lunedì 21 ottobre 2024

Megalopolis

di Francis Ford Coppola.

con: Adam Driver, Giancarlo Esposito, Shia LaBeuf, Nathalie Emmanuel, Aubrey Plaza, Jon Voight, Laurence Fishburne, Dustin Hoffman, Talia Shire, Jason Schwartzman, Kathryn Hunter, Balthazar Getty, Grace VanderWall, Jamers Remar, D.B. Sweeney, Chloe Fineman.

Usa 2024












---CONTIENE SPOILER---

In un'intervista rilasciata durante la mitologica lavorazione di Apocalypse Now, Francis Ford Coppola ha sancito come creare un film pretenzioso sia peggio di creare un film brutto, perché si finirebbe per tediare lo spettatore oltre che per inorridirlo.
Oltre vent'anni dopo, nei primi anni 2000, Coppola annuncia Megalopolis, quello che nelle sue intenzioni sarebbe stato il suo film più grande e ambizioso e che all'epoca avrebbe dovuto seguire due tracce narrative, una ad ambientazione contemporanea e una ambientata nell'antica Roma, al fine di comprendere come l'essere umano si sia evoluto in duemila anni di Storia.
A maggio 2024, dopo circa un quarto di secolo, Megalopolis è pronto e viene presentato a Cannes, dove divide il pubblico e la critica: c'è chi grida al capolavoro, c'è chi lo definisce come uno dei film più brutti mai fatti.
Nei mesi successivi Megalopolis viene presentato in varie anteprime ed esce a settembre in Usa. Ovunque le critiche sono sferzanti e accusano tra l'altro l'autore di aver creato un'opera pacchiana e, guarda il caso, pretenziosa, in uno scenario che per forza di cose ricorda quello che accompagnò, decenni prima, la prima uscita in sala de I Cancelli del Cielo di Michael Cimino.
Il parallelismo con il capolavoro maledetto che chiuse l'epoca d'oro del cinema hollywoodiano non si ferma però alla sola accoglienza: durante la lavorazione, voci e scandali si sono susseguiti senza sosta; si va da un budget gonfiatosi a causa dell'ambizione dell'autore, il quale ha voluto utilizzare una nuova e inedita tecnologia per le riprese con lo stagecraft, ad accuse di molestie dovute al fatto che abbia abbracciato e dato baci sulle guance a delle comparse in una scena ambientata durante una festa stile Roma pagana (siamo pur sempre nell'epoca degli snowflake e della cancel culture).
Megalopolis è in tutto e per tutto un film che ha spiazzato, sia prima che dopo la sua uscita. L'astio nei suoi confronti è quindi comprensibile. Il fatto che venga additato come un film brutto o anche solo malriuscito decisamente no.


















La visione di Coppola è qui quanto mai strabordante e sfrenata, a partire dalla trama: a New Rome, metropoli del futuro, vera e propria versione fuori dal tempo di New York, l'ambizioso architetto Ceasar Catilina (Driver) è in rotta di collisione con il sindaco Cicerone (Esposito) per la gestione della città, in particolare in merito al suo progetto di costruzione di un piano urbanistico; le cose si complicano quando Julia (Nathalie Emmanuel), figlia di Cicerone, inizia una relazione con Catalina, il quale possiede anche l'abilità di manipolare il tempo.



















In Megalopolis c'è tutto quello che Coppola ha narrato e descritto nel corso della sua carriera, oltre che tutta la sua ambizione.
Si parte dal personaggio di Catilina, un architetto con una visione bigger than life; non un personaggio stile lo Howard Roark di Ayn Rand, essendo più vicini, nelle su stesse parole, alla filosofia di Emerson. Più che un professionista individualista, quindi, è un artista dall'indole sensibile che, in quanto tale, può modificare il tempo, fermarlo o addirittura percepire il futuro. 
Tramite lui, Coppola riflette sull'estetica e l'importanza dell'arte: Catilina è un visionario che potrebbe riplasmare un mondo morente ad una nuova era, una nuova visione per la nuova generazione. Ma Coppola non lo descrive come un semplice genio tormentato, bensì anche e forse soprattutto come un uomo perso nei suoi vizi e sovente avulso da ogni realtà, chiuso nella propria visione e nel lutto per la defunta moglie. Facile vedere in lui un suo doppio, da cui l'estrema onestà con il quale descrive sé stesso e la sua impossibilità di creare qualcosa senza il supporto degli affetti. Dopotutto, l'arte, che nel film prende la forma dell'arcano materiale megalon, altro non è se non tessuto vivente che viene letteralmente estratto dalla linfa vitale.



















Lo scontro è ideale ed è quello tra un idea futurista nel senso migliore del termine e il conservatorismo "classico"; Cicerone, nomen omen, è refrattario ai venti riformatori che soffiano da un cesare e scettico verso l'effettiva fattibilità del progetto del rivale. La vera forza disgregatrice non è però data dal sindaco e patriarca, quanto dal personaggio di Clodio Pulcro, incarnato da un perfetto Shia LaBeuf, personificazione degli umani vizi, tra cui la cupidigia, la lussuria e l'invidia, e mosso un odio immotivato verso il successo del cugino Catilina. Tanto che il finale è chiarificatore: Clodio Pulcro altri non è che il doppio di Trump, un populista che aizza il malcontento delle classi più deboli contro i potenti al solo fine di trarre affermazione personale, il quale finisce appeso a testa in giù in un tripudio di cappelli rossi gettatigli contro, nel caso in cui ci fossero dubbi su chi rappresenti. 
La strada per il futuro, come suggerisce il magnifico finale, il viatico per la vera utopia è dato dall'incontro e dalla collaborazione di forze che sono opposte solo in apparenza, non una semplice mediazione, né un mero compromesso, quanto la realizzazione di come le due visioni siano più simili di quanto si voglia ammettere, con uno sforzo mirato a superare i particolarismi e le antipatie personali al fine di coltivare il bene collettivo.
Coppola descrive questo scontro nel modo a lui più familiare possibile, letteralmente, ossia come una tragedia classica che coinvolge i membri di due famiglie. Gli echi de Il Padrino sono forti, ovviamente, poiché la base drammaturgica è la medesima; l'influenza della tragedia classica è qui per forza di cose più marcata, tanto che arriva a citare apertamente Shakespeare, oltre che un'infinità di classici latini.



















