mercoledì 17 febbraio 2021

Notizie dal Mondo

News of the World

di Paul Greengrass.

con: Tom Hanks, Helena Zengel, Micahel Angelo Covino, Paul Astor, Thomas Francis Murphy, Andy Kastelic, Bill Camp, Ray McKinnon, Mare Winningham, Elizabeth Marvel.

Usa, Cina 2020














Dopo la cronaca amara di "22 Luglio", Paul Greengrass torna al cinema e a collaborare con Tom Hanks in quello che è in tutto e per tutto il suo film più singolare. "Notizie dal Mondo" è infatti un film in costume, lontano dai canoni del realismo proprio del suo cinema, che abbraccia un racconto classico per farne metafora dei tempi che corrono ma, prima ancora e soprattutto, semplice storia di due personaggi persi.


1870. Jefferson Kyle Kidd (Hanks), ex capitano confederata, gira il sud degli Stati Uniti leggendo le ultime notizie ai locali. Durante uno dei suoi spostamenti, incappa nella piccola Johanna (Helena Zengel), orfana di origini tedesche ma cresciuta dai Kiowa che stava per essere riportata alla sua famiglia, quando il suo carro è stato attaccato. Kidd decide così di scortare la ragazzina verso la sua nuova famiglia, ma il viaggio, di 400 miglia, si rivelerà irto di ostacoli e pericoli.


Il viaggio come metafora di cambiamento, di evoluzione interiore. Kidd e Johanna scappano entrambi da un passato in frantumi, una famiglia che non esiste più, in cerca di una nuova. Entrambi trovano l'un l'altro, ovviamente, un piccolo nucleo familiare il cui legame si salda facendo fronte alle difficoltà comuni. Storia "classica" che più classica non si può, che Greengrass snocciola nel modo più "classico" possibile, lasciando le metafore sullo sfondo e tenendo in primo piano i personaggi e la narrazione.


Nel loro cammino, i due protagonisti attraversano un'America ancora divisa che, ieri come oggi, sguazza nel razzismo e nell'ottusità. Se lo scontro tra texani e yankee è del tutto ordinario, colpisce la sequenza ambientata nella contea di Farley, dove il signorotto locale usa la segregazione come mezzo per poter dominare le folle. La conoscenza diviene così la chiave per l'emancipazione dei lavoratori sfruttati e lasciati all'oscuro del cambiamento sociale ed è qui che la metafora con il mondo moderno si fa forte: anche in un mondo globalizzato ed in cui le distante si sono azzerate grazie ai mass media, ci sarà sempre bisogno di una voce che racconti alle moltitudini la realtà per ingenerare in loro una catarsi.


Abbandonato lo stile sincopato e naturalista al cui è solito, Greengrass si rifà apertamente al cinema classico per portare in scena la storia. La sua regia è misurata e precisa, forse fin troppo, risultando a tratti piatta quando avrebbe potuto essere ben più scenografica. D'altro canto, in una storia dove a contare sono i personaggi più che le azioni, forse non è un male e "Notizie dal Mondo" resta un racconto asciutto e riuscito.

lunedì 15 febbraio 2021

Wonder Woman 1984

di Patty Jenkins.

con: Gal Gadot, Chris Pine, Kristen Wiig, Pedro Pascal, Robin Wright, Connie Nielsen, Lilly Aspell.

Avventura/Fantastico

Usa 2020















E' strano notare come il pubblico abbia reagito in modo contrastante a "Wonder Woman 1984"; non tanto perché la seconda fatica di Patty Jenkins con l'amazzone di casa DC sia un film perfetto, tutt'altro; ma pur al netto di una direzione priva di guizzi, questo "1984" è un film molto più riuscito di quanto si voglia ammettere. E questo perché, prima ancora di essere la seconda avventura per il grande schermo di una delle super-eroine più amate di sempre, è, in buona sostanza, una gigantesca decostruzione del culto degli anni '80; azione "sconcertante" per un pubblico abituato ad idolatrare il decennio più controverso del XX secolo.


