sabato 31 ottobre 2015

Tucker and Dale vs. Evil

 di Eli Craig.

con: Alan Tudyck, Tyler Labine, Katrina Bowden, Jesse Moss, Philip Granger, Chelan Simmons.

Commedia/Slapstick/Splatter

Usa, Canada, Inghilterra, India- 2010

















Quello dell' "Hillbillies Horror" è un filone roseo all'interno della produzione orrorfica americana, grazie ad una serie di elementi sempre interessanti. Un orrore partorito dalla società a stelle e strisce e che vive alla luce del sole negli angoli più reconditi della nazione, lontano dalla civilizzata costa, nell'entroterra più remoto, fatto di sconfinati deserti ed immensi boschi. Un orrore dovuto all'idiozia degli "zotici", totalmente avulsi dalla realtà e per questo dediti alla devianza più pura, che spesso culmina nell'incesto dei cosiddetti "inbred". E come ogni filone che si rispetti, anche l' hillibilles horror è stato omaggiato da una commedia che ne ha stravolto impostazione e luoghi comuni: "Tucker & Dale vs. Evil", lettera d'amore verso classici come "Deliverance" (1972) e "The Texas Chainsaw Massacre" (1974), che riprende questa volta il punto di vista non dei ragazzetti di turno, quanto dei presunti mostri; il quali si riveleranno essere due simpatici bontemponi incappati in una serie di disastrose coincidenze.


Tucker (Alan Tudyck) e il suo timidissimo migliore amico Dale (Tyler Labine) sono due allegri operai che decidono di concedersi una vacanza nei boschi, approfittandone per ristrutturare un vecchio capanno abbandonato. Sfortunatamente non sanno che in quegli stessi boschi, venti anni prima, si è consumata una serie di efferati delitti commessi da alcuni paesani e che, ancora peggio, un gruppetto di studentelli arrapati e vogliosi di baldoria ha deciso di campeggiarci.


L'omaggio sarcastico era già stato tentato nientemeno che da Eli Roth con il suo esordio "Cabin Fever" (2002). Ma laddove la prova di Roth era compiaciuta e scostante, "Tucker & Dale" riprende i topoi del caso e li riarrangia spostando il punto di vista da quello del canonico gruppo di teen-agers a quello dei campagnoli.
Questi vengono così spogliati dall'aura di malignità per divenire due simpatici montanari in cerca di tranquillità: il panciuto Dale, afflitto da una irrimediabile timidezza, e lo sfortunato Tucker, perennemente immerso in situazioni disastrose alla Stanlio e Ollio.


Ampio spazio, di conseguenza, a sbronze con Pabst Blue Ribbon usata come medicinale, corse a perdifiato con la motosega in mano per sfuggire alle api scambiate per raptus omicidi e capitomboli che finiscono in piogge di sangue. L'omicidio diviene definitivamente situazione comica, mentre lo splatter eccessivo, che talvolta sconfina nel gore, si colora immancabilmente di una nota umoristica.
Il cambio di punto di vista permette di ricreare tutti gli omicidi del filone in chiave parodistica, dove la morte è conseguenza della goffagine dei personaggi o del caso. Lo humor di "Tucker & Dale" non deriva dalla fusione tra il registro splatter e quello slapstick come nei classici di Sam Raimi, quanto nell'inclusione di conseguenze grottesche ed umorismo nerissimo in un contesto altrimenti saldamente comico.



La riuscita finale si deve però anche al cast affiatato, con il britannico Tudyck perfettamente calato nei panni del boscaiolo Tucker, l'irresitibile Tyler Lebine semplicemente perfetto con la sua fisicità baffuta e bonaria in quelli dello scanzona Dale e la bella Katrina Bowden che sovverte il canone della bionda illibata per divenire la donzella in pericolo che si innamora del suo presunto rapitore.

venerdì 23 ottobre 2015

V/H/S 2

di: Adam Wingard, Greg Hale, Eduardo Sanchez, Gareth Evans, Timo Tjhajanto, Jason Eisner, Simon Barrett.

con: Adam Wingard, Lawrance Micahel Devine, Kelsy Abbott, Hannah Hughes, Casey Adams, Fachry Albar, Oka Antara, Samantha Gracie.

Horror/Episodico

Usa, 2013














---CONTIENE SPOILERS---


Il primo "V/H/S" (2012) nasceva dalla necessità di strappare il filone del found footage dall'idea di cinema sciatto e stereotipato che Oren Peli aveva imposto con la serie di "Paranormal Activity". Il successo, forse insperato, che aveva ottenuto al Sundance e al successivo Frightfest ha di sicuro rincuorato gli autori, che un anno dopo tornano con una nuova antologia, questa volta coadiuvati da delle guest-star di eccezione.
Oltre al mastermind della serie Brad Miska e ai veterani Adam Wingard e Simon Barrett, suo sceneggiatore di fiducia, "V/H/S 2" può contare sul contributo del duo Greg Hale/Eduardo Sanchez,già autori di "The Blair Witch Project" (1999), ossia coloro che per primi riportarono in auge lo stile finto-documentarista in chiave horror. Oltre che di un altro incredibile duo composto dal geniale Gareth Edwards, creatore del bellissimo "The Raid" (2011), e Timo Tjhajanto, regista indonesiano e guru dell'horror in patria.
Il risultato, seppur non perfetto, va oltre il solo intento dignitoso per farsi celebrazione della forza creativa del mezzo filmico. Con pochi soldi, molte idee e talento talvolta immane, il gruppo crea una nuova serie di corti in grado davvero di spaventare e sorprendere.




