lunedì 14 ottobre 2024

Salem's Lot

di Gary Dauberman.

con: Lewis Pullman, Mckenzie Leigh, Pilou Asbæk, Alfre Woodard, Jordan Preston Carter, Bill Camp, William Sadler, John Benjamin Hickey, Danielle Perry.

Horror

Usa 2024














---CONTIENE SPOILER---

Questa nuova incarnazione del celebre romanzo di Stephen King rischiava davvero di finire nell'oblio dei film prodotti e mai distribuiti dalla Warner, come nei famigerati casi  di Batgirl e Coyote vs. Acme; cosa strana, tra l'altro, se si tiene conto della popolarità che il nome dell'autore di solito porta e la conseguente facile vendibilità dei prodotti a lui associati. Fatto sta che se non fosse stato per King in persona, che ha fatto fortissime pressioni affinché questo nuovo Salem's Lot arrivasse almeno su HBO Max, il pubblico non avrebbe mai potuto visionare il lungometraggio diretto da Gary Dauberman (già regista di Annabelle 3 e membro della factory di James Wan, qui tra i produttori) che tenta di racchiudere in neanche due ore una delle sue opere più dense. A fine visione, però, si capisce perfettamente il perché i produttori avessero cercato di seppellire il tutto.


Vien da chiedersi per prima cosa il perché si sia proprio voluto produrre un terzo adattamento ufficiale di Le Notti di Salem quando giusto qualche anno fa Mike Flanagan ha regalato al pubblico quel Midnight Mass che, pur non essendo un adattamento ufficiale del romanzo di King, ne era una perfetta trasposizione.  Il motivo è ovviamente economico e si è rivelato fallimentare, anche perché del romanzo di base a Gary Dauberman sembra non importare proprio nulla, tanto che questa sua trasposizione è più un omaggio cinefilo al cinema horror americano anni '70 in generale, che però non ha né la grazia, né la profondità intellettuale necessaria a rendere il tutto interessante.
Su tutto vige l'alone del vintagexploitation spicciolo, con quei colori smorti a minare la pellicola d'epoca, il setting di fine anni '70 tenuto solo per dare un look più particolare al tutto e un uso della fotografia talmente tronfio nella sua costante ricerca di una soluzione esteticamente appagante da sfociare nel pacchiano in quasi ogni scena, tanto che a tratti sembra di vedere una sorta di prequel di Renfield.



Grossolonità che ben si accoppia con il senso di ridicolo involontario che spesso fa capolino, dovuto alla totale incapacità di Dauberman di costruire personaggi credibili anche come semplici esseri umani. Non si può davvero prendere sul serio quel Mike Petrie, ragazzino di undici anni, che non solo non fa una piega quando il suo vecchio amico morto gli riappare come vampiro, ma che riesce ad ammazzare uno Straker grande e grosso praticamente con due colpi di mazza, solo per diventare subito un novello Blade grazie alla forza della passione per l'horror, intraprendendo una crociata contro i vampiri con una strafottenza che neanche i fratelli Ranocchio di Ragazzi Perduti, al punto che sembra davvero il personaggio di una commedia horror anni '80 trapiantato per sbaglio in un film che si prende invece sul serio. Allo stesso modo, non si riesce a credere allo scrittore Ben Mears che di punto in bianco inizia a piantare paletti nel cuore al vampiro di turno come se fosse la cosa più semplice del mondo. E non si riesce alla performance di Alfre Woodard nei panni del dottor Cody (qui donna perché si), la quale tratteggia questo medico di provincia che si ritrova in un racconto dell'orrore come se fosse la protagonista di una sit-com sugli stereotipi razziali americani.
Ridicolo che si affaccia anche in modo più sottile nella costruzione generale della storia.



















La trama originaria viene scompaginata, ma alcuni dei suoi elementi essenziali vengono mantenuti sul piano formale, con esiti a dir poco strambi. L'intera storia di villa Marston, essenziale per l'introduzione dell'elemento sovrannaturale, viene non solo riscritta, ma anche messa subito da parte: Marston non era che un servo di Barlow, indi per cui il vampiro ha scelto proprio Jerusalem's Lot per il suo nido, dettaglio che lega piuttosto male i due fenomeni, soprattutto quando si decide di ambientare il climax non nella villa, ma in un drive-in; per di più tutto il discorso su come quella villa abbia assorbito il male che ha ospitato, motivo per il quale il vampiro si è sentito attirato dalla cittadina, viene taciuto, per questo quando il fenomeno dei vampiri comincia a manifestarsi ai personaggi, la loro reazione estremamente seriosa risulta fuori luogo, generando nuovamente risate involontarie visto che di punto in bianco si prendono assolutamente fondati i discorsi di Burke su come alcuni dei cittadini si stiano trasformando in creature della notte. Tutta la progressione narrativa non funziona, lasciando ogni forma di sospensione dell'incredulità e di coinvolgimento fuori dalla finestra assieme ai vampiri.

















L'impressione che a Dauberman e soci del libro importasse poco e nulla risalta proprio quando si guarda al look dei succhiasangue, i quali sono praticamente gli stessi della miniserie di Hooper: Barlow torna a sfoggiare il look a là conte Orlok, così come i bambini-vampiro hanno nuovamente un sorriso blasfemo e si muovono accompagnati da coltri di nebbia. Ma, lungi dal restituire l'impressione di riproposizioni affettuose, queste riprese di un lavoro altrui finiscono per denotare più che altro una mancanza di creatività.
Cosa che si avverte, tornando allo script, quando si tratta di adattare le sottotrame del romanzo originale; certo, condensare tutte le relazioni da soap-opera in neanche due ore era impossibile, più agevole sarebbe stato sfrondarne alcune in favore di altre e riadattare tutta la trama in modo da  agevolmente in una durata da lungometraggio, cosa che in parte è stata anche fatta; spesso si ha però la sensazione che molte scene siano rimaste tagliate dal montaggio definitivo, con personaggi che entrano in scena per poi essere dimenticati (Tibbits e la sua gelosia verso Ben Mears o il bullo della scuola che perseguita Mike) e l'intera sottotrama della madre di Susan che diventa l'accolita principale di Barlow perché non sopporta la relazione della figlia con Mears, talmente forzata da rasentare, anche qui, il ridicolo involontario.





















