giovedì 29 settembre 2022

Blonde

di Andrew Dominik.

con: Ana de Armas, Xavier Samuel, Evan Williams, Adrien Brody, Sara Paxton, Bobby Cannavale, Julianne Nicholson, Toby Huss, Lily Fisher, Caspar Phillipson.

Usa 2022
















Nel libro omonimo di Joan Carol Oates è riportato a caratteri cubitali come "Blonde" non sia una biografia ufficiale su Marilyn Monroe, quanto una storia ispirata alla sua vita. E la stessa cosa vale, di conseguenza, per il film di Andrew Dominik, che ne adatta le pagine in quasi tre ore e arriva su Netflix dopo un'accoglinza "divisa" al Festival di Venezia.
Una produzione complicata, che ha subito ritardi a causa dell'emergenza Covid, che ha perso più volte il volto principale, passando da quello di Jessica Chastain ad Ana De Armas, passando per Naomi Watts. E che Dominik dirige dopo anni di assenza dal cinema di fiction, a seguito del flop dello strano "Cogan- Killing them Softly" del 2013.
Quindi, se non si tratta di un biopic, cos'è davvero "Blonde"? 
Semplice: un ritratto a tinte fortissime di Norma Jean Baker, la donna dietro la maschera di Marilyn.



Perché la storia di Marilyn non è un semplice dramma, non è forse una comune tragedia umana consumatasi sotto le sfavillanti luci di Hollywood, quanto un incubo ad occhi aperti causato sia dai traumi, infantili e non, che dalla scissione di personalità tra la persona ed il personaggio. Non per nulla, fu proprio Tony Curtis a parlarne in tempi non sospetti, proprio lui che aveva conosciuto e amato Norma Jeane prima del successo e che si ritrova a lavorare con Marilyn Monroe alla fine degli anni '50 sul set del capolavoro "A qualcuno piace caldo", accorgendosi di come quella diva sia una persona diversa e non solo a causa delle tribolazioni che aveva affrontato e continuava ad affrontare fuori dal set.




La vita di Norma Jeane diventa così un vero e proprio film dell'orrore nel quale la protagonista viene risucchiata in un vortice di violenza, sopraffazione e distruzione. Dominik, riguardo la sua figura, è stato chiaro, definendola come la Afrodite del XX secolo che si è suicidata, sottolineandone la natura autodistruttiva. Ma nel suo ritratto, la distruzione è anche eteroindotta, causata in primis dagli abusi materni, ferita che si porterà a vita, in secondo luogo dal trauma degli aborti, con la prospettiva di una maternità come salvezza che viene puntualmente negata, in una spirale di violenza che continua a ripetersi sino alle estreme conseguenze.
Norma Jeane diventa così una donna distrutta dal dolore che si traveste da bomba sexy per mascherare il male interiore, restando costantemente alla ricerca di un amore che colmi l'assenza del padre. 




Marilyn Monroe è la maschera, un personaggio creato per essere dato in pasto al pubblico affamato di carne, quei fanatici dalle fauci costantemente spalancate e pronte a divorarla, perennemente armati di macchina fotografica puntata su di lei. 
Una maschera deformata e deformante, non una semplice facciata quanto una personalità nuova che contiene tutti gli elementi che il pubblico vuole vedere e solo quelli, ossia una bellezza sfolgorante appaiata ad un carattere da "stupidina" che la rende ancora più appetibile. Tanto che non c'è differenza con i ruoli che ricopre, i quali servono solo a regalare al pubblico quel corpo sensuale, quel sorriso smagliante, quella bellezza esagerata. Non per nulla, è lo stesso Dominik a confessare di non amarne i film (a parte ovviamente "A qualcuno piace caldo"), tacciandoli di essere sessisti.




Nel privato, le relazioni con Charlie Chaplin Jr., Joe DiMaggio e Arthur Miller diventano una rincorsa verso quel vuoto che la attanaglia. Il primo è lo spirito affine, persona distrutta da una figura paterna fin troppo presente, nemesi di quella di Norma, nella quale la donna trova una comunione umana prima ancora che fisica. Il secondo è quel padre che non ha mai avuto, il quale finisce per strangolarla quando non ne accetta lo status di sex symbol. Il terzo è il compagno ideale, l'unico che vede la persona dietro la maschera, la donna dietro il dolore e che ne apprezza le doti intellettuali prima ancora che quelle fisiche.




E poi c'è quella strana scena con John Kennedy, la quale non si capisce cosa davvero stia a significare. La relazione con JFK e Robert è cosa nota oggi come ieri ed è stata probabilmente questa a portarla alla morte, a prescindere dal fatto che si creda o meno al suicidio. Ma Dominik (così come la Oates prima di lui) riduce il rapporto ad una semplice sopraffazione fisica, descrive John come un mero stupratore seriale ed arriva finanche ad eliminare del tutto la figura di Robert. Il quadro che ne emerge è desolante, non tanto per la presunta lesa maestà verso la figura di un presidente fin troppo idolatrata dal pubblico, quanto per l'assoluta inconsistenza: la relazione con i Kennedy era un affare ben più complesso, l'averla reinquadrata come lo stupro di un uomo verso una bella donna non rende giustizia al reale e nell'economia del racconto risulta ridondante, gicché le violenze carnali subite da parte dei produttori già avevano trovato spazio nella prima parte del racconto; così come del tutto fuori luogo è la sequenza successiva, onirica e ai limiti del ridicolo, dell'aborto violento perpetrato dalla CIA e portato in scena come uno strambo episodio di "X-Files".




Scelta narrativa ed estetica che lascia confusi, soprattutto se si tiene conto di come altrimenti Dominik padroneggi storia e racconto. Usando scatti d'epoca e interviste come modello, ricrea il mondo di Marilyn come una serie di immagini glamour, le quali sono però ammantate da un tono perennemente cupo, magistralmente sottolineato dalle splendide note di Nick Cave e Warren Ellis. Mentre Ana De Arms è una Marilyn intensa e credibile, nonostante la figura troppo snella se paragonata a quella più prorompente della diva.
Tanto che alla fine, tolta la spiazzante scelta di rileggere l'affair Kennedy in modo strambo, "Blonde" è una perfetta fotografia espressionista di un'anima persa, un biopic che non è biopic quanto descrizione del subcosciente di una personalità borderline che ne restituisce appieno il dolore e le contraddizioni. Bello e tutto sommato riuscito.

martedì 27 settembre 2022

La Nota Blu

La Note Bleue

di Andrzej Zulawski.

con: Janusz Olejniczak, Sopihe Marceau, Marie-France Pisier, Noëmi Nadelmann, Féador Altkine, Aureliéne Decoing, Benoit Lepecq, Roman Wilhelmi, Grazyna Dylag, Redjep Mitrovitsa, Clémente Harari, Moussa Théophile Sowie.