TAPE 49

Episodio cornice, diretto da Barrett, che riprende la traccia narrativa del precedente "Tape 56" e la rielabora. Questa volta gli avventori della strana magione sono due detective, sempre in cerca della misteriosa VHS. Quello che non sanno è di non essere soli... oltre che maledetti.
Corto che setta l'atmosfera e che riesce davvero ad inquietare nell'epilogo, dove lo stile amatoriale ben riesce a creare tensione. Gli effetti splatter sono ottimi e l'ultima scena riesce così a lasciare addosso un senso di disagio unico.




PHASE I CLINICAL TRIALS

Adam Wingard dirige quello che è il peggior esito della sua carriera, oltre che il corto meno riuscito dell'intero film, talmente brutto da sembrare una parodia.
Un uomo, ferito ad un occhio, si fa impiantare un rivoluzionario congegno bionico, che però riesce a captare anche i fantasmi.
Wingard non va oltre il concept di base. La tensione viene stranamente mantenuta con tutti i trucchetti del manuale dello spaventarello e, caso unico, manca il gore. I dialoghi sono forzati e la sceneggiatura è talmente basica da sembrare una bozza mai sviluppata. Davvero un peccato, visto il talento dell'autore.






A RIDE IN THE PARK

Hale e Sanchez creano una geniale variante del found footage e riescono nel miracolo di dire qualcosa di nuovo tirando in mezzo l'inflazionatissima figura dello zombi cannibale.
Attraverso la GoPro montata sul casco del malcapitato protagonista, assistiamo alla sua trasformazione in morto vivente e al conseguente attacco ai vivi. Per la prima volta il punto di vista della vicenda è quella del mostro antropofago, con cui lo spettatore deve identificarsi anche quando ciò si traduce in intestini lanciatigli in faccia. Con tale meccanismo l'orrore assume una nuova valenza, data dall'impossibilità di farlo cessare o di obliarlo. Lo spettatore divora le vittime, sublimando il desiderio inconscio di vedere sangue e sbudellamenti, ma viene castrato dall'insostenibile visceralità dell'atto violento, non potendo questa essere filtrata dalla messa in scena.



SAFE HAVEN

L'episodio migliore, piccolo capolavoro di messa in scena e tensione, diretto da Evans e Tjhajanto. In Indonesia, un gruppo di giovani giornalisti investiga su di uno strano culto, il quale si rivelerà dedito al satanismo e al suicidio di massa.
Tesissimo e scioccante. Comincia come un semplice horror d'atmosfera per trasformarsi in una forsennata sarabanda di orrori. Lo stile ipercinetico di Evans si sposa perfettamente con le riprese in soggettiva e l'uso di multipli punti di vista infrange il solo scopo sperimentale per farsi nuovo stile visionario. Il crescendo di orrori è incredibile: ad ogni sequenza l'efferratezza viene rilanciata costantemente, passando dal semplice disturbante sino all'insostenibile. La scena del parto del demone è da antologia dell' horror demoniaco, così come le incredibile sequenze dei suicidi, fortemente ispirate dai culti di Heavens' Gate e del massacro di Jonestown. Mentre il finale, a dir poco spiazzante, aggiunge una nota macabra e beffarda difficile da scrollarsi di dosso.



SLUMBER PARTY ALIEN ABDUCTION

Jason Eisner, regista dello sgangherato ma amorevole "Hobo with a Shotgun" (2011) dirige un corto a metà strada tra il nostalgico ed il provocatorio. Come in "Super 8"(2011),un gruppo di ragazzini è alle prese con un'invasione aliena. Ma questa volta i ragazzi sono degli sporcaccioni che si divertono a guardare porno e a filmare i flirt della sorella maggiore di turno, mentre gli alieni sono dei mostruosi grigi. Buona la tensione, ma a salvare tutto è come sempre l'indole sperimentale, che porta a filmare quasi tutto il corto con una piccola videocamera attacca sul dorso di un cane.

martedì 20 ottobre 2015

Star Wars- Episodio II- L'Attacco dei Cloni

Star Wars- Episode II- Attack of the Clones

di George Lucas.

con: Ewan McGregor, Hayden Christiansen, Natalie Portman, Christopher Lee, Ian McDiarmid, Temuera Morrison, Frank Oz, Samuel L.Jackson.

Fantastico

Usa, 2002













Quando "L'Attacco dei Cloni" uscì al cinema, la reazione dei fanboys fu incredibilmente positiva, tanto da essere accolto come un prequel quasi all'altezza dei tanto amati classici. A decretarne il successo sarà forse stata la necessità degli aficionados di riconciliarsi con quella space opera che tanto aveva dato loro in passato, o forse la scoperta di come uno dei loro desideri più forti, la scomparsa dell'odioso Jar Jar Binks, fosse stata ascoltato dal demiurgo Lucas. Fatto sta che dopo pochissimi anni dall'uscita, persino loro dovettero ammettere come anche questo secondo nuovo exploit fosse a dir poco inguardabile.
Sempre a difesa di Lucas va sottolineato come almeno questa volta tenti di inserire nel suo giocattolo una sorta di storia. Laddove in "La Minaccia Fantasma" personaggi e situazioni era tirati su schermo per giustificare (malamente) l'orrendo spettacolo visivo, qui abbiamo una duplice traccia narrativa: l'indagine di Obi-Wan sull'esercito di cloni e la storia d'amore tra Padmè ed Anakin, ora giovane uomo. Peccato che entrambe siano condotte in modo superficiale e ridicolo.






