

di Elem Klimov.

con: Aleksey Kavchenko, Olga Mironova, Lubomiras Laucevicus, Vladas Lagdonas, Jüri Lumiste, Viktors Lorencs, Evgeny Tilcheev.

Unione Sovietica (Bielorussia) 1985



















Esistono film in grado di trascendere lo status di opere cinematografiche e persino quello di opere d'arte; pellicole così viscerali e vivide da poter essere descritte solo come "esperienze", veri e propri avvenimenti che finiscono per toccare l'anima e la mente dello spettatore sino a scuoterle nel profondo, travalicando i limiti di fruizione virtuale canonici.
"Va' e Vedi" è uno di quei film, una vera e propria discesa nell'inferno più profondo dell'esperienza bellica, la cui potenza evocativa annienta ogni forma di sospensione dell'incredulità e al contempo annichilisce ogni pretesa di realismo o verosimiglianza per farsi puro concentrato di astrazione tematica ed emotiva, eppure al contempo talmente tangibile e verosimile da colpire allo stomaco coì come al cuore e al cervello.



Il suo fautore, Elem Klimov, è forse il cineasta più sottovalutato del suo tempo. Non perché non abbia ottenuto riconoscimenti quando era in vita o perché i suoi film siano stati stroncati dalla critica o ignorati dal pubblico, bensì perché, a differenza di altri illustri cineasti sovietici, non ha mai raggiunto lo status di artista venerato sul piano internazionale e, anzi, un culto del genere si è avviato spontaneamente solo negli ultimi anni, quando i cinefili più giovani ne hanno riscoperto le opere proprio grazie a "Va' e Vedi", il quale, a sua volta, è diventato finalmente una pellicola di culto oltre che riconosciuto per il suo indicibile valore.
Un film che lo ha segnato nel profondo, in tutti i sensi. Lui, bielorusso di nascita, che ha assistito a quelle stragi qui così fedelmente ricostruite, ha passato circa sette anni in quest'avventura umana e filmica; un primo tentativo di produzione viene avviato già a fine anni '70, ma questa si arena a causa delle difficoltà economiche. Solo nel 1983 Klimov e soci riesco a far partire la produzione vera e propria, la quale si conclude alla fine del 1985; il relativo sforzo viene coronato con la presentazione al Festival di Venezia nel 1986, nell'ambito di un progetto di presentazione di opere filmiche provenienti dall'Unione Sovietica, dove però non vince alcun premio.
Nonostante l'ottima accoglienza internazionale e un buon successo di pubblico, "Va' e Vedi" resterà il suo ultimo film. Ritiratosi dal ruolo di regista, Klimov passa gli anni successivi all'uscita del film ricoprendo il ruolo di primo segretario nell'Unione dei Cineasti Sovietici, garantendo visibilità a quegli autori precedentemente ostracizzati dal regime; si spegnerà nel 2003 senza aver mai preso parte a nessun altro progetto cinematografico e lasciando questo sua ultima opera come un vero e proprio testamento.




Non un semplice film di guerra; non ci sono battaglie combattute da soldati veri e propri, le loro tragedie o eroismi di sorta; e benché la spettacolarità non manchi, non si può davvero definirlo come un film spettacolare in senso stretto. Non siamo davanti ad una cronaca bellica stile "Il Grande Uno Rosso", né ad una riflessione esistenzialista incorporata in una visione grandiosa degli eventi stile "Apocalypse Now", tantomeno in un discorso retorico volto a celebrare chi ha combattuto e vinto la Seconda Guerra Mondiale come in "Salvate il Soldato Ryan". A Klimov tali risvolti non interessano e racconta piuttosto quello che è un vero e proprio romanzo di de-formazione, la storia di un ragazzo poco più che bambino la cui esistenza viene sconvolta dal contatto con l'orrore più puro e genuino. E con lui, anche noi che osserviamo il mondo tramite i suoi occhi riusciamo a scivolare verso quel luogo a metà strada tra la follia vera e propria e la desertificazione emotivo-mentale.