New Rome è così null'altro che un doppio di un'America che ha raggiunto uno stato di decadenza al pari di Roma. Il parallelo è scontato, ma permette a Coppola di intessere un racconto che raggiunge l'universalità. Oltre che a tirare su un'estetica barocca oltre i limiti del kitsch.
Da questo punto di vista, Megalopolis è un film tronfio e ampolloso e, nel suo raccontare di un'epoca decadente e tronfia fuori dal tempo e dallo spazio, trova la perfetta ragione di essere barocco e eccessivo, in una compattezza stilistico-narrativa da fare invidia a molte altre opere decisamente più acclamate negli ultimi anni. 
L'estetica è poi solo apparentemente post-moderna nel suo fondere neoclassicismo e art déco, visto che riprende e amplifica l'estetica architettonica newyorkese classica, con i suoi esterni reminscenti di epoca classica e gli interni di una modernità retro che non smette ancora di affascinare, il tutto immerso in una luce dorata che ne amplifica la carica sgargiante.
















Tronfiaggine estetica che si appaia a quella narrativa: i dialoghi sono enfatici e il ritmo è volutamente altalenante, alternando accelerazioni a rallentamenti improvvisi e solo apparentemente immotivati; anche qui la coerenza è evidente e fa comprendere davvero come Coppola abbia una visione chiara e precisa del tutto.
E' forse proprio tale aspetto a spiazzare lo spettatore moderno, ossia la forma, sia stilistica che narrativa, totalmente avulsa da ogni convenzione, in una ricerca costante di uno sperimentalismo che da decenni non trova eguali nel cinema tutto, almeno quello mainstream. A Coppola, dopotutto, le convenzioni non interessavano a trent'anni, figuriamoci a ottanta e a fine carriera.
















E' di conseguenza fin troppo facile capire perché Megalipolis sia così odiato o al massimo guardato con perplessità: nessuno oramai è abituato a pellicole così libere e così ambiziose nel loro totale sprezzo di ogni convenzione. 
Il messaggio politico, sempreverde e universale, non è poi troppo marcato, quindi può risultare debole agli occhi di chi è abituato a racconti dove i personaggi snocciolano dialoghi ridondanti sulle problematiche della società civile; quanto al concetto di arte e di utopia, in molti non sanno neanche cosa sia. Ed è vero, alla fine Coppola non dice nulla di inedito o ardito; ma lo fa in modo sincero e privo di compromessi. Come l'arte, quella vera, dovrebbe sempre essere.

venerdì 18 ottobre 2024

Deliria

di Michele Soavi.

con: Barbara Cupisti, David Brandon, Giovanni Lombardo Radice, Richard Barkeley, Robert Gligorov, Mary Sellers, Piero Vida, Jo Anne Smith, James E.R. Sampson.

Horror/Slasher/Splatter

Italia 1987


















L'avventura produttiva della Filmirage, fondata da Aristide Massaccesi nel 1980, rappresenta il perfetto paradigma dell'apoteosi e della caduta dell'industria del cinema di genere italiana. Costituita al fine di produrre e ottenere gli accordi distributivi per pellicole a basso budget e tutte rigorosamente exploitation, entra in crisi verso la fine degli anni '80 e chiude i battenti nel fatidico 1994. I motivi del tracollo non sono chiari, c'è chi lo attribuisce anche ad una serie di pessimi investimenti fatti dai soci di Massaccesi che hanno finito per mettere in crisi l'intera società; ma uno dei motivi fondamentali è forse di natura strettamente produttiva: il cinema, in quegli anni, stava cambiando e per trovare spazio in un mercato giù saturo di prodotti simili la Filmirage (così come tutte le altre casi produttrici nostrane) avrebbero dovuto alzare il tiro, cercando budget più elevati e magari non limitarsi a creare prodotti derivativi, sciatti o anche di puro exploitation privo di pretese. Non per nulla, sempre nello stesso periodo la crisi produttiva avrebbe colpito anche altre storiche piccole case di produzione, come la New World Pictures di Corman e la Empire Pictures di Charles Band (poi divenuta Full Moon Features per sopravvivere giusto una manciata di anni).
A dare una scorsa al curriculum della Filmirage si resta basiti per la scarsa qualità delle sue produzioni, tanto che se c'è un film che alla fine andrebbe davvero visto, questo è Troll 2 e per tutti i peggiori motivi. Eppure, anche nel mare di pattume, esiste un'eccezione, un film che ancora oggi riesce a dare lustro al nome della società, ossia quel Deliria che rappresenta anche l'esordio da regista di Michele Soavi.



















Parliamoci chiaro: Deliria non è un capolavoro che scompagina un filone dato, ossia quello dello slasher, per ricrearlo a nuova forma; è semplicemente un onestissimo prodotto di genere che vuole solo portare in scena al meglio tutti i topoi dello stesso, riuscendoci perfettamente.
La storia della produzione del film è poi presto detta: George Eastman scrive una ennesima sceneggiatura per l'amico e collega D'Amato, una che possa essere girata in economia anche di location, come già fatto per Rosso Sangue. E proprio da Rosso Sangue arriva Soavi, che a partire da quel film iniziava la collaborazione con D'Amato, assieme a quella con Argento che lo porterà a lavorare in Tenebre, Dèmoni e Opera tra gli altri. Ma il suo desiderio di dirigere un film tutto suo è grande e l'occasione gli si presenta, a quanto pare dopo sue forti insistenze, proprio grazie a questa piccola produzione. Che lui trasforma da semplice prodotto d'accatto in un piccolo gioiello.



