giovedì 29 maggio 2014

Querelle de Brest

Querelle

di Rainer Werner Fassbinder

con: Brad Davis, Franco Nero, Jeanne Moreau, Hanno Poschl, Gunther Kaufmann, Laurent Malet, Burkhard Driest, Natja Brunckhorst, Y Sa Lo, Isolde Barth.

Germania, Francia (1982)














Il 10 giugno 1982 Rainer Werner Fassbinder muore per overdose di cocaina a soli 37 anni; le voci su una sua possibile "autodistruzione" cominciano subito ad alimentarsi, infangandone la reputazione; appena tre mesi dopo, "Querelle de Brest" fa la sua comparsa al Festival di Venezia, generando immediato scandalo; uscito postumo e quindi privo di ogni possibile accompagnamento critico da parte del suo autore, distribuito in quel 1982 durante il quale l'omofobia generata dall' HIV comncia ad esplodere ed accolto da ferocissime polemiche volte a chiederne la censura, "Querelle" è una delle opere più complesse di Fassbinder e al contempo la più controversa.


In una Brest onirica si incrociano le vite di un gruppo di ambigui personaggi; Querelle (Brad Davis), appena giunto in porto sulla nave "Vengeur", è un affascinante marinaio che vive una profonda crisi d'identità; suo fratello Robert (Hanno Poschl) è innamorato di lui, ricambiato, ma intrattiene una appasionata storia d'amore con Lysiane (Jeanne Moreau), cantante nel postribolo del marito, il gigantesco Nono (Gunther Kaufmann); anche il tenente Seblon (Franco Nero), ufficiale di bordo della "Vengeur", è innamorato di Querelle, ma non osa rivelarlo; nel frattempo, l'operaio di origini polacche Gil (Hanno Poschl, in un sublime gioco di specchi) sublima l'attrazione per il giovane Roger (Laurent Malet) fantasticando sulla di lui sorella Paulette (Natja Brunckhorst).


"Querelle de Brest" non è semplicemente la catarsi di un autore giunto al vertice della sua esperienza artistica, come è stato più volte affermato; nè è una forma di provocazione verso una società ancora chiusa che non accetta l'omossessualità; "Querelle" è innanzitutto l'ennesima riflessione di Fassbinder sull'identità (sessuale e non) e sulle conseguenze del suo smarrimento. Dal romanzo omonimo di Jean Genet (già alla base di un precedente film di Fassbinder, "Soldato Americano" del 1970) l'autore riprende solo la trama; la riflessione sull'omicidio e le sue implicazioni estetiche e morali vengono subordinate al tema identitario; l'omicidio diviene per Querelle una catarsi, un modo per realizzare sé stesso; e Querelle è il fulcro dietro l'intera dialettica dell'opera: personaggio ambiguo, spiazzante e multiforme, non ha un'identità fissa, ma che muta nel corso del film e delle singole scene; in apertura, Lysiane afferma che una volta arrivato a Brest, egli potrebbe "trovare sé stesso"; e nel corso dei 105 minuti di durata dell'opera Querelle è angelo amorevole, omicida convinto, reietto in cerca di una punizione, innamorato ferito, omosessuale e eterosessuale; la sua non è una semplice scissione identitaria, come quella che affliggeva Herman in "Despair" (1978), quanto una vera e propria frantumazione dell'io, un'esplosione dovuta all'amore impossibile, eppure corrisposto, di Robert; e di fatto, Querelle uccide senza motivo apparente, paga per la sua colpa facendosi sodomizzare da Nono, si lascia amare dal poliziotto Mario per puro piacere, cerca di picchiare il fratello, si lascia sedurre da Lysiane, resiste al fascino del tenente Seblon, ma poi si scopre innamorato di Gil e si abbandona all'amore per il suo superiore; ed il compianto Brad Davis è la perfetta incarnazione dei mille e uno volti del marinaio: un fisico scultoreo e attraente che si giustappone ad un viso angelico che incornicia uno sguardo perso e sofferente.


Alter ego di Querelle è Robert, la cui identità è invece saldamente ancorata all'eterosessualità; Robert vive a Brest ed è l'amante di Lysianne, ma l'arrivo del fratello ne sconvolge l'equilibrio mentale; Robert non può amare Qurelle, ma al contempo non può odiarlo; l'amore tra i due viene traslato in una rivalità ai limiti dell'omicida, in un duello che è in realtà un vero e proprio balletto di corteggiamento. Robert altro non è che un'immagine speculare di Querelle, come si evince dalla duplice scena nella quale i due fratelli si accompagnano a Lysiane: l'uno è il riflesso dell'altro, uno è il caos, un angelo dell'apocalisse sceso in terra, l'altro un uomo comune che cerca disperatamente di restare sè stesso; ma Robert non può vivere senza il suo alter-ego: per sopravvivere non può che mentire a sé stesso e affermare di non avere fratelli.