Ridicolo che si palesa sin dal primo atto, ambientato totalmente su Coruscant, dove Lucas sfoggia un insostenibile debito di immaginazione verso il "Blade Runnner" Scott. Estetica a parte, la caratterizzazione dei personaggi è semplicemente penosa; Obi-Wan diviene un inglesotto saccente, mentre Anakin una testa calda, al quale l'interpretazione piatta e la faccia da scimmia di Hayden Christiansen negano definitivamente ogni forma di carisma. Il "giovane jedi sedotto dal lato oscuro" è qui un semplice picchiatore innamorato, nulla più.
La "missione di scorta" a Padmè permette a Lucas di sfoggiare subito la sua totale incapacità di scrivere una storia credibile. Perchè un assassino decide di ucciderla usando dei vermi? Perchè ad inseguirlo in modo forsennato, spaccando vetri a suo di testate, è il pacato Obi-Wan e non lo spaccone Skywalker? Perchè il mercenario-killer più temuto della galassia Jango Fett subappalta un assassinio tanto importante? Risposte semplici: a Lucas interessa solo sparare su schermo quante più sequenze spettacolari possibili, a discapito della loro credibilità. Anche se per farlo deve introdurre ambienti e personaggi che si adattano malissimo al mondo che ha creato, come il cuoco-gambero del fast-food, che sembra uscito da un romanzo di Douglas Adams piuttosto che dal mondo della Galassia lontana lontana. O peggio, riciclare l'amatissimo Boba Fett per far colpo sui fans.





Sempre ridicolo è lo story-arc di Obi-Wan; non si riesce a credere all'incipit in cui una forza misteriosa riesce a cancellare dati dall'archivio Jedi, ossia la forza più potente della galassia, come se niente fosse. Nel finale, quando il cavaliere si "dimentica" di riferire al consiglio di come l'ordine per la creazione dell'esercito sia partito in qualche modo dallo stesso, le risate si trattengono a stento.
Così come è impossibile non spanciarsi difronte alla relazione tra Padmè e Anakin. Per quale motivo la giovane senatrice, pur fortemente attratta dal giovane, non vuole ricambiare le sue attenzioni? Forse Lucas è convinto che anche i politici debbano fare voto di celibato? Allo stesso modo, non è dato capire perchè un Jedi non possa amare. Il celibato imposto ricorda quello dei mormoni, piuttosto che quello degli antichi ordini cavallereschi, giacchè non prescrive la semplice astinenza sessuale, ma il totale "divieto di amare", come se il sentimento amoroso si riducesse alla sola passione carnale. Il tutto, ovviamente, non è che un escamotage per aumentare la tensione drammatica; con risultati ovviamente ridicoli.
Perchè le risate si moltiplicano a dismisura nel vedere l'esecuzione di questa travagliata ed epica relazione, con Padmè che, pur ritrosa, sfoggia dinanzi al suo amore impossibile una serie di vestiti succinti che la fanno somigliare alla matrona di un postribolo di lusso, mentre il baldo cavaliere si slancia in dialoghi inascoltabili sulla fastidiosità della sabbia e sulla gioia data dall'aggiustare le cose. Il tutto mentre sono immersi in ambienti sempre più intimi e romantici, come cascate immerse nel verde di Naboo o accoglienti camere da letto con camino acceso.




Ma naturalmente questo prequel deve anche illustrare l'avvicinamento verso il lato oscuro del giovane Anakin, che Lucas decide saggiamente di confinare ad un'unica sequenza, anch'essa oltremodo ridicola. Skywalker torna su Tatooine per salvare la madre, che lui stesso si era dimenticato di liberare nonostante la sua carica di Jedi. Trova la povera donna in una posa che non può non far pensare ad una violenza sessuale e, dopo un massacro avvenuto ovviamente fuori scena, si cimenta in un monologo rabbioso da scult immediato.
Il fondo lo si tocca nel finale. Fa davvero soffrire vedere Christopher Lee nei panni di un cattivo blandissimo e che non fa paura, né affascina. Spiazza vederlo totalmente spaesato in mezzo a green screen e costumi da cosplayer. Fa ancora più soffrire vedere come Lucas abbia deciso di ridurre il personaggio di Yoda: il saggio maestro che ne "L'Impero Colpisce Ancora" (1980) disprezzava l'uso delle armi ed insegnava come la vera forza fosse quella interiore, qui è un pupazzetto che combatte come un grillo impazzito, un fenomeno da baraccone utile solo a creare una spettacolarità forzata e per questo ulteriormente ridicola.




Tuttavia, se la scrittura-spazzatura era un difetto che già affliggeva "La Minaccia Fantasma" e che quindi è lecito aspettarsi nel suo sequel, è del tutto spiazzante trovarsi dinanzi agli occhi un'estetica totalmente digitale e completamente squallida. Quasi ogni singolo ambiente è stato ricreato con un green-screen appiccicato alle spalle degli attori. Le ambientazioni, punto di forza della "trilogia classica", sono palesemente finte e si integrano malissimo con gli attori reali. Allo stesso modo, le creature aliene, come gli scienziati di Kamino o gli insettoidi, sono palesemente falsi, cartoni animati che non riescono mai ad ingannare l'occhio umano.
Uso di sfondi e personaggi postprodotti che limita anche la messa in scena: ogni singola sequenza, salvo quelle squisitamente action, è costruita come una serie infinita di dialoghi tra due o più personaggi, sempre seduti o intenti a camminare da un punto all'altro dello schermo. Il che, unito ai pessimi dialoghi, aumenta il senso di artificialità.




Persino le battaglie non ammaliano più: troppa CGI, con personaggi totalmente animati che non riescono a restituire mai un vero senso di dramma o ad essere credibili. La battaglia finale, con lo scontro tra gli Jedi, per la prima volta in azione in gruppo, è un freddo esempio di cinema che si fa vidoegioco, dove personaggi privi di spessore emotivo o estetico trasformano l'arte della messa in scena in una sterilissima sarabanda di colori e forme.




Una saga piatta, quella della "nuova trilogia", priva di mordente e di fascino, ricolma di compiacimento e di tanto, troppo ridicolo involontario. Pur tuttavia, non bisogna neanche stupirsene: quando l'unico intento di un regista è giocare con la computer graphic per fare soldi, i risultati non possono che essere disastrosi.