A proposito di teorica mancanza di ambizione, la trama è quanto di più blando si possa immaginare: gruppo di attori che stanno portando in scena un musical su di un serial killer vengono braccati e uccisi uno alla volta da un vero serial killer che, fuggito da un ospedale psichiatrico per inseguire la final girl, ha trovato rifugio nel teatro.
Un pretesto vero e proprio per presentare i personaggi e dare inizio alla danza di sangue. Questo non vuol dire che la scrittura manchi di punti di interesse, data proprio dal modo in cui tratteggia i personaggi: con tocchi veloci ma incisivi, si riesce a comprendere appieno la loro storia e la loro psicologia, riuscendo ad appassionarsi alla loro sorte. Non si sta parlando, ancora, di chissà quale originalità o profondità drammaturgica, ma tutti hanno bene o male il loro carattere. Si comincia dalla protagonista Alicia, interpretata da quella Barbara Cupisti che è stata la cosa più vicina ad una scream queen che l'horror italiano abbia avuto assieme a Daria Nicolodi (e decisamente più di Asia Argento), attrice in cerca di affermazione che subisce le angherie del volitivo e nevrotico regista Peter, interpretato da David Brandon, attore che meriterebbe più credito di quanto gli sia normalmente riconosciuto. C'è poi il ballerino Brett, interpretato dal compianto Giovanni Lombardo Radice, sorta di "checca isterica" che però risulta simpatico persino quando si diverte a perseguitare l'attricetta Laurel; o anche la coppietta di artisti Danny (interpretato da Robert Gligorov, poi divenuto noto scultore) e Sybil, prossimi a formare una famiglia.


















Una scrittura basilare ma ben congegnata, quindi, che però evita ogni rimando metatestuale che l'ambientazione gli consentirebbe per concentrarsi sulla pura narrazione di intrattenimento. La quale riesce grazie all'occhio di Soavi per la messa in scena.
A fare la differenza con le altre produzioni Filmirage è innanzitutto la bella fotografia di Renato Tafuri, che riesce davvero a restituire un'atmosfera surreale grazie alle luci, ma anche a imprimere la giusta profondità alle immagini; Soavi costruisce così con gusto ogni sequenza, dando loro il giusto ritmo e iniettando la giusta carica di tensione, che sfocia poi in effettoni splatter ben curati, i quali risultano credibili anche perché la regia non vi ci insiste mai troppo, come nella scena del corpo tagliato in due, la quale funziona proprio perché vi si alterna l'uso di un manichino con quello dell'attrice in un sapiente gioco di montaggio e di giustapposizione tra un'inquadratura più larga ed una più stretta.


















Il tutto funziona anche grazie all'atmosfera sospesa tra realtà e incubo, dove nessuno dei due piani prevale sull'altro creando una sorta di incertezza su quanto possa accadere; sebbene anche qui non ci si spinga mai verso la direzione del surreale vero e proprio, Soavi inietta in ogni scena una carica che rende la visione ammaliante e che esplode nel finale, quasi gotico nelle sue suggestioni oniriche.
A rendere memorabile il tutto è poi anche l'iconica maschera del killer, un barbagianni bianco dalle proporzioni enormi, inquietante nella sua sottile carica grottesca, che rende il personaggio riconoscibile e interessante anche in assenza di una caratterizzazione e persino di una backstory.



















Deliria rappresenta così non solo e non tanto il classico ottimo esordio di un cineasta di buon talento, quanto soprattutto uno dei migliori lasciti di Joe D'Amato, sebbene non abbia messo mani alla regia (e forse proprio per questo); Soavi resta certo più vicino ai territori di Dario Argento nella messa in scena (non per niente Tufari veniva proprio dal set di Opera), ma è grazie a D'Amato se è riuscito a portare in scena questo piccolo horror slasher in modo così efficace.

giovedì 17 ottobre 2024

Ken il Guerriero- Il Film

Hokuto no Ken

di Toyoo Ashida.

Animazione/Fantastico/Azione/Gore

Giappone 1986



















Con un nuovo adattamento anime in arrivo, il personaggio di Ken il guerriero sembra prossimo a conoscere una seconda giovinezza a livello multimediale. Qui in Italia, d'altro canto, il mito di Hokuto no Ken non è mai davvero tramontato da quel 1987 in cui l'anime originale, datato 1984, si affacciò timidamente sulle reti locali. Quarant'anni dopo la prima trasmissione originaria in Giappone, l'Italia festeggia il compleanno del maestro della sacra scuola di Hokuto andando a restaurare e ridoppiare il primo lungometraggio dedicatogli, datato 1986 e diretto da quel Toyoo Ashida già responsabile della regia principale della serie. E non c'è davvero modo migliore per godersi questo magnifico guilty pleasure.

















Perché il primo film di Hokuto no Ken può solo essere considerato un guilty pleasure, stretto com'è tra una narrazione claudicante e un'animazione a dir poco sbalorditiva, perfetto esponente di quella generazione di anime il cui budget stratosferico sopperiva sovente ad una sceneggiatura mediocre, talvolta scritta in fretta e furia per avviare la produzione animata.
La volontà di condensare circa metà della storia della prima parte del manga, che va dall'inizio della saga di Shin alla morte di Rey la Stella del Dovere di Nanto, e il conseguente primo scontro tra Ken e Raoh, è un'operazione ardita: troppi personaggi, troppi scontri, troppi eventi da condensare in meno di due ore, troppo poco tempo persino per un semplice battle shonen, tanto che la stessa porzione di storia aveva richiesto circa 49 episodi nella trasposizione televisiva. L'operazione di sintesi finisce così per funzionare sotto certi aspetti, ma ovviamente per non funzionare sotto molti altri.
Paga sicuramente il fatto di aver fuso il primo story-arc, con lo scontro con Shin, assieme a quella che sarebbe diventata solo a posteriori la storia portante del manga, ossia la crociata di conquista di Raoh e le lotte di Ken contro di lui e Jagi. La narrazione è così più compatta rispetto a quanto visto nel manga e nell'adattamento televisivo, opera di uno sceneggiatore che sapeva dove la storia sarebbe andata a parare, cosa che ovviamente Buronson non poteva sapere quando ha iniziato a scrivere le avventure di Ken nel 1983.






