Biografico

Francia, Germania 1991










Zulawski e Chopin hanno alcuni tratti essenziali comuni impossibili da non notare: entrambi sono grandi artisti polacchi perseguitati e incompresi nel paese d'origine ed entrambi sono stati adottati dalla più aperta Francia, dove hanno trascorso buona parte della loro esistenza.
Il lascito di Chopin è immane, ma anche quello di Zulawski non è da sottovalutare: si sta pur sempre parlando di uno dei cineasti europei più famosi e importanti della sua epoca.
L'incorcio tra i due era quindi quasi d'obbligo. E con "La Note Bleue" Zulawski fa anche di più, cerca di dare forma al tormento degli ultimi giorni del grande pianista, di comprenderne a fondo la psicologia e le passioni e, al contempo, di trovare in lui un ideale doppio nel quale specchiarsi, ovviamente nei limiti del possibile. Ma questo suo biopic d'autore, pur ben eseguito, non riesce a dar piena forma alle grandi ambizioni.




Chopin ha il volto del pianista Janusz Olejniczak, il quale esegue personalmente le partiture originali dell'autore con adeguato trasporto; ma Zulawski non si concentra direttamente su di lui, arrivando persino a celarlo per i primi minuti del film. Piuttosto il suo sguardo si concentra su chi lo circonda e sulle relativa relazioni e su come queste si riflettano nel suo stato d'animo. Non un biopic convenzionale, quindi e come era intuibile, ma un'opera che scava nella psiche del personaggio per tirarne fuori emozioni e pensieri talvolta repressi.
Il rapporto più importante è quello con la compagna George Sand (Marie-France Pisier) e la di lei figlia Solange (Sopihe Marceau); in una ripresa di un registro romantico d'antan, la prima è la dannazione, la seconda la salvezza.




George è una donna matura, dai comportamenti stizzosi e mascolini, che preludono ad un carattere in realtà volubile e umorale, segnale di un'indole possessiva che si sostanzia nella distruzione dell'oggetto dell'amore, nella reclusione di Chopin, addirittura in una dark room bardata di rosso, colore che lo spaventa e coincide con quella morte temuta e inesorabile.
D'altro canto Solange, giovane e irrequieta, è un angelo dalla bellezza sfolgorante che ama l'artista di un amore puro, quello che solo un'adolescente può provare.




Zulawski circonda il suo Chopin anche di alcune delle figure artistiche più influenti dell'epoca; Eugene Delacroix (interpretato da Féador Altkine) è un personaggio fisso ed ha qui l'ispirazione per la sua rappresentazione della "Divina Commedia", mentre un'intera sequenza è dedicata alla visita di Alexandre Dumas figlio (Redjep Mitrovitsa) e la genesi del celebre dramma "La Signora delle Camelie"; spazio viene anche dedicato alla "forma" dell'arte, con i numi tutelari "Demogorgone" (Clémente Harari) e "Carambé" (il compianto caratterista di origine senegalese Moussa Théophile Sowie), ma il fulcro resta l'asse relazione del pianista con le sue due amanti, con la conseguenza che queste figure, talvolta fantasmatiche, finiscono per risultare superflue e fuori luogo. E nonostante la moltiplicazione di personaggi e situazioni, la regia dell'autore polacco è questa volta più controllata, meno incline al virtuosismo o alla carica visionaria nonostante i dialoghi sferzanti e le interpretazioni sopra le righe.




Il risultato è un racconto privo di focus, che rimbalza tra un protagonista ai limiti dell'anonimo ed un gruppo di personaggi caricaturali, dai tratti talmente marcati da sembrare figurine iperboliche. Dove di racconto c'è davvero poco, girando in tondo su un paio di concetti in croce ribaditi per oltre due ore. Tanto che si arriva alla noia già a pochi minuti dall'incipit.
Zulawski inciampa, così, in una storia forse priva di vera ispirazione e firma un biopic certamente originale, ma del tutto malriuscito.

lunedì 26 settembre 2022

Athena

di Romain Gavras.

con: Dali Bensallah, Sami Slimane, Anthony Bajon, Oussani Embarek, Alexis Manenti, Karim Lasmi.

Francia 2022

















---CONTIENE SPOILER---


Quello francese è un modello di (mancanza di) integrazione sbagliato: non si possono ghettizzare gli immigrati nelle periferie, non si possono creare quartieri appositi per gli "indesiderati" dove lasciarli sguazzare nella misera e nella più totale assenza delle istituzioni. La conseguenza di una forma del genere è la divisione netta tra razze, una distinzione iniqua e intollerabile in qualsiasi società civile che porta alla contrapposizione tra "noi" e "loro", la quale a sua volta si sostanzia in una conflittualità insostenibile, una polveriera pronta ad esplodere in qualsiasi momento e per il minimo pretesto.
Romain Gavras, figlio di Costa-Gavras, non è certo estraneo alla tematica. Già nel 2008 aveva scosso l'opinione pubblica con il videoclip di "Stress" dei Justice, dove portava in scena una banda di ragazzi di strada, principalmente di etnia africana, che si divertiva a molestare i passanti, palpare una donna e picchiare a sfregio degli innocenti nelle banlieue, oltre che a distruggere qualsiasi cosa capitasse a tiro. Video che ha suscitato parecchie polemiche, ovviamente, e che sembrava volesse creare un ritratto apertamente razzista e intollerante sia degli immigrati che degli abitanti delle tristemente famose periferie parigine.
"Athena" arriva anni dopo. Nel frattempo Gavras ha esordito nel lungometraggio e ha portato in scena altre storie di violenza, sopraffazione e discriminazione, come in "Our day will come", nel quale ribalta la prospettiva ponendo al centro atti di violenza perpetrati contro i "per di carota", o ne "Il Mondo è tuo", dove rielabora le ispirazioni sociologiche in chiave gangster-movie. Qui, invece, ricerca una chiave realistica e riesce tutto sommato a restituire l'urgenza e la complessità delle tematiche.


Tutto parte dall'omicidio, impunito, di un ragazzo da parte della polizia. I suoi fratelli, residenti nel complesso periferico di Athena, reagiscono diversamente all'accauto. Karim (Sami Slimane), il più giovane e irrequieto, organizza una protesta che sfocia in guerriglia armata e, dopo aver assaltato il distretto di polizia, si asserraglia con i suoi seguaci all'interno del complesso, portando avanti una rivolta violenta. Abdel (Dali Bensallah), poliziotto e musulmano praticante, cerca di mantenere l'ordine all'interno del quartiere e di mediare con la polizia. Moktar (Ouassini Embarek), criminale irredento, cerca di salvare il suo tesoretto di armi, soldi e droga dal caos.



Gavras arriva ad una conclusione in parte inedita, ossia la fluidità tra le parti del conflitto. Parte da una divisione netta, sia spaziale che caratteriale, tra i personaggi. Tolto Moktar, dalla caratterizzazione debole e presente praticamente solo per dar corpo a quella criminalità che infesta tutte le periferia e lucra sulla disperazione, Karim e Abdel arrivano a scambiarsi i ruoli nel terzo atto. 
La furia del primo scatta all'uccisione del fratello, il secondo cambia lato della barricata quando è questi ad essere ucciso. Non c'è vera differenza: la violenza genera violenza e può travolgere nella sua spirale distruttiva chiunque. La segregazione, il degrado umano e materiale e il lassismo delle autorità generano mostri che non hanno bandiere. A maggior ragione quando, nel finale, si scopre come la rivolta sia stata pilotata ad hoc dall'estrema destra extraparlamentare, da quei facinorosi pronti a sfruttare la violenza a proprio vantaggio.