EXTRA

Sull'onda del successo de "L'Attacco dei Cloni", Cartoon Network produsse, nel 2003, "Clone Wars", cartone animato composto da un totale di 25 episodi, dalla durata variabile compresa tra i 3 ed i 25 minuti, diretta dal geniale regista Genndy Tartakowsky ed ambientato tra il secondo ed il terzo capitolo della saga cinematografica.




Piccolo gioiello di animazione stilizzata e sperimentale, "Clone Wars" è un'incarnazione del mondo di Lucas ben più interessante del lungometraggio che lo ha ispirato.


Da dimenticare, invece, il suo seguito spirituale "The Clone Wars". Serie televisiva prodotta sempre da Cartoon Network, composta da ben 129 episodi e fortemente voluta e amata da George Lucas, non ha un briciolo dell'inventiva di "Clone Wars". Inoltre, la pessima veste grafica, fatta di personaggi tridimensionali che sembrano animati per un videogioco per PS2 la rende spesso inguardabile.
Nel estate del 2008, i primi tre episodi, montanti come un unico lungometraggio, furono finanche distribuiti al cinema, con esisti disastrosi: ad oggi, l'unico vero flop del marchio "Star Wars".


domenica 18 ottobre 2015

V/H/S

di: Adam Wingard, Ti West, Joe Swanberg, David Bruckner, Glenn McQuaid, "Radio Silence".

con: Adam Wingard, Andrew Droz Palermo, Hannah Fierman, Joe Swanberg, Sophia Takal, Helen Rogers, Daniel Kaufman.

Horror/Episodico

Usa, 2012














Quando nel 2012 "V/H/S" fu presentato al Sundance Film Festival, il found footage era già giunto al punto di saturazione; forse anche per questo fu facile per questa piccola antologia spiccare tra le decine di finto-documentari horror che infestavano (e infestano tutt'oggi) le sale.
Perchè sebbene il lavoro del gruppo di affiatati registi underground capitanati dalle superstars Adam Wingard e Ti West non sia sicuramente originale (e neanche vuole esserlo), il suo intento di scioccare e svecchiare il registro di riferimento è perfettamente riuscito, con sei episodi, al solito altalenanti, che riescono sempre e comunque ad intrigare o a terrorizzare con poco.
Dove quel "poco" non è la solita sarabanda di falsi spaventi, rumori fuori scena, colpi improvvisi ed impennate dell'audio, ma la creazione di un'atmosfera sottilmente inquietante che riesce a crescere sottopelle sino a scoppiare in un gore reso ancora più disturbante proprio dalla tecnica "amatoriale". Ben si farebbe, dunque, a guardare con attenzione questa piccola perla e a lasciar perdere la serie di "Paranormal Activity", vera e propria truffa legalizzata dei grandi studios travestita da piccolo film sperimentale.



TAPE 56

Episodio cornice, scritto diretto ed interpretato dall'enfant prodige dell'horror underground Adam Wingard. 
Un gruppo di scapestrati, patiti per la videoripresa ed il vandalismo, si introduce in una casa, forse abbandonata, per recuperare una videocassetta. Una volta dentro, si troveranno dinanzi al cadavere del vecchio proprietario e ad una pila di snuff movies su VHS.
Assieme a quello di Ti West, l'episodio più blando; difetto scusabile se si tiene conto del fatto di come la sua unica funzione sia quella di introdurre gli altri corti. L'atmosfera sporca è introdotta a dovere, la cattiveria dei ragazzi, come al solito nel cinema di Wingard, li fa odiare al punto che la loro eliminazione diventa catartica. Non manca lo splatter, ma è l'ambientazione buia e squallida a regalare i veri brividi.



AMATEUR NIGHT

Primo episodio dell'antologia, diretto da David Bruckner, nonchè uno dei migliori. 
Tre amici si abbandonano ad una serata all'insegna di alcool e sesso, filmando tutto con una microcamera nascosta in un paio di occhiali.
Il vouyerismo si fonde con lo splatter. La mania di riprendere ogni singola azione stupida, esplosa con la "generazione youtube" unita all'orrore della sessualità. Il demone interpretato dalla bella Hannah Fierman è un mix di sensualità e repulsione, l'incarnazione della libido sublimata e punita. 
Bruckner sa gestire alla perfezione la tempistica dell'horror e alcuni passaggi sono da antologia. Su tutti, l'immagine con cui il demone si rivela allo spettatore, talmente riuscita da far letteralmente saltare sulla sedia.




SECOND HONEYMOON

Diretto da Ti West ed interpretato da Joe Seanberg, autore del corto "The Sick thing that happened to Emily when she was younger". Un piccolo thriller che vive della sola costruzione della tensione, un crescendo che esplode nel finale. A tratti decisamente noioso, si riscatta per la bella sequenza dello stalking nel sonno.




TUESDAY THE 17TH

Diretto da Glenn McQuaid, una divertente variazione sullo slasher americano classico. Un gruppo di ragazzi decide di passare un pomeriggio al lago, dove un serial killer si aggira impunito. La tensione è alta, così come lo splatter, ma il vero motivo di interesse resta nel colpo di scena finale e nella caratterizzazione grafica del "mostro", originale ed inquietante.




THE SICK THING THAT HAPPENED TO EMILY WHEN SHE WAS YOUNGER


Swanberg dirige l'episodio più semplice e più disturbante. Due anni prima di "Unfriended" (2014), l'autore anticipa una messa in scena totalmente virtuale, costruita tramite due portatili connessi in videoripresa e due attori in un'unica location. La casa infestata da poltergeist bambini mette i brividi, così come le loro apparizione, che, a differenza di "Paranormal Activity" (2007), non sono costruite solamente sullo spavento immediato. L'apice viene raggiunto nello sconvolgente climax, con un richiamo al body horror cronenberghiano a tratti insostenibile per la brutalità.




