giovedì 30 gennaio 2014

Dallas Buyers Club

di Jean-Marc Vallèe

con: Matthew McCoughney, Jared Leto, Jennifer Garner, Steve Zahn, Griffin Dunne, Dennis O'Hare, Kevin Rankin.

Drammatico

Usa (2013)










Il dramma della malattia è uno dei soggetti più frequentati dal cinema americano degli ultimi anni; clamorosamente sono però stati in pochi a rappresentare la spirale distruttiva delle vittime dell'HIV, la cui patologia sembra tutt'oggi un tabù persino per il cinema americano più intransigente; "Dallas Buyers Club" acquista così un valore inedito: la rappresentazione viva e genuina di un dramma molto spesso evitato o, peggio, trattato in modo stereotipato, la cui franchezza è dovuta forse e sopratutto al fatto di essere basato su veri accadimenti.


Texas, 1985; Ron Woodroof (Matthew McCoughney) è un elettricista che conduce una vita sregolata, totalmente dedita alle droghe e al sesso non protetto; ben presto Ron scopre di aver contratto l'AIDS e cade vittima di una spirale depressiva; dopo aver provato a guarire tramite l'utilizzo di un farmaco sperimentale, l'AZT, si ritrova in Messico dove, grazie alle cure del Dr.Vass (Griffin Dunne) scopre come tutta una serie di medicinali non approvati dalla Food and Drugrs Administration americana sia molto più efficace delle cure imposte dalle grandi case farmaceutiche. Coadiuvato dal travestito Rayon (Jared Leto), Woodrof comincia ad importare illegalmente i farmaci in negli Stati Uniti e a rivenderli sottobanco ai malati, creando scandalo e scompiglio presso la comunità medica.


Sono tre i pilastri narrativi su cui il film di Vallèe poggia: la descrizione pulsante della malattia che affligge i personaggi di Ron e Rayon, avvolti in una vera e propria nube di incertezza riguardo il loro futuro; lo spaccato di una società omofobica e intollerante quale quella americana degli anni '80, che tendeva ad etichettare tutti i malati di AIDS come lascivi omosessuali; e infine la condanna diretta e quasi senza appello all'ottusità del sistema delle lobbies farmaceutiche; tre spunti narrativi che la bella sceneggiatura del duo Craig Borten/Melissa Wallack riesce a sviluppare in modo se non originale, quanto meno efficace.
L'attacco alla collusione tra autorità governative e società speculative ben viene rappresentato dal rapporto tra il protagonista e il Dr.Sevard: il primo inizialmente dipende totalmente dalla cura a base di AZT prescritta dal secondo; l'AZT, tuttavia, è un farmaco in via sperimentale la cui tossicità è riprovata; Ron, al pari degli altri malati, diviene la cavia da laboratorio, un porcellino d'india con il quale sperimentare il farmaco per poi disfarsene una volta provati gli effetti; disumanizzazione, quella del sistema sanitario americano, rimarcata anche dallo scontro con il Dallas Buyers Club e i suoi metodi alternativi, che si dimostrano più efficaci delle cure ufficiali e per questo etichettate come pericolose anche quando non violano la legge federale; l'attacco diretto si attenua però nel finale, dove gli autori riconoscono l'efficacia del AZT in alcuni tipi di cura: ammorbidimento non contraddittorio, e che anzi dona un tocco di oggettività antimanichea ad una pellicola altrimenti facilmente etichettabile come "di parte".


Ancora più efficace è la descrizione dei personaggi e del loro mondo; la brutalità con cui i malati di AIDS venivano visti all'epoca non viene mai celata né edulcorata; i sieropositivi divengono così gli appestati del XX secolo, scherniti e scacciati come topi di fogna a causa dell'ignoranza beota di un popolo la cui ottusità viene descritta senza sensazionalismi, in modo diretto e fermo.
Il punto forte è però dato dalla splendida descrizione dei due protagonisti Ron e Rayon; il primo è il vero e proprio "eroe americano", un uomo le cui convinzioni riescono a salvare centinaia di vite umane a scapito delle condanne subite; ma a differenza degli eroi di Frank Capra e di tanto cinema mainstream a stelle e strisce, Ron è un personaggio sgradevole e tutto sommato irredento; fin dalla prima inquadratura l'eroe viene descritto come un rozzo burino dedito ai piaceri più bassi (la droga, il sesso estremo) e nonostante la malattia i suoi difetti non vengono mai meno: l'amicizia con Rayon non lo rende meno omofobo e la pessima esperienza con il sesso non protetto non gli impedisce di continuare a portarsi a letto donne appena conosciute; Ron è un anti-eroe vero e proprio: un uomo comune illuminato dalla sua esperienza che decide di fare del bene per trarne profitto e che cambia solo da un punto di vista ideale; in sostanza, è un essere umano con tutti i pregi e i difetti del caso, che qui non vengono né esaltati, tantomeno condannati; e McCoughney trova in questo redneck dal cuore d'oro quello che, almeno per ora, è il suo migliore personaggio, al quale sa conferire carisma e volgarità grazie ad un'interpretazione superba, da manuale dell'Actor's Studio per immersione fisica e psicologica. Non da meno è l'interpretazione di Jared Leto ed il suo Rayon; travestito sensibile e sofferente, Rayon è un angelo sozzo e volitivo, anch'egli lontano anni luce da qualsiasi forma di redenzione, la cui vivacità ben si contrappone al dramma di Ron; e, sopratutto, la cui umanità non può non commuovere.