Preso atto degli echi da tragedia classica, con i personaggi che devono scegliere tra i legami affettivi e il dovere, Gavras ricerca una forma di realismo tramite l'uso dei piani sequenza, che restituiscono l'unità di tempo e luogo necessaria a dare il giusto ritmo agli eventi e al racconto degli stessi. Purtroppo cade nella trappola più ovvia e si abbandona ad un virtuosismo che stona con la ruvidità delle tematiche e crea una dissonanza insostenibile tra volontà ed esecuzione.
Che si somma, a sua volta, con le ingenuità di scrittura date dalla caratterizzazione di Moktar e del poliziotto Sébastien (Alexis Manenti), il classico buono e ingenuo che serve a dare un ritratto tutto sommato non troppo negativo delle forze dell'ordine.




"Athena" finisce così per cadere nel contradditorio: da un lato la volontà di restituire un quadro realistico e privo di luoghi comuni, dall'altro la scelta pigra di lasciare nel racconto dei personaggi piatti. Da un lato la decisione di dare una descrizione cruda, dall'altro il gusto per la ricercatezza estetica. Opposti inconciliabili che rendono la visione scomoda e il tutto artefatto e fasullo. Un peccato visto l'impegno profuso dall'autore e dal cast.


giovedì 22 settembre 2022

Watcher

di Chloe Okuno,

con: Maika Monroe, Karl Glusman, Burn Gorman, Madalina Anea, Gabriea Butuc, Cristina Deleanu.

Thriller

Emirati Arabi Uniti 2022















---CONTEINE SPOILER---

L'ombra lunga di Hitchcock è impossibile da evitare; sia esso un paragone diretto o un debito di ispirazione anche solo parziale, il confronto con il lascito con il Re del Brivido continua a sussistere anche a oltre quarant'anni dalla sua scomparsa. Il che è ovvio, data la caratura incredibile del suo corpo di lavoro e il ruolo seminale di alcuni dei suoi film più celebrati.
Ma Chloe Okuno, al suo esordio nel lungometraggio, questo lo sa benissimo e decide di variare la formula classica di "La Finestra sul Cortile" adottando la prospettiva, in parte nuova, della vittima.



Julia (Maika Monroe) si trasferisce a Bucarest assieme al fidanzato Francis (Karl Glusman). Caduta in una spirale depressiva a causa del trapianto forzato in un paese straniero, deve anche fare i conti con la minaccia di un serial killer, detto "il ragno", che si aggira per il quartiere; e, soprattutto, con uno strano vicino che sembra da lei ossessionato.
La paranoia è ovviamente il tema centrale, all'inizio nelle forme di un semplice stato mentale alterato a causa di quello spaesamento proprio di tutti gli americani che si trovano a vivere all'estero, letteralmente prigionieri di una città che non comprendono.E la Okuno riesce magnificamente a ritrarre una Bucarest "estranea", dalle strade labirintiche, i cui anfratti sono pronti a celare segreti oscuri, ma la sua attenzione è posata principalmente sullo sconforto interiore e interiorizzato di Julia.



Rallentando l'azione sino al climax, lo sguardo si insinua verso l'insicurezza, la paura paralizzante di qualcosa di oscuro ma sempre presente. La tensione è buona e rende così digeribile una storia convenzionale, che viene però ricontestualizzata dal colpo di scena finale.
La scoperta che Weber, il vicino interpretato da Burn Gorman, è effettivamente l'assassino rende tutto quanto visto in precedenza nuovo. Neanche questa è una trovata inedita, ma permette all'autrice di presentare un discorso sulla violenza e la paranoia più riuscito del solito: Julia non è folle, la sua ossessione è in realtà fondata. E la Okuno evita saggiamente la trappola più ovvia, ossia quella di caratterizzare le figure maschili come i classici stronzi insensibili: il loro scetticismo è in realtà ben riposto, dato non solo lo il di lei stato di straniamento, ma anche a causa della caratterizzazione di Weber, quella di deviato stretto in una vita miserabile, che ad un primo sguardo lo fa apparire come semplice persona comune.  




La rivelazione finale è però anche arma a doppio taglio: se da un lato permette un discorso riuscito a favore delle donne vittime di violenza, dall'altro appiattisce l'aspetto "di genere" della vicenda, rendendola un semplice thriller su di un gioco del gatto con il topo.
Poco male, in fin dei conti, visto che la regia dimostra un buon mestiere (regalando anche una bella citazione de "Il Bacio della Pantera" di Tourneur nella scena della metropolitana) e il cast è ottimo: Maika Monroe si conferma attrice solida oltre che bella, mentre Gorman, con quel suo faccione asimmettrico, oltre ad essere perfetto per il ruolo, dona anche una performance trattenuta di sicura efficacia.

martedì 13 settembre 2022

R.I.P. Jean-Luc Godard


 
1930 - 2022

Godard non è stato il padre della Nouvelle Vague (il quale era di fatto François Truffaut) come in queste ore viene scritto. E' stato semmai il suo autore più significativo, colui il quale ha incarnato l'indole della "distruzione del cinema dei padri" in modo più diretto e totalizzante.
Non un semplice cineasta, quanto un artista ossessionato dalla decostruzione del linguaggio, filmico e non, in grado lo stesso di creare immagini mozzafiato.
Con lui non solo se ne va l'ultimo grande e puro rappresentante del movimento francese, ma anche, soprattutto e prima di tutto uno dei più importanti artisti del XX secolo.

lunedì 12 settembre 2022

Pinocchio

di Robert Zemeckis.

con: Benjamin Evan Ainsworth, Tom Hanks, Joseph Gordon-Levitt, Kyanne Lamaya, Giuseppe Battiston, Lorainne Bracco, Cynthia Erivo, Luke Evans, Keegan Michael-Key, Lewin Lloyd.

Fantastico

Usa 2022














Povero Robert Zemeckis. Un regista premio Oscar, autore di un pugno di classici moderni del calibro di "Ritorno al Futuro", "Forrest Gump", "Cast Away" e soprattutto l'indimenticabile "Chi ha incastrato Roger Rabbit?" oramai è ridotto ad un mestierante che le major chiamano per dirigere progetti senz'anima. E' successo nel 2020 con "Le Streghe", nuovo adattamento del classico per bambini di Roald Dahl che non ha un'unghia dello charme del primo adattamento diretto da Nicolas Roeg nel 1990, succede oggi con questo scialbo remake "live-action" del "Pinocchio" Disney del 1940, uno dei "classici" più amati della Casa del Topo.
Le virgolette nell'espressione "live-action" sono obbligatorie, visto che questo remake è per un buon 90% un film d'animazione vero e proprio, dove la maggior parte dei personaggi e degli ambienti sono realizzati in CGI e, soprattutto, dove non si ricerca mai una forma di fotorealismo nei modelli 3d. Che senso abbia, quindi, come rifacimento "dal vivo" è una domanda d'obbligo.
Malauguratamente, i problemi di questa nuova rivisitazione del capolavoro di Collodi da parte della megacorporation del male più amata al mondo non si fermano ad un abuso di effetti speciali inutili; il vero difetto è uno script che affossa totalmente il significato della storia e la trasforma in una serie di sketch tenuti insieme da un protagonista blando.