Non per nulla, la prima scena parla da sola: il protagonista Flyora (Aleksey Kavchenko) gioca assieme ad un compagno più piccolo, mimando una guerriglia, mentre cerca tra i resti di una battaglia un fucile che gli permetta di unirsi ai partigiani. Già qui la visione è chiara: la guerra vista da chi non vi ha preso parte è, appunto, un gioco o al massimo un'occasione potenziale per perpetrare eroismi.
La tragedia futura viene preconizzata dalla madre di Flyora, la quale tenta di dissuaderlo dall'unirsi ai combattimenti. Ma invano.
Arrivato al campo della resistenza bielorussa, il giovane comincia a toccare con mano la vita nelle foreste sovietiche, ma la sua visione gioiosa degli eventi è ancora di là dal cambiare, anche grazie all'incontro con la coetanea Glasha (Olga Mironova).




In questo secondo atto si assiste ad una sorta di maturazione sentimentale del protagonista, il cui contatto con la bellissima ragazza lo porta a virare la propria attenzione verso l'amore. Ma a Klimov non interessa creare un contrasto tra le gioie del primo amore e l'orrore della guerra, quindi inizia a già qui a distruggere il proprio protagonista: è con la scena del bombardamento e la sua conseguente sordità momentanea che Flyora inizia un'ideale discesa agli inferi, intercalata unicamente da un ultima visione di bellezza data dalla giovane compagna.



E' con il ritorno al villaggio natio che il suo stato mentale comincia a compromettersi. Il primo eccidio, mostrato solo di sfuggita, comporta una prima discesa verso la spirale della pazzia, simboleggiata dalla strozzatura nel pantano, nel quale porta con se anche Glasha. Il quale a sua volta prelude solo alla realizzazione piena degli eventi, con l'incontro con l'anziano del paese, bruciato vivo dai nazisti, il quale lo rimprovera di essere la causa della strage. Ed è qui che la metamorfosi del protagonista ha inizio: i capelli gli vengono tagliati e la sua espressione viene deformata in un silenzioso urlo di dolore.




Inizia così una digressione centrale nella quale Flyora segue lo "zio" Rubezh (Vladas Lagdonas) e altri due compagni alla ricerca di provviste per i sopravvissuti del villaggio. La quale si apre con la creazione dell'effige di Hitler, costruita unendo pezzi di fango ad un teschio umano. Questo manichino cadaverico, spettro del responsabile delle stragi, è in parte il fulcro tematico del film (come disvelato nel finale, tanto che il titolo di lavorazione del film era un "tarantiniano" "Uccidete Hitler", poi cambiato perché ritenuto di cattivo gusto): la responsabilità individuale che si fa collettiva; da un lato, quella del dittatore che da solo è riuscito ad annegare un intero continente nel sangue, dall'altra quella di chi poteva anche solo potenzialmente fermarlo, ma non ha mosso un dito.
Il fantoccio, ennesimo inserto grottesco che rende ancora più spiazzante la visione, viene portato con se dal gruppetto a mo' di arma per tendere imboscate ai convogli nemici, ma finisce letteralmente nel nulla, nella piena concretizzazione del leitmotiv secondo il quale nulla va come pianificato, tutti gli eventi finiscono per travolgere i personaggi, in un modo o nell'altro. Tanto che persino questa sortita si concluderà in un nulla di fatto, portando al terzo atto, vero e proprio centro nevralgico di tutta l'opera.



Il secondo massacro, che si consuma nel villaggio di Perekhody, contiene il cuore di tutta la riflessione di Klimov. Una sequenza tanto lunga quanto angosciante, nella quale la logica dello sterminio nazista trova una rappresentazione accurata e insostenibile. Comincia con gli invasori che si insinuano po' alla volta nelle case, con la paura di un semplice rastrellamento e la vana promessa di viveri e beni di prima necessità, per poi virare verso la strage. Il sadismo del genocidio prende le forme di una promessa di libertà: qualora i bambini vengano abbandonati al loro destino, gli adulti saranno liberi di salvarsi. 
Flyora, qui come non mai, si fa mero punto di vista, perde ogni sua connotazione caratteriale per divenire un membro anonimo di una massa e si salva per puro caso.
L'esito è scontato e sconcertante. Klimov sottolinea la mostruosità dell'atto facendo ricorso nuovamente al registro grottesco, inserendo i personaggi dei collaborazionisti bielorussi come veri e propri clown sadici e giustapponendo la spensieratezza dei soldati tedeschi al terrore assoluto dei contadini. E usando come simbolo della serenità degli assalitori la visione di una bellissima donna che si gode lo spettacolo degustando un astice e quella di un ufficiale che conduce il tutto con freddezza mentre accarezza una scimmietta sulla sua spalla.