Ideali doppleganger di Querelle e Robert sono Gil e Roger; il primo è un vero e proprio specchio di Robert: interpretato dallo stesso Hanno Poschl a rimarcarne la specularità fisica, Gil ama Roger sublimando la sua passione mediante l'attrazione per la bellissima Paulette (Natja Brunckhorst, all'epoca reduce dal successo di "Christiane F.- Noi ragazzi dello zoo di Berlino"); ma Paulette non è che un fantasma, un'immagine che appare fugacemente solo in una serie di (sensuali) fotografie; Roger è il vero polo attrattivo, alter-ego maschile della sorella dalla quale differisce solo nel sesso; Gil dapprima reprime la sua omosessualità, ma poi l'abbraccia, prima amando il giovane, poi lasciandosi sedurre da Qurelle, il quale, impossibilitato ad amare ed uccidere il suo vero oggetto del desiderio, ne ama e distrugge l'ideale surrogato. Il connubio amore-morte ritorna anche in quest'ultima opera: l'amore altro non è che una forma di distruzione, una volta esauritosi il possesso, l'uccisione diviene qui supremo atto affettivo, che avvicina Querelle e Gil non solo idealmente, ma anche narrativamente; l'omicidio diviene forma d'arte perchè inteso ad esprimere l'io più intimo dell'essere umano, incapacitato a esprimerlo mediante altre forme espressive; non per nulla, Lysiane canta "Each man kills the thing he love", ossia l'uccisione come amore, tema musicale che all'epoca riscosse un notevole successo.


E proprio Lysiane è l'ultimo pilastro della narrazione; donna vecchia ma ancora affascinante, interpretata da una Jeanne Moreau dal fisico decadente ma dallo sguardo ammaliante, è il cosidetto "terzo incomodo", un oggetto del desiderio che vuole farsi amare da entrambi i fratelli, ma che fallisce, riducendosi ad un mero "oggetto di scambio", nonchè ad una ciarlatana che cerca di obliterare la memoria di Querelle in un finale disperato e splendido. Suo contrappunto è il tenente Soblon, anch'egli nato "per essere desiderato", il quale si strugge per l'infernale attrazione che prova per Querelle; ed anche il loro è un rapporto ambiguo: Seblon è conscio della pericolosità del suo amato, ma non può sopprimere la sua attrazione; fatalmente, sarà proprio lui a redimerlo, grazie ad una registrazione che darà al suo sottoposto l'unica vera catarsi: l'omicidio è peccato, è solo nel perdono e nell'accettazione di sé che l'uomo può realizzarsi; solo così Querelle trova sé stesso, ma questa rivelazione si traduce in una gabbia: l'identità diviene prigione che lo avvinghia nelle forme dell'amore come possessione poichè traduzione di una rinuncia ad una parte di sé stessi; realizzazione splendidamente sottolineata da Fassbinder con un carrello che si avvicina al suo personaggio, ormai sconfitto e confinato in un monologo sconsolato.



Abbandonato ogni compromesso, Fassbinder si lascia andare ad ogni tipo di sperimentazione visiva e metaforica; "Querelle" è il suo film più spettacolare e barocco: le immagini sono dei veri e propri quadri semoventi, la cui perfezione nella composizione raggiunge vette talvolta sbalorditive; la ricerca ossessiva della profondità di immagine del precedente "Veronika Voss" cede il posto ad immagini plastiche, nelle quali Fassbinder contempla la perfezione sensuale dei corpi e dei volti degli attori; la fotografia ammaliante, dai colori caldissimi e dalle cromature sirkiane, trasforma l'intero film in un vero e proprio viaggio onirico: al pari dell'epilogo di "Berlin Alexanderplatz" (1980) anche "Querelle de Brest" non è che un sogno, l'immagine dell'immagine della sensualità secondo Fassbinder; ma i barocchismi visivi spesso sconfinano nel tronfio e, per quanto sempre affascinanti, trasudano un istrionismo a tratti fastidioso.


Tutti gli stereotipi della bellezza maschile filtrata attraverso la visione fieramente omosessuale trovano ampio spazio: dai marinai muscolosi, sudati e indaffarati ai poliziotti vestiti con giacche di pelle e borchie, "Querelle" fu all'epoca l'apripista di quel filone "queer" che proprio a partire dagli anni '80 fece la sua comparsa nel cinema europeo (l'unico, ideale, antecedente risiedeva nei lavori di Kenneth Anger); il ridicolo viene più volte raggiunto e lo spettatore meno perspicace ben avrebbe ragione di ridere di fronte alle immagini grondanti simboli fallici e muscoli oliati; eppure, nella messa in scena è avvertibile la "purezza" di Fassbinder: purezza derivante non dalla voglia di scandalizzare, quanto da quella di confessarsi, di mettere in scena un mondo ideale privo di compromessi per il pubblico, privo, insomma, di ipocrisie di sorta, in una messa in scena talmente genuina da non poter non essere apprezzata.