Già il primo adattamento disneyano di "Le Avventure di Pinocchio. Storia di un Burattino" aveva il difetto di edulcorare i toni del libro, semplificare personaggi, situazioni e, su tutto, la morale originaria al fine di creare un protagonista più amabile. Zemeckis, coadiuvato da Chris Weitz alla scrittura, va persino oltre e crea un Pinocchio che conosce la differenza tra bene e male sin dall'inizio, nonostante tutto il significato della storia ed il suo arco caratteriale riguardino proprio l'importanza di comprenderne le differenze. Pinocchio non sceglie volontariamente di marinare la scuola ed unirsi al Gatto e alla Volpe, ma viene cacciato dal maestro perché diverso dagli altri bambini, con il solito obbligatorio rimando al razzismo sistematico che oramai ad Hollywood non deve mai mancare e che distrugge tutta la storia per il solo fine di dare una moraluccia decisamente più scontata rispetto a quella del libro e inutilmente assolutoria verso il personaggio. Pinocchio non viene venduto dalla Volpe a Mangiafuoco, ma vuole diventare una star del suo spettacolo visto che non può studiare. E vuole farlo, in definitiva, non per egocentrismo, ma per aiutare il povero Geppetto. E non si unisce volontariamente ai bambini che vanno al Paese dei Balocchi, ma viene letteralmente rapito dall'Omino di Burro. Una volta lì, arriva persino ad intuire come questa distopia dove i bambini fanno i cattivi ha qualcosa di sbagliato. In sostanza, quello di Zemeckis e Weitz non è Pinocchio, è solo un bambino buono e ben educato fatto di legno anzicchè carne.




Non si capisce, di conseguenza, che ruolo possa avere il Grillo Parlante, qui ridotto a deus ex machina usa-e-getta. In compenso, lo script crea dei personaggi ad hoc con il solo intento di aumentare il numero di donne su schermo, ossia la gabbiana Sofia, anch'essa nulla più di uno strumento di trama, oltre che la burattinaia Fabiana, il cui ruolo è praticamente quello di possibile interesse amoroso... per un burattino che va alle elementari.
Anche il ruolo degli altri personaggi originari viene ridimensionato, a parte quello di Geppetto. La fatina appare solo in una scena, così come il Gatto e la Volpe, Lucignolo e Mangiafuoco, ma si tratta comunque di questionabili scelte di scrittura ereditate dal film del 1940. Quel che da fastidio, semmai, è il fatto che questi ruoli vengano compressi ulteriormente anche rispetto a quel primo adattamento e la storia diventa così frammentata, talvolta del tutto priva di consequenzialità (e vien da ridere se si pensa che il romanzo di Collodi fosse originariamente pubblicato a puntate, ma riusciva lo stesso ad avere un racconto solido).




Sulle questionabili scelte di casting si è poi detto persino troppo già alla pubblicazione del primo trailer. Volendo anche soprassedere al fatto che nell'Italia del XIX secolo praticamente non esistevano cittadini di colore, figuriamoci se poi c'erano rappresentanti dell'istituzione scolastica afroamericani, la polemica ha riguardato la scelta di Cynthia Erivo come Fata Turchina. E anche volendo far finta che le fate non siano personaggi del folklore europeo medioevale, quindi concepite in un tempo e in un luogo dove la popolazione di colore era praticamente inesistente, resta il dubbio sull'aver voluto prendere non tanto un'attrice di colore per sé, quanto un'attrice dalla bellezza talmente androgina da rasentare l'apertamente mascolino, per di più davvero difficile da definire bella, per dare volto e corpo ad un essere il cui tratto caratteriale è sempre stato quello di incarnare la bellezza estetica femminile.
Fortunatamente, il resto del cast è in parte e affiatato, salvando in parte la visione.




L'estetica del film è folle: non c'è nessuna volontà di verosomiglianza, personaggi e fondali animati sono palesemente falsi, rendendo talvolta l'interazione con gli attori imbarazzante. Tanto che più che un film ambientato in un mondo favolistico dove esistono burattini parlanti e animali antropomorfi, sembra di assistere ad una sorta di revival di "Chi ha incastrato Roger Rabbit?" (o del recente "Chip & Chop- Agenti Speciali") dove i cartoni animati e gli umani coesistono. Il che forse spiega anche la decisione di distribuire il film direttamente in streaming: in sala, la falsità del tutto sarebbe stata percepita ancora maggiormente e avrebbe generato maggior fastidio.
L'ultimo chiodo sulla bara è però dato da un difetto del tutto inescusabile: l'insipienza. La pessima opera di adattamento del testo originale rende la storia priva di alcun interesse, la caratterizzazione piatta di personaggi e situazioni toglie ogni forma di coinvolgimento. Se l'originale "Pinocchio" animato aveva un difetto comune a molti film d'animazione made in Disney, ossia il fatto che a proiezione finita lasciasse poco o nulla addosso allo spettatore, adulto o bambino che fosse, questo remake lascia freddi già durante la visione e quel poco che riesce a trasmettere è dato solo dal fastidio e dall'imbarazzo.




Alla fin fine, questo secondo "Pinocchio" della Disney altro non è se non un perfetto esponente del trend di rifare i "classici" in chiave live-action, ossia uno spudorato esercizio commerciale aggravato dal suo essere brutto e insipido. Inutile lamentarsi: alla Disney conviene rivendere l'usato garantito piuttosto che sperimentare idee originali e oramai la media dei prodotti che sforna, sotto qualsiasi marchio, è sempre bassa; siamo noi spettatori a non volerci rassegnare al fatto che anche ad Hollywood la qualità non paga. Spiace solo vedere certi nomi coinvolti in squallide operazioni del genere e non per motivi nostalgici, quanto per il rispetto che questi meriterebbero da parte di coloro che hanno reso ricchi.

venerdì 9 settembre 2022

Men

di Alex Garland.

con: Jessie Buckley, Rory Kinnear, Paapa Essidu, Gayle Rankin, Sarah Twomey, Zak Rothera-Oxley, Sonoya Mizuno.