Dove la sceneggiatura arranca è principalmente (ma non solo) nella progressione degli eventi, che si susseguono in modo praticamente meccanico. Non è dato sapere come Kenshiro capisca immediatamente che il fantomatico "uomo dalle sette cicatrici" che guida le orde di predoni sia in realtà Jagi, né come lui e Rey capiscano subito dove cercarlo, tantomeno come la piccola Lynn possa riconoscere Yuria senza averla mai vista; alcuni personaggi, paradossalmente, entrano in scena per poi sparire nel nulla, come Airy, la sorella di Rey il cui salvataggio ne motiva l'esistenza, o la stessa Yuria, che alla fine dell'ultimo atto svanisce nel nulla costringendo Ken a riprendere il suo vagabondaggio. A mancare del tutto all'appello è poi il personaggio di Toki, la cui presenza avrebbe dato un respiro più ampio alla storia. 





















Quanto poi alla caratterizzazione di Raoh, questa è quella che soffre di più dall'opera di sintesi effettuata. Venuto meno il suo rapporto con il fratello Toki, che ne metteva in luce il lato più umano, il Re del Pugno è così un semplice demone dall'ambizione infinita, il quale non ha più nessun briciolo di umanità; il suo scontro con Ken diventa semplicemente quello del male assoluto contro il bene assoluto, oltre che una labilissima metafora sull'annichilimento nucleare; certo, quel finale in cui la dolcezza di Lynn riesce a placarlo fa presagire come possa esserci qualcosa di più sotto il suo cipiglio ferreo, ma il fatto che non sia mai stato prodotto un vero seguito ufficiale a questa prima incarnazione cinematografica lascia tutto in sospeso e quella risoluzione appare così motivata solo dalla convenienza dovuta al trovare un modo di interrompere lo scontro fratricida. Il paradosso è che tutti questi difetti si sarebbero potuti evitare semplicemente allungando di poco la durata di tutto il lungometraggio. 
Tuttavia, se c'è un altro merito che va riconosciuto a questo adattamento, risiede nella sua capacità di trasformare il tutto in una metafora ecologista tutto sommato simpatica, dove la lotta per resuscitare una natura distrutta dall'orrore della guerra è certamente più riuscita della metafora nucleare.





















D'altro canto, sul piano stilistico-estetico il primo film di Hokuto no Ken è ancora oggi semplicemente ottimo. La parte del leone la fanno le animazioni fluide e curate, che restituiscono alla perfezione i movimenti dei personaggi e la velocità degli scontri, così come l'estrema ferocia del kenpo di Hokuto e Nanto: non più limitati dalle pastoie della censura televisiva, gli animatori si sono sbizzarriti a caricare di tutto lo splatter possibile le scene di lotta, con corpi che esplodono in geyser di sangue, budella che saltano in aria, teste che si gonfiano come palloni e persino un teschio che schizza fuori dalla faccia, tanto che a risaltare qui non è tanto l'influenza che Mad Max 2 ha avuto su Buronson e Hara, quanto quella primigenea del Violence Jack di Go Nagai; un'inventiva gore che fa il paio con una dovizia di particolari che leggenda vuole sia stata ottenuta grazie al fatto che i disegnatori abbiano usato come riferimento dei manuali di anatomia umana, quando si dice amare il proprio lavoro...





















La regia di Toyoo Ashida a tratti stupisce anch'essa per l'inventiva, soprattutto per l'uso del montaggio, nel quale usa inserti quasi subliminali per enfatizzare meglio le scene. La linearità e la piattezza viste nel precedente adattamento di Vampire Hunter D per fortuna sono lontane e qui non lesina soluzioni spettacolari per le sequenze di lotta, anche se l'aver risolto lo scontro tra Rey e Raoh come un videoclip è sicuramente una trovata che oggi mostra prepotentemente il peso degli anni (ma a quanto pare nello script originale, in parte anche animato, la progressione del combattimento fosse data da un dialogo su come Roah sapesse usare la propria aura combattiva come arma, poi semplificato forse per motivi di tempistiche produttive).
Vincente è anche la trovata di alternare le immagini del mondo pre-olocausto al setting post-apocalittico: le scene nelle quali l'orrore della guerra si manifesta sono orrorifiche e spiazzanti, degne visioni di un'animazione nipponica post- Gen di Hiroshima, che poco prima aveva usato soluzioni simili per ritrarre il vero bombardamento nucleare.
Semplicemente magnifico è poi il modo in cui il character designer Masami Suda qui riesce a restituire lo splendido tratto di Tetsuo Hara: il dettaglio dei personaggi e la loro espressività solo sbalorditivi e ancora oggi ineguagliati.


















Dinanzi a cotanta magnificenza estetica, è proprio il caso di dire che il progresso tecnologico non è riuscito a sostituire la genuina bellezza che l'animazione classica riusciva a creare quando supportata da un budget adeguato. E questo lungometraggio, pur nella sua natura puramente celebrativa del manga originale, ancora oggi lo dimostra perfettamente.

mercoledì 16 ottobre 2024

Porno Holocaust

di Joe D'Amato.

con: George Eastman, Mark Shannon, Dirce Funari, Annj Goren, Lucia Ramirez, Ennio Michettoni, George Du Brien.

Pornografico

Italia 1981
















Si può davvero riconoscere un valore a Porno Holocaust? Si intende ovviamente un valore che vada al di là del semplice sollazzo derivante dal guardare un porno. Perché, sebbene spesso spacciato per il contrario, questo exploit di Joe D'Amato non è un horror splatter con inserti hardcore, bensì un semplice film hard con un paio di timidi inserti splatter.
Una forma di valore forse questo bizzarro pornofilm ce l'ha davvero, anche oltre il suo status di cult movie, che non si capisce davvero perché abbia ottenuto, forse per il solo fatto di essere l'ennesimo frutto della collaborazione tra Joe DAmato e George Eastman. E Porno Holocaust incapsula perfettamente tutta la filosofia filmica di D'Amato: è un prodotto rigorosamente alimentare, derivativo in tutto e per tutto, per certi versi sciatto oltre i limiti di sopportazione e che spesso scade nel ridicolo involontario.
Un brutto film? Assolutamente si. Un brutto film divertente stile Troll 2? Solo se si è in cerca di un film a luci rosse. Un film interessante? Questo si, ma solo se posto all''interno della filmografia di Massaccesi e Eastman.