E se ne "Il mio sogno da un sogno di Franz Bieberkopf" l'ispirazione visiva derivava dagli incubi di Pier Paolo Pasolini, questa volta Fassbinder si rifà alle fascinazioni di un'altro grande visionario italiano: Federico Fellini, dal quale riprende in particolare il lavoro sulla scenografia di "Il Casanova di Federico Fellini" (1976): ogni fondale è rigorosamente disegnato, il sole è un pallone giallo, le luci sono caldissime e il porto di Brest viene totalmente ricostruito in studio; il mondo di Querelle diviene così l'ideale subconscio del suo protagonista e, oltre, del suo autore, il quale apre la sua mente direttamente verso lo spettatore, creando un'esperienza unica.


Ma è nella narrazione che il gusto sperimentale di Fassbinder si fa ancora più forte; oltre all'ibridazione con la grammatica teatrale, l'autore qui fonde la sintassi filmica con quella del romanzo; "Querelle" è, per sua stessa ammissione, un "film da leggere": la voce off sottolinea pensieri, estrinseca stati d'animo, ma non diviene mai narratore vero e proprio, quanto forma descrittiva che si aggiunge alle immagini in un'armonia perfetta; Fassbinder appesantisce il tutto con un linguaggio aulico "sporcato" da parolacce di strada, volte a spiazzare lo spettatore sbattendogli in faccia il "lerciume" con il quale venivano additati gli omosessuali; carica polemica che si fa insostenibile anche a causa dell'uso di simbolismi poco azzeccati, come la Via Crucis dei "rotti in culo" durante il duello tra Querelle e Robert, e alle provocazioni visive, come gli amplessi tra Querelle e i suoi amanti maschili, mostrati esplicitamente e ai limiti vouyersimo compiaciuto.


"Querelle de Brest" vive dunque di estremi opposti ed inconciliabili; come il suo protagonista è al contempo opera d'arte e delirio d'autore, provocazione gratuita e riflessione acuta, esperienza al contempo affascinante e snervante; un "testamento" solo virtuale: Fasbbinder avrebbe dovuto continuare ad omaggiare l'amato Jean Genet con altri due film, sempre interpretati da Brad Davis e Franco Nero, come si evince dall'epilogo; oltre a dirigere una biografia su Rosa Luxenburg con la sua musa ed ex moglie Hanna Schygulla; sfortunatamente, il destino non glielo ha permesso.



EXTRA

Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia del 1982, il film non vinse il Leone d'Oro nonostante fosse dato per favorito sino all'ultimo minuto; le cause artistiche, per una volta, non c'entrano per davvero: un film che fa vanto dell'omosessualità uscito durante l'esplosione dell'A.I.D.S. di certo non poteva ricevere una delle massime onorificenze cinematografiche; disgustato dall'esito della premiazione (il Leone d'Oro andò ad un altro dei "grandi registi tedeschi", Wim Wenders con il suo pretenzioso "Lo Stato delle Cose"), il presidente della giuria Marcel Carné scrisse una lettera alla giuria, la quale recitava testualmente:

"Voglio fare una dichiarazione del tutto personale; in quanto presidente della giuria voglio esprimere la mia delusione per non essere riuscito a convincere i miei colleghi a premiare "Querelle" di Fassbinder; di fatto mi sono ritrovato da solo nel difendere il film; ma sono convinto che, al di là di ogni controversia, l'ultimo film di R.W.Fassbinder, lo si voglia o meno, un giorno troverà il suo posto nella Storia del Cinema".

La dichiarazione venne inclusa nei titoli di testa del film nella prima edizione in VHS ed è visionabile tra gli extra dell'edizione DVD italiana distribuita dalla RHV.

Subito dopo la presentazione del film a Venezia, le associazioni dei consumatori, scioccate dalle immagini esplicite, ne chiesero a gran voce la censura ed il ritiro dalle sale; il presidente della Commissione per la Censura, però si oppose, affermando di non poter tagliare un film senza il consenso del suo autore; le scene incriminate erano, come intuibile, quelle riguardanti gli amplessi tra Querelle, Nono e Mario; quest'ultima scena non fu accorciata in alcun modo, ma la prima fu rimossa dalla distribuzione; la scena è stata reintegrata nell'edizione DVD.

Prima dell'inizio delle riprese, Brad Davis era una piccola stella di Hollywood; aveva partecipato con successo al cult del 1978 "Fuga di Mezzanotte" di Alan Parker, alla serie tv "Radici" (1977) e a "Momenti di Gloria", premio Oscar come miglior film nel 1981; la partecipazione al film di Fassbinder stroncò la sua carriera, già incrinatasi a causa della contrazione del virus dell' HIV (dovuta però ad una trasfusione di sangue); Davis tenne segreta la malattia fino al 1985, anno a partire dal quale cominciò ad attaccare a viso aperto l'omofobia dilagante negli studios hollywoodiani; ridottosi a recitare per la televisione (prese parte, tra le altre, anche alla mini-serie italiana, "Il Cugino Americano" della RAI, nel 1986), Davis si spense nel 1991, a soli 42 anni; appena due mesi dopo, un'altra star morì a causa dell' A.I.D.S.: Freddie Mercury.