Era davvero da tempo che non si vedeva un lavoro così sciatto eppure così estremamente convinto del proprio valore, nel cinema horror americano. Questo nuovo Salem's Lot avrebbe avuto motivo di esistere solo se fosse stata una miniserie che avrebbe trasposto in modo integrale il romanzo, andando oltre quanto fatto da Flanagan e Hooper. Così com'è, non vale le sue due ore di durata. Tanto vale rispolverare il dvd della miniserie del 1979.


venerdì 11 ottobre 2024

Brain Damage (La Maledizione di Elmer)

Brain Damage

di Frank Henenlotter.

con: Rick Herbst, Jennifer Lowry, Gordon MacDonald, Theo Barnes, Lucille Saint-Peter, Beverly Bonner.

Horror

Usa 1988


















Basket Case trasformò in poco tempo Frank Henenlotter in una vera e propria leggenda del cinema underground newyorkese, ma questo suo status non si tradusse in una automatica facilità nel recuperare i fondi necessari per le sue produzioni. Difatti, già a metà degli anni '80 iniziò un circolo vizioso nel quale ogni sua sceneggiatura veniva cassata per un motivo o per l'altro, tra le quali la più celebre resta Insect City, storia di un'invasione di scarafaggi giganti in quel di Manhattan.
Bisogna quindi aspettare la fine del decennio per ritrovare una sua opera in sala e quando questa arriva, nelle forme di Brain Damage, di certo non delude.



















Come Basket Case, anche Brain Damage è la storia del rapporto tossico tra un ragazzo e una creatura mostruosa (similitudine non casuale, visto anche il simpatico cameo di Duane verso la fine); ma a differenza dell'esordio, Henenlotter non declina questa opera seconda come un dramma, quanto un racconto fantastico virato al grottesco con finalità metaforiche; metafora facilmente intuibile dalla trama: il giovane Brian (Rick Hearst) vive un'esistenza tranquilla assieme al fratello Mike (Gordon MacDonald) e alla fidanzata Barbara (Jennifer Lowry); esistenza che viene sconvolta dall'arrivo improvviso di Elmer, parassita senziente con il quale intreccia una simbiosi particolare: lo scambio di un fluido stimolante di colore azzurro, che gli inietta direttamente nel cervello, contro la possibilità di nutrirsi di cervelli; ovverosia, la più semplice rappresentazione figurata della tossicodipendenza che ci possa essere.



















Anche sul piano visivo, Henenlotter sembra voler portare in scena quel famoso spot americano su come la droga "frigge" il cervello: innumerevoli sono i dettagli della materia cerebrale che sfrigola al contatto con il liquido blu secerno dal parassita. La sua mano è qui pesante fino ai limiti del pedante, ma non bisogna stupirsene, né lamentarsene: egli stesso ha più volte ammesso come lo script sia nato come catarsi verso la sua dipendenza da cocaina, la quale lo ha portato a riflettere sugli effetti che la tossicodipendenza vera e propria finisce per avere soprattutto sui giovani. Il periodo in cui film viene prodotto è poi essenziale, ossia quegli anni '80 dove, come mai prima, il problema della tossicodipendenza giovanile diventa di pubblico dominio.



















Come metafora, Brain Damage funziona dannatamente bene, ritraendo a dovere tutti gli stadi della tossicodipendenza e della successiva astinenza. Si parte ovviamente dall'euforia data dallo squilibrio chimico che la dose porta al cervello, con le belle visioni psichedeliche che arricchiscono un comparto visivo quanto mai curato; si arriva subito alla dipendenza, con la vita del giovane Brian che viene letteralmente mutata dall'ossessione verso il narcotico, enfatizzata dal bell'uso della luce blu per gli ambienti; si arriva alla crisi di astinenza, al body horror conseguente alla mancanza della tossina della quale i tessuti non riescono a fare a meno.
Quest'ultima fase è il cuore dell'intero film, con l'intera sequenza dell'hotel a fare da perno a tutta la metafora, dove troviamo un Brian che perde progressivamente la sanità mentale in contemporanea ad un decadimento fisico inarrestabile. E se il tutto funziona, lo si deve anche al "cattivo" del film, il parassita Elmer.



















Un mostro preistorico, in precedenza conosciuto come Aylmer, Elmer vive grazie alla voce suadente di John Zacherle (famoso conduttore televisivo di un noto contenitore horror degli anni '50 e '60), la voce di un amico carismatico che seduce la propria vittima prima che renderla schiava. Ma la cui forma finisce ovviamente per disvelarne la natura sinistra; una forma che non è tanto mostruosa, quanto grottesca, costituita da elementi dissonanti che accostati che finiscono per funzionare: in parte fallo, in parte escremento, in parte cervello e con un paio di occhi da cartone animato, Elmer è un essere ripugnante eppure simpatico, credibile come simbionte pronto a distruggere la propria preda, ma anche come essere in grado di convincere il proprio ospite a lasciargli commettere gli omicidi necessari a saziare la propria fame di cervelli (che sia stato proprio lui l'ispirazione per i fumetti Marvel?).
La perfetta riuscita dell'impianto metaforico non deve però trarre in inganno: Brain Damage è anche un excursus in un cinema di serie B il quale vuole anche divertire.

