La trama, ovviamente, è puramente pretestuosa: un gruppo di scienziati si reca su di un isola dei tropici dove anni prima ci sono stati degli esperimenti nucleari e sulla quale sembrano siano comparsi degli animali più grandi del normale. Giunti lì saranno tutti vittime, in un modo o nell'altro, di un essere animalesco, una sorta di gigante mutato dalle radiazioni e in cerca di sangue e sesso.
Una storiella simpatica nel suo essere del tutto figlia di influenze e intuizioni altrui: c'è l'esotismo di quella Emanuelle che D'Amato già saccheggiava da anni, c'è l'eco del cinema cannibale di Umberto Lenzi e Ruggero Deodato e c'è l'eco di tanta fantascienza americana di serie B anni '50, con gli animali mutati dalle radiazioni delle bombe atomiche.



















Più impellente dell'avvelenamento da radiazioni c'è la lussuria delle protagoniste, due scienziate e una contessa che non perdono occasione per lasciarsi andare in amplessi sia etero che saffici, tutti ripresi da D'Amato senza inibizioni e senza voler celare la vera natura di tutta l'operazione, tanto che la presenza di George Eastman appare sempre fuori luogo, come nella sequenza nella quale Mark Shannon e Annj Goren si danno da fare sotto il suo sguardo e lui schifato se ne va via, forse perché il vero Eastman solo in quel momento ha realizzato in cosa si era cacciato. Certo, la sceneggiatura porta il suo nome, ma a vedere come sono state montate le sequenze è facile pensare ad un raggiro subito ad opera del buon Massaccesi, che lo ha convinto a prendere parte ad un porno facendoli credere che si trattasse dell'ennesimo festival gore a buon mercato. Tanto che la violenza appare solo di rado, il vero focus di tutto è dato dalle scene hard, con esiti talvolta ilari, come quando l'immagine del pescatore fatto a pezzi viene giustapposta all'amplesso lesbo della Goren con Dirce Funari o in quel finale dove Shannon e Liza Martinez ci danno dentro su di una barca dopo essere sfuggiti a stento dalla furia del mostro.


Un mostro che da solo ha garantito la notorietà al film, sorta di cugino dominicano di Antropophagus che preferisce usare il membro per uccidere le malcapitate. E la scena dove lo usa per soffocare la Funari è davvero un esempio di cinema trash cult come se ne sono davvero visti pochi.
Questo è in fondo il vero valore di tutto il film, ossia quello di un divertissement trash che schiferà i palati buoni ma che farà la festa del movie-junker vista la sua irrefrenabile carica da film di serie Z. Oltre che a rappresentare, appunto, tutto il cinema di Joe D'Amato in neanche due ore di durata.

lunedì 14 ottobre 2024

Salem's Lot

di Gary Dauberman.

con: Lewis Pullman, Mckenzie Leigh, Pilou Asbæk, Alfre Woodard, Jordan Preston Carter, Bill Camp, William Sadler, John Benjamin Hickey, Danielle Perry.

Horror

Usa 2024














---CONTIENE SPOILER---

Questa nuova incarnazione del celebre romanzo di Stephen King rischiava davvero di finire nell'oblio dei film prodotti e mai distribuiti dalla Warner, come nei famigerati casi  di Batgirl e Coyote vs. Acme; cosa strana, tra l'altro, se si tiene conto della popolarità che il nome dell'autore di solito porta e la conseguente facile vendibilità dei prodotti a lui associati. Fatto sta che se non fosse stato per King in persona, che ha fatto fortissime pressioni affinché questo nuovo Salem's Lot arrivasse almeno su HBO Max, il pubblico non avrebbe mai potuto visionare il lungometraggio diretto da Gary Dauberman (già regista di Annabelle 3 e membro della factory di James Wan, qui tra i produttori) che tenta di racchiudere in neanche due ore una delle sue opere più dense. A fine visione, però, si capisce perfettamente il perché i produttori avessero cercato di seppellire il tutto.


Vien da chiedersi per prima cosa il perché si sia proprio voluto produrre un terzo adattamento ufficiale di Le Notti di Salem quando giusto qualche anno fa Mike Flanagan ha regalato al pubblico quel Midnight Mass che, pur non essendo un adattamento ufficiale del romanzo di King, ne era una perfetta trasposizione.  Il motivo è ovviamente economico e si è rivelato fallimentare, anche perché del romanzo di base a Gary Dauberman sembra non importare proprio nulla, tanto che questa sua trasposizione è più un omaggio cinefilo al cinema horror americano anni '70 in generale, che però non ha né la grazia, né la profondità intellettuale necessaria a rendere il tutto interessante.
Su tutto vige l'alone del vintagexploitation spicciolo, con quei colori smorti a minare la pellicola d'epoca, il setting di fine anni '70 tenuto solo per dare un look più particolare al tutto e un uso della fotografia talmente tronfio nella sua costante ricerca di una soluzione esteticamente appagante da sfociare nel pacchiano in quasi ogni scena, tanto che a tratti sembra di vedere una sorta di prequel di Renfield.



Grossolonità che ben si accoppia con il senso di ridicolo involontario che spesso fa capolino, dovuto alla totale incapacità di Dauberman di costruire personaggi credibili anche come semplici esseri umani. Non si può davvero prendere sul serio quel Mike Petrie, ragazzino di undici anni, che non solo non fa una piega quando il suo vecchio amico morto gli riappare come vampiro, ma che riesce ad ammazzare uno Straker grande e grosso praticamente con due colpi di mazza, solo per diventare subito un novello Blade grazie alla forza della passione per l'horror, intraprendendo una crociata contro i vampiri con una strafottenza che neanche i fratelli Ranocchio di Ragazzi Perduti, al punto che sembra davvero il personaggio di una commedia horror anni '80 trapiantato per sbaglio in un film che si prende invece sul serio. Allo stesso modo, non si riesce a credere allo scrittore Ben Mears che di punto in bianco inizia a piantare paletti nel cuore al vampiro di turno come se fosse la cosa più semplice del mondo. E non si riesce alla performance di Alfre Woodard nei panni del dottor Cody (qui donna perché si), la quale tratteggia questo medico di provincia che si ritrova in un racconto dell'orrore come se fosse la protagonista di una sit-com sugli stereotipi razziali americani.
Ridicolo che si affaccia anche in modo più sottile nella costruzione generale della storia.



