Per la distribuzione americana, Andy Warhol creò una locandina inedita basata su una foto di scena nella quale appaiono solo i personaggi di Gil e Roger.







giovedì 22 maggio 2014

Solo gli Amanti Sopravvivono

Only Lovers Left Alive

di Jim Jarmusch

con: Tom Hiddleston, Tilda Swinton, Anton Yelchin, John Hurt, Mia Wasikoska, Jeffrey Wright.

Inghilterra, Germania (2013)
















Il mito del vampiro è ormai tramontato; lungi dal venir rappresentati come demoni tanto belli quanto dannati o come immortali incarnazioni del peccato, ridotti a sex symbol per quindicennii arrapate, i vampiri e i temi ad essi collegati fin dalla loro prima apparizione non intrigano, non stupiscono né spaventano; per fortuna con la sua nuova opera Jim Jarmusch riesce a ridare dignità ad una figura ormai "esangue", intessendo una storia che sta al vampirismo in maniera non dissimile da quanto il precedente "The Limits of Control" (2009) stava al noir.
Adam (Tom Hiddleston) e Eve (Tilda Swinton) sono due vampiri plurimillenari; ma nella visione di Jarmusch essi non sono i rappresentanti di un orrore atavico, quanto degli antichi aristocratici, due incrostazioni di passato ormai logoro; i vampiri sono delle muse che ispirano gli uomini alla grandezza; come Adam e Eve, che in passato hanno ispirato artisti e scienziati, compare niente meno che Christopher Marlowe (John Hurt) come ultimo esponente di un mondo ormai perduto. Tutti e tre i personaggi si aggirano tra le rovine di un pianeta in decadenza: la Detroit post crisi economica così come la Tangeri dello sballo facile; un mondo che ha rifiutato ogni forma di bellezza così come di grandezza (l'ira disillusa di Adam per la cattiva sorte toccata agli scienziati) e che sguazza in un post-modernismo divenuto indice della totale incapacità di concepire qualcosa di nuovo; e a loro non resta che affrontare tale desolazione attraversandola come un safari, soffermandosi, di volta in volta, sui suoi aspetti più curiosi.


Da un lato Adam, un vero e proprio antiquario; impossibilitato a riprendere la grandezza ormai perduta, si trincera in una casa-museo nella quale accumula oggetti del passato, in particolare antichi strumenti musicali; per lui il tempo si è fermato agli anni'60, prima della controcultura, dell'iconoclastia cieca, dell'edonismo sfrenato, del nichilismo e dell'apatia; apatia che lui e la sua razza non sopportano, finendo addirittura per apostrofare gli umani (ossia i vivi) con l'epiteto di "zombie", morti viventi incapaci di produrre senza un ispirazione esterna.


Dall'altro lato (anche geografico), Eve tenta ancora di vivere la vita, di cercare disperatamente qualcosa per cui valga la pena esistere, sia esso un dialogo con il suo vecchio amico Marlowe, sia esso l'amore (eterno) per Adam. Ma entrambi non sono che delle reliquie, le testimonianza di un mondo che non esiste, a loro volta perse in un mondo al limite del collasso; non resta loro, dunque, che amarsi, disquisire sui misteri dell'universo ed abbandonarsi alla contemplazione di ciò che li circonda.


Opposto ideale dei due amanti è Eva (Mia Wasikoska), sorella di Eve; giovane irrequieta, eterna ragazzina dal carattere gioviale ma distruttivo, che interrompe il polveroso idillio dei due amanti con una carica di vitalità inedita; Eva non è necessariamente un personaggio positivo a causa della sua verve incontrollabile, ma Jarmusch, piuttosto che umiliarla, la utilizza come forma dialettica verso il pietoso conservatorismo dei due protagonisti, che lei definisce come "vecchi snob"; la contrapposizione tra i tre (il più disilluso Adam, la più comprensiva e materna Eve e la vivace Eva) è lo scontro tra due modi di intendere la vita opposti e inconciliabili, entrambi però votati all'autodistruzione.


E nel narrare la parabola di questi "amanti immortali", Jarmusch assume un tono ancora più rarefatto e lento del solito; si compiace, talvolta fin troppo, del ritmo meditativo e costruisce tutta la narrazione come un cerchio, un ciclo eterno che si ripete e che non trova conclusione neanche nel (bellissimo) finale.

sabato 17 maggio 2014

Godzilla

di Gareth Edwards

con: Aaron Taylor-Johnson, Ken Watanabe, Bryan Cranston, David Strathairn, Elizabeth Olsen, Sally Hawkins, Juliette Binoche.