In questo il film è sincero sin dalle prime battute: tolto il prologo ambientato a Themyscira, la prima sequenza introduce l'ambientazione storica in modo diretto, sottolineandone gli aspetti peggiori. Al di sotto dei colori sgargianti e dei costumi vistosi, batte forte il cuore del decennio dell'edonismo e del consumismo massificato, con obesi che si rimpinzano fino a scoppiare e patite di fitness che praticano posizioni maliziose nel bel mezzo di un centro commerciale. 
L'intera tematica del film, con la caccia al mcguffin di turno, ruota attorno al concetto di desiderio: cosa si è disposti a sacrificare pur di vedere realizzati i propri sogni? La risposta è semplice: nel decennio dello yuppismo e della reaganomics si è pronti a distruggere l'intero mondo in nome dell'affermazione individuale.


Da qui la caratterizzazione dei due villain. Maxwell Lord, da copia-carbone di Lex Luthor, diventa un imprenditore rampante che accumula la fortuna usando il nulla, crea un impero finanziario senza davvero vendere o possedere nulla, perfetta metafora dell'economia finanziaria. Oltre a ciò, Lord è un essere che si nutre dei desideri altrui, che trae potere dalla cupidigia dell'uomo comune così come del potente, che arriva persino a sacrificare il proprio corpo pur di raggiungere un potere assoluto nel senso più estensivo del termine: la sua è una ricerca del potere per il gusto di avere potere, un'accumulazione che non ha fine se non che con la distruzione totale di tutto ciò che esiste.
Più ordinaria, invece, la caratterizzazione di Cheetah/Barbara Minerva, che ricade nel luogo comune proprio del comic-movie del nerd innamoratosi del modello del supereroe, il quale aspira a divenire come lui trasformandosi in una sorta di suo riflesso oscuro, come l'Enigmista di "Batman Forever" e l'Electro di "The Amazing Spider-Man 2"; per fortuna, la bellezza e la bravura di Kristen Wiig rendono il personaggio credibile.


La cupidigia, questa volta, non risparmia neanche l'eroe, la quale è chiamata ella stessa a rinunciare a ciò che più desidera per salvare la situazione; se la scelta di riportare in vita Steve Trevor appare ovvia anche per la sola alchimia che caratterizzava le performance di Gal Gadot e Chris Pine nel primo film, riuscito è anche il momento dell'addio tra i due, che culmina non solo nella maturazione della protagonista, ma anche nella sua "ascesa" al volo, metafora della sua crescita spirituale prima ancora che umana.
Certo, tutta l'operazione è condotta in modo semplicistico e basilare, non ci sono sfumature di grigio vero e proprie, solo buoni e cattivi che, pur essendo tali per un malriposto senso di superiorità, non cercano di compiere il bene tramite il male, sono irredimibili e solo l'intervento dell'eroe può salvarli da se stessi. Eppure, anche da questa prospettiva facilmente definibile come "ingenua" e "bambinesca", il film funziona, forse proprio perché vuole essere tale, una critica basilare e priva di compromessi, votata forse ad educare il pubblico più giovane, per questo irrimediabilmente riuscita.


Se sul piano della storia il lavoro della Jenkins e di Geoff Johns è encomiabile, più ordinaria è la direzione generale. La regia è buona, migliore rispetto al prequel grazie ad un uso più sapiente della messa in scena delle sequenze d'azione, ma non riserva sorprese di sorta; tutto è ordinario, pulito e preciso quanto si vuole, ma anche piatto, con nessuna sequenza in grado di sorprendere davvero. Un ecomio va però fatto per aver riuscito nel rendere credibile un concetto bislacco come quello del jet invisibile, che rischiava davvero di annullare la sospensione dell'incredulità. E al resto pensa il cast, dove, per forza di cose, spicca un Pedro Pascal semplicemente fantastico, che interpreta il villain come un Bill Murray a briglia sciolta.
Pur essendo tutto sommato poco memorabile, va riconosciuto il valore di questo sequel che, in fondo, dimostra più coraggio di tante altre produzioni simili.

martedì 9 febbraio 2021

Malcolm & Marie

di Sam Levinson.

con: Zendaya, John David Washington.

Usa 2021





















C'è tanto Godard in "Malcolm & Marie", tanta voglia di inseguire i personaggi in uno spazio chiuso per metterli di fronte ai propri limiti, sia personali che di coppia; così come ci sono rimandi a John Cassavetes, come il bianco e nero che pare uscito dritto dritto da "Ombre", e persino una strizzatina d'occhio al Kubrick di "Eyes Wide Shut". C'è la voglia, urlata a squarciagola, di un cinema intimo e autoriale, forse fin troppo, tanto che alla fine tutto diviene artefatto, fasullo, perfettamente messo a fuoco e inquadrato, magnificamente interpretato e per questo sempre e comunque falso. Un falso che, cosa inescusabile, appare sempre tale e si palesa soprattutto quando Sam Levinson tenta di intrecciare un discorso sul cinema con quello sulle relazioni, creando un kammerspiel bello e inerte.