Horror

Regno Unito 2022















---CONTIENE SPOILER---

Partiamo a un primo presupposto solo in apparenza scontato: il femminismo e la battaglia per i diritti, il rispetto e l'eguaglianza delle donne, anche al cinema, sono tematiche sacrosante. Sembra davvero scontato dirlo, ma in un periodo storico in cui ogni opera audiovisiva che porta vanti le istanze femministe si configura come qualcosa di incredibilmente fastidioso, saccente e odioso, si potrebbe pensare che le battaglie del femminismo siano inutili e dannose. Il che a torto, visto che l'affermazione dei diritti delle donne e il tema della violenza sulle stesse sono ancora oggi questioni drammaticamente non scontate anche nel moderno Occidente. Il che, purtroppo, si scontra con una rappresentazione della forza delle donne talvolta ridicola e gli esempi da fare in proposito sarebbero anche troppi, ma tutti categoricamente ridondanti. Ben venga, dunque, una pellicola che sia in grado di dare spazio e adeguato corpo alla tematica.
Non per nulla, l'errore più facile che capita di fare in questo tipo di prodotti è quello di caratterizzare in modo errato ed iperbolico i personaggi per creare una metafora che, proprio per questo, non funziona. E di fatto, sovente le donne vengono descritte come vittime perenni strozzate da maschi mostruosi e privi di qualsivoglia tratto positivo; o, peggio, come dei super-esseri alle prese con un modo in mano agli uomini, i quali sono tutti rigorosamente stupidi, inetti e deboli. Ed è anche inutile sottolineare come tutto questo sia lontano anni luce dalla realtà e che costituisca la metafora di un bel nulla, finendo solo per ammorbare lo spettatore e distruggere ogni tipo di messaggio possibile, oltre che di empatia verso quelli stessi personaggi.
Passiamo ora ad un secondo presupposto, anche questo solo in apparenza scontato: Alex Garland è il cineasta più sopravvalutato degli ultimi venti anni. Un tizio salito agli onori delle cronache come sceneggiatore di Danny Boyle, il quale a causa sua dirige quel "The Beach" che resta a tutt'oggi il suo peggior film, solo per poi divenire filmmaker in solitaria, esordire alla regia con quel "Non lasciarmi", fusione di tematiche da teen-drama e fantascienza pseudo impegnata che rasenta davvero l'arrogante piattezza dei libri di Suzanne Collins; che continua la sua carriera, giungendo al successo, con quel "Ex Machina" che vorrebbe essere profondo e profetico, ma finisce solo per configurarsi come un'accozzaglia impazzita di luoghi comuni male assortiti. E arriva infine a quel "Annientamento" che è praticamente la versione per scemi di "Stalker", né più, nè meno.
Abbiamo quindi una tematica difficile e spinosa (per quanto urgente) e un cineasta che ha dalla sua il mero mestiere e tanta boria. Il risultato è "Men", un film di genere, un "elevated horror" che vuole trattare la tematica della violenza sulle donne (psicologica prima ancora che fisica) e lo fa nel peggiore dei modi, ossia presentando una protagonista vittima totale persa in un mondo dove ogni singolo maschio è un mostro fatto e finito.


"Men" è un thriller psicologico dove violenza e visioni sono la metafora dell'elaborazione del lutto, della somatizzazione della violenza e del superamento di un senso di colpa mal riposto. Di fatto, sono due le metafore, con relative chiavi di lettura, che Garland propone: quella sociologica, con lo scontro tra sessi e l'affermazione di uno sull'altro, oltre che quella psicologica vera e propria, con l'accettazione del proprio ruolo di vittima. Ed entrambe sono grette e ottuse.
Il maschio esiste solo per perseguitare la donna. Gli uomini sono mostri, persino generati da un dio diverso (con la ripreso del mito celtico del Green Man e di Sheela na-Gig), venuti ad esistenza con il solo fine di sottomettere e perseguitare tutto ciò che è femminile. Per di più, il loro seme è elemento corruttivo che distrugge tutto ciò che tocca.
Oltre ciò, i maschi non hanno una personalità distinta, sono tutti l'incarnazione di un medesimo comportamento archetipico, sia mentale che fisico, da cui la trovata di far interpretare a Rory Kinnear praticamente tutti i personaggi maschili del film (ad eccezione del marito James, ma questo solo per puri fini metaforici e comunque con un'inversione nel finale). E tutti sono in qualche modo l'incarnazione di una figura che opprime la donna: il marito violento e dall'indole infantile, il poliziotto rappresentante di quel potere costituito che non ascolta il dolore femminile, il ragazzino che odia le donne in modo irrazionale, il prete, incarnazione del potere religioso, pronto a giustificare le mancanze dei compagni falloforniti e biasimare unicamente il gentil sesso, solo per poi feticizzarlo; e poi c'è il personaggio di Geoffrey, l'uomo di mezza età amichevole e pronto ad aiutare, il cui peccato originale è quello di essere... amichevole e pronto ad aiutare, oltre ad essere un uomo di campagna, ossia la peggior specie in assoluto.



L'altro punto di vista è quello personale, quello del personaggio di Harper, chiamata a confrontarsi con la perdita e prima ancora con la scoperta della tossicità della relazione intessuta e portata avanti con l'ex marito James, forse morto suicida, forse no. In merito ed in primis, Garland decide furbescamente di omettere le cause della fine del rapporto; se avesse fatto altrimenti, la costruzione della protagonista femminile come vittima assoluta avrebbe scricchiolato, in un modo o nell'altro, quindi meglio isolarsi da ogni confronto con la realtà e far finta che nella relazione tra i due la colpa della fine dell'idillio sia del tutto e categoricamente attribuibile all'uomo. E già qui il pregiudizio è evidente, ma vi si può soprassedere visto che l'intento del film è un altro.
Lo scopo è quello di dar forma al trauma, allo spettro di una violenza subita mai del tutto somatizzata, che prende così le forme di una mascolinità talmente tossica da divenire assassina. Di fatto, tutte le figure maschili sono rielaborazione del ruolo del marito e, di conseguenza, del maschio nella vita comune di una donna. Con la conseguenza ulteriore che il particolare è per forza di cose generale e Garland sottolinea quest'aspetto presentando la mascolinità come un peccato originale, come una forza della natura aliena rispetto alla femminilità che si rigenera in forme diverse solo perseguitare la donna nel corso della sua esistenza, con le fattezze del potere secolare e spirituale, del ragazzino/primo contatto con l'altro sesso, con i buzzurri/violentatori e infine con il marito, il generatore di sensi di colpa, violento ed irredento.
Metafora che in teoria potrebbe anche funzionare, ma che si scontra con un'esecuzione talmente corta di mente da risultare ridicola. Inutile sottolineare come non tutti i maschi siano misogini stupratori che trattano le donne come esseri inferiori, né come il paternalismo di un uomo più grande non è per forza esclusivamente rivolto ad "educare" una donna, ben potendo rivolgersi anche a figure maschili. Decisamente più disarmante e meritevole di disanima è invece la squallida caratterizzazione del personaggio di James, il marito infame, bastardo e violento, il maschio che picchia le donne e pretende di essere la vittima. Anche qui, un personaggio che sulla carta potrebbe funzionare, ma che viene affossato da una scrittura becera: un uomo che vuole suicidarsi solo per fare un torto all'ex compagna, un essere umano che picchia impunemente il partner affermando e che pretende attenzioni, un personaggio che definire cartoonesco sarebbe persino riduttivo e al quale viene negata ogni forma di profondità per creare un semplice apologo femminista, con la conseguenza di risultare poco credibile e, prima ancora, poco veritiero; e così facendo, anche l'apologo si disvela come fasullo.