Catastrofico/Fantastico

Usa/Giappone (2014)
















Quasi trenta film in 60 anni di vita, un brand conosciuto in tutto il mondo, un marchio che è sinonimo di spettacolarità e divertimento spensierato (oggi, ma non quando fu creato): Godzilla è una vera e propria icona pop dal fascino tutt'oggi fresco. Nato nel 1954 dalla mente di Ishiro Honda come risposta al "King Kong" (1933) di Cooper e Schoedsack (che in quegli anni ritornava trionfalmente nei cinema di tutto il mondo), ma sopratutto come personificazione della paura del nucleare e simbolo di una natura che si ribella alla superbia dell'uomo, Godzilla era già approdato nel 1998 negli studios hollywoodiani, con le fattezze di un lucertolone smilzo che si divertiva a fracassare tutto e tutti in uno dei peggiori blockbuster americani di sempre; in onore del 60mo anniversario della sua creazione, la Warner decide di creare un nuovo Godzilla a stelle e strisce, più fedele all'originale anche nel design, affidando la regia a Gareth Edwards, già autore del fin troppo sopravvalutato "Monsters" (2010); il risultato delude sotto tutti i punti di vista.


Va riconosciuto agli autori  il merito di riportare il buon vecchio godzillosauro atomico alle sue origini e di purgarlo da quell'umorismo da seconda elementare che affliggeva il kolossal di Emmerich e finache molte delle pellicole che lo videro protagonista dagli anni '60 in poi; non più mostro mutante, né dinosauro gentile, Godzilla torna ad essere una creatura preistorica risvegliatasi dopo anni di oblio; il suo ruolo, qui, non è però quello di mero distruttore, di castigatore dell'umana stupidità, ma quello di "agente" volto a salvaguardare l'equilibrio della natura, il cui risveglio non è imputabile direttamente all'azione dell'uomo; la morale sulla natura offesa che si ribella ripagando l'essere umano con la sua stessa moneta va quindi perduta, appiattendo il fascino del concept originale.


Nel portare in scena gli atti di devastazione, Edwards strizza l'occhio alle recenti sciagure naturali: Fukushima, rievocata nel prologo, lo Tsunami delle Filippine nel secondo atto e l'uragano Kathrina nell'epilogo, con i sopravvissuti al disastro ammassati in campi da baseball; c'è tempo persino per una fugace strizzatina d'occhio all'11 Settembre, con aerei militari che si schiantano contro i grattacieli; eppure, il puro terrore della devastazione non colpisce mai davvero, colpa di una regia troppo poco rigorosa, votata alla spettacolarizzazione del disastro più che all'enfasi della sua carica drammatica; e basterebbe recuperare "The Impossible" (2012) o il prologo di "Hereafter" (2010) per accorgersi di come Edwards non riesca mai davvero a trasmettere il vero timore selvaggio di cui la messa in scena avrebbe bisogno.


Paradossalmente, laddove inondazioni, incendi e palazzi che crollano la fanno da padrone, il kaiju per antonomasia trova uno screen time miserevole, relegato a pochissimi minuti su più di due ore di durata; come nel "Transformers" di Bay, anche qui la narrazione si concentra, stupidamente, sugli sciattissimi personaggi umani, tutti rigorosamente piatti e stereotipati; e la regia segue letteralmente loro piuttosto che il mostro, frustrando ogni forma di possibile spettacolarità derivante dalle sue azioni con un montaggio ellittico; tant'è a tratti la pellicola sembra diventare una sorta di teaser trailer di sè stessa, troncando le scene ogni volta che Godzilla entra in campo.


La maggior parte della narrazione finisce così per adagiarsi sulle storie dei personaggi, sul classico drammone familiare vissuto dal protagonista Aaron Taylor-Johnson (conciato come un novello Chainning Tatum), sulle teorie complottistiche di suo padre Bryan Cranston (che, assieme a Juliette Binoche e a Sally Hawkins, spreca il suo talento in un ruolo risibile) e sullo scontro tra lo scienziato Ken Watanabe e il militare David Strathairn; particolarmente sciatta è proprio quest'ultima sottotrama, nella quale lo scontro tra forza e ragione, già di per sé visto e stravisto, non riesce mai ad interessare vista la superficialità dei dialoghi.