La storia, al solito, è semplice: dopo la trionfante premiere del suo ultimo film, il regista indie Malcolm (John David Washington) rincasa con la fidanzata e musa Marie (Zendaya) e tutta la tensione rimasta sotto pelle durante la serata esplode con forza, portando i due ad un confronto serrato sulle mancanze reciproche.
Sembra di vedere una versione moderna della sequenza centrale de "Il Disprezzo": il rapporto di coppia crolla sotto il peso del non-detto, delle azioni date per scontate quando invece portano con se implicazioni enormi sul piano emotivo e del rancore a lungo sopito ma mai dissolto. Levinson, come Godard, si diverte a seguire questa coppia di artisti, regista lui, modella e aspirante attrice lei, mentre si rincorrono tra le quattro mura domestiche, usando talvolta movimenti di macchina cesellati al millimetro, talaltra e più spesso una camera a mano che ne vorrebbe inglobare i volti.


La descrizione di un rapporto malato e a pezzi risulta credibile. Malcolm viene accusato di essere un manipolatore, un uomo che carpisce la vita altrui e la rielabora per fini personali, per creare quel cinema fatto di emozioni portato in scena da chi, borghese agiato, quelle emozioni non le ha mai provate, un cinema fatto di drammi mai vissuti ma rubati dal partner di turno. Marie viene accusata di essere un'egocentrica, una donna che deve avere su di se tutte le attenzioni del caso, ma che non vuole sopportarne le conseguenze. Il rapporto che li lega, dapprima in crisi, esce rafforzato dal confronto violento tra i due, i quali imparano come proprio quelle differenze e quei difetti che si rimproverano a vicenda sono ciò di cui la loro attrazione si nutre. Non si assiste, così, ad una dissoluzione, quanto ad una rinascita dell'attrazione.


Se il confronto tra i due personaggi è vivo e credibile, il merito è soprattutto degli attori; e se John David Washington non fa altro che confermare un talento del quale aveva già dato prova, la rivelazione è Zendaya, qui quanto mai bella ed espressiva, una perfetta maschera drammatica che incapsula le emozioni per lasciarle esplodere un po' alla volta, riuscendo sempre a colpire. Meno ispirati sono i dialoghi, talvolta apertamente didascalici, tradendo una teatralità di scrittura troppo ingombrante.
La descrizione dei personaggi, alla fin fine, riesce, cosa che non si può dire del discorso meta-cinematografico.


Malcolm è un artista di colore in un mondo che sembra dare spazio agli artisti di colore per puri motivi politici. Sam Levinson affronta a volto aperto l'ipocrisia di un sistema hollywoodiano che celebra artisti solo per moda (si fa il nome di Spike Lee, ma per ovvi motivi è quello di Barry Jenkins che pesa di più). Allo stesso modo, viene lanciato un j'accuse contro tanta critica snob che elogia la veridicità delle storie senza saperne percepire il racconto per il quale vengono narrate: tanta enfasi, nelle recensioni, è posta su personaggi e trama, davvero poca sulla messa in scena.
Critiche urgenti e condivisibili, ma che cascano a vuoto quando si tiene conto che Levinson, per quanto suoni brutto sottolinearlo, non è un regista di colore e Malcolm non è un suo doppio. Levinson è un bianco e per quanto giusto e sensibile possa essere, un discorso del genere fatto da lui risulta, per forza di cose, artefatto, un puro sfogo incapace di generare un vero dibattito o anche una minima catarsi su di un argomento scottante.


Il racconto finisce così per afflosciarsi senza colpire davvero. Levinson ha la mano abbastanza ferma, soprattutto come regista, ma questo non basta a rendere davvero memorabile quello che, alla fin fine, non è altro che un pastiche autoriale anche un po' compiaciuto.

giovedì 4 febbraio 2021

Il Sacrificio del Cervo Sacro

The Killing of a Sacred Deer

di Yorgos Lanthimos.

con: Colin Farrell, Nicole Kidman, Alicia Silverstone, Barry Keoghan, Sunny Suljic, Barry G.Bernson, Bill Camp, Denise Dal Vera.