Se in Basket Case il lato più genuinamente ludico si amalgamava piuttosto male con il tono serioso (con le scene delle uccisioni che risultavano fuori luogo), in Brain Damage l'elemento grottesco è amalgamato decisamente meglio con la narrazione, ma è anche più marcato. Il perfetto esempio di una tale ibridazione è la celebre sequenza della fellatio letale, squisito mix di orrore splatter e ironia grottesca, la quale potrebbe essere il parto della mente di un Lloyd Kaufaman se non fosse messa all'interno di una narrazione che non vuole essere intrattenimento di grana grossa puro e semplice.
La mano di Henenlotter è più sicura anche nella messa in scena in scena: complice un budget decisamente più elevato, può ricostruire parte degli interni in un set vero e proprio e trovare soluzioni visive decisamente più interessanti.
Gli effetti speciali pratici trovano l'ovvio limite di un intento fin troppo ambizioso: l'animatronico di Elmer è vistosamente finto, ma anche con un budget da blockbuster hollywoodiano sarebbe stato difficile fare di meglio, all'epoca. Di ottima caratura, invece, sono gli effetti di trucco, perfetti nel ritrarre il deperimento fisico dovuto alla crisi di astinenza.














Brain Damage funziona così sia sul piano del puro divertimento che su quello più "intellettuale" di testimonianza sulla tossicodipendenza. Un'opera seconda visionaria che conferma in pieno le doti del suo autore.

giovedì 10 ottobre 2024

Nel Nome del Padre

di Marco Bellocchio.

con: Renato Scarpa, Yves Beneyton, Lou Castel, Piero Vida, Aldo Sassi, Laura Betti, Marco Romizi, Amerigo Alberani, Gérard Boucaron, Edoardo Torricella, Tino Maestroni.

Italia 1972















Nella disanima delle istituzioni nazionali che Marco Bellocchio ha portato avanti sin da inizio carriera non poteva di certo mancare quella contro la Chiesa cattolica, la quale arriva nel 1972, dopo che a cadere sotto i colpi del suo sguardo accusatorio sono stati la famiglia e il partito politico.
Pur tuttavia, Nel Nome del Padre non è semplicemente un ritratto al vetriolo di vizi e difetti dell'istituzione ecclesiastica e dei suoi rappresentanti, quanto una riflessione catastrofica su come la mancanza di valori possa finire per annichilire la società intera e non solo quell'istituto che invece dovrebbe guidarla verso la salvezza e la prosperità. Configurandosi, di conseguenza, come un'opera tanto acida e veritiera quanto profetica.


















Anno scolastico 1958/59. In un collegio ecclesiastico, gli equilibri già precari vengono scossi dall'arrivo dell'insofferente Transeunti (Yves Beneyton), le cui idee e ideali si scontrano con la realtà della gestione da parte dei preti, in particolare con quelli del vicerettore don Corazza (Renato Scarpa).
A leggere questo spunto di trama, utile solo a dare il via ad una narrazione tipicamente descrittiva, si potrebbe pensare all'opera di Bellocchio come ad una sorta di Teorema dove il collegio prende il posto della villa borghese e con il neoarrivato che scopre il marciume dietro i rapporti idilliaci dietro una realtà consolidata; un'opera dirompente rivolta a smascherare l'ipocrisia imperante, con afflato tipicamente sessantottino, insomma; e si sarebbe terribilmente in errore.
Per evitare ogni forma di inesattezza interpretativa, va specificato come Bellocchio abbia ritratto i moti sessantottini con Il Popolo Calabrese ha rialzato la Testa e Viva il primo maggio rosso e proletario, con i quali ritraeva le proteste con occhio quasi complice. Qui, tuttavia, l'elemento di disturbo non incarna quei valori progressisti che si cercava di affermare in quegli anni, anzi, esso è in tutto e per tutto un nazista, una creatura nata dalla disillusione e l'insofferenza verso una società che ritiene incapace perché inferiore e che cerca di riformare dal basso di un senso di superiorità dettato dall'ignoranza; da cui anche la scelta come interprete del francese Yves Beneyton, i cui lineamenti sono tipicamente teutonici. 
Nella struttura drammaturgica elaborata da Bellocchio (che anche qui scrive tutto di suo solo pugno), gli alunni rappresentano la futura classe dirigente, gli inservienti e camerieri (sottoproletari salvati dalla miseria e da una società che li ha lasciati a sé stessi) rappresentano il popolo, mentre gli ecclesiasti non sono che i rappresentanti dell'istituzione, sia essa religiosa che civile.

















L'inquadratura iniziale, con la macchina da presa che si muove tra i corridoi in rovina del collegio con in sottofondo un canto di penitenza, è chiara: la società è al collasso. A prenderne le redini è un pugno di imbelli incompetenti che non è in grado di fare niente e non ha rispetto per nulla, rappresentazione di una classe dirigente (gli alunni sono tutti "figli di", quindi prossimi al loro debutto in società) che non ha interesse in nulla, che non recepisce alcun insegnamento, che disdegna la cultura e vive solo per deridere tutto e tutti. In questo caos creato dall'apatia generalizzata, è facile per i superbi ergersi a guida, figura carismatica in grado di far propri i malcontenti di chi sta sotto di loro. Transuenti rappresenta questa figura, il perfetto paradigma di quei dittatori del XX secolo che si sono imposti solo grazie alla loro supponenza, grazie all'acclamazione del popolo e al silenzio delle istituzioni. L'ideale (se così si può definire) che porta avanti è semplice, ossia la ricostruzione della società tramite l'eradicazione di ogni forma di superstizione, una sorta di tecnocrazia finto-illuminata dove esistono solo il positivismo e il materialismo. A fargli da sponda non è solo quella classe dirigente che vede in lui un faro, a torto o a ragione, e che a causa della propria mancanza di idee e spina dorsale è il perfetto humus per l'affermazione della dittatura totalitaria, ma anche quel popolino ignorante che si fa manipolare da chiunque ne abbia la possibilità.


















