mercoledì 11 gennaio 2017

Dellamorte Dellamore

di Michele Soavi.

con: Rupert Everett, Anna Falchi, François Hadji Lazaro, Mickey Knox, Fabiana Formica, Barbara Cupisti, Clive Riche, Anton Alexander.

Grottesco/Splatter

Italia, Francia, Germania 1994















---CONTIENE SPOILER---


Anni '90: il cinema italiano è morto. La commedia all'italiana ha mutato pelle, trasformandosi nel cinepanettone o nella commediola brillante, entrambi filoni frustrati dalla mancanza di idee e di talento da parte di autori ed attori; il cinema "serio", quello dell'impegno civile, che sulla scorta dei fatti di cronaca della Mattanza ha vissuto un ritorno alla ribalta, comincia ad arrancare verso la mediocrità, per poi eclissarsi nel giro di pochissimo tempo. Ed il cinema di genere è praticamente estinto: sono pochissimi gli horror o i western prodotti da e nel Belpaese, pellicole che per valori produttivi e talenti non sono che la parodia del cinema che fu.
Non è un caso che proprio nel 1994 escono gli ultimi due veri esponenti dei "generi" più proficui: "Jonathan degli Orsi" è di fatto l'ultimo vero spaghetti western mai prodotto. E poi c'è "Dellamorte Dellamore", il quale di sicuro non è l'ultimo horror made in Italy; basti pensare a come nel 1997 sarebbero usciti (in sordina, per fortuna) il malriuscito "M.D.C.- Maschera di Cera" ed il raccapricciante "Fatal Frames", a come il mitologico Dario Argento avrebbe continuato a sfornare i suoi deliri para-autoriali per almeno altri 20 anni o a come giovani cineasti imberbi e poco talentuosi (Alex Infascelli, Federico Zampaglione, Gabriele Albanesi) avrebbero di volta in volta tentato di resuscitarne i fasti, ovviamente invano. "Dellamorte Dellamore" è importante, semmai, per un altro motivo: è l'ultimo vero cult che l'Italia abbia prodotto. Il successo in patria è stato ottimo, mentre all'estero, pur non avendo registrato gli stessi numeri, si è nel corso del tempo imposto come un piccolo classico dello splatter grottesco presso i fan più hardcore del cinema d'orrore. E, al di là dell'amore nei suoi confronti, è l'ultimo horror davvero riuscito prodotto in Italia, oltre che l'ultima produzione horror ad avere un budget dignitoso (ben quattro milioni di dollari, superati solo da alcune produzioni di Argento).




Successo e riuscita che trovano, tuttavia, la loro fonte in un altro medium, il fumetto, altra incredibile fucina di culti nel nostro paese anch'essa flagellata dalla perdita di ispirazione. Alla base della produzione c'è infatti il clamoroso riscontro commerciale di un albo che, di certo, non ha bisogno di presentazioni: "Dylan Dog".
Creato nel 1986, il famoso "investigatore dell'incubo" di Tiziano Sclavi sale subito alla ribalta grazie alla sue particolarità: il riprendere stile e stilemi proprio di quel cinema d'orrore nostrano che in quegli  stessi anni andava scomparendo, traducendoli efficacemente sulla carta e aggiungendovi dosi massicce di citazioni colte (sia letterarie che cinematografiche), personaggi memorabili (a partire dall'omonimo protagonista, emaciato, allergico alla tecnologia, playboy infallibile in grado di non spaventarsi dinanzi a nessuna minaccia sovrannaturale, eppure incredibilmente impaurito dall'idea della morte) e metafore sulla società dei consumi facili, ma gustose.




E' stato facile per il pubblico italiano innamorarsi del lavoro di Sclavi: riusciva a dargli quella carica distruttiva ed iconoclasta che al cinema e negli altri media cominciava a svanire. "Dylan Dog" era invece ancora saldamente ancorato ai dettami della letteratura anticonformista, con la violenza sempre pronta ad esplodere, personaggi maciullati, belle fanciulle spesso doppiogiochiste e perennemente nude. Ma il tratto "exploitation" è solo parte del fascino; grande enfasi viene data alla psicologia del suo protagonista, con le sue idiosincrasie, le avversioni contro un mondo cattivo, infestato da mostri e demoni che spesso non sono altro che l'emanazione di una cattiveria del tutto umana, sia essa esterna (avidità, lussuria e cupidigia) che interna (la depressione è un tema ricorrente in molte storie). Un mix che non tutti gli scrittori avvicendatisi nella gestione della testata sono stati in grado di rispettare, ma che quando trova un giusto equilibrio riesce ad essere  travolgente.