La trama originaria viene scompaginata, ma alcuni dei suoi elementi essenziali vengono mantenuti sul piano formale, con esiti a dir poco strambi. L'intera storia di villa Marston, essenziale per l'introduzione dell'elemento sovrannaturale, viene non solo riscritta, ma anche messa subito da parte: Marston non era che un servo di Barlow, indi per cui il vampiro ha scelto proprio Jerusalem's Lot per il suo nido, dettaglio che lega piuttosto male i due fenomeni, soprattutto quando si decide di ambientare il climax non nella villa, ma in un drive-in; per di più tutto il discorso su come quella villa abbia assorbito il male che ha ospitato, motivo per il quale il vampiro si è sentito attirato dalla cittadina, viene taciuto, per questo quando il fenomeno dei vampiri comincia a manifestarsi ai personaggi, la loro reazione estremamente seriosa risulta fuori luogo, generando nuovamente risate involontarie visto che di punto in bianco si prendono assolutamente fondati i discorsi di Burke su come alcuni dei cittadini si stiano trasformando in creature della notte. Tutta la progressione narrativa non funziona, lasciando ogni forma di sospensione dell'incredulità e di coinvolgimento fuori dalla finestra assieme ai vampiri.

















L'impressione che a Dauberman e soci del libro importasse poco e nulla risalta proprio quando si guarda al look dei succhiasangue, i quali sono praticamente gli stessi della miniserie di Hooper: Barlow torna a sfoggiare il look a là conte Orlok, così come i bambini-vampiro hanno nuovamente un sorriso blasfemo e si muovono accompagnati da coltri di nebbia. Ma, lungi dal restituire l'impressione di riproposizioni affettuose, queste riprese di un lavoro altrui finiscono per denotare più che altro una mancanza di creatività.
Cosa che si avverte, tornando allo script, quando si tratta di adattare le sottotrame del romanzo originale; certo, condensare tutte le relazioni da soap-opera in neanche due ore era impossibile, più agevole sarebbe stato sfrondarne alcune in favore di altre e riadattare tutta la trama in modo da  agevolmente in una durata da lungometraggio, cosa che in parte è stata anche fatta; spesso si ha però la sensazione che molte scene siano rimaste tagliate dal montaggio definitivo, con personaggi che entrano in scena per poi essere dimenticati (Tibbits e la sua gelosia verso Ben Mears o il bullo della scuola che perseguita Mike) e l'intera sottotrama della madre di Susan che diventa l'accolita principale di Barlow perché non sopporta la relazione della figlia con Mears, talmente forzata da rasentare, anche qui, il ridicolo involontario.





















Era davvero da tempo che non si vedeva un lavoro così sciatto eppure così estremamente convinto del proprio valore, nel cinema horror americano. Questo nuovo Salem's Lot avrebbe avuto motivo di esistere solo se fosse stata una miniserie che avrebbe trasposto in modo integrale il romanzo, andando oltre quanto fatto da Flanagan e Hooper. Così com'è, non vale le sue due ore di durata. Tanto vale rispolverare il dvd della miniserie del 1979.


venerdì 11 ottobre 2024

Brain Damage (La Maledizione di Elmer)

Brain Damage

di Frank Henenlotter.

con: Rick Herbst, Jennifer Lowry, Gordon MacDonald, Theo Barnes, Lucille Saint-Peter, Beverly Bonner.

Horror

Usa 1988


















Basket Case trasformò in poco tempo Frank Henenlotter in una vera e propria leggenda del cinema underground newyorkese, ma questo suo status non si tradusse in una automatica facilità nel recuperare i fondi necessari per le sue produzioni. Difatti, già a metà degli anni '80 iniziò un circolo vizioso nel quale ogni sua sceneggiatura veniva cassata per un motivo o per l'altro, tra le quali la più celebre resta Insect City, storia di un'invasione di scarafaggi giganti in quel di Manhattan.
Bisogna quindi aspettare la fine del decennio per ritrovare una sua opera in sala e quando questa arriva, nelle forme di Brain Damage, di certo non delude.



















Come Basket Case, anche Brain Damage è la storia del rapporto tossico tra un ragazzo e una creatura mostruosa (similitudine non casuale, visto anche il simpatico cameo di Duane verso la fine); ma a differenza dell'esordio, Henenlotter non declina questa opera seconda come un dramma, quanto un racconto fantastico virato al grottesco con finalità metaforiche; metafora facilmente intuibile dalla trama: il giovane Brian (Rick Hearst) vive un'esistenza tranquilla assieme al fratello Mike (Gordon MacDonald) e alla fidanzata Barbara (Jennifer Lowry); esistenza che viene sconvolta dall'arrivo improvviso di Elmer, parassita senziente con il quale intreccia una simbiosi particolare: lo scambio di un fluido stimolante di colore azzurro, che gli inietta direttamente nel cervello, contro la possibilità di nutrirsi di cervelli; ovverosia, la più semplice rappresentazione figurata della tossicodipendenza che ci possa essere.



















Anche sul piano visivo, Henenlotter sembra voler portare in scena quel famoso spot americano su come la droga "frigge" il cervello: innumerevoli sono i dettagli della materia cerebrale che sfrigola al contatto con il liquido blu secerno dal parassita. La sua mano è qui pesante fino ai limiti del pedante, ma non bisogna stupirsene, né lamentarsene: egli stesso ha più volte ammesso come lo script sia nato come catarsi verso la sua dipendenza da cocaina, la quale lo ha portato a riflettere sugli effetti che la tossicodipendenza vera e propria finisce per avere soprattutto sui giovani. Il periodo in cui film viene prodotto è poi essenziale, ossia quegli anni '80 dove, come mai prima, il problema della tossicodipendenza giovanile diventa di pubblico dominio.



