31/10/98

Ultimo episodio, diretto dal gruppo di filmmakers"Radio Silence". Altra variazione sul tema "casa infestata", questa volta più compatto stilisticamente. La prima parte, piatta, serve solo a far esplodere la tensione negli ultimi, in una corsa folle nel quale né i personaggi, né lo spettatore hanno scampo.


Esperimento riuscito, quello di "V/H/S" che riesce davvero a dare dignità al found footage sperimentando, fondendo ispirazioni e registri per creare qualcosa di incredibilmente spaventoso e per questo estremamente divertente.

sabato 17 ottobre 2015

Suburra

 di Stefano Sollima.

con: Pierfrancesco Favino, Elio Germano, Claudio Amendola, Alessandro Borghi, Greta Scarano, Jean-Hughes Anglade, Adamo Dionisi.


Italia, Francia- 2015
















Dalle ceneri del cinema "civile" e del "polizziottesco" nacque, nel 2005, un nuovo filone che rinvigorì in parte gli esiti della sciagurata cinematografia italiana. Un filone che si è imposto al cinema con "Romanzo Criminale" come mix tra noir, dramma e spaccato sociale e che in televisione ha trovato, con la serie omonima, un'identità più forte, più vicina alle fonti di ispirazione originale e decisamente più interessante.
Il filone in sé non ha non ha un nome preciso e non può essere accostato a generi e registri convenzionali; perchè se già il termine "gangster movie" mal si adattava all'originale "Romanzo Criminale", appare del tutto inutilizzabile per pellicole come "Perez." (2014) o "Anime Nere" (2014). Tanto che lo stesso può essere indicato solo con un termine misto: "dramma criminale".
Punto d'arrivo della rielaborazione della cronaca e della costruzione drammatica del "dramma criminale" è "Suburra", vero e proprio punto di non ritorno per il filone. Non è un caso che a dirigerlo sia quello Stefano Sollima, caso unico di figlio d'arte italiano di talento, che già aveva dato prova di sé proprio con la serie di "Romanzo Criminale"; e che il soggetto sia tratto da un romanzo di Giancarlo De Cataldo, sempre autore dell'omonimo romanzo sulla Banda della Magliana. Una chiusa che conferma purtroppo le doti del regista, a suo agio sul piccolo schermo, ma goffo sul grande; e che dimostra l'incapacità del "dramma criminale" di dare uno spaccato credibile e veritiero sul mondo che vorrebbe raccontare.


La Roma di "mafia capitale", degli scandali sulla collusione tra politica e crimine, delle feste oscene e dei mignottoni un tanto al chilo, viene filtrata attraverso un pugno di personaggi sulla carta spregevoli. L'onorevole Malgradi (Favino) è un politico di centrodestra ossessionato dalle prostitute minorenni e dalla droga, con le mani in pasta nel faraonico progetto di riqualificazione del lungomare di Ostia. Per coprire la morte accidentale di una delle sue "amichette", Malgradi scatena involontariamente una faida tra il giovane arrivista "Numero 8" (Alessandro Borghi) e il violento clan di origine zingara degli Anacleti, capeggiato dal volgare Manfredi (Adamo Dionisi). Nel frattempo il faccendiere Sebastiano (Elio Germano), specializzato in festini osè, si trova a sua volta inguaiato con gli Anacleti a causa dei debiti del padre, vecchio imprenditore edile. Su tutto, vige l'occhio attento di "Samurai" (Claudio Amendola), vecchio boss dai tempi della Magliana e uomo di fiducia delle mafie meridionali.


Sin dal titolo, "Suburra" vorrebbe fare il punto sull'unione necessaria tra criminalità e potere, richiamando quel luogo dell'antica Roma dove i senatori incontravano i capi dei collegia, le "batterie" della piccola criminalità. La collusione tra Stato, in particolare del Parlamento, al quale le manovre intimidatorie dei clan servono per ottenere voti, e mafia autoctona ed esterna, affamata dei miliardi da investire, rivive nelle figure dell'onorevole e del giovane arrivista, della sua matrona e dei criminali. Ma il confronto tra messa in scena e realtà delle cronache è impietoso: i personaggi creati da De Cataldo e Sollima, benchè ispirati a personaggi realmente esistenti, sono edulcorati e le loro relazioni troppo semplificate rispetto alle controparti reali.
Non è sostenibile la tesi di una politica "ostaggio" delle organizzazioni criminali, non a seguito degli scandali sui "serbatoi di voti" di Roma Mafiosa e, prima ancora, di ogni altra singola inchiesta che ha intaccato gli "onorevoli" negli ultimi trent'anni di vita della Repubblica Italiana. Laddove nel mondo reale, il rapporto mafia-politica è biunivoco, basato sullo scambio tra voto e privilegio, nel mondo di "Suburra" la politica ne esce sempre, bene o male, pulita. Se la figura dell'onorevole Malgradi è, bene o male, credibile nella sua caratterizzazione di arrivista che si crede al di sopra di tutto e di tutti, del tutto ridicola è quella del faccendiere Sebastiano, il quale non solo è all'oscuro della speculazione e della collusione tra l'impero dell'edilizia e le organizzazioni criminali, ma risulta anche taglieggiato da queste suo malgrado; laddove, invece, i casi di Mokbel e soci hanno scoperchiato un disegno ben più squallido ed orrorifico di edonisti che procacciano piaceri per i potenti di turno e arrivano a mediare con la mafia per ottenere i voti e le influenze necessarie alla politica. Ancora, la messa in scena della festa con cui viene introdotto il personaggio, in teoria decadente, si rivela come un piccolo party tra amici timorati di Dio se paragonato alle feste della "Roma bene" alle quali il PDL spesso si abbandonava, veri e propri baccanali in costume. L'apice del ridicolo viene raggiunto quando questo "idiota dal cuore d'oro" viene affiancato alla figura della prostituta, che lui stesso utilizzava per il proprio sollazzo, in una relazione fraterna lontana anni luce dallo sfruttamento della prostituzione dei transessuali ai quali gli scandali degli scorsi anni ci hanno abituati.