Se il cast è perfetto e lo script è ben equilibrato, la regia di Valèe è invece fin troppo anonima; nella più pura tradizione del cinema indipendente americano usa la camera a spalla in ogni scena e si affida totalmente alla bravura degli attori; risultato che paga, ma che nega al film qualsiasi forma di originalità stilistica; fortunatamente, Valèe riesce ad evitare gli eccessi: sa sempre quando interrompere la scena scena o come inquadrare i personaggi senza far scadere la storia nel ridondante o, peggio, nel ricattatorio; la sua sobrietà dona così alla narrazione una compattezza inusitata, che raggiunge il suo apice nella splendida catarsi di Rayon, davvero da "manuale del dramma intimista".


"Dallas Buyers Club" si rivela quindi come una piacevole sorpresa: un dramma solido e convincente impreziosito da due performances da oscar e, al contempo, una critica feroce ma non compiaciuta alle istituzioni; emozionante e miracolosamente equilibrato.

domenica 26 gennaio 2014

The Wolf of Wall Street

di Martin Scorsese

con: Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Rob Reiner, Jon Favreu, Ethan Suplee, Shea Wigham, Jon Bernthal, Jean Dujardin.

Biografico

Usa (2013)












Nel corso della sua lunga carriera di cineasta, Martin Scorsese ha sempre cercato di raccontare il lato più oscuro e problematico della società americana; si pensi a classici quali "Taxi Driver" (1976) o "L'Età dell'Innocenza" (1993), nel quale il grande autore americano ritrae con disincanto la decadenza umana e l'ipocrisia propria di un paese che è specchio dell'intera società occidentale; non stupisce, dunque, che sia stato proprio Scorsese a portare in scena la parabola della vita di Jordan Belfort, magnate della speculazione finanziaria che tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90 divenne una vera e propria icona dello yuppismo a stelle e strisce; con una sceneggiatura di ferro scritta dal grande Terence Winter ed un cast affiatato, Scorsese riesce così a creare una biografia che è perfetto specchio del buco nero morale ed umano che ha inghiottito la società negli ultimi venti anni.


Come accadeva per l'Henry Hill di "Quei Bravi Ragazzi" (1990) e per il Sam Ace di "Casinò" (1995), anche in "The Wolf of Wall Street" il protagonista è al contempo soggetto ed oggetto della narrazione; l'intero film diviene così più che una biografia vera e propria, un viaggio nell'identità ipertrofica di Belfort; che tanto per essere chiari fin dall'inizio, cita proprio il Ray Liotta di "Quei Bravi Ragazzi" affermando di "aver sempre voluto essere ricco"; Belfort è l'archetipo di ogni personaggio scoresesiano: votato all'autocompiacimento più puro, alla ricerca della soddisfazione e perennemente pronto a rilanciare per ottenere di più di quello che ha; con un'unica, essenziale, differenza rispetto ai personaggi precedenti: per lui non c'è una caduta vera e propria, nè una redenzione; il gioco al massacro di Belfort, alla fine, ricomincia da zero: non impara nulla dalle sue disavventure che, anzi, ne fortificano il carattere, a ricordarci l'estrema idiozia del suo personaggio e, sopratutto, il suo trionfo finale.


Belfort diviene così la perfetta incarnazione dell'edonismo anni '80: la ricchezza è il suo unico scopo, mentre l'autocompiacimento perenne è la sua vita; Belfort appartiene a quella schiera di yuppies definibili come "di seconda generazione": allevati dai primi speculatori finanziari (i famosi "Gordon Gekko" per intenderci, qui impersonati dal personaggio di Matthew McConaughey), rubano loro la scena all'inizio degli anni '90 affiancando alla ricerca del lusso l'abuso conclamato e compiaciuto di sostanza psicotrope; la Wall Street di Belfort viene ritratta da Scorsese e Winter come un vero e proprio circo abitato da nani, prostitute e veri e propri leoni (o lupi), nel quale il lavoro consiste nello sbranare il più debole (il piccolo risparmiatore americano) e compiacere i propri bassi istinti.
Il capitalismo finanziario è, letteralmente, uno stupro perpetrato ai danni della società e Belfort è lo stupratore irredento; ecco dunque vederlo mimare una sodomizzazione mentre parla al telefono con un suo cliente, oppure invitare orde di prostitute d'alto bordo negli uffici per dar vita ad orge romane durante l'orario di lavoro; l'arricchimento sfrenato diviene nuova droga e il lavoro del broker diviene atto sessuale: il coito e la banconota sono i simboli costanti dell'intero film, veri e propri Dei venerati dai personaggi. Belfort viene però descritto da Winter e Scorsese in modo acido e cinico: la sua ricerca sfrenata di successo viene contrapposta ai suoi bassi, orchestrati dagli autori con un piglio comico irriverente ed irresistibile: si va dalle pessime performance sessuali agli insulti subiti dai colleghi, fino ad arrivare alla scena madre definitiva: l'overdose di farmaci scaduti che lo riduce ad un verme incapace di parlare e muoversi; Belfort è la perfetta maschera edonista: stupido, cinico, privo di morale e per questo involontariamente ridicolo.


Tuttavia, la vita di Jordan Belfort è tutto fuorchè ridicola; la ricerca spasmodica del lusso viene narrata mediante un registro ipertrofico, che accumula scene madri su scene madri; Scorsese gioca al rialzo, porta il personaggio verso un vortice di sesso, droghe e denaro che non ha fine, azzeccando immagini da antologia, come la ragazza ricoperta di soldi o il caos dell'ufficio ridotto ad una vera e propria giungla; ma i momenti migliori sono sempre quelli in cui è il protagonista a mettersi in primo piano: l'autore descrive il carattere feroce di Belfort mediante una serie di monologhi recitati di fronte ai colleghi in cui il personaggi vomita loro addosso insulti ed adulazioni, in cui gli sprona a lavorare e li galvanizza con sogni di ricchezza, ossia mostrandosi per ciò che è davvero: un truce imbonitore di folle; tuttavia, Scorsese smette di ricercare nuove forme visive e narrative e adotta un registro "classico", che appesantisce talvolta il ritmo; fortunatamente, la scelta di affidarsi totalmente alla grinta del cast paga: DiCaprio porta a casa la sua migliore performance, Matthew McConaughey dimostra nuovamente le sue ottime doti di attore, mentre Jonah Hill perde ogni freno inibitore e buca lo schermo con un'interpretazione talmente sopra le righe da risultare fin troppo credibile.