Come metafora, Brain Damage funziona dannatamente bene, ritraendo a dovere tutti gli stadi della tossicodipendenza e della successiva astinenza. Si parte ovviamente dall'euforia data dallo squilibrio chimico che la dose porta al cervello, con le belle visioni psichedeliche che arricchiscono un comparto visivo quanto mai curato; si arriva subito alla dipendenza, con la vita del giovane Brian che viene letteralmente mutata dall'ossessione verso il narcotico, enfatizzata dal bell'uso della luce blu per gli ambienti; si arriva alla crisi di astinenza, al body horror conseguente alla mancanza della tossina della quale i tessuti non riescono a fare a meno.
Quest'ultima fase è il cuore dell'intero film, con l'intera sequenza dell'hotel a fare da perno a tutta la metafora, dove troviamo un Brian che perde progressivamente la sanità mentale in contemporanea ad un decadimento fisico inarrestabile. E se il tutto funziona, lo si deve anche al "cattivo" del film, il parassita Elmer.



















Un mostro preistorico, in precedenza conosciuto come Aylmer, Elmer vive grazie alla voce suadente di John Zacherle (famoso conduttore televisivo di un noto contenitore horror degli anni '50 e '60), la voce di un amico carismatico che seduce la propria vittima prima che renderla schiava. Ma la cui forma finisce ovviamente per disvelarne la natura sinistra; una forma che non è tanto mostruosa, quanto grottesca, costituita da elementi dissonanti che accostati che finiscono per funzionare: in parte fallo, in parte escremento, in parte cervello e con un paio di occhi da cartone animato, Elmer è un essere ripugnante eppure simpatico, credibile come simbionte pronto a distruggere la propria preda, ma anche come essere in grado di convincere il proprio ospite a lasciargli commettere gli omicidi necessari a saziare la propria fame di cervelli (che sia stato proprio lui l'ispirazione per i fumetti Marvel?).
La perfetta riuscita dell'impianto metaforico non deve però trarre in inganno: Brain Damage è anche un excursus in un cinema di serie B il quale vuole anche divertire.

























Se in Basket Case il lato più genuinamente ludico si amalgamava piuttosto male con il tono serioso (con le scene delle uccisioni che risultavano fuori luogo), in Brain Damage l'elemento grottesco è amalgamato decisamente meglio con la narrazione, ma è anche più marcato. Il perfetto esempio di una tale ibridazione è la celebre sequenza della fellatio letale, squisito mix di orrore splatter e ironia grottesca, la quale potrebbe essere il parto della mente di un Lloyd Kaufaman se non fosse messa all'interno di una narrazione che non vuole essere intrattenimento di grana grossa puro e semplice.
La mano di Henenlotter è più sicura anche nella messa in scena in scena: complice un budget decisamente più elevato, può ricostruire parte degli interni in un set vero e proprio e trovare soluzioni visive decisamente più interessanti.
Gli effetti speciali pratici trovano l'ovvio limite di un intento fin troppo ambizioso: l'animatronico di Elmer è vistosamente finto, ma anche con un budget da blockbuster hollywoodiano sarebbe stato difficile fare di meglio, all'epoca. Di ottima caratura, invece, sono gli effetti di trucco, perfetti nel ritrarre il deperimento fisico dovuto alla crisi di astinenza.














Brain Damage funziona così sia sul piano del puro divertimento che su quello più "intellettuale" di testimonianza sulla tossicodipendenza. Un'opera seconda visionaria che conferma in pieno le doti del suo autore.

giovedì 10 ottobre 2024

Nel Nome del Padre

di Marco Bellocchio.

con: Renato Scarpa, Yves Beneyton, Lou Castel, Piero Vida, Aldo Sassi, Laura Betti, Marco Romizi, Amerigo Alberani, Gérard Boucaron, Edoardo Torricella, Tino Maestroni.

Italia 1972















Nella disanima delle istituzioni nazionali che Marco Bellocchio ha portato avanti sin da inizio carriera non poteva di certo mancare quella contro la Chiesa cattolica, la quale arriva nel 1972, dopo che a cadere sotto i colpi del suo sguardo accusatorio sono stati la famiglia e il partito politico.
Pur tuttavia, Nel Nome del Padre non è semplicemente un ritratto al vetriolo di vizi e difetti dell'istituzione ecclesiastica e dei suoi rappresentanti, quanto una riflessione catastrofica su come la mancanza di valori possa finire per annichilire la società intera e non solo quell'istituto che invece dovrebbe guidarla verso la salvezza e la prosperità. Configurandosi, di conseguenza, come un'opera tanto acida e veritiera quanto profetica.


















Anno scolastico 1958/59. In un collegio ecclesiastico, gli equilibri già precari vengono scossi dall'arrivo dell'insofferente Transeunti (Yves Beneyton), le cui idee e ideali si scontrano con la realtà della gestione da parte dei preti, in particolare con quelli del vicerettore don Corazza (Renato Scarpa).
A leggere questo spunto di trama, utile solo a dare il via ad una narrazione tipicamente descrittiva, si potrebbe pensare all'opera di Bellocchio come ad una sorta di Teorema dove il collegio prende il posto della villa borghese e con il neoarrivato che scopre il marciume dietro i rapporti idilliaci dietro una realtà consolidata; un'opera dirompente rivolta a smascherare l'ipocrisia imperante, con afflato tipicamente sessantottino, insomma; e si sarebbe terribilmente in errore.
Per evitare ogni forma di inesattezza interpretativa, va specificato come Bellocchio abbia ritratto i moti sessantottini con Il Popolo Calabrese ha rialzato la Testa e Viva il primo maggio rosso e proletario, con i quali ritraeva le proteste con occhio quasi complice. Qui, tuttavia, l'elemento di disturbo non incarna quei valori progressisti che si cercava di affermare in quegli anni, anzi, esso è in tutto e per tutto un nazista, una creatura nata dalla disillusione e l'insofferenza verso una società che ritiene incapace perché inferiore e che cerca di riformare dal basso di un senso di superiorità dettato dall'ignoranza; da cui anche la scelta come interprete del francese Yves Beneyton, i cui lineamenti sono tipicamente teutonici. 
Nella struttura drammaturgica elaborata da Bellocchio (che anche qui scrive tutto di suo solo pugno), gli alunni rappresentano la futura classe dirigente, gli inservienti e camerieri (sottoproletari salvati dalla miseria e da una società che li ha lasciati a sé stessi) rappresentano il popolo, mentre gli ecclesiasti non sono che i rappresentanti dell'istituzione, sia essa religiosa che civile.

















