giovedì 19 gennaio 2017

Fahrenheit 451

di François Truffaut.

con: Oskar Werner, Julie Christie, Cyril Cusack, Anton Diffring, Jeremy Spenser, Bee Duffell, Alex Scott.

Distopico

Inghilterra 1966

















L'amore viscerale di Truffaut per il mezzo letterario non conosce confini; basti vedere quanto sia riuscito a fare con "Jules e Jim" (1962), atto d'amore verso la forma del romanzo che giunge a modificare la grammatica filmica per cercare di darne migliore espressione su pellicola. E nel '66 questa sua passione giunge ad un duplice traguardo; dapprima l'uscita del libro/intervista con il nume tutelare Alfred Hitchcock, tutt'oggi il più bel libro sul cinema mai scritto, lettura obbligatoria per aspiranti filmmaker e cinefili; in secondo luogo quella di "Fahrenheit 451", adattamento (personale ed informale) del romanzo omonimo di Ray Bradbury, riflessione potente sulla necessità del mezzo scritto.
Ma "Fahrenheit 451" è prima di tutto un'anomalia nella filmografia dell'autore, così come nel panorama di quel cinema di fantascienza da lui tanto detestato. Non esisteva, stando alle sue dichiarazioni, un registro realmente espressivo all'interno di quel "genere": le visioni futuribili a base di razzi lunari e pistole a raggi non permettevano di dare forma alla sua visione cinematografica, né di costruire personaggi interessanti o complessi. E di fatto, il progetto di adattamento ha una storia alquanto curiosa.




Inizialmente Truffaut aveva intenzione di produrre un film ad episodi, ciascuno dei quali sarebbe stato diretto da un differente regista, di cui uno ispirato all'opera di Bardbury, con protagonista Paul Newman, che avrebbe diretto lui stesso. Progetto che di fatto mai si concretizzerà. Ma tale esperienza, pur fallimentare, gli permette di venire in contatto con il produttore Lewis Allen, che ne appoggia l'idea di portare su schermo le pagine di "Fahrenheit 451". Avviata la produzione, Truffaut si ritrova, fortunatamente, con il final cut ed una troupe inglese. Il film viene girato totalmente in lingua d'albione e tra i collaboratori che lo affiancano figurano personalità quali Bernard Herrman alle musiche e Nicolas Roeg alla fotografia; il che, tuttavia, non riesce ad arginare forti difficoltà produttive: di fatto, il grande artista si ritrova a dirigere un vero e proprio film su commissione, dove spesso la sua visione, inizialmente più libera, viene spesso ricondotta nei ranghi delle convenzioni (il che è paradossale se si tiene conto dei temi trattati); e come se non fosse abbastanza, i litigi sul set con Oskar Werner divengono presto insostenibili: pur lanciato da "Jules e Jim" e inizialmente in ottimi rapporti con Truffaut, Werner si trovava all'epoca all'apice della fama, dopo aver partecipato a successi quali "La Nave dei Folli" e "La Spia che Venne dal Freddo" nel '65. Problemi che si riverberano incontrovertibilmente sul film. Eppure, "Fahrenheit 451" riesce lo stesso nell'intento di veicolare la visione del suo autore in modo cristallino.




Era facile, all'epoca della sua uscita, rimanere spiazzati davanti a tale visione. Perché il futuro distopico immaginato da Truffaut di futuristico non ha nulla: non ci sono scenografie visionarie, oggetti di scena strambi, né la concretizzazione di una forma immaginativa di una tecnologia di là da venire, come invece avveniva nelle pagine del romanzo (i famosi "segugi meccanici" non vengono neanche citati). Nel guardare al futuro, Truffaut porta in scena il passato; ma a differenza di quanto aveva appena fatto Godard con il capolavoro "Alphaville" (1965), Truffaut non si limita a decontestualizzare scenari ed immagini del presente, bensì a riprendere simboli ed oggetti del passato. Telefoni, cassette della posta, persino l'autopompa rossa, ossia scenografie appartenenti agli anni '20, divengono parte integrante di questa società del futuro. Il setting diviene metafora visiva di una potenza inusitata: in un mondo dove la cultura viene bandita, non si può che regredire.
Il futuro diviene così un deja-vu, una reminiscenza virtuale di fatti già avvenuti. E di fatto, sia Truffaut che Bradbury trovano la loro ispirazione negli orrori del Terzo Reich, i tristemente famosi roghi di libri, tanto che gli stessi pompieri (ora piromani del sapere) con le loro uniformi nere e di pelle, non sono che rielaborazioni degli sturmtrupper nazisti.




L'eliminazione del sapere passa attraverso il bando della parola scritta. Cancellare il ricordo di una conoscenza (storica, filosofica o anche semplicemente personale) significa cancellare la storia stessa, garantendo immortalità allo status quo (come in "1984", dove l'obliterazione del passato diviene la chiave per mantenere la presa politica). Ma la cancellazione del pensiero è anche tramite per una futile ricerca della felicità: bisogna essere tutti uguali per essere felici, la cultura crea disparità (i filosofi si contraddicono, in un secolo insegnano una cosa, in un altro quella opposta, arriva a dire il capitano di Montag), la disparità crea instabilità, sia sociale che personale (Montag arriverà a risvegliare i sentimenti delle amiche della moglie leggendo un romanzo sulle inconciliabili differenze tra partner). Dunque la cultura deve essere distrutta al fine di creare omologazione e quindi pace.