Lunga e talvolta incerta, "The Wolf of Wall Street" è una pellicola acida ed irriverente, la perfetta rappresentazione del lato più volgare del capitalismo, una catarsi perfetta per tutti coloro i quali credono (ancora) che l'economia finanziaria non sia la causa della decadenza dei costumi che affligge la nostra società.

venerdì 24 gennaio 2014

La Terza Generazione


Die Dritte Generation

di Rainer Werner Fassbinder

con: Hanna Schygulla, Volker Spengler, Eddie Constantine, Udo Kier, Gunther Kaufman, Margrtit Carstensen, Bulle Ogier, Hark Bohm,Vitus Zeplichal, Harry Baer, Y Sa Lo.

Grottesco

Germania (1979)






Nel pieno del fervore rivoluzionario tedesco del 1978, Fassbinder decide di scrivere e girare il suo film più smaccatamente politico, nel quale mette alla berlina gli ideali di rivalsa della classe intellettuale teutonica dell'epoca; il risultato è il suo film più cinico e acido.


Nella Berlino della fine degli anni '70, sullo sfondo di una società sempre più tecnologizzata, si muove un gruppo di borghesi rivoluzionari che, tra un ritardo e l'altro, tenta di "sovvertire il sistema" con ogni mezzo.


Protagonista assoluto del film (fin dal titolo) è la terza generazione tedesca, pronipote di coloro i quali vissero il nazismo e figlia dei tutori dello status quo, di fatto rappresentati mediante il personaggio del commissario; la terza generazione, della quale lo stesso Fassbinder faceva parte, è caratterizzata dalla più opprimente delle crisi identitarie: perfettamente integrata a livello socio-economico, ha tuttavia sogni rivoluzionari di imprecisati matrice e derivazione; di fatto, tutti i personaggi della piccola comune hanno i pregi e i difetti della ricca classe media: il benessere sociale, la bellezza, gli agi, ma anche la stupidità, il servilismo cieco, l'opprimente senso del possesso fisico del partner, che sfocia nel maschilismo più bieco da un lato e nella sottomissione totale dall'altro, a scapito di ogni aspirazione e conquista femminista; ciò che manca alla cellula di piccoli rivoluzionari è l'ideologia, o per meglio dire "l'ideale rivoluzionario" vero e proprio; l'unico a leggere Bakunin e a commentarlo è un membro esterno al gruppo, di nobili natali ai quali ha rinunciato, e che viene schernito o ignorato proprio per la sua cultura; dulcis in fundo: l'unico vero proletario del gruppo, per di più nero, viene inglobato nell'organizzazione solo a causa della sua preparazione militare.


I rivoluzionari di Fassbinder sono stupidi e sciatti; perseguono il loro fine in modo blando ed effimero, come se si trattasse di un gioco (l'operazione "Monopoly") e non prendono mai davvero sul serio ciò che fanno, nemmeno dopo la morte di uno dei loro compagni. E se la Terza Generazione è composta da inetti, non sono di certo migliori le due precedenti; la prima generazione è composta da vecchi idealisti totalmente chiusi nel passato e, per questo, incapaci di relazionarsi con il presente; la seconda, invece, è quella dei "padroni", quella del nemico da abbattere; e che tuttavia vive in un processo di perfetta simbiosi con la propria nemesi: lo stesso organizzatore della cellula è colui che ne rivela i piani alla polizia, in preda come ad una crisi d'identità totale splendidamente simboleggiata dai travestimenti che usa per depistare gli inseguitori; ma è sopratutto la figura dell'industriale ad essere la più estrema e radicale: un magnate che possiede tutto e tutti (anche fisicamente) e che trae profitto persino dall'attività pseudo-sovversiva dei suoi presunti antagonisti.


Per Fassbinder, dunque, non ci sono dubbi: la classe media non può attuare una rivoluzione in quanto legata a doppio filo con i propri nemici, ma anche perchè del tutto priva di idee che possano davvero sradicare l'ordine costituito; i sovversivi non sono che pupazzi in un gioco più grande di loro (non per nulla la scena del rapimento finale è ambientata il giorno di martedì grasso) e i proletari non sono che derelitti da sfruttare per poi abbandonare.


E il vuoto morale e politico della terza generazione viene perfettamente simboleggiato dalla messa in scena, che qui il grande autore rende ancora più ricercata; la profondità di campo delle immagini raggiunge vette inusitate, atte a simboleggiare il distacco totale tra l'autore e i suoi personaggi; tutto il film è ammantato in un'atmosfera grigia e fredda, sia nei colori che nei dettagli; ogni azione del gruppo viene caricata di un'ironia votata al ridicolo, che riduce i personaggi in macchiette stupide; all'inizio di ognuno dei sei atti che compongono la narrazione, Fassbinder mostra delle scritte prese di peso dai gabinetti pubblici dell'epoca, per il illustrare il vero pensiero popolare della Germania dell'Ovest; e in ogni scena si sente in sottofondo il rumore di un televisore o di una radio, a sottolineare come la tecnocrazia dei "padroni" sia ormai divenuta routine anche negli ambienti presuntuosamente radicali;


Il tono freddo e distaccato e l'ironia acida rendono "La Terza Generazione" un atto d'accusa riuscito e ancora oggi godibile, anche se forse troppo compiaciuto ed intellettuale; la vena caustica ben descrive la spirale di vacuità dei personaggi, ma la critica di Fassbinder non raggiunge le vette artistiche di altri grandi intellettuali del cinema che si sono cimentati, prima di lui, nella disanima del Sessantottismo, prima tra tutti Godard con il suo capolavoro "La Cinese" (1967).

domenica 19 gennaio 2014

Uccellacci e Uccellini

di Pier Paolo Pasolini

con: Totò, Ninetto Davoli, Femi Benussi, Alberto Bevilacqua, Renato Capogna, Alfredo Leggi.