Ma c'è una terza chiave di lettura possibile, la quale forse non era stata prevista da Garland e che risulta anch'essa risibile, anche se per motivi diversi. Harper è spaventata dai maschi, spaventata dal marito, il quale la perseguita anche della tomba, ed il suo arco caratteriale è quello di superare la schiavitù del fallo e ritrovare una forma di libertà. Schiavitù che ha quindi le forme della paura, la quale a sua volta si concretizza nelle figure maschili che la schiacciano, le tarpano le ali, la perseguitano e insultano. E se queste sono un'esternalizzazione di un malessere interno, quest'ultimo ben potrebbe essere definito (con un termine retrogrado ma perfettamente calzante) come "penefobia", visto e considerato che del suo rapporto effettivo con l'altro sesso prima del trauma nulla viene detto. E assistere ai deliri di una mente spaventata dal pene per motivi ignoti perché mai esplorati è a dir poco ridicolo.




Paradossalmente, ad affossare definitivamente "Men" non è neanche la scrittura tronfia e superficiale, quanto una messa in scena fatta di simbolismi pazzi e di scelte stilistiche anch'esse risibili.
Garland sceglie come ambientazione la remota campagna inglese per creare un ritorno alla natura, una riscoperta delle radici primordiali della donna come entità generatrice di vita e si rifà alla mitologia pagana in modo certamente gretto, ma lo stesso originale, solo per poi inserire rimandi alla Genesi, con l'Albero della Conoscenza in piena vista e la mela usata come simbolo di un peccato originale, in piena contraddizione e con l'espressa volontà di ammassare metafore per darsi un tono da intellettuale.
Usa il simbolo del tunnel per rappresentare l'utero, con un ritorno allo stesso che lo fa diventare rifugio sicuro, finché non viene "contaminato" dalla presenza del maschio malvagio, creando involontariamente un inno alla verginità come virtù necessaria, neanche si fosse nel Medioevo e mandando a quel paese decenni di lotte femministe per l'emancipazione sessuale.
Da forma alla malvagità primordiale dell'uomo tramite un tizio che si aggira nudo tra le campagne, incarnazione del Green Man, il quale stalkerizza la protagonista appostandosi fuori dalla sua finestra in una scena che dovrebbe trasmettere suspense, ma che finisce per indurre al riso data l'immagine di un uomo nudo che fa nascondino dietro una donna ignara.
Non controlla la costruzione di determinate scene, come quando, durante il climax, stacca direttamente su di un primo piano di Rory Kinnear che urla ossessivamente, generando genuine reazioni ilari.
Decide di aprire il film con la sequenza della morte di James, ma la porta in scena con una ralenty "artsy" come uno Zack Snyder qualunque e la appaia ad una canzone sull'importanza della libertà che fa sembrare il tutto come parte di una commedia demenziale piuttosto che di un serissimo thriller che vuole essere una forte metafora sociologica (e il rimando a "The Wicker Man", con l'accoppiata campagna come setting primordiale/canzone popolare rende il tutto ancora più arrogante).
Chiude il film con l'immagine del maschio che viene al mondo da un essere androgino (reinterpretando, nuovamente, il mito di Sheela na-Gig) , contraddicendo il mito (autoaffermato) della distinzione originaria tra generi per il solo gusto di creare immagini scioccanti, che tra l'altro ricalcano il climax di "Annientamento".
Per lo meno dimostra una forte capacità di creare immagini evocative; anche se poi non riesce a resistere alla tentazione di citare l'amato Tarkovsky ad ogni occasione, come uno studentello qualsiasi.



Data la tematica e il modo scostante e violento con cui viene trattata, gli spettatori più eruditi potrebbero forse pensare ad un paragone con il cinema di Marco Ferreri, anch'esso costellato di figure maschili mostruose che manipolano, sfruttano e distruggono le donne. Ma a differenza del compianto cineasta nostrano, Garland non solo non controlla scrittura e messa in scena, ma ammanta il tutto con una presunzione fastidiosa, aggravata dal fatto che non fa sconti, non crea nessuna qualità redimente per il maschio (nel cinema di Ferreri, una di queste era la paternità) e non ha una carica grottesca che alleggerisca i toni o li esasperi davvero quando necessario, sfociando sovente nel ridicolo involontario. Quindi è meglio lasciare riposare in pace l'autore milanese e limitarsi al massimo riscoprirne il lascito, tutt'oggi essenziale.




Quando poi ci si rende conto che il buon Garland ha scritto tutto il film di suo pugno, negando quindi qualsiasi effettiva prospettiva femminile su storia, caratterizzazione, tono e simbolismi, un dubbio si affaccia prepotente alla mente: siamo sicuri che alla base di tutto ci sia una forma di sincerità? Garland crede davvero in quello che dice o ha deciso di forgiare questo apologo arrogante ed ebete solo per conformarsi alla moda del cinema femminista oltranzista odierno?
La verità, alla fin fine, la conosce solo lui, ma può certamente andare fiero di una cosa: "Men" potrebbe ben sottrarre a mani basse a "Black Christmas" il titolo di film veterofemminista più cretino mai concepito; almeno la Takal, nella sua furia cieca, aveva la decenza di presentare un tipo di maschio non misogino.

giovedì 8 settembre 2022

Il Talento di Mr. C

The Unbearable Weight of Massive Talent

di Tom Gormican.

con: Nicolas Cage, Pedro Pascal, Neil Patrick Harris, Tiffany Haddish, Sharon Horgan, Paco Léon, Lily Mo Sheen, Alessandra Mastronardi, Demi Moore, David Gordon Green.

Commedia/Azione

Usa 2022













Nicolas Cage interpreta Nicolas Cage in una storia dove Nicolas Cage viene usato dalla CIA per arrestare un trafficante d'armi fan numero uno di Nicolas Cage. Sembra la trama di una parodia, di un falso film basato sui meme su Nicolas Cage, ossia su di un attore che è diventato uno scherzo, una maschera comica moderna suo malgrado, il prototipo dell'attore strambo tanto nei film quanto nella vita. Perché purtroppo oggi Nick Cage è questo: un meme, una maschera buffa che non viene presa sul serio. Il perché è anche tragico, vista la bancarotta che lo ha costretto ad accettare ruoli per puri motivi alimentari, nei quali ha comunque deciso di divertirsi dando performance a dir poco sopra le righe, le quali si sommano ad una carriera precedente comunque costellata di performance sopra le righe.
Tom Gormican sa tutto questo. Ed è il fan numero uno di Nicolas Cage nella vita reale, forse proprio a causa di quel suo stile recitativo carichissimo, talmente "overacting" da far arrossire Al Pacino e Klaus Kinski. E da buon fan numero uno ha deciso di creare un film ad hoc su e per Nicolas Cage che ne celebri l'amore incondizionato e la figura; cosa non nuova: già Bruce Campbell aveva provato per sé stesso un'operazione simile, nel 2007, con "My Name is Bruce", purtroppo fallendo. "The Unbearable weight of massive talent" riesce invece e per fortuna a celebrare la sua star e ad essere divertente, oltre che onesto sia con Cage che con il pubblico.