Ed è nell'ultima sequenza che la visione di Klimov si disvela in tutta la sua crudeltà. Braccati dai partigiani e dall'Armata Rossa, i responsabili dell'eccidio si ritrovano nei panni delle vittime. Le prime immagini sono anche le più forti: l'ufficiale donna giace agonizzante, Flyora  le si avvicina e raccoglie delle garze che però usa per riparare il calcio del suo fucile, il quale si era roto in precedenza; una donna, anch'ella sopravvissuta a stento al massacro del villaggio e violentata dai nazisti, arriva sul luogo in stato confusionale e il protagonista, guardandola, esclama le frasi che gli erano state dette da Glasha, come a testimoniare l'impossibilità di trovare effettiva felicità in un contesto del genere e a tracciare un ideale parallelo con la ragazza, la quale potrebbe aver subito il medesimo destino, solo a pochi kilometri di distanza.



Lo sterminio dei nazisti crea un'ideale contrappasso. L'intento di Klimov è quello di condannare le stragi naziste e la loro bieca ideologia suprematista, ma con la messa in scena della loro carneficina riesce lo stesso a creare una condanna universale alla guerra e alla violenza dell'uomo: non c'è differenza tra invasori e invasi, durante un conflitto tutti sono chiamati a compiere atti disumani.
E la metamorfosi di Flyora giunge a conclusione: non più ragazzo, né più uomo, è ora un vecchio nel corpo di un giovane, dallo sguardo perso nella perenne contemplazione del male assoluto. E la galleria di orrori non trova una conclusione, con quella marcia nella quale lui si confonde tra gli altri combattenti che può preludere a nuove mostruosità.



Klimov immerge tutte le immagini in colori lividi, i colori dell'inverno bielorusso; ma il realismo delle pure immagini viene giustapposto ad una colonna sonora cacofonica che ricrea il caos interiore del protagonista; l'esito è tanto verosimile quanto soggettivo: quella ritratta è la realtà filtrata dalla coscienza, un riflesso interiore che ne è amplificazione iperbolica che riesce a penetrare sino al cuore dello spettatore per distruggerlo, annullando ogni barriera tra la percezione e il fatto percepito, disintegrando ogni possibile alone fittizio delle immagini.
E l'atmosfera violenta non viene acuita dagli inserti bizzarri, i quali non stemperano l'indole plumbea delle situazioni, finendo anzi per amplificarla.



Lo stile di regia è tanto secco quanto virtuoso. L'uso insistito dello sguardo in macchina, che in teoria dovrebbe disvelare l'artificiosità della messa in scena, finisce invece per conferirle una veridicità maggiore, accentuata dall'uso della macchina da presa ad altezza uomo, perennemente montata su supporto steady, che insegue i personaggi e fissa gli eventi anche con panoramiche precise e che si ritrova a sollevarsi da terra solo quando riprende la soggettiva del bombardiere nei primissimi minuti, unica concessione ad una visione non-umana sulla storia.
Il virtuosismo vero e proprio trova spazio unicamente nella scena del furto della mucca, dove la ripresa, quasi in piano sequenza, passa repentinamente dall'essere una soggettiva ad un'oggettiva e viceversa; mentre l'uso dell'effetto vertigo viene sovvertito: anzicchè creare una distorsione volta a sottolineare lo straniamento dei personaggi, viene usato per rendere più plastica le immagini nelle quali i partigiani scattano delle foto ricordo, enfatizzandone la staticità.
"Va' e Vedi" riesce così ad essere tanto feroce quanto incredibilmente bello.




E come tutte le migliori opere d'arte, la sua profondità non è ostica, non cerca di alienare lo spettatore usando un linguaggio fine a sé stesso. Tutt'altro, Klimov cerca e riesce sempre ad intraprendere un dialogo con chi osserva il film, finendo per incollarlo alle sue immagini per tutti i suoi 142 minuti. E se è davvero difficile ragionare per assoluti, non si può negare come in un'ideale classifica dei migliori film di guerra mai fatti, "Va' e Vedi" potrebbe troneggiare. Ma il suo valore non si limita a quello di semplice opera filmica, divenendo qualcosa di più grande e importante.

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