Su quest'ultimo piano sono due le figure cardine, ossia il Salvatore interpretato da Lou Castel e Tino, servo mentalmente instabile. Il primo rappresenta la parte più lucida del proletariato, quei lavoratori tanto oppressi quanto disillusi che trovano nella protesta l'unica forma di affermazione; il secondo rappresenta invece quella pasta che i leader assoluti sono in grado di riplasmare: laddove Transeunti incarna un razionalismo nazista, Tino incarna la totale assenza di ragione, una pazzia che fa rima con ignoranza colpevole, persa com'è nella venerazione di un delirio tutto proprio (lo troviamo spesso recitare come una preghiera le parole magiche di Ultimatum alla Terra, metafora di una fede in qualcosa di totalmente fantastico, persino rispetto alla religione vera e propria). E' su questa diade che si poggia l'apocalittico finale, nel quale il leader assieme alla sostanza che gli permette di affermarsi riesce a ricreare un mondo a loro immagine. Ed è qui che la visione di Bellocchio si fa profetica, visto che quella generazione che ritrae è la stessa che tempo dieci anni avrebbe cominciato a portare l'Italia tutta verso la rovina.
In tutto questo, il grande autore punta il dito forse soprattutto contro l'istituzione, appunto rea di essere ferma su posizioni del tutto inermi.


















La Chiesa, sia intesa come sfera di potere religioso quindi ideologico, sia come istituzione strettamente terrena, è ferma su posizioni vetuste e arroccata in un idealismo del tutto avulso da ogni realtà, intesa come necessità sia spirituale che ideologica delle persone. Il rapporto che questa intesse con i seguaci è perfettamente incapsulato nella scena in cui lo studente Franco cerca risposte da padre Matematicus; Franco è afflitto da dubbi anche materiali, Matematicus risponde con una vera e propria litania su come la morte è l'unica certezza nella vita, di come non bisogna curarsi di nulla, tanto alla fine si muore. La funzione di guida anche solo spirituale viene messa alla berlina in modo graffiante sul piano della scrittura usando un personaggio che idealizza il trapasso sino ai limiti della necrofilia, su quello della messa in scena facendolo sedere all'interno di una bara, ossia richiudendolo in uno spazio angusto e del tutto distaccato dal resto del mondo.
Franco, a sua volta, incarna la posizione di un aspirante intellettuale, agghindato con quegli occhiali a là Goebbels, un ragazzo che ricerca una forma di ideale, ma che trova un appiglio solo nella cattiveria di Transuenti, che lo usa per portare in scena uno stralunato teatrino provocatorio. La metafora è chiara, con il nazismo che ha fatto propri gli ideali spirituali della religione cattolica solo per usarli al fine di abbindolare le masse; tanto che proprio Transuenti indosserà quel costume da mastino infernale per accanirsi sul cadavere di Matematicus.



















La funzione di educatore viene data a padre Corazza, di nome e di fatto ultimo baluardo contro lo sfacelo; ma il suo sguardo è rabbioso e disilluso, al pari di quello di Bellocchio, un personaggio che vive grazie all'interpretazione misurata eppure penetrante di un impagabile Renato Scarpa in quello che forse è il suo ruolo più sottovalutato; Corazza è perfettamente cosciente del fallimento educativo e religioso della Chiesa e al contempo è perfettamente cosciente dell'impossibilità di inculcare qualcosa di positive in menti che si rifiutano di guardare il mondo con sguardo curioso, preferendo sbeffeggiare tutto e tutti. Ed è cosciente di come tutto questo sia il viatico per la distruzione.
Un personaggio che forse coincide con la visione di Bellocchio; qui la sua indole è iconoclasta come sempre, non lesina in immagini forti che vanno dagli sputi verso le statue sacre alla Madonna che si anima per abbracciare un adolescente che si masturba; ma la sensazione predominante è quella di impellente disfatta, non di sfida, tantomeno di goduria nel vedere i simboli associati alla DC venire demoliti ad uno ad uno.
Nelle sue stesse parole, Nel Nome del Padre è un atto di pietà universale, una visione non tanto di compromesso, quanto di commozione verso la fine di ideali e istituzioni; con annessa una rappresentazione lucida di un'apocalisse che di lì a poco prenderà forma e che ancora oggi produce i suoi aberranti frutti.

martedì 8 ottobre 2024

Rosso Sangue

 
di Joe D'Amato.

con: George Eastman, Annie Belle, Charles Borromel, Edmund Purdom, Katya Berger, Kasimir Berger, Hanja Kochansky, Ted Russoff, Ian Danby.

Horror/Slasher/Gore

Italia 1981






















Il sodalizio artistico tra Aristide Massaccesi (in arte Joe D'Amato) e Luigi Montefiori (in arte George Eastman) è iniziato nel 1980 e ha subito prodotto il cultissimo Antrophagus; un anno dopo, l'affinità elettiva tra i due si ripete con Rosso Sangue, pellicola che nasce come reiterazione e quasi come un sequel di quel primo film, ma che non ha certo prodotto nessuno dei risultati sperati.
George Eastman, dal canto suo, non ha mai cercato di imbellettare tali esperienze: per lui entrambi i film non sono che divertissement fatti solo per dare al pubblico quella dose di splatter che piace e che lui non ritiene neanche dignitosa, se non che per il divertimento che ha provato nel scrivere le singole sequenze. E se in Antropophagus qualcosa di divertente si può anche trarre, Rosso Sangue è invece la quintessenza del film derivativo e privo di vero interesse.
Derivativo perché alla fine questo exploit slasher e gore altro non è se non un'imitazione dell'Halloween di Carpenter, dal quale riprende diversi elementi, condendoli poi con la solita carica di emoglobina che contraddistingue i film di D'Amato. Al di là di tutti i limiti che ne derivano, ne ha anche un altro decisamente più indigesto: la noia.