Ed è proprio nel 1994 che la "Dylan Dog Mania" raggiunge un apice di popolarità anche presso il grande pubblico: il merchandising ha già invaso ogni settore, rivaleggiando con le griffe dei cartoon e dei blockbuster americani più in voga, pur trattandosi di un prodotto per pochi.
Tempismo perfetto per l'uscita di un film. Ma ciò che rende "Dellamorte Dellamore" una pellicola anomala già dalle premesse è il fatto di non essere la trasposizione su schermo del personaggio di Dylan. Alla base della sceneggiatura c'è infatti un romanzo omonimo che Sclavi scrisse prima di creare il suo celebre personaggio, ma che venne pubblicato solo nel 1991, ottenendo un buon successo. Un romanzo a forma libera, un pò prosa e un pò in versi, con una storia volutamente blanda e sconclusionata, perfetto pretesto per portare in scena un personaggio anomalo, quello di Francesco Dellamorte, camposantaro che divide la sua professione con l'ingombrante amici "Gnaghi", così definito perché si esprime solo a versi. Un personaggio quasi emo nella sua caratterizzazione di perdente nato, ma i cui tratti essenziali, così come il suo interfacciarsi con il soprannaturale, funsero da base per lo sviluppo del futuro Dylan: anche Dellamorte è ossessionato (nomen omen) dal concetto di morte, che lo perseguita non solo nelle forme dei "ritornanti", gli zombie che infestano il cimitero di Buffalora; anche lui guida un maggiolone, adopera un vecchio revolver, condivide la scena con una spalla stramba e passa il tempo cercando di costruire un modellino, nel suo caso non un veliero di balsa, ma un più calzante teschio. Ed il personaggio finirà poi per apparire anche nel fumetto a partire dallo Special n°3, "Orrore Nero", del 1989, ossia poco prima della pubblicazione del romanzo, di cui l'albo è quasi un sunto.
La scelta di trasporre tale romanzo piuttosto che uno qualsiasi degli albi editi dalla Bonelli, benché appaia stramba se si pensa al successo del fumetto, acquista un senso sul piano della scrittura filmica: la rielaborazione dei versi e dei capitoli ben si prestava alla trasposizione. Senza contare come l'universo di "Dylan Dog", con le sue infinite citazioni, bene avrebbe potuto sembrare derivativo e piatto se trasposto su pellicola. Quello della produttrice Tilde Corsi può quindi essere vista come una scommessa: investire un capitale consistente per dar vita ad una pellicola in tutto e per tutto anticonvenzionale, al punto che persino i fan del fumetto, idealmente il pubblico principale, ben avrebbero potuto odiarla. Scommessa che, anche al di là del riscontro di pubblico, può dirsi vinta.





Nelle mani di Michele Soavi, le pagine di Sclavi si colorano con un gusto per il grottesco spinto ancora più marcato; ogni scena splatter viene caricata oltre il livello di guardia sino a sfociare in una sorta di parodia volontaria. La "missione" di Francesco Dellamorte di rispedire nella tomba i non-morti che infestano il suo cimitero diviene così un delirante viaggio nelle viscere delle notte. E Soavi crea una vera e propria pietra miliare di stile nella sequenza del massacro all'ospedale, che per tempistica e gusto per il macabro non sfigurerebbe tra i migliori sketch dei Monty Python. 
Oltre lo stile, "Dellamorte Dellamore" è un film che ha davvero poco a che spartire con la tradizione orrorifica italiana; se i cult di Argento e Fulci (giusto per citare i più celebrati) altro non erano che rielaborazioni più o meno lontane dalla tradizione di registri codificati da altri autori (Hitchcock in primis), Soavi e lo sceneggiatore Gianni Romoli tentano una forma di originalità fondendo il gore con la critica visionaria e un pò folle della società provinciale. La mancanza degli schematismi tipici del thriller, della costruzione narrativa ad indizi e di quella della tensione con climax rende la visione sempreverde: la prova dei due è riuscita, "Dellamorte Dellamore" è davvero una pellicola anticonvenzionale ed in parte originale; ed il risultato è un vero e proprio horror felliniano, simile alla disanima che il grande artista portava avanti con i suoi primi lavori, in particolare "I Vitelloni" (1953). 