Italia (1966)














Con "Uccellacci e Uccellini" Pasolini firma la sua opera più originale, nonchè una delle sue più complesse, al punto da risultare, a tratti, criptico; pellicola importante anche perchè segna l'inizio del sodalizio con Ninetto Davoli (che già era comparso ne "Il Vangelo secondo Matteo" due anni prima e che sarà presente nella maggior parte della produzione pasoliniana successiva) e sopratutto con Totò, nel quale il grande artista trova una perfetta maschera espressiva.


Totò e Ninetto, padre e figlio, vagano per la periferia romana, apparentemente senza meta; ad accompagnarli c'è un corvo parlante, che si introduce come intellettuale marxista; lo strambo trio è protagonista di una serie di episodi surreali e metaforici, tra i quali: i tre attraversano delle vie intitolate a gente comune e di umili origini, anzicchè ad eroi ed eventi storici importanti; mentre Ninetto fa le avances ad una giovane vestita da angelo, Totò assiste al ritrovamento di una vecchia coppia di coniugi suicidatasi poco prima; il corvo racconta ai due compagni la storia di due frati francescani (interpretati sempre da Totò e Ninetto Davoli) che cercano di portare la parola di Dio ai falchi e ai passerotti; Totò cerca di ottenere dei soldi da una famiglia di poveracci, per poi dover sottostare anch'egli alle angherie di un grosso borghese.


Abbandonato ogni riferimento al neorealismo (fatta salva la scelta degli attori, anche qui presi dalla strada), Pasolini crea una vera e propria fiaba moderna che, a suo stesso dire, cela innumerevoli significati nelle sue immagini; costruisce l'intera narrazione come una serie di episodi con i tre protagonisti come unico tràit d'union e con un unico scopo: fornire uno spaccato completo, irriverente e divertito, ma al contempo rassegnato dell'Italia del boom economico.
Per comprendere appieno ogni rimando ed ogni metafora bisogna tenere presente il contesto nel quale il film è stato girato; alla metà degli anni '60 l'economia in Italia comincia a crescere; la possibilità di passaggio da una classe sociale all'altra diviene più semplice e il proletario comincia quindi a sostituire il sogno rivoluzionario di stampo marxista con quello, più semplice ed immediato, di entrare a far parte della borghesia per goderne i medesimi privilegi; ad un contesto del genere va aggiunto un episodio specifico, che Pasolini rievoca esplicitamente nel corso del film: la morte di Palmiro Togliatti, il leader del PCI, che guidò fino a renderlo il partito comunista più forte e politicamente influente di tutto il Blocco Occidentale, oltre ad aver partecipato all'Assemblea Costituente; il venir meno del carismatico leader comporta un forte cambiamento nella percezione che il popolo ha del partito, che così perde ogni sua forza e credibilità dinanzi all'elettorato.
L'infrangersi del sogno marxista e i rapidi cambiamenti di costume portano il grande autore a formulare un interrogativo serio ed urgente, che apre il film: dove sta andando questa società? Risposta: Boh?! E di fatto, "Uccellacci e Uccellini", sotto lo strato di metafora e spaccato, altro non è che un road movie senza epilogo, un viaggio verso il nulla con protagonisti tre emblemi dell'Italia di allora ed ora: un ex proletario arricchitosi e ora smanioso di agire come un borghese, un giovane borghesuccio scanzonato e privo di ideali ed un intellettuale fallito, un "uccellaccio del malaugurio" che non sa più cosa predicare nè a chi, e che alla fine sarà sbranato dai suoi compagni, ossia da quella società che aveva cercato di istruire; il che è inquietante se si tiene conto di come esso altro non sia che la controparte di Pasolini stesso, il quale così facendo arriva a predire la sua stessa morte con nove anni di anticipo.


Ogni episodio, si diceva, è metafora pura, così come lo sono i gesti e le pose degli attori; l'episodio più celebre, che dà anche il titolo al film, è quello dei due frati francescani, raccontato dal corvo; in esso Pasolini rielabora la tesi già esposta ne "Il Vangelo secondo Matteo" (1964) per giungere ad una conclusione diversa e definitiva; la parola di Dio è il Verbo che deve unire le classi sociali dei borghesi (falchi) e dei proletari (i passeri); solo il Verbo è in grado di porre fine all'opposizione (violenta e non) tra le due categorie perchè in esso coesistono sia le aspirazioni paritarie proprie del marxismo che le radici della cultura borghese; il Verbo deve essere insegnato con le parole di ciascuna classe e ad insegnarlo ci si deve spogliare di ogni velleità , come accade quando il frate scaccia i saltimbanchi dal tempio (e Totò, in quanto "attore popolare" rappresenta sia il proletario medio, sia il "mito", l'icona che il popolo "venera"); tuttavia, anche una volta conosciuta la parola di Dio, i falchi continuano a divorare i passeri; Pasolini prende così coscienza del fallimento del sogno marxista, ma anche dell'impossibilità dell'unificazione di due fazione che per lo stessa natura si distruggono per sopravvivere. Non vi può essere pacificazione; pur tuttavia, a seguito del mutamento economico e della morte di Togliatti e degli ideali rivoluzionari primigenei (ossia purgati da quello spirito radicale/criminale che li incrosterà a partire dalle contestazioni sessantottine); il proletario comincia così a non essere più il reietto della società, bensì una parte integrante di esso: i suoi costumi sono gli stessi del borghese (Ninetto che balla all'inizio del film assieme ai ragazzi con la "r" moscia, Totò che spreme la famiglia di poveracci così come egli stesso viene spremuto da chi è più ricco di lui) i suoi sogni e i suoi bisogni anche; ecco dunque l'affacciarsi anche nel''estrema e povera periferia della donna oggetto, vista come sogno e desiderio (non per nulla il suo nome è "Luna"), ma anche come puttana da comprare, in netta antitesi alla donna ideale, vestita da angelo, che Ninetto non può avere.