L'inquadratura iniziale, con la macchina da presa che si muove tra i corridoi in rovina del collegio con in sottofondo un canto di penitenza, è chiara: la società è al collasso. A prenderne le redini è un pugno di imbelli incompetenti che non è in grado di fare niente e non ha rispetto per nulla, rappresentazione di una classe dirigente (gli alunni sono tutti "figli di", quindi prossimi al loro debutto in società) che non ha interesse in nulla, che non recepisce alcun insegnamento, che disdegna la cultura e vive solo per deridere tutto e tutti. In questo caos creato dall'apatia generalizzata, è facile per i superbi ergersi a guida, figura carismatica in grado di far propri i malcontenti di chi sta sotto di loro. Transuenti rappresenta questa figura, il perfetto paradigma di quei dittatori del XX secolo che si sono imposti solo grazie alla loro supponenza, grazie all'acclamazione del popolo e al silenzio delle istituzioni. L'ideale (se così si può definire) che porta avanti è semplice, ossia la ricostruzione della società tramite l'eradicazione di ogni forma di superstizione, una sorta di tecnocrazia finto-illuminata dove esistono solo il positivismo e il materialismo. A fargli da sponda non è solo quella classe dirigente che vede in lui un faro, a torto o a ragione, e che a causa della propria mancanza di idee e spina dorsale è il perfetto humus per l'affermazione della dittatura totalitaria, ma anche quel popolino ignorante che si fa manipolare da chiunque ne abbia la possibilità.


















Su quest'ultimo piano sono due le figure cardine, ossia il Salvatore interpretato da Lou Castel e Tino, servo mentalmente instabile. Il primo rappresenta la parte più lucida del proletariato, quei lavoratori tanto oppressi quanto disillusi che trovano nella protesta l'unica forma di affermazione; il secondo rappresenta invece quella pasta che i leader assoluti sono in grado di riplasmare: laddove Transeunti incarna un razionalismo nazista, Tino incarna la totale assenza di ragione, una pazzia che fa rima con ignoranza colpevole, persa com'è nella venerazione di un delirio tutto proprio (lo troviamo spesso recitare come una preghiera le parole magiche di Ultimatum alla Terra, metafora di una fede in qualcosa di totalmente fantastico, persino rispetto alla religione vera e propria). E' su questa diade che si poggia l'apocalittico finale, nel quale il leader assieme alla sostanza che gli permette di affermarsi riesce a ricreare un mondo a loro immagine. Ed è qui che la visione di Bellocchio si fa profetica, visto che quella generazione che ritrae è la stessa che tempo dieci anni avrebbe cominciato a portare l'Italia tutta verso la rovina.
In tutto questo, il grande autore punta il dito forse soprattutto contro l'istituzione, appunto rea di essere ferma su posizioni del tutto inermi.


















La Chiesa, sia intesa come sfera di potere religioso quindi ideologico, sia come istituzione strettamente terrena, è ferma su posizioni vetuste e arroccata in un idealismo del tutto avulso da ogni realtà, intesa come necessità sia spirituale che ideologica delle persone. Il rapporto che questa intesse con i seguaci è perfettamente incapsulato nella scena in cui lo studente Franco cerca risposte da padre Matematicus; Franco è afflitto da dubbi anche materiali, Matematicus risponde con una vera e propria litania su come la morte è l'unica certezza nella vita, di come non bisogna curarsi di nulla, tanto alla fine si muore. La funzione di guida anche solo spirituale viene messa alla berlina in modo graffiante sul piano della scrittura usando un personaggio che idealizza il trapasso sino ai limiti della necrofilia, su quello della messa in scena facendolo sedere all'interno di una bara, ossia richiudendolo in uno spazio angusto e del tutto distaccato dal resto del mondo.
Franco, a sua volta, incarna la posizione di un aspirante intellettuale, agghindato con quegli occhiali a là Goebbels, un ragazzo che ricerca una forma di ideale, ma che trova un appiglio solo nella cattiveria di Transuenti, che lo usa per portare in scena uno stralunato teatrino provocatorio. La metafora è chiara, con il nazismo che ha fatto propri gli ideali spirituali della religione cattolica solo per usarli al fine di abbindolare le masse; tanto che proprio Transuenti indosserà quel costume da mastino infernale per accanirsi sul cadavere di Matematicus.



















La funzione di educatore viene data a padre Corazza, di nome e di fatto ultimo baluardo contro lo sfacelo; ma il suo sguardo è rabbioso e disilluso, al pari di quello di Bellocchio, un personaggio che vive grazie all'interpretazione misurata eppure penetrante di un impagabile Renato Scarpa in quello che forse è il suo ruolo più sottovalutato; Corazza è perfettamente cosciente del fallimento educativo e religioso della Chiesa e al contempo è perfettamente cosciente dell'impossibilità di inculcare qualcosa di positive in menti che si rifiutano di guardare il mondo con sguardo curioso, preferendo sbeffeggiare tutto e tutti. Ed è cosciente di come tutto questo sia il viatico per la distruzione.
Un personaggio che forse coincide con la visione di Bellocchio; qui la sua indole è iconoclasta come sempre, non lesina in immagini forti che vanno dagli sputi verso le statue sacre alla Madonna che si anima per abbracciare un adolescente che si masturba; ma la sensazione predominante è quella di impellente disfatta, non di sfida, tantomeno di goduria nel vedere i simboli associati alla DC venire demoliti ad uno ad uno.
Nelle sue stesse parole, Nel Nome del Padre è un atto di pietà universale, una visione non tanto di compromesso, quanto di commozione verso la fine di ideali e istituzioni; con annessa una rappresentazione lucida di un'apocalisse che di lì a poco prenderà forma e che ancora oggi produce i suoi aberranti frutti.