La descrizione della mafia, a sua volta, soffre di una schizofrenia imbarazzante. La nuova generazione di criminali violenti e tossici viene cucita addosso alla gang di Numero 8, formata unicamente da teppistelli dal grilletto facile capeggiati da un bossetto da strapazzo.
La sferzante ferocia ed il compiacimento del clan dei Casamonica, i "padroni di Roma", viene ripartita tra il clan degli Anacleti, di origine rumena come la controparte reale, ed il boss "Samurai", vera e propria maschera del defunto Massino, anch'egli ex membro della Magliana. Lo sguardo di Sollima sui primi ricorda fortemente quello sui casalesi visti nella serie di "Gomorra": folli e violenti, immersi in un kitsch imbarazzante e dagli atteggiamenti sbruffoneschi. Visione che ben si adatta allo squallore morale di cui hanno dato sfoggio nei mesi scorsi. Ma quando l'autore decide di descrivere il Samurai come un mafioso dai modi gentili e dallo sguardo umano, dotato di valori tradizionali come quello della famiglia, non si può non rimanere basiti. L'idealizzazione, anche solo per scopi narrativi, di una figura nella realtà mostruosa non solo è poco credibile, ma è anche indefettibilmente rivoltante.
Semplicemente irricevibile è poi la tesi della caduta del Terzo Governo Berlusconi come "fine dei giochi", chiusura anche solo temporanea delle speculazioni e dei privilegi dei parlamentari; sia perchè è cosa nota anche ai più sprovveduti come le speculazioni e l'imbarbarimento della capitale siano perdurati anche oltre; sia, e sopratutto, per il risvolto manicheo e imbarazzante, veicolato nell'ultima sequenza da un dialogo del Samurai, dell'estraneità del Centrosinistra al "malaffare": manicheo poichè la distinzione tra "sinistra buona" e "destra cattiva" è del tutto infondata e residuato di un epoca e di una mentalità che si credevano scomparse, imbarazzante poichè disvela una malcelata simpatia per la classe politica del PD, ossia la stessa che ha permesso ai Casamonica quel famoso funerale show di cui ogni sano di mente avrebbe fatto volentieri a meno.


Verosomiglianza e credibilità a parte, laddove "Suburra" affonda davvero è nello stile. Sollima lavora di sottrazione, non riesce ad enfatizzare a dovere battute e situazioni, come nel finale in cui Malgradi esalta la sua intoccabilità, privo di mordente ed enfasi. Alcune tracce narrative finiscono nel vuoto, come la storia del rapimento, mentre altre sono fin troppo enfatizzate, come la caduta del governo Berlusconi. Il tono apocalittico è pacchiano e fuori luogo: la crisi spirituale di Benedetto XVI, usata come cartina di tornasole di un mondo in preda ad una crisi di valori, non riesce a convincere, risultando tronfio e pretenzioso, oltre che narrativamente inconsistente. Lo stile scattante della serie di "Romanzo Criminale" e la crudezza efferata di quella di "Gomorra" sono un ricordo. Il ritmo lento appesantisce una narrazione arida e poco consistente: di fatto, "Suburra" racconta poco e lo fa in troppo in tempo, senza tensione e senza mai vera cattiveria.
E se la direzione degli attori è, come al solito, ottima, l'unica intuizione davvero vincente è quella di dare un ruolo centrale nella vicenda ad un personaggio femminile, la Viola della bellissima Greta Scarano, che infrange la tradizione di tanto cinema italiano impegnato (o presunto tale) che mostra la donna solo come Madonna o puttana.


Ridicolo, tronfio e malriuscito. Ma "Suburra" è davvero un film da stigmatizzare?
A prescindere dal risultato, operazioni come questa devono essere difese a spada tratta. Non per cercare di dare dignità al prodotto in sé, quanto per il coraggio che dimostrano. Il coraggio di parlare di verità scomode, di raccontare storie violente e truci, di distanziarsi dai soliti, triti e rivoltanti stilemi del "cinema italiano". Il coraggio di provare a fare qualcosa di diverso. Qualcosa che non ha la forza o lo stile del cinema che fu, dei generi e dei filoni a cui si ispira o ai corrispettivi esteri (i gangster movie francesi di Oliver Assayas e Jean-François Richet su tutti), ma che riesce comunque, spesso, ad essere interessante.

venerdì 9 ottobre 2015

L'Uccello dalle Piume di Cristallo

 di Dario Argento.

con: Tony Musante, Suzy Kendall, Enrico Maria Salerno, Eva Renzi, Umberto Raho, Renato Romano. Mario Adorf.

Thriller

Italia, Germania- 1970















La carriera di Dario Argento rispecchia idealmente l'ascesa e caduta del cinema italiano tutto. Comincia in modo sfavillante, continua facendo affermate l'autore anche sul piano internazionale come una dei più interessanti di sempre e finisce per crollare su sé stessa a causa della perdita di talento, oltre che per l'implosione del sistema produttivo.
Perchè, quando nel 1970 Argento si affaccia al cinema, dopo anni di militanza come criitco su "Paese Sera" e sceneggiatore per il grande Sergio Leone, il cinema italiano è al suo apice: il "genere" portato avanti da Mario Bava, Riccardo Freda, Lucio Fulci, Sergio Martino e company è ammirato in tutto il mondo, mentre il cinema "d'autore" viene riverito a destra e a manca grazie a mostri sacri del calibro di Fellini, Pasolini, Visconti e Leone, osannati come i migliori cineasti esistenti.
Argento riesce, in un certo senso, a fondere le istanze autoriali con le urgenze del registro di genere puro per creare una filmografia ed uno stile personale. Stile che riprende di peso molta della tradizione di Mario Bava, proseguendone il discorso di stilizzazione del filone giallo per portarlo sino alle soglie del horror puro. Fondendolo, inoltre, con quelle del maestro dei maestri Alfred Hitchcock, del quale Argento può essere considerato uno dei due "figli illegittimi" che in quegli anni ne riprenderanno gli stilemi per rileggerli in chiave personale (l'altro è Brian De Palma, che però si cimenterà con il thriller di stampo hitchcockiano solo due anni più tardi con "Le Due Sorelle").
Ma la paternità baviana di Argento non deve trarre in errore: benchè l'influenza del maestro romano sarà fortemente presente nelle sue pellicole sin dall'esordio, non si può parlare di plagio, né di semplice derivatività, quanto della assimilazione totale del'influenza più prossima, quella appunto di uno sguardo talmente vivo e pulsante da essere entrato sotto la pelle di ogni singolo mestierante, italiano e non, che si è o si sarebbe confrontato con l'horror o con il thriller.