Tuttavia, l'assimilazione alla classe borghese è possibile solo per coloro che possiedono i mezzi per "accedere" al boom; si ha così una frattura, una cesura netta tra il proletariato (ora nuova classe media) e il sottoproletariato (ora nuovo proletariato); quest'ultima classe è quella degli "ultimi tra gli ultimi", coloro ai quali la crescita sociale non ha portato benefici ma solo guai; ed ecco apparire un gruppo di attori scassati (in tutti i sensi), che recitano la caduta di Roma prima di abbandonare i propri figli, o, peggio, i poveri contadini rimasti senza soldi a causa dello strozzinaggio del personaggio di Totò, che non possono sfamare i propri figli, che giacciono addormentati per giorni, e che sono costretti a nutrirsi con un nido di rondine, ossia a cannibalizzare la propria stessa prole (proprio come riaffermato di recente da Virzì ne "Il Capitale Umano"); la nuova classe media, invece, pur con le sue prerogative e la sua arroganza cialtronesca, deve anch'essa sottostare alle angherie dei falchi, i padroni, che non si fanno remore ad aggredirli, in un gioco di specchi che pare infinito, proprio come il viaggio dei personaggi.


Viaggio senza meta per tutti, tranne che per uno: il corvo, l'intellettuale starnazzante i cui insegnamenti e le cui suppliche non vengono ascoltate; figura del quale Pasolini presagisce (purtroppo veritieramente) la scomparsa, per mano dapprima dell'intellettualismo borghese di stampo prettamente enciclopedico ed accademico (gli intellettuali a casa dell'ingegnere), ma sopratutto ad opera della classe media, che divora letteralmente colui venuto per salvarli; eppure Pasolini non canta un'elegia nostalgica o, peggio, polemica verso la fine degli ideali: il corvo afferma, testualmente, "Io non piango sulla fine delle mie idee, perchè verrà sicuramente qualcun'altro a prendere in mano la mia bandiera e a portarla avanti; è me stesso che piango!"; la sua tristezza è rivolta alla scomparsa di coloro che quelli ideali propugnavano e che con il loro carisma riuscivano a ridestare le coscienze sopite (Togliatti, San Francesco) ora scomparsi e di cui la società sente (allora come ora) il vuoto; la mancanza di figure di riferimento nel panorama politico ed intellettuale ha di fatto portato alla rovina del paese, alla scomparsa di quegli ideali che il grande autore propagandava (poichè era in errore: nessuno ha raccolto la sua bandiera) e all'imbarbarimento dei costumi (il '68, l'edonismo sfrenato, il berlusconismo, il qualunquismo, ossia l'avverarsi delle sue peggiori paure).
Eppure, in questo fallimento, in questo viaggio senza arrivo e senza ritorno, resta l'opera del grande autore emiliano, che oggi più che mai si dimostra attuale e feconda, che merita di essere riscoperta per comprendere come molti dei mali dell'attuale società fossero stati preconizzati, con acume e lungimiranza, già cinquant'anni fa.

EXTRA:



Un sodalizio perfetto quello tra Totò e Pasolini; il primo, maschera popolare per antonomasia, sapeva mettere il suo istrionismo al servizio delle idee e della simbologia del grande autore, fino a farlo scomparire del tutto, quando occorreva, in favore di uno stile recitativo  più sobrio; il secondo vedeva nel grande artista napoletano la perfetta maschera cui cucire addosso il ruolo di piccolo borghese, di uomo comune meschino ma non cattivo. La loro collaborazione fu, purtroppo, breve, ma anche feconda; oltre ad "Ucellacci e Uccellini", Pasolini diresse Totò in due episodi di due film corali; il primo, "La Terra vista dalla Luna" (nel lungometraggio "Le Streghe" del 1967) è, per stessa ammissione dell'autore, la sua opera più criptica, al punto di non avere (forse) alcun significato effettivo; il secondo è il mitico episodio "Che cosa sono le Nuvole" di "Capriccio all'Italiana" (1968), l'ultimo film completo di Totò, uscito postumo a quasi un anno dalla sua morte; il risultato? Una splendida metafora sull'imperscrutabilità della vita, nel quale appaiono, oltre al fido Ninetto Davoli, persino Domenico Modugno e Franco e Ciccio.


sabato 18 gennaio 2014

Il Capitale Umano

di Paolo Virzì

con: Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Matilde Giolì, Valeria Golino, Fabrizio Giufini, Luigi Lo Cascio, Giovanni Ansaldo, Guglielmo Pinelli, Bebo Storti.