Una storiella, quella scritta da Eastman, con pochissime pretese. Il mostro di turno è un ex scienziato di origini greche arrivato in qualche modo in America (da cui il labilissimo collegamento con Antropophagus), la sua particolarità è insita nella capacità di rigenerare i propri tessuti, il che lo rende in pratica un novello Michael Myers; a piede libero e reso pazzo dalla morte scampata, inizia un massacro perché si e sulle sue tracce si mette un prete che a quanto pare ha preso parte agli esperimenti perché anche esperto in biologia, oltre che lo sceriffo locale. Il duo di detective viene presto messo da parte per lasciare spazio ad un pugno di giovani donne e un ragazzino in una casa isolata e il solo prete tornerà giusto in tempo nel finale, anche qui avvisato dal ragazzino in fuga, per cercare di risolvere la situazione con una rivoltella.


















Tutto nella norma, dunque: non c'è davvero nulla che differenzi Rosso Sangue dalle decine di slasher dell'epoca, se non il fatto che George Eastman bene o male si sforza anche qui di essere credibile come psicopatico assetato di sangue; a suo sfavore gioca però il fatto che il suo killer mostruoso non ha certo l'iconicità delle maschere del filone, tantomeno la carica archetipica del boogeyman di Carpenter, nonostante nella versione inglese sia proprio apostrofato come "the boogeyman" al pari di Michael Myers.
La regia di D'Amato, poi, è qui totalmente funzionale, non si sforza di trovare soluzioni originali o ardite, limitandosi a mettere la macchina da presa a favore degli attori come uno shooter qualunque. Con la conseguenza che anche le scene di morte, la maggior parte delle quali totalmente gratuite, finiscono per essere prive di inventiva, altro peccato capitale per un horror slasher e gore. L'unica nella quale sia lui che Eastman sembra abbiano cercato di fare qualcosa di più del dovuto è quella del forno, reminiscenza di quella simile portata in scena da Hitchcock ne Il Sipario Strappato, non di certo una delle sue opere migliori tra l'altro. Tanto che alla fine è solo l'immagine che chiude tutto il film ad essere riuscita, davvero troppo poco.


















Gli amanti del gore e dello slasher forse apprezzeranno qualcosa in questa declinazione di tutti i relativi stereotipi priva di qualunque ambizione, così come i superfan di Joe D'Amato e del suo cinema artigianale. Ma a conti fatti, questa sua fatica non lascia davvero nulla di concreto allo spettatore, nemmeno quella carica di violenza e cattiveria che normalmente renderebbe interessante anche un prodottino di routine come questo, la quale qui finisce per essere anch'essa blanda.

lunedì 7 ottobre 2024

Joker: Folie à Deux

di Todd Phillips.

con: Joaquin Phoenix, Lady Gaga, Catherine Keener, Brendan Gleeson, Leigh Gill, Steve Coogan, Harry Lawtey, Ken Leung.

Musical/Drammatico

Usa 2024














---CONTIENE SPOILER---

Nel 2019, il Joker di Todd Phillips era riuscito a dimostrare come si potesse creare una storia interessante e profonda partendo da un medium prettamente infantile come il fumetto americano mainstream. Certo, le influenze scorsesiane rendevano il tutto facile, ma Phillips era comunque riuscito a raggiungere vette di acclamazione che neanche Nolan, Del Toro, Burton o Sam Raimi hanno mai avuto.
Cinque anni dopo, Folie à Deux viene presentato a quel Festival di Venezia che più di tutti aveva osannato l'originale, ma l'accoglienza è tiepida nella migliore delle ipotesi, feroce nelle altre.
A cosa è dovuta tale divisione tra le accoglienze? Tralasciando la forma musicale della messa in scena, un registro che ad oggi viene ancora associato strettamente alla commedia brillante e non va giù a molti spettatori, questo sequel ha il gravissimo difetto di non aggiungere davvero nulla all'originale, il quale in qualche aspetto viene persino riletto in modo più piatto.



















Gotham City, primi anni '80. Arthur Fleck (Phoenix) è rinchiuso nel manicomio di Arkham dopo i tumulti che ha suscitato e gli omicidi che ha commesso giusto qualche mese prima; qui passa le giornate in stato semi-catatonico, in attesa del processo che ne  accerti le responsabilità. Per puro caso, una mattina incontra Harleen "Lee" Quinzel (Lady Gaga), un'altra internata che lo porta presto a ritrovare il contatto con il mondo; ma anche con quel "lato oscuro" che tanto caos ha seminato.
















Una storia che non è una continuazione nel senso canonico della trama del primo film, quanto una sorta di secondo atto sviluppato come una pellicola a sé stante. Folie à Deux non continua davvero la storia di Fleck e di come la sua psicopatologia abbia contagiato Gotham, si limita invece a riflettere su quanto visto nel primo film e in parte a rielaborarlo, senza discostarsi di un centimetro dal passato.
Tornano così le tematiche dell'alienazione, del mostro nato come vittima di una società fredda e insensibile, dei media visti come rapaci che cannibalizzano il male in modo sensazionalistico e di quei veri pazzoidi che si sentono ispirati dal male imperante. Tutto già fatto, tutto già visto. L'impressione costante è che Phillips e soci non avessero idee su come continuare una storia che, di fatto, non aveva bisogno di ulteriori continuazioni, al massimo di una sorta di espansione anche tematica verso nuovi territori, ma abbiano accettato lo stesso di fare una fotocopia visto il successo strabordante che il primo film ha ottenuto.
