Nicolas Cage è un mito, una leggenda, un attore che bene o male tutti amano, vuoi per il suo talento, vuoi per la carica di ridicolo che si porta addosso. Per questo Nicolas Cage è anche un attore che deve fare i conti con una carriera non proprio idilliaca, con un lascito artistico che ha generato anche opere decisamente dimenticabili. Come personaggio vero e proprio, è invece chiamato a costruire un rapporto "adulto" con la figlia adolescente, che lui ancora considera una bambina. E, più di tutto, a confrontarsi con il suo strabordante ego, che spesso prende le forme di Nicky, personaggio basato su di una sua famosa uscita pubblica, che ne incarna il narcisismo. E che regala una scena di culto: Nicolas Cage che bacia appassionatamente Nicolas Cage.




Del personaggio di Cage, quello reale, tutto viene accolto, nulla viene davvero obliato per abbellirne i risvolti, tanto che c'è persino una divertente citazione alla battuta scult sulle api nel remake di "The Wicker Man". Gormican non vuole creare un santino o un'apologia, ma una sincera lettera d'amore ad un personaggio (e, prima ancora, ad un artista) del quale adora tutto, dimostrando non semplice idolatria, ma vero amore. E lo fa consentendogli di inanellare tutta una serie delle sue famose facce buffe, di fare duetti da buddy movie con un Pedro Pascal altrettanto divertito e soprattutto calandolo in una serie di situazioni assurde che ne celebrano la versatilità e il talento comico.




Non c'è la voglia di giustificarne i bassi, come in un prodotto simile, il pur ben riuscito "JCV.D" su Van Damme. C'è semplicemente la voglia di mostrarne gli alti e al contempo il lato umano senza pretese patetiche. "The Unbearable Weight of Massive Talent" è così una commedia fatta e finita, creata su misura su di un attore pop e il suo pirotecnico lascito e proprio per questo riesce a non essere fastidiosa. Il resto lo fa il cast affiato, con un Cage che affronta il tutto con la giusta carica d ironia, sommato ad un paio di sequenze action certamente non memorabili, ma lo stesso riuscite. A coronamento di un film sincero e divertente. 

lunedì 5 settembre 2022

Gothic

di Ken Russell.

con: Gabriel Byrne, Natasha Richardson, Julian Sands, Myriam Cyr, Timothy Spall, Alec Mango, Dexter Fletcher, Andreas Wisniwski.

Biografico/Horror

Regno Unito 1986

















Nella la tarda primavera del 1816, Mary Wollstonecraft Shelley, assieme al suo compagno, l'acclamato poeta Percy Bisshe, e alla sorellastra Claire Clairmont, fa visita a Lord Byron, amante di quest'ultima e recluso in esilio a Villa Diodati, nella campagna svizzera. Durante una notte insonne, Mary concepisce quell'idea che sarà sviluppata nel celebre "Frankenstein; o il Moderno Prometeo", mentre Byron, rifacendosi al folklore balcanico e mitteleuropeo, da vita al primo vampiro della letteratura moderna. E sebbene la letteratura gotica vera e propria esistesse già da mezzo secolo (l'apripista fu "Il Castello di Otranto" di Horace Walpole, pubblicato nel 1764), è da qui che l'horror gotico comincia ad avere vera fortuna, con la nascita delle sue due maschere più rappresentative.
Nel 1986 Ken Russell viene chiamato per portare in scena uno script di Stephen Volk ispirato a quegli eventi. Nasce così "Gothic", omaggio ai racconti del terrore classici che rielabora la nascita delle icone collegandole direttamente alle vicende personali degli autori, ma che nonostante le intenzioni non riesce mai davvero ad essere visionario, disturbante o sinistro.



Lord Byron ha il volto di un carismatico Gabriel Byrne, Mary Shelley quello della bellissima Natasha Richardson, Percy Shelley quello di un Julian Sands forse mai così espressivo; a completare l'ensamble troviamo un giovane Timothy Spall nel ruolo di John Polidori, biografo di Byron, e la conturbante Myriam Cyr in quelli di Claire Clairmont. Un cast azzeccato, magnificamente in parte e superbamente condotto, che però rappresenta alla fin fine l'unico aspetto riuscito di tutto il film.
Lo spunto di partenza è intrigante, ossia rileggere il parto creativo come esternazione delle paure, consce e inconsce, degli autori, come forma di esorcismo di quel male interiore che all'epoca li attanagliava.
Il mostro di Frankenstein della Shelley è un cadavere riportato in vita con l'intento di abbattere il limite ultimo imposto all'uomo, rielaborazione del lutto di quel figlio strappatole dal grembo la cui dipartita non è mai stata somatizzata. Il fulmine diviene così strumento di distruzione e rigenerazione (e qui Russell si rifà più che altro al mito cinematografico del personaggio), mentre il desiderio di riabbracciare il defunto il motore creativo principale.
Allo stesso modo, il vampiro è la personificazione di quella fascinazione che Byron ha per la morte e della sua paura inconscia delle sanguisughe, di un parassita che drena la vita altrui poco alla volta, sino a svuotare la vittima di ogni energia vitale, come la menomazione fisica che lo affligge.




Al loro pari, anche Claire, Percy Shelley e Polidori affrontano le loro paure in una notte di terrore, a causa degli effetti collaterali del laudano. La prima si confronta con un trauma inconscio, ossia la morte sfiorata in tenerissima età, il secondo è perseguitato dalle sue stesse ossessioni psicosomatiche, mentre il terzo viene stritolato tra la sua formazione religiosa e il desiderio omosessuale verso l'anfitrione.
Il terrore diventa così personificazione di paure rimosse e desideri sopiti (tra i quali anche l'incesto di Byron con la defunta sorella). Un personificazione evanescente, mai mostrata o percepita sensorialmente, solo avvertita come una presenza astratta che striscia nell'oscurità pronta a far detonare la psiche del gruppo, al pari del Maligno de "I Diavoli".
La paura prende così unicamente le forme di visione ossessive nei quali i personaggi si perdono, incubi ad occhi aperti più reali del reale. Ed è qui che Russell inciampa e il film si arena nella mediocrità.




Le immagini, pur evocative e enfatizzate da una bella fotografia, non graffiano mai davvero, non riescono mai ad essere disturbanti o spaventose. Allo stesso modo, le tematiche più spinose e scandalose, come l'incesto e il libertinaggio, non riescono mai davvero a scandalizzare come dovrebbero, finendo per risultare grossolane nella trattazione. "Gothic" non spaventa, non scandalizza e non incanta, finendo per essere solo un piccolo e simpatico esercizio di stile, che però talvolta nel kitsch più odioso.