Grottesco/Drammatico

Italia/Francia (2014)











---SPOILERS INSIDE---

Nel post su "La Mafia uccide solo d'Estate" si ricordava come la Commedia all'Italiana sia un "genere" oramai morto e sepolto a causa della mancanza di autori capaci di riprendere a dovere l'eredità del passato; forse a causa della fretta o accecati dalla rabbia, ci si dimenticava dell'unico vero regista in grado di far rivivere i fasti del filone in opere moderne, quel Paolo Virzì che, da livornese doc, riesce a dipingere con estrema efficacia i mali dell'Italia odierna in commedie acide e graffianti; basti pensare a pellicole quali "Caterina va in Città" (2003), nel quale l'autore smaschera lo squallore celato dietro il manicheismo politico e sociale, o a "Tutta la Vita Davanti" (2008) nel quale distrugge i miti del lavoro e della formazione; Virzì è tutt'ora l'unico vero autore italiano capace di ritrarre il buco nero nel quale il paese è precipitato da trent'anni a questa parte mediante un registro ironico, ma amaro, nella più pura tradizione del cinema del (mai troppo) compianto Monicelli.
Con "Il Capitale Umano", il regista toscano tenta un'operazione quasi impossibile: ritrarre l'apocalisse della crisi economica e lo sciacallaggio della grossa borghesia mediante un dramma grottesco, unendo caratterizzazioni iperboliche ad una narrazione fredda, lasciando i toni ironici circoscritti alla sola descrizione dei personaggi; esperimento ardito, che però riesce bene, anche se solo in parte.


Tra l'estate e l'inverno del 2010 si intrecciano le storie di due famiglie dell'interland milanese, gli Ossola, piccoli borghesi, e i Bernaschi, ricchi speculatori finanziari, unite dal fidanzamento dei due figli Massimiliano (Guglielmo Pinelli) e Serena (la rivelazione Matilde Giolì); Dario (Fabrizio Bentivoglio), patriarca degli Ossola e piccolo imprenditore edile, approfitta dell'amicizia con Giovanni Bernaschi (Fabrizio Giufini) per effettuare un'operazione speculativa nella quale coinvolge anche la figlia Serena; Carla Bernaschi (Valeria Bruni Tedeschi) tenta di far riaprire un vecchio teatro, accollandosene la gestione; nel frattempo Serena si allontana da Massimiliano ed intreccia un'appassionata storia d'amore con Luca (Giovanni Ansaldo), giovane povero e disfunzionale, con un turbolento passato alle spalle; le cose si complicano ulteriormente quando le due famiglie restano invischiate nella morte di un cameriere...


Basato in parte sull'omonimo libro di Stephen Amidon, "Il Capitale Umano" è la descrizione di una società sull'orlo dell'apocalisse popolata da veri e propri "freaks"; l'interland milanese sostituisce l'abituale provincia toscana come metafora di un intero paese nel quale ciò che conta è il denaro e nel quale alla lotta di classe si va pian piano sostituendo la cannibalizzazione delle nuove generazioni.
Nel primo capitolo, "Dario", Virzì ritrae la viscerale voglia ricchezza della classe media: volontà smodata e priva di freni che porta il protagonista a mettere in ballo la sicurezza della propria figlia pur di avere un guadagno; nel ritratto, non vi è di fatto alcuna differenza tra il piccolo piranha Ossola e il grande squalo Bernaschi: entrambi vivono solo per il guadagno, entrambi giocano ad un gioco più grande di loro incuranti delle potenziali vittime, tutto per un benessere edonista e smaccatamente distruttivo.
Nel secondo capitolo, "Carla", l'autore descrive la genuina idiozia degli esponenti dell'alta borghesia mediante il ritratto di una donna viziata e stupida, che con la cultura cerca di colmare i suoi fallimenti e il vuoto interiore; perchè di fatto Carla è un fallimento su tutta la linea: genitrice che non riesce a tenere a bada il proprio figlio, moglie ignorata dal marito, fedigrafa cacciata dall'amante ed amministratrice incapace di rilanciare le sorti del proprio teatro; e proprio la sottotrama sul teatro permette a Virzì di arrecare una stoccata forte e vibrante alla classe intellettuale: composta da critici radical chic buoni a nulla, politici ignoranti e vecchi bacucchi, essa rappresenta la più odiosa delle incrostazioni sociali che affliggono il nostro paese, incapace di affermare quanto di buono esista nel panorama culturale odierno, né di rilanciare la gloriosa tradizione del passato; da antologia, in merito, la battuta del deputato leghista, il quale afferma che anzicchè Pirandello o il teatro sperimentale bisognerebbe dar spazio ai più profondi ed intellettualmente appaganti "cori padani".


Dario e Carla rappresentano i due poli opposti e complementari delle brutture che insozzano l'Italia; il primo è un piazzista sgradevole ed arraffone, privo di qualsiasi qualità effettiva, si insinua (mal voluto) nella vita del patron Bernaschi solo per opportunità, per entrare a far parte della cerchia di "quelli che contano", ossia per affermarsi in un mondo fatto solo di soldi e sfarzo; un mondo edonista, si diceva, che distrugge qualsiasi cosa pur di sopravvivere; e non a caso, Dario arriva a sacrificare sua figlia e Luca pur di riavere i suoi soldi: come un moderno Saturno, il padre divora i più giovani, ne azzoppa sogni e speranze per il proprio benessere; Carla, d'altro canto, è la "madre inutile": una donna priva di ogni pregio capace solo di spendere i soldi ed assistere impotente agli eventi; un'ingenua, o meglio una vera e propria "cretina" che, lasciatasi alle spalle una promettente carriera d'attrice, sposa un ricco speculatore solo per l'amor del benessere. E nel descrivere personaggi, Virzì riversa tutto il suo disprezzo: i due sono caratterizzati in modo grottesco, accentuato dalle performance perennemente sopra le righe di Bentivoglio e della Bruni Tedeschi; Dario e Carla divengono così due maschere orrorifiche, deformate e deformati, ma che riescono perfettamente a rappresentare i difetti delle categorie di riferimento.