Le differenze e le aggiunte sono talmente esigue che si potrebbe davvero eliminarle del tutto e nulla cambierebbe.
In primis, si tenta di trasformare la psicopatologia di Arthur nel disordine da personalità dissociata, con l'ombra junghiana che compare sin nel simpatico prologo animato (trovata che causa una sorta di ironia involontaria quando tra i personaggi compare Harvey Dent); ma nel climax si decide di ritornare sui propri passi, ammettendo come Joker non sia un alter-ego, bensì una semplice deformazione psichica dovuta al trauma, ossia la tesi e la "morale" del primo film.
Viene praticamente riscritta la fine del personaggio di Zazie Beetz, che qui ricompare attestando come non sia stata uccisa nel primo film; trovata che davvero non aggiunge nulla di significativo e serve solo a ingenerare in modo artificiale il dubbio su cosa sia davvero successo e cosa non sia successo nel capitolo precedente. Cosa che comunque non funziona, visto che le altre vittime sono tutte accertate.
E poi ci sono gli odiati numeri musicali, unico aspetto originale (in senso lato) dell'operazione. Phoenix e ovviamente Lady Gaga sanno fare il loro lavoro e in generale la trovata di imbastirli in modo minimalista funziona, con la tematica dello show business a fare da raccordo e metafora della volontà di apparire; l'uso degli stessi è rivolto a enfatizzare le emozioni del protagonista, le sue ansie e insicurezze e il tutto viene strutturato come delle parentesi immaginarie, in modo da non andare a incidere nulla seriosità del tono generale; tanto che la giustapposizione tra musical e dramma giudiziario più che il New York, New York di Scorsese finisce per ricordare il Chicago di Rob Masrshall. Peccato che alla fine soffrano anch'essi della più totale mancanza di vera profondità, configurandosi come l'espressione esplicita di stati d'animo che sono in realtà chiarissimi fin (come sempre) dal primo film. La sensazione che ne consegue è che si sia voluto portarli in scena per evitare che la lunga durata di quello che alla fine è un dramma giudiziario puro faccia scadere il tutto nella noia più pura.






















Folie à Deux è così la quintessenza del sequel inutile. Non un brutto film, il mestiere c'è sempre, tantomeno un film stupido o imbarazzante, quanto un'operazione che mostra sin da subito la corda e che per questo non riesce a convincere.

venerdì 4 ottobre 2024

Basket Case

di Frank Henenlotter.

con: Kevin VanHentenryck, Terri Susan Smith,Beverly Bonner, Robert Vogel, Diana Browne, Lloyd Pace, Joe Clarke, Bill Freeman.

Usa 1982 




















Alcuni film cult appartengono ad una vera e propria zona grigia nella quale è impossibile discernere a quale registro possono essere davvero associati, conseguenza dell'estrema creatività e del talento di chi li ha diretti. Basket Case è uno di questi. 
Un film solitamente associato al cinema trash che di trash vero e proprio non ha davvero nulla. Altre volte viene associato al genere horror e, benché presenti sequenze di omicidio splatter, parlare di film dell'orrore nel senso proprio del termine appare forzato. Basket Case è qualcosa di originale e bizzarro, un'opera prima che sfugge a definizioni e categorizzazioni e che rappresenta una perfetta introduzione al cinema del suo altrettanto bizzarro autore: Frank Henenlotter.





















Un cineasta che in una quarantina d'anni ha diretto giusto un pugno di film, ma la cui filmografia esigua non è un limite né per il segno che è riuscito a lasciare nel cuore dei fan, tantomeno per lui come autore, che ha più volte affermato come il cinema rappresenti non un business nel quale ha voluto cimentarsi, quanto una forma di genuina espressione artistica.
Un pugno di film caratterizzati da budget talvolta inesistenti e la più totale libertà creativa (ridimensionata praticamente solo nel caso di Basket Case 3, il suo exploit peggio riuscito), i quali ancora oggi sono apprezzabilissimi per la loro carica dissacrante, ma anche talvolta profondamente umana.
Basket Case, che nel 1982 ne rivelò il talento, fonde queste due tendenze in modo praticamente perfetto, anche se talvolta discordante. Un lungometraggio che arriva dopo una serie di corti ai limiti dell'amatoriale e che si caratterizza anch'esso come una produzione ai limiti dell'amatoriale: con il miserabile capitale di circa 35 mila dollari dell'epoca, Henenlotter gira molte scene in stile guerriglia per le strade di Manhattan e con una troupe di pochissimi amici, i quali ricoprono ruoli multipli firmandosi con vari pseudonimi per far finta di essere una vera crew cinematografica; tra questi, l'unico ad avere una formazione effettiva è Jim Muro, che qualche anno dopo esordirà alla regia con il cult Street Trash dimostrando anche lui un'indole creativa incredibile, la quale lo porterà a diventare collaboratore abituale di registi del calibro di Martin Scorsese, Oliver Stone, James Cameron e Michael Mann.
Qui, d'altro canto, è la passione a supplire a tutti i limiti del caso. Con la conseguenza che Basket Case si configura come un'opera tanto ruvida quanto convincente.













Una trama, quella del film, che mischia dramma, revenge-movie e body horror. Il protagonista è Duane, giovane di provincia che si aggira per le strade di New York con una strana cesta di vimini. Quello che custodisce all'interno è semplicemente folle: suo fratello Belial.
I due erano infatti gemelli siamesi, ma Belial è nato deforme, causando la morte della madre. Il padre, reso pazzo dalla perdita e dalla repulsione per il figlio, ha così deciso di farli dividere per concedere almeno a Duane una vita normale. Belial, d'altro canto, finisce gettato nei rifiuti, dai quali viene salvato solo dall'amore del fratello, con il quale condivide un legame psichico, oltre che della zia, l'unica altra persona al mondo che gli dimostra amore incondizionato. Alla morte della quale, i due decidono di imbarcarsi in una vendetta verso i tre medici che hanno eseguito l'operazione di divisione.






















