lunedì 9 novembre 2020

Alps

Alpeis

di Yorgos Lanthimos.

con: Stavros Psyllakis,  Ariane Labed, Arsi Servetalis, Johnny Vekris, Angeliki Papoulia, Efthymis Filippou.

Grecia, Francia, Canada, Usa 2011















Contrariamente a quanto si possa credere, il termine "persona" non indica direttamente il soggetto al quale si riferisce, ma alla sua personalità, a quell'insieme di identità e tratti caratteriali direttamente e facilmente riconoscibili all'esterno. Il termine stesso deriva dalla maschera usata nel teatro etrusco, ossia un oggetto che identifica "all'esterno" un essere umano di per sé stesso indeterminato, rendendolo conoscibile e riconoscibile dal pubblico.
Su questa dicotomia tra "essere" e "apparire" della persona, già sapientemente sviscerata da Bergman nel suo omonimo capolavoro, Lanthimos e il fido sceneggiatore Efthymis Filippou intessono una riuscita riflessione descrittiva sul rapporto tra l'individuo e i suoi cari e sulla sostituibilità dell'essere umano.



Quattro infermieri, privi di un nome proprio e che si identificano tra loro solo con i nomi dei picchi delle Alpi, offrono un singolare servizio, ossia il rimpiazzo virtuale del parente defunto, il quale viene "interpretato" nella sua quotidianità da uno di loro a scelta, come attori all'interno del palco del reale.
Persino i loro dialoghi ruotano attorno a chi sia l'attore preferito del loro interlocutore; e il loro nome, "Alpi", indica qualcosa di unico, inimitabile ossia non sostituibile, una beffarda allusione al ruolo di doppi che vanno a ricoprire.


La persona, sia intesa in quanto insieme dei tratti caratteriali che come essere umano, può essere ridotto ad una serie di gesti precisi, di attività e di parole. Il suo è, appunto, un ruolo recitato in un palco che non ha quinte o quarta parete; ne consegue la sostituibilità dell'interprete, ossia dell'essere umano ai quali gesti e parole sono attribuiti. Una volta morto un attore, questi viene sostituito da un altro, un soggetto al quale basta imparare il "copione" per svolgere lo stesso ruolo all'interno del nucleo familiare o relazionale. La persona, così intesa, non muore mai, può idealmente continuare a recitare la sua parte in eterno, ogni volta con un corpo e un volto diverso.



I quattro attori vengono così un po' alla volta svuotati della loro identità per essere riempiti da quella del caro estinto. Tuttavia, laddove l'identità è data da un mero insieme di gesti, si può davvero parlare di semplice sostituzione? Fin dove arriva quella interpretata e dove quella di chi la interpreta?
A differenza di Bergman, Lanthimos non cerca risposta a questo quesito, si limita ad osservare questo gruppo di individui collassare su sé stessi a causa di questa loro macabra attività. Non si sofferma neanche sull'elaborazione del lutto da parte dei committenti, lasciando che siano sempre gli attori ad occupare il racconto.



Il quale, sempre saldamente descrittivo, non trova una catarsi nel vero senso della parola, ma una reiterazione del concetto di "falsa identità" e dell'intercambialità della medesima. Se, da un lato, il personaggio di Angeliki Papoulia ha una crisi che la porta a trincerarsi meccanicamente all'interno dei suoi ruoli, quello di Ariane Labed, che pur ha un'identità propria determinata, inizia a vivere la medesima al pari dei ruoli che dovrebbe interpretare, danzando in modo meccanico e recitando battute ripetute sino alla nausea.



L'occhio di Lanthimos è al solito distaccato, alternandosi tra una plasticità nei campi lunghi inedita e in piani stretti claustrofobici, che ricercano una forma di veridicità vouyeuristica come nel precedente "Kynodontas". E la sua riflessione, glaciale e quasi ineluttabile, disturba nel profondo, riuscendo a lasciare positivamente spiazzati.

Nessun commento:

Posta un commento