Nel terzo capitolo, "Serena", Virzì riprende il punto della nuova generazione mediante il personaggio della figlia di Ossola, splendidamente interpretato da Matilde Giolì; nel dipingere la sua storia con il giovane Luca, l'autore abbandona il registro grottesco per uno smaccatamente drammatico; i giovani, il "futuro del Paese", sono le vittime sacrificali dei vecchi; Serena deve continuare a frequentare il lascivo e stupido Massimiliano solo per far contento il padre, mentre deve tenere segreta la sua relazione con il più sensibile Luca perchè appartenente ad una classe sociale più bassa; proprio Luca, nell'economia della storia, è La vittima: manipolato dallo zio (figura paterna surrogata), schifato dai coetanei per i suoi problemi, è lui a dovere essere distrutto affinchè lo status quo persista; nell'egoismo più puro, il "parveneu" lo sacrificherà per i suoi interessi senza remore o rispetto per chi gli è affianco; Luca è la nuova generazione: spaesato perchè privo di qualsiasi punto di riferimento, sfruttato dai più anziani e ignorato dai più benestanti, può solo sopravvivere, persistere nella sua condizione di non-vita o autodistruggersi.


Se nei primi tre capitoli Virzì ben riesce a bilanciare l'atmosfera cupa con la caratterizzazione volgare dei personaggi più anziani e il dramma dei più giovani, nell'ultimo capitolo non riesce a tirare completamente le fila del discorso; la catarsi nel teatro ben rappresenta l'epilogo per la storia di Dario e Carla, ma il lieto di fine che regala a quella di Serena e Luca mal si adatta ai toni del resto della narrazione, anche se giustificabile per l'amore che l'autore prova verso la loro gategoria; sopratutto, la "festa finale" di casa Bernaschi non riesce davvero a rendere l'idea di una classe sociale di cannibali che si ingozzano a scapito degli altri, nè dell'ipocrisia che questi si rivolgono a vicenda.
Epilogo a parte, "Il Capitale Umano" riesce bene nel rappresentare la volgarità e la stupidità di un paese sull'orlo (o già dentro?) il baratro e la drammaticità di coloro costretti e subirne le conseguenze.

martedì 14 gennaio 2014

Capitan Harlock

Space Pirate Capitain Harlock

di Shinji Aramaki

Animazione/Fantascienza

Giappone (2013)


















Parlare di Capitan Harlock significa confrontarsi con un vero e proprio pilastro dell'animazione nipponica, nonchè con un'icona pop in grado di influenzare (sopratutto qui in Italia) milioni di fans, sia tra i giovani che tra gli adulti; creato nel 1976 da Leiji Matsumoto, il manga originale aveva alla base un soggetto al contempo archetipico e profetico: nel 21° secolo, l'umanità si è ridotta ad un'accozzaglia di larve umane, dedite all'edonismo e infiacchite da un benessere ai limiti dell'oppressivo; l'esplorazione spaziale, dopo aver fornito risorse sufficienti, viene abbandonata e solo in pochi solcano i cieli a bordo di astronavi in cerca di nuove mete; tra questi vi è il misterioso Capitan Harlock, pirata fuorilegge che con la sua nave "Arcadia" abborda e deruba le navi governative senza alcuno scopo apparente; in uno scenario del genere, una razza aliena, le Mazoniane, umanoidi dalle fattezze femminili, cominciano una silenziosa invasione del pianeta Terra; di fronte all'indifferenza delle autorità, sarà Harlock a sventare la minaccia, coadiuvato dal giovane Tadashi Daiba, figlio di uno scienziato che ha tentato invano di spronare il governo mondiale ad intervenire, dal pacioso ufficiale di rotta Yattaran, dalla bella Yuki Kei e dalla misteriosa aliena Mime.


I primi capitoli del manga riscuotono un grosso successo, tant'è che nel 1978 ne viene tratta una serie televisiva, alla quale lavora lo stesso Matsumoto in veste di sceneggiatore (e che lo costringe ad abbandonare la stesura del fumetto per dedicarsi totalmente alla versione televisiva, lasciandolo tutt'ora incompiuto); anime che arricchisce la storia originale di dettagli e personaggi e che, grazie all'evocativa regia di Rin Taro, ammanta le vicende in un'atmosfera epica e romantica, tutt'oggi apprezzabilissima, che lo rende, assieme all'ottima storia, un prodotto di tutto rispetto; merito anche della splendida caratterizzazione dei personaggi: Tadashi diviene il giovane eroe che viene formato dall'esperienza bellica, Kei e gli altri membri dell'equipaggio vengono forniti di un background credibile e tragico, foriero di un'empatia immediata, il personaggio di Tochiro, amico fraterno di Harlock, diviene il misterioso "membro fantasma" della nave Arcadia; e naturalmente su tutti svetta la figura del Capitano: visto dapprima attraverso gli occhi di Tadashi e le testimonianze dei nemici, Harlock diviene dopo una manciata di episodi il protagonista assoluto della serie; dotato di un carisma fuori misura e plasmato sull'archetipo dell'eroe byroniano, Harlock è all'apparenza un anti-eroe nichilista e spregevole, ma si rivela presto come un uomo dai forti ideali e dal ferreo codice d'onore, il cui carattere taciturno e schietto è dovuto ad una forte disillusione verso i terrestri, che decide di proteggere solo per la salvezza del loro pianeta.