Una vendetta che non ha catarsi perché non ha in realtà motivo di esistere. Non c'è vera colpa nei chirurghi, i quali hanno semplicemente fatto il loro lavoro. La colpa, semmai, è quella del genitore che ha deciso di abbandonare un figlio solo a causa del suo aspetto mostruoso. La vendetta è così null'altro che un grido di dolore causato dall'abbandono ingiustificato. Tanto che spesso, il pupazzo usato per dar vita al personaggio (la cui cura è stupefacente visto il budget a disposizione) ha uno sguardo umano, quello di un bambino triste, non quello di un assassino demoniaco.
Una morale sull'accettazione dell'altro che è la pietra angolare di tutto il film, ma che non rappresenta l'unico centro tematico. Tuttavia, la morte del padre dei due ragazzi, la prima vittima in ordine cronologico, è l'unica uccisione che porta ad una forma di sollievo nei due protagonisti, che garantisce loro qualche anno di pace; l'unico omicidio che come spettatori riusciamo a percepire come meritevole. Perché per il resto, la missione di vendetta dei fratelli assume più che altro le forme di una sinistra ricerca di affermazione.
Basket Case in fondo non è altro che la storia di un diverso che cerca di riscattarsi dal dolore per l'isolamento dovuto alla sua forma che si intreccia con quella di un altro "diverso" la cui vita è resa impossibile dal rapporto di co-dipendenza che ha con il fratello.

















Laddove la storia di Belial è quella, né più né meno, di quel tipo di personaggio che nel decennio successivo verrà conosciuto come "freak burtoniono", quella di Duane rappresenta il dramma di un fratello che sa di non poter aver una vita normale a causa del "peso" che incombe su di lui. Un uomo che sa di non poter avere una relazione affettiva se non con il fratello e proprio a causa del fratello, dal quale si distingue e il quale non riesce a comprendere nonostante il legame psichico. Belial non è un lato oscuro della psiche di Duane, non è un suo doppio cattivo, ma un personaggio vero e proprio, anch'egli in cerca di un affetto che sa di non poter avere. Il loro rapporto, indissolubile e indissolubilmente distruttivo, così come la tematica del body horror, configurano Basket Case come un vero e proprio antesignano del cronenberghiano Inseparabili.
Un affetto che ai due fratelli viene costantemente negato; le uniche persone nelle quali trovano conforto sono i due surrogati materni, ossia la zia e la prostituta Casey (interpretata da Beverly Bonner, che poi apparirà in praticamente tutti gli altri film di Henenlotter). Quando si tratta di avere un rapporto più complesso, un rapporto amoroso, questo viene annullato a causa della menomazione fisica di Belial, il quale lo porta a surrogare il sesso (ma anche l'affetto) con la violenza, come nelle scene di aggressione che chiudono la storia. Basket Case è così, in buona sostanza, nient'altro che un dramma sull'ansia da separazione e sulla solitudine filtrato attraverso il registro orrorifico e il suo valore sta proprio nel risultare credibile in quanto tale.
























Credibilità che vacilla solo quando Henenlotter decide di calcare la mano sul grottesco; le scene di omicidio sono spesso virate al farsesco, con la morte della dottoressa Kutter in particolare che diventa un vero e proprio inno alla violenza cartoonesca; la quale, nel contesto della storia e del tono usato per il resto della narrazione, finisce per stonare. Per paradosso puro, Henenlotter riesce invece a non far scadere nel ridicolo involontario una scena che invece aveva tutti i numeri per esserla, ossia quella in cui Duane ha un dialogo con il fratello nascostosi nel tazza del gabinetto.
Il vero valore della messa in scena resta tuttavia nella sua estrema crudezza; tutti gli interni sono location reali e Hennenlotter è davvero riuscito a catturare l'anima sudicia della Grande Mela dei primi anni '80, con quel look da sleazesploitation che oggi assume persino un valore da documento storico. Tutto nella città di Basket Case è sporco, tutto è decadente e sudicio, quindi privo di speranza. Tutti i personaggi sono disperati, spiantati privi di prospettive persi in un girone dantesco dove ogni forma di salvezza è puramente temporanea, pronta ad essere strappata via con la forza. Un mondo disperato dove la disperazione porta le persone a commettere atrocità e dove i pochi che hanno ancora una fibra morale si dimenano in cerca di qualcosa a cui appigliarsi.



















Lo status di cult di Basket Case è così ben comprensibile, come sovente accade. Come poi lo sia diventato, è una storia bizzarra quasi quanto il film stesso.
Finite le riprese, Henenlotter trova una prima distribuzione con  , la quale decide di rimontare il film e trasformarlo in una commedia grottesca. Il flop è servito e sembrava che la carriera di Henenlotter dovesse finire nello scarico prima ancora di iniziare. 
A salvare tutto fu il critico e conduttore televisivo Joe Bob Briggs, il quale aveva visionato la versione integrale del film ad una proiezione in un piccolo festival di cinema di genere e ne era rimasto piacevolmente colpito. Grazie a lui, i diritti di distribuzione furono recuperati e il film poté uscire in tutto il mondo nella versione director's cut. Henenlotter, che mai si sarebbe aspettato così tanto interesse per un film girato praticamente per sfizio personale, anni dopo si sarebbe detto schifato del successo che riscosse ai botteghini. Fortunatamente per lui, quello fu l'inizio di una carriera stramba e simpatica.

giovedì 3 ottobre 2024

Manodopera

Interdit aux chiens et aux italiens

di Alain Ughetto.