Alla fine della proiezione ci si sente presi in giro, frustrati per non aver ottenuto neanche il minimo di divertimento solitamente garantito anche dalla più becera delle megapruduzioni americane; e se proprio ci si vuole divertire, tanto vale riguardarsi le pellicole giapponesi dedicate al Re dei Mostri del decennio passato: girate con un budget infinitamente inferiore rispetto a questo "Godzilla 2014", riuscivano perfettamente nell'intento di intrattenere facendo al contempo riflettere sui rischi legati alla sperimentazione impazzita; ed è inutile persino cercare un paragone con il "Godzilla" originale: vecchio di 60 anni, afflitto da lunghezze narrative inutili e dagli effetti visivi oggi risibili, continua comunque ad esercitare un fascino magnetico, grazie alla sensibilità di Honda, al suo talento visivo tutt'oggi invidiabile e ad una morale non solo anti-nucleare talmente vivida da stupire tutt'oggi.

venerdì 16 maggio 2014

Jodorowsky's Dune


di Frank Pavich

con: Alejandro Jodorowsky, Michel Seydoux, H.R. Giger, Chris Foss, Brontis Jodorowsky, Nicolas Winding Refn, Richard Stanley.

Documentario

Usa, Francia (2013)

















"The Greatest Movie Never Made!". Basterebbe questo semplicissimo slogan per descrivere compiutamente la storia del "Dune" di Alejandro Jodorowsy; progetto faraonico, destinato fin dalla sua intima concezione a rivoluzionare il cinema fin nelle sua fondamenta, l'opera del grande regista apolide non ha mai, malauguratamente, raggiunto la fase di produzione vera e propria; quarant'anni dopo il naufragio del progetto originale, Frank Pavich porta su schermo i frammenti e le memorie di coloro che vi presero parte, riuscendo a far vivere l'entusiasmo di un gruppo di grandissimi artisti e a rendere giustizia alla magnificenza di un opera non soltanto "bigger than cinema", ma finanche "bigger than the universe".


Per comprendere appieno la sfrenata ambizione di Jodorowsky bisogna conoscere anzitutto il romanzo di partenza; "Dune" di Frank Herbert, pubblicato nel 1965, costituisce assieme ai cinque successivi romanzi dell'omonimo ciclo, quella che può tranquillamente essere definita come "La Bibbia" della fantascienza moderna; in esso il grande autore americano fa convivere visioni futuribili veritiere e plausibili nonostante il remoto futuro nel quale le vicende prendano piede (il primo libro è ambientato nel 10.191), fascinazioni etniche e religiose (in particolare verso le culture islamiche e paleocristiane), profezie laiche, affondi verso la degenerazione dell'istituzione religiosa, esaltazione delle sostanze psicotrope come via per aumentare le capacità umane, avventura classica ed intrighi di corte; "Dune" è un gigantesco affresco non semplicemente fantascientifico, poichè volto a dare una descrizione completa e credibile di un universo prossimo che affonda saldamente le radici nei problemi e nelle vicissitudini universali dell'essere umano; il tutto calato in un contesto visionario e affascinante, dove il percorso mentale, onirico e spirituale di ciascun personaggio diviene non solo mezzo introspettivo, ma narrazione vera e propria.


Del romanzo di base, che Jodorowsky decide di portare in scena ancora prima di averlo letto, il regista riprese solo l'ambientazione e i personaggi, ricreando sia l'universo nel quale esso è ambientato, sia la storia; nelle mani del visionario autore, "Dune" diviene la storia di un vero profeta, il protagonista Paul che nel romanzo era solo chiamato a fare le veci di un messia futuribile, ma che qui diviene una sorta di "Secondo Avvento" che, in un finale catartico e messianico, trasforma un intero mondo di Arrakis in un'entità senziente pronta a far risvegliare le coscienze dell'intera umanità. Rilettura intrigante, immersa in una narrazione ancora più cupa, violenta e visionaria dell'originale, come si evince dagli splendidi sotryboard che per la prima volta vengono mostrati al pubblico.



Quando Jodorowsky cominciò la preproduzione, nel 1974 (quindi prima del "Superman" di Salkind e Spengler e del "Guerre Stellari" di Lucas), non ha dubbi: il suo "Dune" deve essere il più grande film mai realizzato, un'opera in grado di cambiare la percezione stessa del pubblico, un'esperienza in grado di segnare ogni singola persona che lo avrebbe visto; il suo obiettivo è semplice: ricreare su schermo gli effetti dell'uso dell' LSD; ma chiunque abbia visto "La Montagna Sacra" (1971) sa quanto egli aborrisca l'uso della droga per fini onanistici o, peggio, per surrogare la trance religiosa; la sua opera si doveva configurare, in sostanza, non come un testo sacro da seguire alla lettera, quanto come una spinta verso l'accettazione di una realtà più ampia dello spettro del visibile (concetto anch'esso espresso ne "La Montagna Sacra"); e per perseguire questa sua opera profetica, Jodorowsky non badò a spese e a compromessi; coadiuvato dal fido produttore Michel Seydoux, riunì un cast artistico e tecnico da brividi.