Approdata in Italia nel 1979, la serie riscuote subito un enorme successo; i temi trattati (l'ecologia, il rispetto per il diverso, la distopia politica e, sopratutto, la libertà e gli ideali come sola ragione di vita) la rendono un cult immediato sopratutto tra gli spettatori adulti, che per la prima volta scoprono come un cartone animato possa essere foriero di storie mature e non esclusivamente votate al mero intrattenimento.
Nel corso degli anni Matsumoto avrebbe poi creato altre storie con protagonista il pirata dello spazio, nessuna delle quali è però legata narrativamente al capostipite: ogni incarnazione del personaggio presenta temi, personaggi e ambientazioni simili, ma storie e caratterizzazioni diverse (fatta salva quella del protagonista), senza però mai raggiungere le vette qualitative della prima storica serie televisiva; per l'adattamento cinematografico si è così scelto di creare una storia ad hoc, che riprendesse temi e personaggi dell'universo di Matsumoto e li declinasse in modo originale; operazione riuscita solo in parte.


In un remoto futuro (o forse in un passato ancora più remoto) l'umanità si è espansa nell'Universo creando nuove colonie; tuttavia su nessun pianeta si è riusciti a ricreare l'ecosistema terrestre; cresciuta fino all'esorbitante numero di 500 miliardi, la popolazione decide di ritornare sul suo pianeta natio; tuttavia, l'incapacità di ospitare tutti gli abitanti porta ad un guerra, definita "Guerra di Come Home", che si chiude con la "Gaia Sanction": un ordine politico para-ecclesiastico sancisce il divieto per ogni umano di scendere sulla Terra; cento anni dopo, il pirata dello spazio Capitan Harlock, che la leggenda vuole immortale ed ultra-centenario, solca i cieli con la nave Arcadia portando avanti una guerra personale contro la flotta del governo; il giovane Yama, fratello di Ezra, capo dell'esercito, si infiltra sulla nave del pirata per scoprirne i piani.


Tutti i topoi dell'opera di Matsumoto vengono ripresi anche in questa prima incarnazione cinematografica: la distopia politica, qui incarnata dalla Gaia Fleet, sorta di Chiesa futuribile che venera il pianeta Terra come una divinità laica e che governa l'umanità con il pugno di ferro; l'ecologismo visto come sola speranza di sopravvivenza per la razza umana; il giovane che scopre un ideale per vivere come Tadashi nella serie originale; l'Arcadia come ultimo vessillo di libertà e Harlock come eroe romantico e tormentato; tuttavia la sceneggiatura reinventa anche le figure principali ed evita ogni manicheismo; al centro della vicenda, più che Harlock, vi è il rapporto tra Yama e suo fratello Ezra: rapporto turbolento e stratificato; inoltre lo stesso capitano non viene descritto come un eroe infallibile, ma come un personaggio ambiguo, in parte angelo custode ed in parte demone distruttore, aumentandone il fascino ed il carisma. Ai temi cari a Matsumoto ne viene aggiunto un altro, più complesso: il fatalismo inteso come incapacità di cancellare i propri errori, che si traduce in lotta disperata per il futuro; fatalismo che introduce nel mondo di Harlock concetti quali l'eterno ripetersi degli eventi e, su un piano strettamente narrativo, la riscrittura del piano temporale. Temi e concetti interessanti, ma che non sempre trovano un giusto svolgimento.


La sceneggiatura, alla quale purtroppo l'autore non ha preso parte, non riesce mai a comunicare davvero il senso di ineluttabilità che affligge Harlock: sebbene la sua figura sia ben delineata nella sua ambivalenza morale e nella sua fallacia, il senso di pericolo apocalittico che dovrebbe accompagnare la narrazione non trova mai vero compimento; fatalmente, anche il romanticismo e l'epicità proprie delle vecchie incarnazioni del personaggio qui scompaiono, facendo perdere alla vicenda parte del suo potenziale carisma; se si esclude il finale, nel quale il sense of wonder matsumotiano viene recuperato in extremis, generando però solo tanta confusione a causa di un vero e proprio buco di sceneggiatura. Persino i personaggi soffrono di una caratterizzazione piatta: eslcuisi i tre protagonisti (Harlock, Yama ed Ezra), tutti i comprimari presentano caratteri bidimensionali, talvolta sfacciatamente stereotipati, come nel caso di Kei, qui ridotta a mera "bionda fatale".


Laddove la sceneggiatura arranca, fortunatamente i grossi valori produttivi salvano la visione; con un budget di 30 milioni di dollari, "Capitan Harlock" si attesta come la produzione nipponica più espansiva della storia (superando persino il record di oltre 20 milioni di "Space Battleship Yamato" del 2010, anch'esso tratto da un'opera di Leiji Matsumoto) e i risultati si vedono; le animazioni in CGI, sopratutto quelle dei personaggi principali, sono stupefacenti; la qualità delle texture tocca vette di fotorealismo inusitate e l'espressività dei volti è talvolta perfetta. La regia di Aramaki, va detto, talvolta inciampa: gli scontri a fuoco e all'arma bianca mancano di coreografie adeguate, laddove nel precedente "Appleseed- Ex Machina" (2007) l'autore aveva dimostrato un gusto maggiore per le coreografie; fortunatamente, riesce a creare delle sequenze di guerra a dir poco visionarie: gli scontri tra l'Arcadia e la Gaia Fleet sono spettacolari e pirotecnici, bucano lo schermo per la forza immaginifica e la qualità grafica; dulcis in fundo: character design e mecha design sono da antologia; fortemente influenzati dalla corrente steampunk, armi e armature sono una perfetta fusione tra visioni futuribili e reminiscenze del 19° secolo, che rendono perfettamente giustizia all'immaginario sfrenato del mondo di Matsumoto; su tutto, ovviamente, svetta il design dell'Arcadia, mai così gotica e minacciosa, semplicemente stupenda da vedersi.



Spettacolare, ma imperfetto, colmo di carisma ma talvolta troppo ingenuo, "Capitan Harlock" è un kolossal visionario, ma traballante, uno spettacolo per gli occhi che purtroppo soffre di una sceneggiatura piatta e talvolta poco ispirata; un vero peccato visto la grandezza e la freschezza dell'opera d'origine.