Non si possono trattenere le risa davanti alla visione dell' "automa umano", soprattutto quando lancia sguardi strambi ai presenti, forse per comunicare una sensazione spaventevole che invece si fa ridicola. E non si possono incrociare gli occhi quando partono le musiche al synth, tipicamente 80's, che dovrebbero fare da contrappunto all'estetica storica, ma che risultano solo fuori luogo, aumentando il tasso del ridicolo involontario. Sono lontani i fasti del postmodernismo espressivo de "I Diavoli", qui il connubio tra modernità e classicismo risulta dissonante e sgarbato.




Russell purtroppo questa volta risulta incapace di graffiare o affascinare. "Gothic" è uno dei suoi lavori meno riusciti, ma gli appassionati di letteratura gotica potrebbero comunque trovarlo interessante, anche al netto del kitsch.

giovedì 1 settembre 2022

Top Gun: Maverick

di Joseph Kosinski.

con: Tom Cruise, Miles Teller, Jennifer Connelly, Jon Hamm, Val Kilmer, Glen Powell, Bashir Salahuddin, Charles Parnell, Monica Barbaro, Ed Harris.

Azione

Usa 2022














Si fa presto a fare un "legacy sequel" di "Top Gun", ossia uno dei film-manifesto degli anni '80, che ha creato mode e modi che ancora oggi perdurano. Si fa ancora più presto a usare come perno la nostalgia per cliché e stereotipi che oggi vengono osannati, nel bene e nel male, anche come reazione ad uno zeitgeist che vorrebbe la mascolinità come inesistente. E "Maverick" è in fondo tutto questo, ossia un sequel celebrativo carico di nostalgia, creato ad hoc per far piacere a chi ha amato il primo e per riportarne in auge i fasti. Il che è anche riuscito, visto il successo gargantuesco che ha avuto. 
Per una volta, per fortuna, il risultato è anche accettabile, anche se, dopotutto, non è che ci volesse molto a rendere un filo migliore quel film retrograda e compiaciuto.




Torna Maverick, ovviamente, ma torna anche il suo eterno rivale e amore segreto Iceman, il quale in tutti questi anni ne ha coperto le marachelle in un mondo che per puro miracolo non è stato annientato dal conflitto atomico scatenato dai due nel 1986. Torna Goose, o quantomeno il suo fantasma, che perseguita il povero Mav da 36 anni. Torna la capa pelata di James Tolkan che come al solito rimprovera lo scapestrato Maverick, ma che questa volta è interpretata da quella di Ed Harris, rigorosamente sprecato. Non torna Kelly McGillis, la quale si è da tempo allontanata dai riflettori, ma che avendo perso totalemente avvenenzna e forma fisica non è stata ritenuta degna neanche di un cameo e nemmeno di essere nominata di striscio in mezzo dialogo. Al suo posto c'è invece Jennifer Connelly con la sua bellezza da cinquantenne immortale, nei panni di quella Penny che nel primo film veniva giusto menzionata in un dialogo come la figlia dell'ammiraglio che il buon Mav deflorava e che qui acquista un corpo fisico giusto per non far dubitare al pubblico che i due eroi del primo film sono in realtà solo ottimi amici (per la cronaca: nel 1986 la Connelly aveva poco più di 15 anni). 
E poi ci sono le new entry, ossia Hangman, in teoria il nuovo Iceman, ma che è talmente antipatico da sembrare una sorta di Maverick con una faccia (ancora più) da schiaffi; Phoenix, la bella pilota donna, il cui ruolo è quello della bella pilota donna; Bob, quello con la faccia da secchione, perché ora anche se non si è superfighi si può diventare dei top gun; poi un altro paio di tizi che hanno la personalità di un appendiabiti e, soprattutto, il figlio di Goose, ossia Rooster (ovvero: gallo figlio di anatra!), il cui ruolo è chiarificato dal fatto che sfoggi gli stessi baffi del padre.




Tutto il progetto è come al solito frutto della volontà di Cruise, il quale, per fare le cose in grande, porta a bordo i fidi Joseph Kosinski e Christopher McQuarrie, che, fanno tutto sommato un buon lavoro... più o meno.
Kosinski accetta in pieno il suo ruolo di cantore della nostalgia e lo fa nel modo più completo possibile, ossia arrivando a feticizzare l'originale. L'incipt è chiarificatore dell'operazione, con una riproposizione inquadratura per inquadratura di quello del primo film, con tanto di tinta arancio e scritta introduttiva che lo rendono del tutto indistinguibile dalla fonte. Torna la scena del canto di "Great balls of fire!", questa volta virata al triste, così come i simboli che hanno fatto la moda nel 1986, come il bomber tappezzato e la moto a bordo pista. Ma al di là dei richiami, Kosinski svolge bene il suo compito e crea immagini spettacolari, garantite anche e soprattutto dall'uso di veri caccia in volo e valorizzate dal formato imax.




Lo script riesce a fare un piccolo miracolo e a creare una storia decente. Cruise e McQuarrie hanno capito di non poter creare un mero giocattolo nostalgico che sia solo e soltanto tale e decidono di far dire a Maverick qualcosa.
Da un lato, c'è il suo ruolo di padre surrogato per Rooster (e di riflesso per Amelia, figlia di Penny), con la missione usata come strumento per la riappacificazione tra i due. 
Dall'altro c'è la ri-costruzione del ruolo del vecchio macho in un mondo moderno. Sembrava inizialmente che Maverick avrebbe ceduto la torcia ad una nuova generazione di fighi e accettato di aver fatto il suo tempo, ma si sa che una storia del genere avrebbe cozzato con l'immagine del suo interprete (e c'è per lo meno da lodare la volontà di Cruise di mettersi ancora in gioco a 60 anni suonati in pellicole che richiedono una preparazione fisica non indifferente), quindi meglio far dire al film come questo personaggio, benché vecchio, non sia ancora obsoleto, abbia ancora qualcosa da fare, dire e persino insegnare agli sbarbatelli. I risvolti sono però talvolta risibili, come quando si auspica l'uso di piloti umani al posto dei droni, infischiandosene delle vita dei veri soldati chiamati a morire in veri scenari di guerra, o quando, ancora, si sottolinea come a fare la differenza in battaglia non sono le armi, ma gli uomini che le impugnano, a ribadire come la tecnologia bellica americana può anche essere venduta a probabili futuri nemici, ma l'esercito americano sarà sempre il numero uno al mondo.




Tanto che, alla fin fine, al di là della nostalgia, ciò che filtra è la rinnovata volontà di Cruise e soci di fare un santino all'aviazione yankee; non per nulla, il nemico è nuovamente e ancora maggiormente anonimo, con i piloti avversari resi ancora più disumani dall'attrezzatura moderna e il luogo della missione lasciato volontariamente vago, anche per evitare problemi con la distribuzione estera.
In generale, "Maverick" risulta meglio di quel piccolo capolavoro del trash del 1986 del quale munge i valori, ma viene affossato nuovamente da una retorica e risibile e (peggio) dalla noia: 130 minuti sono davvero troppi per una storiella para-bellica priva di veri colpi di scena e mordente. Chi si accontenta, tuttavia, non rimpiangerà il tempo dedicatole.