Irlanda, Inghilterra, Usa 2017













Sin dal suo esordio, Lanthimos ha sempre cercato di intessere narrazioni fortemente metaforiche che tramite trame smaccatamente surreali e surrealiste cercassero di dare uno spaccato al vetriolo della società o dello stato dell'essere umano. Il che non avviene ne "Il Sacrificio del Cervo Sacro", vero e proprio thriller psicologico nel quale né lui, nè il fido sceneggiatore Efthimis Filippou sembrano controllare i risvolti di una storia forte e provocatoria.


Steven (Colin Farell) è un rinomato chirurgo che stringe una strana forma di amicizia con il giovane Martin (Barry Keoghan), figlio di un suo paziente morto durante un'operazione. Martin, tuttavia, non è ciò che sembra e, dopo essersi introdotto nel nucleo familiare del medico, lo avvisa che i suoi cari sono stati colpiti da una maledizione: spetta a Steven scegliere chi tra la moglie (Nicole Kidman) e i due figli (Raffey Cassidy e Sunny Suljic) sacrificare affinché gli altri si salvino.


Sul tono, Lanthimos è chiaro sin dalla prima inquadruta: un cuore pulsa durante un'operazione a torace aperto direttamente sul volto dello spettatore. Il racconto sarà duro e privo di compromessi, come nella tradizione non solo dell'autore, ma anche della sua fonte di ispirazione principale, ossia il cinema di Michael Haneke. Ora, anzi, è anche più duro che in passato: Lanthimos non lesina dettagli rivoltanti, né si tira indietro dinanzi alla violenza che, sopratutto psicologica, è presente in tutte le scene. Come "Funny Games" e "Benny's Video", anche "Il Sacrificio" è un vero e proprio atto di sadismo verso i personaggi e, prima ancora, verso lo spettatore, chiamato a non distogliere mai lo sguardo dai drammatici eventi.


Una serie di eventi che si rifà alla tragedia greca classica, l' "Ifigenia" in particolare, dove un padre è costretto a scegliere chi sacrificare alla forza maligna evocata per poter salvare il resto del nucleo familiare. Un uomo solo, patetico e nudo, dinanzi a eventi catastrofici e ineluttabili. Steven, così come sua moglie e i due ragazzi, sono persone comuni, con pregi e difetti, mentre Martin è l'elemento di disturbo, un personaggio infido e apertamente bugiardo, che decide di distruggere ciò che non può possedere. Il suo è un male banale, quasi sciocco nella sua infantilità e in questo Lanthimos trova un in interprete perfetto in Barry Keoghan, che con il suo viso slavato e lo sguardo sinistro appare davvero come un infante arrabbiato.
Lo stile, d'altro canto, si rinnova e trova nelle carrellate lo strumento prediletto; la dinamicità dell'inquadratura è inarrestabile quanto gli eventi e la regia si diverte a seguire in modo vorticoso i personaggi in un andirivieni quasi ludico, quasi uno sberleffo verso il tono drammatico, saggiamente controbilanciato da un commento musicale estremo, alieno nei suoni opprimenti.



Se il tono è perfetto e si rimane sempre incollati alle ipnotiche immagini, regista e sceneggiatore non riescono a dire nulla di particolare con questa sinistra storia. Laddove "Dogtooth" era una metafora sugli orrori dell'educazione familiare votata all'estremo, "Alps" un saggio sugli effetti deleteri della mancata elaborazione del lutto e "The Lobster" uno sfregio alla cultura dell'accoppiamento forzato, "Il Sacrificio" non sa cosa davvero vuole essere. Non un trattato sulla banalità del male, visto che la maledizione viene formulata per vendetta, non uno spaccato sulla ferocia della giustizia karmica, visto che la colpa del protagonista non viene mai davvero accertata, né un ritratto sulle ipocrisie del gruppo familiare, il quale resta invera sempre unito, nonostante qualche comprensibile risvolto egoista.



Nel riproporre strutture e tematiche della tragedia classica in una chiave ai limiti dell' horror, Lanthimos crea semmai un perfetto meccanismo di genere condotto con mano autoriale, un ottimo thriller d'autore che riesce a parlare al ventre in modo diretto e costante. E' questo, però, pregio e limite: se da un lato il film per sé è godibile nella sua cattiveria, l'operazione non è del tutto riuscita, lasciando appunto da parte tutti i possibili significati attribuibili ad una storia del genere.