Ma l'omologazione è di per sé stessa distruzione di ogni forza creativa e, di conseguenza umana. Truffaut si affida questa volta non tanto ai dialoghi (invero alquanto convenzionali, forse a causa del fatto di essere stati scritti in francese e poi tradotti in inglese) quanto alle immagini per esprimere le brutture di un mondo dove il conformismo ha destrutturato l'essere umano: file di casette a schiera tutte uguali, dalle quali le persone fuoriescono come automi, monorotaie abitate giovani talmente persi in sé stessi da esprimere la sessualità ed il romanticismo con gesti quasi onanistici; e poi ci sono le immagini televisive, con le antenne divenute un elemento essenziale nei profili delle case (e con le parole degli annunciatori che sostituiscono persino i titoli di testa). La televisione si è evoluta in un essere senziente, una "cugina" memore del "Grande Fratello" orwelliano e antesignana di quello telecratico reale. La televisione vende l'illusione di un rapporto umano, di una famiglia vera che unisce i singoli rintanati nelle loro case, messi in comunicazione per il tramite di un'orrenda sceneggiata che chiama gli spettatori ad interagire, perorandone l'egocentrismo. Ed è questa l'intuizione più spaventosa del film, oltre che la più azzeccata: con 40 anni di anticipo, il regime telecratico odierno trova un'anticipazione e rivedere oggi quelle immagini è ancora più destabilizzante e spaventoso.




In un contesto del genere, Montag (Werner) si ritrova come il classico "ultimo uomo pensante"; ma il suo arco narrativo è quasi opposto a quello del Winsotn Smith di Orwell: la sua indole ribelle non è innata, anzi inizialmente è un pompiere ben ligio al suo mestiere. Questa viene innescata dal suo incontro con la ribelle Clarisse (in maniera simile a quanto accadrà al Sam Lowry di "Brazil", che riprende da Truffaut anche l'intuizione di un "futuro-passato"), vero e proprio doppio di sua moglie Linda (anch'ella interpretata da Julie Christie); il gioco di specchi, uno dei tantissimi rimandi al cinema di Hitchcock con il quale Truffaut ha costellato il film, non è tuttavia una mera contrapposizione tra due personalità opposte: Clarisse non è il bene, così come Linda non è mai genuinamente descritta come un personaggio totalmente negativo; sono al massimo due facce di una singola personalità, quella di Montag, da un lato totalmente immerso nel suo mondo repressivo (abbandonerà il ruolo di piromane solo quando costretto), dall'altro fortemente attratto da un universo proibito.
La riscoperta della parola scritta porta conseguentemente a quella della personalità: "Dietro ogni libro c'è una persona!", ovvero in passato la cultura permetteva una piena espressione del potenziale umano, contrapposta alla disumanizzazione contemporanea (tanto che alla fine, per salvare la faccia, il sistema ucciderà un doppio di Montag, ossia una pura immagine virtuale). Il libro diviene così la metafora della persona distrutta dal sistema. Ed infatti, Truffaut descrive i roghi dei libri come cacce all'uomo (tra gli scritti figurano Kafka, Vladimir Nabokov, Tolstoj, Jean Genet, l'amato Balzac, Collodi e persino un numero dei Cahiers du Cinema) e inquadra le pagine che bruciano come se fossero esseri umani agonizzanti, in immagini strazianti.




E come nella tradizione del cinema di Truffaut, la ribellione non porta automaticamente alla vittoria del singolo, ma solo ad un cambio nella sua vita che lo volge verso l'ignoto. L'incontro con "l'hommes livres" (assonanza con "hommes libres" che si perde nella versione inglese, sostituita dal blando "book people/good people ma viene per fortuna ripristinata nella versione italiana) segna la scoperta con una nuova società distopica, figlia di quella più intollerante della città; ogni singolo uomo diviene il mezzo per la preservazione della cultura, non un essere umano fatto e finito; da una società di automi si passa ad una di "magazzini del pensiero", dove perlomeno vive la speranza di un futuro migliore, dove la cultura possa nuovamente affermarsi e l'essere umano "rinascere".




"Fahrenheit 451" è anche il primo film a colori per Truffaut, che sperimenta con l'aiuto di Roeg una serie di palette particolari: ai rossi vibranti vengono giustapposti colori smorti, come grigi e neri, per gli esterni; mentre gli interni sono immersi in cromature più morbide ma anch'esse prive di anima, come le coscienze svuotate dei personaggi. Ma la messa in scena risente delle ingerenze produttive: con immagini pur potenti ed evocative (il rogo della signora, il sogno delirante di Montag), Truffaut si trova a dover creare un adattamento più convenzionale, lontano dalle intuizioni grammaticali di "Jules e Jim"; una riduzione meno geniale di quanto fatto in passato, dove però l'immagine diviene il perfetto mezzo espressivo, forse a causa dell'incapacità dell'autore di lavorare con una troupe inglese (a differenza di Godard, Truffaut non parlava inglese).
Ma pur con tutti i suoi limiti, "Fahrenheit 451" è comunque un'anomalia riuscita: una metafora potente portata in scena con gusto, a discapito del poco amore che l'autore riversava nei suoi confronti.

2 commenti:

  1. Sono sempre stato affezionato al romanzo di Bradbury, ho visto il film poco dopo averlo letto, ai tempi delle superiori, e mi colpì molto. Resta la curiosità (e il rimpianto) di sapere cosa avrebbe potuto essere il film se Truffaut avesse potuto girarlo in completa libertà. Bella analisi, comunque

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