"L'Uccello dalle Piume di Cristallo" è un esordio nato dalla necessità. In quegli anni, il grande Goffredo Lombardo aveva bisogno di pellicole piccole ed in grado di conquistare il grande pubblico per tenere a galla la sua Titanus; ed il "giallo", inteso come "thriller all'italiana", all'epoca, non era solo apprezzato nei nostri lidi, ma anche e sopratutto all'esterno, dove il culto di Bava cresceva. Argento arriva così a dirigere una sua sceneggiatura, aiutato nella produzione dal padre Salvatore ed attorniato da professionisti del calibro di Vittorio Storaro ed Ennio Morricone, creando un primo, importantissimo capitolo nella sua personale disanima del thriller.



Roma, lo scrittore americano Sam Dalmas (Tony Musante) reduce da un mediocre trattato ornitologico ed in piena crisi di idee, assiste suo malgrado al tentato omicidio della bella Monica (Eva Renzi). Colto dalla curiosità, decide di aiutare nelle indagini l'ispettore Morosini (Enrico Maria Slerno) improvvisandosi detective.



I debiti di ispirazione verso i maestri sono facilmente ravvisabili: il killer vestito di nero preso da "Sei Donne per l'Assassino" (1964) e l'uomo comune risucchiato in una situazione da incubo come in "La Ragazza che Sapeva Troppo" (1963), oltre che da ogni singolo thriller di Hitchcock. Senza contare il finale, nel quale l'esperto di turno spiega la psicosi del killer come in "Psycho" (1960). Ma Argento va oltre le fonti ed impone un suo stile.
Ripreso il concetto della visione sempre da Bava, viene esasperato sino a divenire colonna portante. Lo spettatore è chiamato ad identificarsi totalmente con il punto di vista di Dalmas e con ciò che ha visto e rimosso. La visione, intesa come percezione del reale, viene costantemente rielaborata dalla memoria sino a mutare, a divenire impressione, sulla cui base poggia tutta l'indagine. La quale, a sua volta, sebbene basata sul classico sistema del "whodunnit", trova nuova linfa vitale nello scompagimento di alcuni suoi elementi essenziali.



La ricerca dell'assassino si svolge essenzialmente tramite l'uso della tecnologia, all'epoca avvenieristica, del calcolatore e dell'elaboratore sonoro. Tuttavia, la costruzione dell'intreccio non poggia sulla razionalità, quanto sul caso. Ogni singolo elemento usato per progredire è del tutto irrazionale o causale, come la soffiata dello strambo informatore o l'incontro con il pittore folle interpretato da Mario Adorf. Senza contare come l'indizio dato dall'uccello del titolo, il finto hornitus nevalis, porta ad una falsa pista. La risoluzione avviene per puro caso e senza che Dalmas possa controllare davvero il rincorrersi degli eventi nella sequenza finale.
Con Argento, in sostanza, il thriller perde la sua linearità per frammentarsi in una serie infinita di dettagli essenziali, che spezzano la narrazione in flashback fulminei. La visione diviene protagonista assoluta e centro focale della narrazione. Visione che si discosta da ogni forma di realismo grazie ai contributi della fotografia e nella musica, essenziali nella messa in scena, che si avvicina ad un piano onirico, inconscio, ossia là dove la percezione e la memoria si mischiano per creare un visione effettiva. Mentre i tratti distintivi del "giallo" sono decuplicati: la violenza è efferata e l'erotismo ancora più marcato. Il meccanismo del colpo di scena, dato non solo dall'identità dell'assassino, con Argento assurge a vero elemento di tensione, non configurandosi più come semplice viatico per continuare la storia.



Ancora più essenziale è l'uso modernissimo del montaggio, adoperato non solo per dare vita alle reminiscenze del protagonista, ma anche e sopratutto come strumento narrativo per aumentare il ritmo delle singole sequenze, nel quale le eleganti e ricercatissime inquadrature vengono giustapposte per in modo frenetico, talvolta quasi subliminale.


Argento crea un nuovo stile, un nuovo modo di concepire il thriller lontano anni luce sia dalla tradizione baviana che da quella americana. La storia, qui, cede il passo allo stile, vero elemento essenziale della narrazione ed elemento connotante dell'intera pellicola. E a sua volta viene riarrangiata, rimescolata con elementi sino a prima estranei e che da qui diventeranno tratti distintivi del filone "giallo", così come del thriller in genere.
Senza contare come la costruzione della tensione, questa si canonica e mai davvero sperimentale, sia a dir poco eccellente, nonostante la scarsa esperienza dell'autore. Davvero da antologia la scena dell'aggressione ai danni di Giulia, la ragazza di Dalmas, nella quale la paura di un assassino inarrestabile viene contagiata da reminiscenze gotiche (il buio) e nuovi feticci autoriali (l'occhio dell'assassino che osserva la vittima).