Animazione/Stop Motion

Italia, Francia, Belgio, Portogallo, Svizzera 2023


















Il caso di PAPmusic non ha avuto come vero effetto immediato il portare a galla la questione dei finanziamenti pubblici al cinema, i cui criteri erano già stati messi in discussione più volte, quanto l'aver fatto calare un'ulteriore patina di squallore sul panorama purtroppo disastroso dell'animazione made in Italy. Un panorama che negli ultimi anni ha visto il "successo" televisivo di Adrian e che ora ha trovato un altro exploit dove un'artista decide di mettere tutta sé stessa a disposizione del medium animato con risultati memorabili solo per i peggiori motivi. Il tutto in una realtà produttiva che purtroppo sta tutt'oggi in piedi a fatica, nonostante in passato non siano mancati nomi di spicco, come Bruno Bozzetto e Enzo D'Alò, e come tutt'oggi talenti non manchino di certo, come Rak e Giorgio Scorza, tra gli altri.
Il problema dell'animazione italiana, forse, è l'endemica mancanza di capitali (qualche mese fa non è mancata l'ennesima polemica sul taglio dei contributi pubblici, come se il cinema possa dipendere davvero totalmente dai soldi dei contribuenti), figlia della mancanza di una mentalità imprenditoriale che porti a investire risorse in un settore che in Giappone, Usa e persino Francia fattura milioni di dollari l'anno, ma che nel Bel Paese esiste solo quando si tratta di distribuire pellicole straniere che puntualmente fanno strage al box office.
In un panorama desolante, dove i pochi che credono ancora che l'animazione non debba essere relegata alla televisione o a YouTube stentano a trovare fondi e spazio, se si vuole fare un favore all'animazione made in Italy non bisogna PAPmusic, bensì Manodopera, creazione di Alain Ughetto.


















E' vero, Alain Ughetto non è italiano, ma francese nipote di immigrati piemontesi e il suo film è una coproduzione solo in parte finanziata dal MiC; eppure, non si può non vedere in Manodopera quello spirito culturale nostrano che tanto si vuole ostentare (a torto)  quando si parla di PAPmusic. 
Manodopera è un film che parla di Italia e di Italiani partendo dal ricordo dei singoli per farsi testimonianza collettiva filtrata attraverso una lente fantasiosa che le dona quel colore che solo l'animazione sa dare, in questo caso quella in stop-motion che, pur se astrattamente considerabile come vetusta, oggi ha persino finito per guadagnare in fascino.
Manodopera è sostanzialmente la riscoperta delle origini di un autore, il quale usa il mezzo animato per dare vita alle testimonianze trasmesse dai suoi avi italiani, emigrati in Francia nei primi del '900. E già da questo, il valore culturale del film appare incontestabile, andando a dare spazio a fatti e personaggi che sovente si ceca di dimenticare.
Manodopera è invece ritratto espressivo di una realtà oramai atavica, ma non per questo meno attuale, visto il flusso migratorio da una trentina d'anni a questa parte ha ricominciato a scorrere dall'Italia verso il centro dell'Europa. Una migrazione che Ughetto descrive come necessaria alla sopravvivenza perché figlia di sistemi di prevaricazione oramai da tempo internalizzati. Alle classi più povere, i contadini e in particolare ai manovali (suoi avi) non resta dunque che spingersi sempre più verso il confine alla ricerca di un lavoro che garantisca loro anche la semplice sopravvivenza; un lavoro nel quale sono visti prima ancora che adoperati come animali da soma bipedi, forza lavoro da poter sfruttare a piacimento e senza remore Da cui deriva anche la successiva adesione a sistemi di valori e a culture nuove e più vicine alla propria sensibilità, dinamica che porta ad un'altra tematica qui affrontata, ossia gli effetti che la Storia ha sui singoli.


















I personaggi di Manodopera sono costantemente preda di eventi fuori dalla loro portata, quegli eventi catastrofici che plasmeranno tutto il XX secolo, partendo dalle guerre coloniali, passando per la Grande Guerra per arrivare all'avvento del fascismo e alla Seconda Guerra Mondiale. I personaggi del film, a partire dal capofamiglia Luigi, vengono letteralmente sballottati dalla Storia, le loro vite vengono riscritte prima ancora che scompaginate dagli eventi che occorrono nell'Europa di inizio '900. Ughetto ne descrive così la forza insita nella loro capacità di adattamento, quella caparbietà che li porta a sopportare il peggio e superare i momenti più bui senza mai scadere nel dramma più basilare.
Il tono, anzi, è sempre elegiaco, poetico, volto ad accarezzare gli eventi drammatici senza lasciare che la loro gravità scalfisca le emozioni dello spettatore, così come non scalfisce quelle dei personaggi. Il coinvolgimento deriva così proprio dalla delicatezza di tono, la quale risulta molto più efficace di quanto un registro serioso avrebbe mai potuto.


















Elegiaco e delicato è anche il modo in cui Ughetto si approccia alla materia del ricordo. La sua non è nostalgia verso un mondo che fu, né l'idealizzazione coatta di una realtà miserevole, quanto la riscoperta di un'epoca remota e per lui aliena, un mondo che oramai vive solo nelle testimonianze indirette filtrate attraverso i ricordi personali a loro volta rielaborati per il tramite della fantasia. Per questo, il mondo di Manodopera appare tanto incantato quanto verosimile, proprio per la mancanza di volontà dell'autore di imbellettarlo con una luce ipocrita di una nostalgia che non può provare. Il suo sguardo è semmai curioso, quello di un bambino che riscopre un oggetto appartenuto a suo nonno del quale descrive la sensazione di stupore e reverenza amorosa che gli trasmette.
Sensazione che sul piano dell'animazione trova le forme della semplicità; non solo quella data dall'uso della tecnica del passo-uno, ma soprattutto quella del ricorso a scenografie improvvisate, come le zucche usate per le case e i giocattoli usati per gli animali da fattoria; trovate che concedono un tocco ancora più delicato e ancora più poetico, se possibile, ad una messa in scena che appare così anche estremamente compatta.

















Manodopera riesce così a trasformare in immagini perfette la non facile materia del ricordo collettivo, in una rielaborazione dolce, ma anche estremamente convincente. Un film che trasuda amore e creatività, riverenza per la materia e estrema onestà intellettuale. Una pellicola che merita di essere scoperta e apprezzata sia come ottima esponente di un cinema d'animazione che purtroppo si tende ancora ad associare a storie bambinesche, sia come ottimo esempio di testimonianza di un passato che fu.