Per visualizzare il mondo di Arrakis, il pianeta principale sul quale si svolgono le vicende, il grande artista chiama come suo "guerriero" Jean "Moebius" Giraud, all'epoca reduce dai successi di "Metàl Hurlant" e "Marshall Blueberry", i cui disegni colpirono particolarmente Jodorowsky per la loro forte impostazione cinematografica; per il desgin dei veicoli si affida all'inglese Chris Foss, mentre per la realizzazione tecnica degli effetti visivi a Dan O'Bannon, ingaggiato a scatola chiusa a seguito della visione di "Dark Star" (1974), esordio al cinema di John Carpenter; per il design del mondo degli Harkonnen chiama il compianto H.R. Giger, il cui stile necro-tecno-organico dona alle visoni di Herbert un tono ancora più minaccioso. Tutti gli artisti coinvolti hanno una missione: dare il massimo, comportarsi come veri e propri "santi missionari" imprimendo nelle proprie creazioni una forte dose di spiritualità; componente ritenuta essenziale ai fini della riuscita dell'operazione e che portò Jodorowsky a rinunciare alla collaborazione di artisti del calibro di Douglas Trumbull e dei Pink Floyd, ritenuti troppo materialisti per poter davvero riuscire a scuotere le coscienze del pubblico; e nel riportare tali strambi, bizzarri e surreali aneddoti, va lodata l'estrema serietà di Pavich nel non far mai scadere il documentario nè in una barzelletta, nè in una critica alla superbia del regista.


E se la troupe di sacri guerrieri era qualcosa di stupefacente, non da meno era il cast artistico radunato da Jodorowsky: David Carradine nei panni del Duca Leto, Mick Jagger in quelli del viscido e ambiguo Feyd Rautha (che nel "Dune" di Lynch sarà invece interpretato da un'altra rock star, Sting), Orson Welles come l'imponente Barone Harkonnen e niente meno che Salvador Dalì ad impersonare l'Imperatore dell'Universo, ruolo per quale gli offrirono bel 100.000 dollari al minuto (ma il suo screen-time non ne avrebbe superati cinque); per il ruolo del profeta Paul Muad'Dib Atreides, Jodorowsky decise di usare suo figlio Brontis, all'epoca quindicenne, che il regista sottopose ad un intenso allenamento psico-fisico per fargli raggiungere uno status ai limiti del superomostico, in modo da annullare qualsiasi differenza tra attore e personaggio; non si fa menzione, invece, della proposta fatta a Gloria Swanson per impersonare la Reverenda Madre, nè del turbolento casting di Duncan Idaho, forse fin troppo "leggendari" per poter essere considerati veritieri; così come non viene menzionata quella che può essere considerata la leggenda per eccellenza nata attorno allo sfortunato progetto: il sogno fatto da Jodorowsky nel '72 durante il quale Frank Herbert (all'epoca ancora vivo e vegeto) lo esortava a dirigere il film, senza che il regista avesse mai sentito parlare nè di "Dune", né di Herbert.


E' nell'ultima parte del documentario che i toni si fanno, giustamente, più tristi; finita la preproduzione, Jodorowsky e Seydoux iniziarono a girare tutta Hollywood in cerca di uno studio interessato a produrre la pellicola; nonostante i grossi nomi coinvolti, lo status di cult che il romanzo avesse già assunto e un budget di certo non esorbitante (neanche 20 milioni di dollari, all'epoca una somma considerevole ma non astronomica), il progetto si arenò; e qui a Pavich va dato il plauso di abbandonare il tono neutro ed innestare, per il mezzo dei personaggi intervistati, una critica sentita e veritiera al sistema degli studios, interessati solo al denaro e sopratutto spaventati dalla persona di Jodorowsky, che sapevano impossibile da controllare. A Jodorowsky e soci non restò che ritirarsi, farsi da parte abbandonando ogni velleità artistica; salvo poi vedere il loro progetto fatto a pezzi e fagocitato da ogni singolo kolossal prodotto nei decenni a venire; si parte con "Alien" (1979) nel quale vengono coinvolti O'Bannon, Giger e Foss (anche se la genesi del progetto è più complessa di quanto effettivamente spiegato) e "Guerre Stellari" (nel quale Lucas riprende pari pari parte degli storyboard di Jodorowsky e Moebius, oltre all'ambientazione desertica che apre il film), lo sciagurato "Contact" (dove Zemeckis riprende la opening shot ideata da Jodorowsky senza alcun ritegno) fino ad arrivare a "Prometheus" (2012);  passando, ovviamente, per il "Dune" di Dino De Laurentiis e David Lynch (1984), che Jodorowsky detesta, ma del quale riconosce la discolpa di Lynch e la cattiva influenza dei compromessi che ha dovuto subire per completare il film.