Il vero orrore non è quello dei "ritornanti", delle creature più o meno decerebrate che strisciano tra le tenebre e lapidi, ma quello che resta sotto la luce del sole. Personaggi insostenibili, la cui vacuità corrode la mente e la coscienza, si avvicendano dinanzi al povero Dellamorte; come il sindaco, volitivo "politicaccio" tipicamente italiota, che anche da morto non può che cercare di "scalare" la gerarchia, continuando ad infastidire chiunque gli si avvicini. O la gioventù finto-ribelle, flagellata da un incidente stradale talmente violento che potrebbe essere usato con ottimi risultati in qualche campagna mediatica; giovani il cui vuoto mentale ed emotivo è talmente marcato da non riuscire neanche a concepire il distacco o il pericolo, in un'altra sequenza da antologia del grottesco, con la bella dal cuore infranto che, dilaniata dal cadavere rianimato del fidanzatino, esclama: "Non è nulla! Mi sta solo divorando".
Vuoto pneumatico mentale dal quale Dellamorte e il fido Gnaghi tentano di fuggire: lasciano Buffalora ed i suoi orrori terreni solo per fare la scoperta più macabra di tutte: non esiste nulla al di fuori del paesello, il resto del mondo è stato cancellato, o forse l'intero mondo altro non è che la stessa Buffalora, un microcosmo identico al macrocosmo. Realizzazione che ne porta con sé anche un'altra, ancora più truce: tra il bello sfigato ed il grosso idiota in realtà non ci sono differenze.




Perchè Francesco Dellamorte non è Dylan Dog; benchè abbia gli stessi lineamenti e lo stesso fisico, quelli di un Rupert Everett a cui Sclavi si ispirò per la fisionomia ed il carisma del Detective dell'Occulto e qui ancora graziato da una bellezza da sex symbol, Francesco è un uomo timido, che ha paura dell'altro sesso e lo guarda con curiosità. in un misto di attrazione insopprimibile ed inscindibile timore. I suoi sentimenti e la sua caratura mentale, sono come quelli di un adolescente, che idealizza l'amore e lo confonde con il sesso. Da qui l'idea geniale di usare Anna Falchi come interesse amoroso: con il suo fisico da bambolona e gli occhi languidi, ben rappresentava all'epoca il perfetto connubio tra romanticismo e spinta carnalità.





Francesco ha una visione idealizzata della donna, dell'amore e del sesso; da qui la rielaborazione dello stilema hitchcockiano (l'unico in tutto il film) del doppio che ritorna dopo la morte; tutte le figure femminili che incontra hanno il volto ed il corpo della Falchi, tutte rappresentano diverse sfaccettature della visione della dona che un adolescente può avere. La prima è una giovane vedova, una donna a lutto, emotivamente fragile, quasi una fanciulla da salvare; la seconda è una donna smaliziata, volitiva, il perfetto esempio di arrivismo italiano: una manipolatrice totale che arriva finanche ad evirare il suo uomo perché impaurita dalla sua virilità; la terza è la puttana, una donna che vende l'immagine dell'amore, un'attrice che viene pagata un tanto a parola, in grado di regalare solo la parte più immediata di quell'amore tanto agognato. Ed è proprio questa la goccia che fa traboccare il vaso, che fa decidere a Francesco di abbandonare quella Buffalora, quel mondo tuttavia impossibile da fuggire.




Oltre l'amore, c'è solo la rassegnazione, la visione di una morte totalizzante; il cimitero è il setting principale, oltre di esso ci sono solo un pugno di location. La morte diviene dominante, l'estremo opposto di quell'eros sfuggente, al quale il giovane adulto si prostra, lascia che invada i pensieri: non c'è vita senza eros, la morte diviene così parodia della vita, versione corrotta che rispecchia un mondo idiota, privo di appigli ideali o umani. L'ossessione per la stessa si traduce in omicidio, distruzione "anticipata" di quei cadaveri rianimati, dato che tra i morti e i vacui non c'è differenza.





La genialità del film è tutta qui: riuscire con poco a dire molto, usare un registro grottesco misto allo splatter per creare una disanima beffarda di un mondo squallido e lo spaccato credibile di un personaggio simpatetico e al contempo complesso.
"Dellamorte Dellamore" resta così l'ultimo vero esempio di buon cinema italiano di genere; che dal '94 è fermo lì, un guardiano del cimitero che veglia su di un modo di fare cinema oramai morto e sepolto, che di tanto in tanto cerca di tornare alla ribalta in forme simili a quelle sgraziate e putrescenti dei "ritornanti".



2 commenti:

  1. Film storico, è uscito quando avevo 15 anni e ricordo benissimo l'hype dell'epoca... tra i miei coetanei se ne parlava più che altro per le tette della Falchi, te lo confesso :D Comunque è anche all'estero un film ancora molto citato, a testimonianza del suo status di culto

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    1. Avrei voluto esserci per vivere l'hype... altri tempi. E le tette della Falchi saranno pure di gomma, ma meritavano.

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