Un esordio col botto, quello di Argento, che si impone subito come un cineasta moderno e sperimentatore, eclissando purtroppo la figura di Bava, ma riuscendo al contempo a raccoglierne perfettamente lo scettro come cantore del thriller in Italia. Il successo è immediato ed il genere conosce così un nuovo, fiorente e seminale periodo di splendore.

lunedì 5 ottobre 2015

Occhi di Serpente

Dangerous Game

di Abel Ferrara.

con: Harvey Keitel, Madonna, James Russo, Victor Argo, Nancy Ferrara, Reilly Murphy.

Usa, Italia- 1993

















Sino al 1993, la poetica di Abel Ferrara era basata sull'utilizzo del registro di genere per dar vita a storie che lasciassero trasparire una profondità inusuale ed efficace, pur essendo sempre ascrivibili allo stesso. Come nel caso di "King of New York" (1990), tranquillamente assimilabile al gangster movie, o "Fear City" (1984) variazione sul classico canovaccio del "killer a piede libero".
Con "Occhi di Serpente", Ferrara abbandona la narrativa "bassa" per utilizzare un registro nuovo, quello del metafilm, rifacendosi a classici del cinema europeo come "Effetto Notte" (1973) e "Il Disprezzo" (1964), unendo la descrizione del caos mentale e fisico che si crea sul set con una disanima feroce dei suoi personaggi. Nonostante l'impegno, il risultato è superficiale, anche se non disprezzabile.


I piani narrativi sono tre: il regista Eddie Israel, interpretato da Harvey Keitel e ricalcato sulla figura dello stesso Ferrara, dirige un film su di una crisi di coppia, formata da Madonna e James Russo. Ai classici problemi sul set si affianca lo spaccato del set stesso, dove il lavoro di messa in scena diviene essa stessa messa in scena. Al contempo, osserviamo il rapporto tra i tre personaggi sfaldarsi o ricomporsi, sino ad una chiusa inusitata.



I tre piani si intersecano quasi subito tra loro. Ferrara, di fatto, anticipa il lavoro che farà Lynch nel capolavoro "INLAND EMPIRE" (2006). Ma se nel film di Lynch la narrazione era un unicum che spaziava tra presente, futuro, finzione e realtà, in "Occhi di Serpente" la finzione, il set e le vite dei personaggi non arrivano mai a confondersi, ma ad influenzarsi.
La vita privata del regista si riflette nel suo film, chiamato ironicamente "Mother of Mirrors". La storia che vuole raccontare è la perfetta esemplificazione del cinema di Ferrara: una giovane coppia dedita all'edonismo e alla promiscuità, vive una profonda crisi a seguito della riscoperta spirituale della donna, opposta alla rabbia compulsiva di lui. Spiritualità benigna si contrappone all'indole distruttiva della carnalità, in un crescendo di soprusi e violenza. La caduta in disgrazia dei due è specchio, appunto, della caduta in disgrazia dell'autore, che lascia la famiglia, simbolo benigno, nella prima scena per compiere un'ideale discesa nell'autodistruzione.
Laddove Ferrara incespica è nel rendere credibile questa distruzione, che prende la forma del tradimento con l'attricetta Sarah e la relativa rottura con i legami affettivi. Mentre l'avvicinarsi dei due amanti è costruito in modo credibile e a tratti romantico, del tutto fuori luogo è la decisione di Israel di confessare il tradimento alla moglie; decisione presa in seguito ad una catarsi avutasi con la visione dei giornalieri del film, ma la cui escalation polemica e sensazionalistica è tronfia, quasi caricaturale nella sua ricerca ad oltranza del dramma e della dannazione. Ancora più improbabile è la conseguenza della confessione, davvero troppo estrema per essere credibile,



Il gioco di specchi sull'anima del personaggio si rompe, quindi, con il progredire della narrazione. Molto più riuscita risulta, d'altro canto, la descrizione della vita del set, nella quale Ferrara espone il suo metodo e l'amore che ha per la direzione degli attori. La messa in scena della crisi diviene celebrazione della forza espressiva del cinema, nel quale il buio dell'anima dei personaggi viene ritratto con dialoghi secchi, litigi furiosi e violenza cruda, che corrode nonostante sia filtrata dal doppio punto di vista. Su questo piano, il gioco degli specchi è semplicemente perfetto: il meccanismo di inclusione, "a scatole cinesi", permette di esprimere un duplice punto di vista, quello dell'autore, ma anche quello degli interpreti chiamati a dar vita alla sua visione; i quali, lungi dall'essere semplici marionette, si perdono nei meandri dei personaggi sino a divenire con loro un tutt'uno, annullando il discrimine tra realtà e finzione. La realtà di "Occhi di Serpente" vive di conseguenza non tanto nelle sequenze nelle quali i personaggi sono protagonisti, ma in quelle in cui sono chiamati a vestire i panni dei personaggi nel film all'interno del film, che diviene, giocoforza, vero strumento espressivo, vero territorio narrativo, in un inversione totale che, come nella canonica narrazione cinematografica, dura dall'azione allo stop.




E la riuscita di questa parte si deve anche alla prova del cast. Se Madonna, la diva delle dive, sorprende in un ruolo ai limiti dell'autobiografico, sfoggiando un'espressività insperata, Harvey Keitel è semplicemente perfetto come maschera di un uomo che si ritrova faccia a faccia con le sue mancanze, ma anche con le sue speranze.
E benchè questo primo excursus nel cinema teorico non sia del tutto riuscito, "Occhi di Serpente" non può essere visto come una scommessa persa (nonostante il titolo, che si riferisce alla "faccia da poker" di chi sa di dover perdere, lo lasci intuire), poichè fa letteralmente da apripista al successivo "The Addiction" (1994), supremo saggio dell'autore sulla distruzione e ricomposizione della narrazione cinematografica.