Ma il film non si chiude con una nota triste o polemica; pur esternando il rimpianto di grandi autori (Nicolas Windig Refn e Richard Stanely in primis) per la piega che l'influenza del "Dune" jodorowskyano avrebbe potuto far prendere al cinema di fantascienza mainstream americano (e che invece si è adagiato al modello di Lucas, con le infauste conseguenze che tutti conosciamo), Pavich chiude il film con una splendida esortazione dello stesso Jodorowsky: pensate in grande, non abbiate paura delle vostre ambizioni, poichè anche qualora queste non si realizzeranno, voi avrete imparato a superare i vostri limiti.



EXTRA

Mai meme fu più veritiero:


giovedì 15 maggio 2014

Gigolò per Caso

Fading Gigolo

di John Turturro

con: John Turturro, Woody Allen, Vanessa Paradis, Liev Schriber, Sharon Stone, Sofia Vergara, Tonya Pinkins, Michael Badalucco, Aida Turturro, Max Casella.

Commedia Brillante

Usa (2014)









La carriera come regista di John Turturro ha prodotto, nel corso di ben 22 anni, poche pellicole, delle quali giusto il suo esordio, "Mac", merita davvero di essere lodato; alla sua quinta regia, il grande attore italoamericano tenta di omaggiare il cinema romantico e leggero di Woody Allen con una storia d'amore audace ma tenera e schierando in prima linea il suo punto di riferimento; il risultato finale è tutt'altro che memorabile.


New York; Fioravante (John Turturro) e Murray (Woody Allen) sono grandi amici e soci in affari da una vita intera; a seguito della chiusura della libreria in cui entrambi lavoravano, Murray fa una strana proposta all'amico: iniziare a lavorare come gigolò per signore; inizialmente ributtante, Fioravante comincia la sua attività di squillo ed ottiene subito un grande successo, sopratutto presso la ricca ed annoiata signora Parker (Sharon Stone); ma le cose si complicano quando Murray gli presenta Avigal (Vanessa Paradis), vedova di origini ebraiche ed ortodosse.


La storia dello strambo duo si muove su due coordinate distinte: da un lato la commedia brillante e sofisticata, volta a scandagliare i misteri e le bizzarrie del rapporto uomo/donna; dall'altra la disanima satirica delle asfissianti costumanze della comunità ebraica newyorkese più intransigente; e il debito verso pellicole quali "Io e Annie" (1977) e "Vicky Christina Barcelona" (2008) è evidente fin dalle primissime battute; tant'è che Woody Allen qui riprende il suo abituale ruolo di tipo nervosetto e un pò scanzonato, mentre Turturro ricopre il lato più timido e romantico dell'archetipo alleniano.


Ciò che non funziona è la scrittura (ad opera dello stesso Turturro): i dialoghi cercano perennemente di divertire in modo intelligente, ma raramente colgono nel segno, non arrivando mai nemmeno a sfiorare la pura genialità delle migliori opere dell' "Ebreo newyorkese per antonomasia". I personaggi sono tutti rigorosamente monodimensionali e stereotipati; difetto teoricamente scusabile nei due protagonisti (sorta di unicum scisso in due maschere opposte e complementari), ma non nei personaggi di contorno, quali quelli di Sharon Stone e Sofia Vergara, che divengono immediatamente delle macchiette prive di vera personalità; su tutti è però quello di Avigal il personaggio meno riuscito, configurandosi come la classica "maschera" della puritana redenta. Ancora peggio è l'intreccio, che si basa su archetipi e stereotipi triti e scontati, non convince nè nella scontatissima costruzione romantica, nè nella dissacrazione dell'ortodossia yddish, troppo superficiale e finanche timorosa.


Se come sceneggiatore Turturro non supera la prova del confronto con Allen, come regista si riconferma come un autore privo di personalità e dalle forti limitazioni estetico-narrative; tolta la derivatività nell'uso della fotografia dai colori sempre caldi, le sue inquadrature sono sciatte e il montaggio sembra a tratti eseguito a caso, con scene che si interrompono prima del climax (su tutte il primo incontro con Avigal) stemperando la carica drammatica o comica.


Piatto e anonimo, "Giogolò per Caso" è una commediola trita e dimenticabile; meglio riscoprire il talento del Turturro attore, quello si ancora forte nonostante le cadute di stile (la trilogia di "Transformers", cui ha preso parte per motivi squisitamente alimentari).

mercoledì 14 maggio 2014

R.I.P. Malik Bendjelloul


 1977-2014

E' scomparso come è vissuto: nell'anonimato; eppure, Malik Bendjelloul avrebbe sicuramente lasciato una forte impronta nella Settima Arte, se solo il tempo glielo avesse concesso; perchè "Sugar Man" (2012) è sicuramente un piccolo e preziossisimo gioello da (ri)scoprire.






R.I.P. H.R. Giger


1940-2014

Hans Ruedi Giger: la carne è il metallo, l'anatomia umana è il mondo stesso, la forma umanoide è ridotta ad incubo tecnologico impazzito. 
Rivedendo oggi i suoi lavori, non si può non ammettere quanto il suo sguardo fosse proiettato verso il futuro.